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  • Unical e I Calabresi: quando giornalismo e università lavorano insieme

    Unical e I Calabresi: quando giornalismo e università lavorano insieme

    «Tutto quel che è solido si dissolve nell’aria», avvisano Berman e, ben prima di lui, Marx. Non è una bella cosa che quelle quattro certezze cui proviamo da attaccarci siano anche esse destinate a svanire, ma questo è quanto succede. E dentro questi accadimenti, spesso tumultuosi, vogliamo stare per comprenderli e interpretare la complessità dei fatti.
    Per riuscirci ci siano attrezzati al meglio: il nostro giornale, I Calabresi, ha avviato una collaborazione con il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Unical. Una idea lungamente coltivata, poi diventata progetto e finalmente giunta a compimento grazie alla sensibilità del direttore del Dipartimento, Ercole Giap Parini e alla disponibilità dei docenti dei vari corsi di laurea.

    L’Unical e il nuovo percorso per I Calabresi

    Per I Calabresi è l’occasione per esplorare un nuovo sentiero, stavolta da percorrere insieme all’Unical, e nel corso di questo cammino comune vogliamo caratterizzarci come un giornale attento alle dinamiche sociali, all’osservazione dei fenomeni economici e politici, ai mutamenti dell’agire collettivo, seguendo la bussola della interdisciplinarità, che oggi appare il solo strumento in grado di offrire l’opportunità di cogliere le molte sfumature della realtà e la complessità dentro cui ci muoviamo.
    Di qui l’ambizione di avviare un dialogo con tutti gli ambiti di ricerca, sempre più necessari a fornire uno sguardo differente, eppure ineludibile al fine di governare gli eventi cogliendone il senso e la radice. Un impegno di ricerca che parte dai cubi del Dispes, ma vuole correre lungo tutto il Ponte Bucci, cercando di coniugare le Scienze sociali e politiche con le Stem, la sensibilità sociologica con la scommessa dell’IA, l’economia con i territori.

    La terza missione

    I fenomeni migratori, il mutamento della costruzione del consenso sociale, la difesa degli spazi di autodeterminazione personale e comunitaria, le forme della comunicazione nell’era digitale e della post verità, le relazioni possibili tra l’umano e il post umano, saranno alcuni degli argomenti cui ci piacerà rivolgere lo sguardo curioso e autorevole, perché basato sul lavoro di ricercatori e accademici di vaglia.
    In questo modo I Calabresi si candida a diventare spazio di confronto, luogo didattico, palestra di scrittura, estensione delle aule, strumento di divulgazione di iniziative, seminari e ricerche, provando a dare un contributo alla realizzazione della Terza missione dell’Unical.
    Perché solo il sapere condiviso è davvero potente e cambia i destini delle persone e dei luoghi.

  • Venerdì al via Corigliano Calabro Fotografia

    Venerdì al via Corigliano Calabro Fotografia

    Venerdì 6 settembre parte il festival Corigliano Calabro Fotografia, giunto alla ventunesima edizione. L’incantevole castello ducale di Corigliano-Rossano ospiterà tante mostre, presentazioni di libri, premiazioni e le letture di portfolio. Direttore artistico della kermesse – organizzata dall’associazione Corigliano per la fotografia – è Gaetano Gianzi.

    L’autore dell’anno, che si occupa di leggere il territorio durante l’anno e poi di preparare una mostra di apertura è Pino Ninfa, il fotografo del jazz, che da anni ha intrapreso una ricerca sui luoghi dei concerti e il loro rapporto con il pubblico e con i musicisti sul palco.

    Venerdi 6 settembre, alle ore 19:00 è in programma la presentazione del libro “Gente mia” del fotografo e attore Gianfranco Jannuzzo. Interverranno, oltre all’autore, Gaetano Gianzi, Nello Gallo, Antonio Liotta (editore) e Angelo Pitrone (curatore).
    L’evento proseguirà sabato 7 settembre, alle ore 11:30, quando Mario Greco e Giuseppe Morello presenteranno il libro “Rossa tra collina e mare”. Un viaggio fotografico nei luoghi e tra la gente della cipolla rossa, IGP, di Tropea. A seguire Mario Greco presenterà il libro l’Ape Regina. Nel pomeriggio, alle 16:00; sarà presentato l’ultimo numero della rivista I mondi di CITIES (Contemporary Urban Vibes Talk), alla presenza dello staff editoriale composta da Angelo Cucchetto, Attilio Lauria e Sonia Pampuri.
    Domenica 8 settembre, a partire dalle 10:30, fino al tardo pomeriggio, si terranno i seguenti eventi: Fausto Giaccone presenterà il suo lavoro, Portugal 1975;
    Pietro Masturzo parlerà di reportage fotografico nell’incontro condotto da Francesco Cito e Maurizio Garofalo; proclamazione del vincitore della 5° edizione del Corigliano Calabro Fotogrofia Book Award, Robbie Mcintosh; premiazione vincitori del 3° Concorso Fotografico Nazionale Fiere e Mercati: premiazione vincitore del 17° Portfolio Jonico tappa del circuito nazionale di Portfolio Italia.

    LE MOSTRE

    Sabato 7 è in programma l’inaugurazione delle mostre che saranno visitabili al castello ducale fino al 3 novembre: Pino Ninfa con Suoni del Tempo – GIANFRANCO JANNUZZO con Gente mia – PIETRO MASTURZO con Facts on The Ground – FAUSTO GIACCONE con Portugal 1975 – ROBBIE MCINTOSH con On The Beach – MARIA PANSINI con Under The Blanket – MASSIMO NAPOLI con Omotesando – FABIOMASSIMO ANTENOZIO con Verde Mennonita – GREGORIO CALDEO con Sfumature di Strada – TRAVEL TALES AWARD Popoli e Paesi, Collettiva di autori interazionali – 3° CONCORSO FOTOGRAFICO NAZIONALE Fiere e Mercati, Collettiva,

    Spazio alla XVII edizione del Portfolio Italia del circuito Fiaf. Le letture Portfolio partiranno sabato 7 settembre alle ore 10 fino alle 13 e dalle 15 alle 17. Si ricomincia il giorno dopo, sempre al castello ducale, dalle 10 alle 13.

  • Vedere è credere? Forse

    Vedere è credere? Forse

    Due bambini, 4 anni ciascuno e un nome quasi gemello, Omar e Omer. Uno palestinese, l’altro israeliano, accomunati dallo stesso destino. Muoiono nei primi giorni del conflitto, uno mentre gioca con il fratello più grande, Majd, davanti l’uscio di casa, l’11 ottobre, l’altro all’interno della sua casa, insieme al resto della famiglia, nel kibbutz Nir Oz durante l’attacco del 7 ottobre.

    Un destino che va anche oltre la morte, negata dai social. Di Omar si arriva a scrivere che si tratta di una bambola, e di Omer che è un attore pagato; sarà la giornalista della BBC, Marianna Spring, ad andare a verificare la notizia, intervistando la famiglia dell’uno, e i parenti rimasti in vita dell’altro.
    Una storia che conferma la brutalità cinica della guerra, rivelando una diffusa consapevolezza rispetto ai meccanismi di comunicazione social, per cui tutto è falso e verosimile al tempo stesso (o falso proprio perché verosimile). Ma ai tempi dell’AI, che rende disponibili su un sito di stock false foto del conflitto, la percezione di questa vicenda ha contorni paradossali, che ci riportano, ancora e sempre, alla natura della fotografia. Perché la negazione della morte di Omar e Omer non mette in dubbio l’autenticità delle foto insieme alla loro funzione testimoniale, ma la veridicità stessa della storia. Come dire che se c’è la consapevolezza di un conflitto parallelo, combattuto sul fronte della disinformazione, per altri versi si fa ancora fatica ad abbandonare l’idea barthesiana della fotografia come un “è stato”.
    In ogni caso, compito della propaganda è oscurare la foto con quell’invisibile oltre i bordi che è il terreno vago dell’interpretazione.

    Attilio Lauria

  • Live from Gaza? No, sono foto fatte con l’IA e in vendita on line

    Live from Gaza? No, sono foto fatte con l’IA e in vendita on line

    Il primo ad essersene accorto, a inizio novembre, è un magazine australiano, il Crikey: su Adobe Stock sono in vendita immagini del conflitto israelo-palestinese realizzate con l’AI. E dunque, dopo la stagione del citizen journalism, quando Liberation titolava un famoso numero “Tous Journalistes?”, oggi con l’AI siamo finalmente tutti Robert Capa, reporter di guerra armati di prompt al riparo della scrivania di casa.

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    Ad accorgersi delle foto di guerra prodotte con l’IA è stato il giornale australiano “Crikey”

    Stavolta però più che il trastullo personale con contorno di polemica – ormai stucchevole – sul suo essere o meno fotografia, oggetto della discussione è lo spostamento del confine etico. Il fatto cioè che quel trastullo, quella guerra immaginaria e immaginata secondo stereotipi strappalacrime simil-worldpress, diventi business sulla pelle di 15mila morti, dal momento che trova un mercato. Dai 33 centesimi ai 26,40 dollari all’autore ogni volta che l’immagine viene concessa in licenza e scaricata. Di fronte a questo avanzare veloce della tecnologia cui la riflessione etica e normativa non riesce a stare dietro, ci si chiede se intanto l’indignazione abbia una qualche concreta possibilità di moral suasion, pur avvertendo tutto il rischio della retorica.

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    Più in concreto, ci si augura che nessun organo d’informazione metta in gioco la propria credibilità con l’acquisto di tali immagini, unico argine ad una deriva di cui si renderebbe corresponsabile.
    Quanto ad Adobe Stock, a differenza da un’agenzia giornalistica ha una natura puramente commerciale, ma tanto vale ad esimerla da ogni sorta di verifica, e soprattutto di responsabilità? Adobe dichiara di essere impegnata, tramite la Content Authenticity Initiative, nel promuovere l’adozione di credenziali di contenuto, un pedigree di provenienza che consente di sapere come un contenuto digitale sia stato catturato, creato o modificato, e quindi se sia frutto dell’utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale. Nel frattempo sembra invece contribuire alla disinformazione, quella guerra nella guerra che già il conflitto fra Russia e Ucraina ci aveva mostrato nella sua veste social contemporanea, iniziata con la guerra di Crimea del 1855, la prima ad essere documentata fotograficamente ed edulcorata da Roger Fenton, reporter a contratto dell’esercito britannico.

    Attilio Lauria

  • Pixel 8, Google a un passo dai ricordi innestati di Blade Runner

    Pixel 8, Google a un passo dai ricordi innestati di Blade Runner

    Si va da “la fotocamera non mente mai, a meno che non sia alimentata dall’intelligenza artificiale”, che per la prima volta mette in discussione l’inconscio tecnologico, all’evocazione dell’Apocalisse, passando per la Fauxtography, traduzione del meno cacofonico Fautographie, neologismo d’antan attribuito a Man Ray. Sono i titoli allarmati dei maggiori magazine “allovertheworld” per annunciare lo sbarco dell’AI sullo smartphone, che diventa così un falsificatore alla portata di tutti, come fu per il digitale delle origini, che vanificava la costruzione semiotica della foto come calco, come impronta della realtà.

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    Pixel 8, l’innovativo smartphone di Google

    Tecnicamente si tratta di software basati sulla tecnologia del machine learning, roba che si conosce già da qualche anno, ma il “Pixel 8” rappresenta un punto di svolta, considerato che si tratta del primo smartphone a integrare l’intelligenza artificiale generativa direttamente nel processo di creazione delle foto senza costi aggiuntivi, il che avrà delle conseguenze enormi.

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    La stampa americana e l’apocalisse delle foto

    Un articolo di The Verge sostiene che il programma Best Take – che esamina tutte le foto simili scattate in successione, rendendo possibile la scelta della foto finale in cui si ha l’espressione facciale desiderata -, sarà una funzione utile soprattutto ai genitori, i cui pargoletti sono notoriamente difficili da mettere in posa, ma proprio questa eventualità ispira altre riflessioni. a prescindere dal falso ad uso propaganda, disinformazione eccetera eccetera, è proprio la fotografia vernacolare, quella di tutti noi, l’autoritratto della società a preoccupare: quale valore storico-sociologico potranno avere questi ricordi di famiglia per chi dal futuro intenderà studiare le epoche passate, a cominciare da questa?

    Baseranno le proprie analisi e le conseguenti teorizzazioni su falsi; d’accordo che già da prima di Bourdieu gli album di famiglia sono delle docufiction all’insegna della vita felice senza intoppi, molto prima dei lustrini di Instagram, ma almeno da qualche parte c’erano una scatola o una valigetta con scarti di verità. Ma domani, in quale mercatino troveremo foto di famiglia usate come woodoo con i parenti tagliati, cancellati via dalla nostra vita? Siamo ormai a tanto così dai ricordi innestati di Blade Runner.

    Attilio Lauria

  • Le immagini boomerang

    Le immagini boomerang

    Da un attacco che coglie di sorpresa persino l’intelligence non ci si possono certo aspettare foto da Word Press, al massimo qualche screenshot sgranato difficile da ingrandire. Niente di iconico, se non il terrore disperato sul volto di Noa, ragazza strappata dall’abbraccio del fidanzato e portata via in motocicletta, così uguale alla “Napalm girl” di Nick Ut.

    Eppure quelle immagini, per quanto rozze, funzionano, sono il complemento di propaganda necessario al raggiungimento dell’obiettivo di istillare la paura dell’incertezza. Ma anche le formule da manuale per funzionare hanno bisogno dell’esperienza della pratica, e proprio l’eccesso di efficacia di tanta brutalità ne è al tempo stesso la debolezza, finendo per alimentare un sentimento di legittimazione, versione soft dell’idea di taglione, per una reazione di maggiore intensità. Come dire che qualcuno ha sottovalutato l’effetto boomerang che talvolta le immagini portano con sé.
    È un anniversario tondo, 20 anni dal 2003 di Davanti al dolore degli altri di Susan Sontag, e “l’età dello shock” si è trasformata nell’epoca dello shock continuo; l’assuefazione ha bisogno di spostare continuamente il limite di ciò che sconvolge, come insegnano le decapitazioni dell’Isis, e pensare fin dove possa arrivare questa escalation fa paura, molta.

    Attilio Lauria

  • Zabatta e Solfamì: una Cosenza oltre le maschere

    Zabatta e Solfamì: una Cosenza oltre le maschere

    Secondo i dati Istat del 2023 sui fenomeni migratori, sia interni alle regioni italiane sia dall’Italia verso paesi esteri, il tasso di emigrazione più elevato si registra in Calabria. Oltre il 7% dei residenti, nell’ultimo anno, ha abbandonato la regione.
    Agosto, però, è il mese dei rientri per le vacanze. Gli emigranti si confrontano con le proprie nostalgie, misurano il benessere che può dare il ritorno alla casa natale. Anche gli aspetti peggiore della propria città di partenza si osservano attraverso un “filtro bellezza”, che ne minimizza i difetti. È successo anche a me e mentre la vocina nostalgica cantilenava nella mia testa mi sono imbattuta nell’articolo di un sito locale che annunciava l’uscita di un nuovo brano a firma Zabatta Staila e Solfamì: Mo.

    Era la risposta a quel sentimento nostalgico. L’uso del dialetto, le espressioni idiomatiche e l’ironia sul cosentino medio, i suoi piccoli vizi e le sue manie avevano teletrasportato il lato più comico di Cosenza fin all’altro lato d’Europa.

    Tra le varie canzoni, però, una su tutte può essere il manifesto della persona calabrese emigrata: Ohi Ma. È la dichiarazione d’amore di un figlio lontano alla madre rimasta a casa. Oltre i luoghi comuni sul prosciutto spedito assieme ai “pacchi da giù” traspare il disagio che si prova in una città non tua, in cui si parla una lingua che ancora non ti appartiene del tutto e in cui fai fatica a trovare il tuo posto. Ma, oltre quell’inadeguatezza, c’è la speranza di avere la propria occasione e la propria rivalsa. Non importa quale sia il sogno, che sia grande o piccolo: le luci delle altre città ci promettono che una chance possiamo averla, a prescindere da chi siamo.
    Da lì l’idea di intervistare la crew cosentina.

    Una band così radicata al territorio cosentino dove nasce geograficamente?

    «L’embrione è nato a Casali, il quartiere in cui siamo nati. Poi l’idea un po’ più studiata, quindi le maschere e il resto, forse è arrivata a Londra».

    Com’è che da Cosenza vi siete ritrovati lì?

    «Per quanto riguarda Zabatta – risponde Solfamì – è stato un caso, non è stata una decisione andare lì. Io mi trovavo a Londra per altre cose, poi lui mi ha raggiunto. Dopo un po’ di tempo e un bel po’ di pressing da parte sua abbiamo iniziato. Zabatta aveva già fatto uscire un brano anni prima, per questo ti dico Casali come embrione. Poi, quando ci siamo trovati a Londra, dopo quattro o cinque mesi di convivenza, mi ha proposto di scrivere, fare musica e lavorare al progetto insieme».

    «Di base – continua Zabatta –abbiamo sempre avuto la fissazione per la tradizione popolare. Soprattutto io, che ho nel mio background musicale la tarantella. La fissazione per il dialetto, gli accenti, le usanze o i costumi l’abbiamo sempre avuta. Poi, vivendo fuori, inizi a vedere le cose da un altro punto di vista, a riflettere su cose a cui stando qui non pensi. Sembrerà un po’ banale, ma è stato davvero così: lavoravamo da Starbucks e nelle pause scrivevamo le strofe. Tutto parte da una base di Eminem, perché li non avevamo neppure tutti gli strumenti per poter arrangiare. Non c’era nemmeno l’idea di fare delle canzoni una dietro l’altra o un progetto da proporre nei live. L’idea era quella di rimanere nei pixel del computer e fare una canzone ogni sei o sette mesi: buttare la bomba e sparire di nuovo»

    Vivendo fuori, quali sono state le differenze culturali maggiori che avete sperimentato?

    «Il rapporto con lo sconosciuto: qui fai amicizia in un attimo, lì c’è diffidenza. Ma questo è l’aspetto positivo di Cosenza, poi c’è l’aspetto negativo. Per esempio, l’assenza di opportunità. Questi posti lontani ti danno la possibilità di poterti perdere senza avere l’ansia di non ritrovarti», ci risponde Solfamì.

    Una volta tornati, come è nata l’idea di fare dei concerti live?

    «Sergio Crocco de La Terra di Piero ci ha chiamati per fare uno spettacolo allo stadio. Noi non lo conoscevamo, conoscevamo l’associazione però non ne facevamo parte. È “colpa” sua se abbiamo formato quella band live, perché ci ha chiamato e ci ha “imposto” di andare a suonare. Da lì siamo entrati a far parte della famiglia de La Terra di Piero».

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    Zabatta e Solfamì in concerto allo stadio San Vito-Marulla di Cosenza

    Qual è il rapporto di Zabatta e Solfamì con la città?

    «A Cosenza abbiamo suonato per un Capodanno, tra l’altro come headliner, ma abbiamo dovuto portare i nostri microfoni ed è stata una cosa un po’ così. Non mi pare ci sia gran voglia di chiamarci». A parlare è Solfamì, con Zabatta che ironizza sul fatto che nessuno sia profeta in patria e aggiunge: «La reazione del pubblico, invece, è ottima e si vede che ci vogliono bene fin dall’inizio. L’invito, infatti, è quello di venire ai live perché l’esperienza è totalmente diversa e la risposta del pubblico c’è sempre stata in questo senso».

    Sotto le loro maschere di Zabatta e Solfamì, in fondo, si celano storie comuni a quelle di molte persone nate alle nostre latitudini. Racconti di emigrazione, di ritorni, di esperimenti per inventarsi qualcosa e trovare un proprio posto nel mondo. E la consapevolezza che, alla fine, più ci si allontana e più si scopre quanto i nostri posti di origine, nel bene o nel male, ci abbiano plasmato.

    Francesca Pignataro

  • MAFIOSFERA | «This is Mafia Land»: ecco la Calabria tutta ‘ndrangheta di SkyNews

    MAFIOSFERA | «This is Mafia Land»: ecco la Calabria tutta ‘ndrangheta di SkyNews

    Un ennesimo documentario, questa volta prodotto da SkyNews, propone 20 minuti di riprese in Calabria per spiegare How To Fight the Mafia, come combattere la mafia (nello specifico, la ‘ndrangheta).
    Il fermo immagine del video è immancabilmente la figura del procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. L’inizio è una marcia dei carabinieri con scudi protettivi e bastoni minacciosi su cui si inserisce la giornalista. Dice «This is Mafia Land», «questa è la terra della mafia», a braccia aperte verso l’alto.
    Con un inizio così terribile ci si auspicherebbe un miglioramento nel contenuto che segue, ma il documentario purtroppo non migliora. Se l’obiettivo era spiegare all’audience come si combatte la mafia, chi guarda non può che uscirne confuso.

    La Calabria tutta ‘ndrangheta di SkyNews

    La giornalista visita San Luca e Platì. Parla con i carabinieri locali, le fanno vedere qualche bunker e delle foto in caserma con su scritto “catturato”, molto sceniche. Gli stereotipi arrivano subito a «Mafia Land», con commenti sulla gente di San Luca e Platì che guarda curiosa e torva dalla finestra. Seguono i soliti numeri mitologici della ‘ndrangheta: il controllo dell’80% del mercato della cocaina europea e il fatturato annuale di 60 miliardi di euro. Entrambi appaiono periodicamente sui media senza una vera spiegazione su come si ricavino.
    Si passa poi ad un volo panoramico coi Cacciatori d’Aspromonte, la squadra speciale dei carabinieri a cui la giornalista chiede «Quanto è difficile il vostro lavoro?».
    Poi, senza soluzione di continuità né spiegazione del cambio di passo e luogo, ecco il racconto di una vittima di mafia, a Lamezia Terme. È l’assist all’ultima parte del programma sulla ‘ndrangheta di SkyNews, centrato sul processo Rinascita-Scott e sul procuratore Nicola Gratteri.

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    Una capatina alla caserma dei carabinieri di San Luca

    A onor del vero bisogna menzionare un raro momento di illuminazione nel dare spazio a un commento del comandante della stazione dei Carabinieri di San Luca, Michele Fiorentino. Il militare ricorda come non solo ci siano persone oneste a San Luca ma anche come il ruolo dello stato sia di proteggere loro, gli onesti, e non solo arrestare gli ‘ndranghetisti.
    Altro momento interessante è la risposta finale di Gratteri alla domanda sulla possibilità di sconfiggere la ‘ndrangheta. Il procuratore dichiara che l’unica cosa che si può fare è tentare di indebolirla, sapendo che probabilmente, in questa vita non la sconfiggerà.

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    Un momento dell’intervista a Nicola Gratteri

    Romanzo criminale

    Nicola Gratteri, da uomo intelligente e magistrato competente, conosce il potere della comunicazione e per questo investe in un’attività di divulgazione continua sul fenomeno che il suo ufficio contrasta. La sua figura, proprio perché capace di comunicare facilmente contenuti complessi, viene però spesso strumentalizzata da prodotti televisivi, mediatici, radiofonici che vogliono spettacolarizzare la mafia, amplificarne l’abnormalità, esacerbarne la difformità da una presunta normalità di altri. Questi altri sono però mutevoli: poco di frequente gli altri calabresi, a volte gli italiani, molto più spesso l’audience di riferimento dell’emittente estera, che siano gli inglesi, i tedeschi, i canadesi.

    Ed ecco poi che invece di intavolare un discorso serio, che so, sullo stato della giustizia in Italia, sugli effetti nefasti che alcuni provvedimenti antimafia, anche quelli approvati coi migliori intenti, producono sul territorio, si finisce per raccontare di come il procuratore di Catanzaro non possa più nemmeno coltivare il suo giardino e accudire i suoi polli senza le telecamere (poveri polli senza privacy, verrebbe da dire).
    Una spettacolarizzazione ad personam della lotta alla mafia operata soprattutto dai media esteri – ma, a dire il vero, qualche volta anche da quelli italiani – che sminuisce il lavoro delle (altre) procure, appiattisce l’impegno serio e di lungo corso del procuratore Gratteri a una narrazione da thriller. E ha onestamente stancato chi di noi vorrebbe contenuti con un minimo di spessore analitico.

    1897-2023: cosa è cambiato?

    Comunque, se anche lo spessore analitico non si potesse avere per ragioni stilistiche e di target/audience, che ci sia almeno una correttezza di narrazione nel prodotto di “intrattenimento”.
    L’assenza di voci di contrasto – che siano i cittadini, i sindaci e le istituzioni amministrativo-politiche e le associazioni – rende documentari come questo parziali e non molto utili nel descrivere “come combattere la mafia”. Ma qui il mio lavoro da analista finisce, si entra in altri settori – la produzione televisiva e il giornalismo – che non mi competono. Quel che però un documentario come quello di SkyNews dovrebbe suscitare è un dibattito su come la Calabria viene raccontata anche quando si parla di ‘ndrangheta.

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    Robbins a spasso per Platì

    Siamo rimasti alla questione meridionale, dove l’arretratezza del Sud, la sua mafia, il malcostume e il malaffare, sono diventate caratteristiche non solo dilaganti, ma praticamente “razziali”, identitarie di un omologato meridione “diverso” che provoca stupore e quasi un’attrazione morbosa da circo in chi lo guarda da fuori.
    Poco è cambiato da quando Lombroso, che il meridionalismo lo aveva riconosciuto ed anticipato di qualche anno, scriveva nel suo libro L’Uomo Delinquente, edizione del 1897: «Una prova, pur troppo evidente, che la formazione delle associazioni malvagie dipende dall’adattamento all’indole od alle condizioni di un paese, l’abbiamo nel vedere ripullulare spontanea la mafia e la camorra, anche dopo la distruzione od il sequestro dei suoi membri».
    Ineluttabile fato affligge il calabrese a ripetere i suoi errori, tanto da non chiedersi più nemmeno perché accade. Ma anche estrema verità che Lombroso aveva colto: ci si adatta anche alla mafia nelle “condizioni del paese”.

    Un problema complesso

    Quando si arriva in Calabria e si sceglie di raccontare come SkyNews la ‘ndrangheta come onnipresente, ultra-fagocitante bestia che attanaglia una regione ineluttabilmente piegata al suo volere, si racconta infatti solo una parte del problema mafia. Si appiattisce il problema e lo riduce a un unico nemico. Raccontarne invece la complessità richiederebbe parlare dei calabresi che in convivenza con la ‘ndrangheta – in quei territori “controllati” aspromontani, per esempio – fanno invece altro, molto altro.
    Come andare in pellegrinaggio di una giornata al Santuario della Madonna di Polsi, ignorandone le sue strumentalizzazioni mafiose, invocando le grazie della Madonna della Montagna. Magari suonando una tarantella che a provare a ballarla ti manca il fiato, tanto è dinamica, tanto è vitale.

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    La processione in onore della Madonna della Montagna di fronte al Santuario di Polsi

    No: non si tratta di proporre la solita narrazione della Calabria-folklore, che ignora la presenza della mafia e guarda solo al bello che qui da noi c’è. Si tratta di raccontare insieme la mafia che esiste e opprime e la gente comune che si adatta e ci convive. Conviverci non significa necessariamente piegarsi o approvare il comportamento mafioso, ma accettare che tutti i luoghi sono plurali e che esistono insieme tante dinamiche personali e sociali che esulano dalla nostra sfera di controllo personale.

    Come bestie al circo

    Si potrebbe dunque raccontare la tensione, in alcune parti della Calabria, nel vivere la presenza mafiosa al pari dell’immobilità sociale: ineluttabilmente. Scriveva ancor Lombroso nel suo saggio scritto dopo tre mesi in Calabria, nel 1863, «ogni lamento sarebbe lieve a deplorare lo stato in cui giace in Calabria l’educazione della mente e del cuore del popolo». Interverrebbero a mutare questi assetti sicuramente la fiducia verso lo Stato e la sua azione propulsiva, lo sviluppo economico, la coesione sociale promossa come strumento di questo sviluppo economico. Le colpe, in Calabria, si sa, non sono solo della ‘ndrangheta, che di questa terra è madre e figlia al tempo stesso.

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    Due uomini osservano la troupe di Sky dal loro balcone

    Tornando al documentario di SkyNews sulla ‘ndrangheta a Mafia Land (e alle sue approssimazioni), si constata invece come il processo di “alterizzazione” – e cioè di additamento dell’altro come diverso, strano, pericoloso (in inglese si chiama othering) – sia ancora la normalità per molti media esteri. Ci guardano, a noi in Calabria, come “animali in gabbia” da strumentalizzare per il proprio intrattenimento.
    Non si comprendono le radici profondamente sociali di certi fenomeni, inclusa la mafia, e soprattutto gli effetti dannosi di una narrazione centrata sull’alterità, l’abnormalità e il martirio di chi la combatte.
    Così non si informa bene sulla mafia e non si aiuta l’antimafia. Anzi, la si confonde e la si mina dal basso, alienando proprio quella gente che a San Luca e Platì guarda fuori dalle finestre quando passano le telecamere. E si chiede, forse, quando andranno via gli spettatori del circo.

  • Tea Trump, ecco la foto segnaletica che diventa pop

    Tea Trump, ecco la foto segnaletica che diventa pop

    Che l’uomo fosse s-pregiudicato lo si sapeva da tempo, che poi è esattamente il motivo per il quale oggi è sotto accusa, e dunque è bastato poco perché cadesse quell’ultima foglia di fico della “s”. Così, pochi minuti dopo la pubblicazione della foto segnaletica, dalla sua gioiosa macchina da guerra comunicativa è partita un’altra campagna di contro-comunicazione all’insegna di “Breaking news: The Mugshot is here, ultimora, c’è la foto segnaletica. Un’altra perché già lo scorso aprile il Nostro – si fa per dire – aveva fatto stampare delle magliette con una falsa foto segnaletica con la scritta “not guilty”, acquistabile con un contributo di 36 dollari per sostenerne la campagna elettorale per le prossime presidenziali.

    Le “never surrender” di oggi, complice l’inflazione, that my lady, you can’t understand anything here anymore! (che signora mia qua non si capisce più niente), quotano 47 dollari, ma ai supporter disposti anche alla galera pur di seguire il loro pifferaio non fa certo impressione questo pugno di dollari in più.

    La foto segnaletica dell’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani

    La foto di Trump? Era tutto previsto dal suo team

    Merchandising a parte, il fatto è che come già per altri esempi della storia, nostrani inclusi, il passaggio dall’uomo al suffisso segna l’ulteriore arretramento di una certa società ancora legata a valori etici. E quest’ultima versione del trumpismo avvalora pericolosamente la vulgata degli avvisi di garanzia come must curriculari, più altre degenerazioni varie ed eventuali. Ma siamo qui a parlare di una foto, la prima e unica foto segnaletica mai scattata a un presidente americano, che nelle letture dei maggiori media USA viene descritta come il ritratto di una sfida, lanciata con lo sguardo basso e torvo, vestendo i colori della bandiera americana – abito blu scuro, camicia bianca, cravatta rosso vivo – come da copione patriottico. Al contrario di Rudolph Giuliani, che abbozza una smorfia di sorriso incredulo come altri coimputati, Trump in realtà sta comunicando ancora una volta con il suo “popolo”, concedendogli quella versione di sé e della sua politica che si aspettano: il leader combattivo che promette battaglia anche da quella situazione, che tenta così di girare a proprio favore. Cosa d’altra parte studiata e preparata da tempo, come rivela l’espressione della falsa foto segnaletica di aprile, stesso sguardo basso e stesso atteggiamento duro di sfida. Di certo è una foto destinata a diventare iconica, di quelle pop che troviamo stampate su tazze da thè e in ogni dove, e non per le stesse ragioni del poster Hope di Obama.
    E come per ogni foto segnaletica, equiparata al rango di fototessera, non sapremo mai chi ne sia l’autore; ma qui, in realtà, l’autore è chi ha scelto la posa, il come mostrarsi al mondo.

    Attilio Lauria

    giornalista 

  • Internet, da oggi si cambia: in vigore il Dsa, le novità nell’Ue

    Internet, da oggi si cambia: in vigore il Dsa, le novità nell’Ue

    Una novità che riguarda anche i calabresi. Da oggi, 25 agosto, su internet si applica in tutta l’Ue il Digital Services Act (DSA). Le norme che contiene tutelano i diritti di tutti i cittadini dell’UE. E dovranno osservare le sue prescrizioni tutti gli intermediari online: social network, motori di ricerca, marketplace, servizi di hosting.
    Le piattaforme più grandi, tra le quali ovviamente le cosiddette Big Tech, sono definite VLOP (very large online platforms) e VLOSE (very large online search engines), piattaforme e motori di ricerca on line molto grandi. Esse sono soggette a obblighi più rigidi e figurano in un elenco redatto in base al numero di utenti – superiore a 45 milioni – che le utilizzano mensilmente in tutta l’Unione.

    amazon
    Una sede di Amazon

    I social media Meta (Facebook), Instagram, Snapchat, TikTok, X (già Twitter), Linkedin, Pinterest, YouTube; i servizi di prenotazione, ad esempio Booking.com; i marketplace Amazon, Zalando, Google Shopping, Alibaba, AliExpress; gli store per le applicazioni Apple App Store e Google Play; Google Maps e Wikipedia; i motori di ricerca Google e Bing. Tutti loro, nella vecchia Europa, dovranno finalmente sottostare a regole.
    Ciò rappresenta, mentre negli USA ancora si discute su come intervenire per limitarne lo strapotere, una vera rivoluzione. È infatti grazie alla deregulation che in questo settore hanno potuto generarsi profitti immensi e fenomeni deleteri e pericolosi quali disinformazione e hate speech.

    Dsa in vigore: le novità su internet in UE

    Entrando nel merito, ecco le novità più significative. Per quanto concerne la segnalazione dei contenuti pubblicati dagli utenti, fino ad oggi le piattaforme erano ritenute responsabili quando, venutene a conoscenza, non procedevano con la loro rimozione. Adesso, invece, le VLOP e le VLOSE dovranno sempre rimuovere i contenuti segnalati. Ma dovranno in più attrezzarsi con un “punto di contatto”. Un team in ogni Paese prenderà in carico le segnalazioni di Autorità e utenti, predisponendo un sistema semplice ed efficace per la raccolta, l’esame e l’eventuale rimozione dei contenuti. Questi potranno essere rimossi, e i loro autori “bannati”, solo a seguito di preavviso. In quest’ultimo si dovrà esporre in modo chiaro il motivo per il quale si procede. Non più soltanto, quindi, facendo generico riferimento alla violazione di termini e condizioni del servizio.

    Per i marketplace è previsto un controllo sui prodotti venduti per verificarne la legalità. Ma il DSA, per i contenuti, va oltre. Onde evitare che, come in passato, il meccanismo della rimozione entro brevissimo tempo provochi, come effetto collaterale, rischi di censura, è stato introdotto il concetto dell’analisi del rischio sistemico.
    Ogni anno le Big Tech devono perciò presentare un documento di valutazione dei rischi per la libertà d’espressione, la tutela dei minori, i diritti fondamentali, che possono scaturire dal loro utilizzo illegittimo o da abusi.
    Alla valutazione segue la proposizione di soluzioni per mitigare gli effetti dei rischi individuati: per l’attività di moderazione dei post, di uso degli algoritmi di raccomandazione, per modificare termini, condizioni e design, e altro ancora.
    A valutare tutto saranno le Autorità e – elemento importantissimo anche ai fini della tanto agognata trasparenza – ricercatori esterni.

    Dsa: stretta dell’Ue per pubblicità e disinformazione su internet

    Altra previsione altamente significativa riguarda la lotta alla disinformazione. In occasione di pericoli per la salute e la sicurezza dei cittadini le piattaforme dovranno adottare, con la Commissione europea, protocolli di crisi e misure d’emergenza.
    Sul piano ancora della trasparenza, bisognerà rendere noti i parametri in base ai quali gli algoritmi raccomandano i contenuti. In altre parole, la spiegazione sul motivo per il quale un determinato utente vede un certo post, e non altri, diviene obbligatoria. Per limitare le influenze esterne, inoltre, la possibilità di scegliere la modalità cronologica di visione dei contenuti deve essere valorizzata anche nella progettazione.

    La pubblicità non potrà usare informazioni che riguardano religione, salute, orientamento sessuale. Diviene assoluto il divieto di usare dati relativi ai minori, e di proporre loro avvisi in base alla cosiddetta “targettizzazione”.
    Ancora sulla pubblicità, le piattaforme hanno adesso l’obbligo di tenere traccia degli investitori e conservare, per ogni post, le informazioni su chi l’ha pubblicato e pagato, per quanto tempo è stato mostrato e a quale gruppo.
    Veniamo ai famigerati Dark pattern (modello di progettazione ingannevole: interfaccia utente studiata e realizzata per indurlo a compiere azioni indesiderate e svantaggiose, come iscriversi a servizi in abbonamento non voluti, fonte Wikipedia). Un esempio? L’icona per accettare i cookie colorata, le altre grigie. Il DSA risolve il problema alla radice vietando finalmente tali pratiche.

    Da febbraio non solo Big Tech

    In conclusione, si può affermare che il Regolamento UE sui servizi digitali rappresenta un enorme passo avanti in questo campo. Lo dimostra anche la celerità con la quale alcune piattaforme hanno rivisto o stanno rivedendo le loro politiche per adeguarvisi.
    Certo, è necessario che i Paesi europei designino al più preso l’Autorità nazionale incaricata di monitorare e garantire il rispetto del DSA. Per l’Italia dovrebbe essere l’AGCOM. Da febbraio 2024, infatti, esso diventerà vincolante anche per le piattaforme con meno di 45 milioni di utenti mensili, e le sanzioni potranno ammontare al 6% del fatturato globale.
    Ciò in attesa delle decisioni in itinere su un altro tema molto delicato, quello sull’utilizzo dell’Intelligenza artificiale. I presupposti per una sua sistemazione normativa in Europa sono abbastanza buoni.
    Bisogna considerare, tuttavia, la necessità di affrontarlo in termini globali in quanto nel web i confini fisici e politici hanno poca o nulla rilevanza.