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  • Tv private calabresi: c’è memoria collettiva in quei nastri magnetici

    Tv private calabresi: c’è memoria collettiva in quei nastri magnetici

    In un’era dominata dal flusso incessante di contenuti digitali, dove le immagini si accumulano in cloud invisibili e algoritmi decidono cosa ricordare, la fragilità degli archivi audiovisivi delle televisioni private calabresi tra il 1974 e il 2004 emerge come un monito silenzioso. Questi archivi non sono semplici depositi di nastri magnetici o bobine polverose ma sono frammenti di una memoria collettiva, di testimonianze visive di un Sud italiano in transizione, segnato da lotte sociali, aspirazioni moderne e ombre persistenti di marginalità.

    IL DESTINO DEI SUPPORTI MATERIALI

    Eppure, la loro precarietà fisica, economica e culturale, li rende vulnerabili, quasi evanescenti, come echi di trasmissioni che svaniscono nel buio di una notte senza ricezione. Riflettere su questa fragilità significa interrogarsi non solo sul destino di supporti materiali, ma sul valore stesso della storia locale in un panorama mediatico globalizzato, dove il locale rischia di essere il primo a essere sacrificato sull’altare del profitto e dell’oblio.
    Il periodo 1974-2004 non è arbitrario, ma segna l’alba della deregulation televisiva italiana, con la sentenza della Corte Costituzionale n. 202 del 1974 che liberalizza le trasmissioni via cavo, seguita dalla storica n. 226 del 1976 che infrange il monopolio RAI aprendo le porte alle emittenti private via etere.

    TV PRIVATE CALABRESI: L’ARCHIVIO FRAGILE

    In Calabria, questa rivoluzione assume contorni peculiari che da un territorio economicamente fragile, con un tessuto produttivo dominato da piccole imprese e cooperative, nascono emittenti che diventano la voce autentica di comunità isolate, catturando rituali, proteste e volti quotidiani. Ma proprio questa prossimità al suolo, cioè la capacità di “raccontare il territorio”, come recita il progetto PRIN “Telling the Territory”, nel Dispes dell’Università della Calabria, di cui recentemente si è tenuto un convegno per illustrare la ricerca in corso, si rivela una condanna per la conservazione. Oggi, progetti come “L’archivio fragile” tentano di riscoprire questi tesori dimenticati, digitalizzando materiali che altrimenti rischierebbero la dissoluzione. Questa riflessione esplora le radici storiche di tale fragilità, le sue manifestazioni concrete e le implicazioni filosofiche per la nostra comprensione della memoria.

    IL MOSAICO DELLE TV PRIVATE CALABRESI

    La nascita delle televisioni private in Italia è figlia di un fermento sociale e giuridico che scuote gli anni Settanta. Il monopolio RAI, pilastro del consenso statale post-bellico, si incrina sotto il peso di movimenti studenteschi, operai e femministi, che reclamano una comunicazione più democratica e plurale. La sentenza del 1974, legittimando le trasmissioni via cavo in ambito locale, apre una breccia: da Telebiella nel Nord a pionieri meridionali come Telediffusione Italiana Telenapoli, le “libere” emittenti proliferano, passando da poche decine nel 1977 a oltre 600 nel 1980. In Calabria, questa espansione è tardiva ma intensa: la regione, con la sua geografia aspra e le sue divisioni provinciali (Cosenza, Catanzaro, Crotone, Vibo Valentia, Reggio Calabria), vede emergere canali come Telemia (fondata nel 1979 a Bova Marina), Promovideo TV negli anni ’80 e Reggio TV dal 1998, TeleCosenza, Telestars, ReteAlfa, eccetera, fino ad arrivare a network come LaC TV.

    UN SUD IN FERMENTO

    Queste emittenti non sono meri diffusori di intrattenimento, ma producono documentari e inchieste che penetrano l’essenza calabrese. Immaginate servizi su feste patronali a Tropea, proteste contro l’emigrazione a Reggio Calabria o reportage sulle cooperative agricole cosentine negli anni ’80, durante la crisi post-terremoto dell’Irpinia che lambisce il Mezzogiorno, giusto per fare qualche esempio. Tra il 1974 e il 2004, il panorama evolve, la legge Mammì del 1990 consolida il duopolio RAI-Mediaset, marginalizzando le realtà locali. La transizione al digitale terrestre, culminata in Calabria nel 2012, impone costi proibitivi e la legislazione del 2004 ridisegna il settore con norme stringenti. In questo arco, le TV private calabresi catturano un “Sud in fermento”: aspirazioni di modernità contro ombre mafiose, come le inchieste su ‘Ndrangheta che, pur censurate o autolimitate, filtrano nei telegiornali locali.

    UNA STORIA IN BETACAM

    Ma la loro produzione è artigianale: nastri VHS, U-matic e Betacam girati con budget risicati, spesso da operatori multifunzione in studi improvvisati. Qui risiede il paradosso: queste immagini, vicinissime alla vita, sono le più esposte al deperimento.
    La fragilità degli archivi audiovisivi calabresi si declina su più piani, intrecciando vulnerabilità tecnologica, precarietà economica e indifferenza istituzionale. Innanzitutto, il piano materiale: i supporti degli anni ’70-’90 – nastri magnetici in acetilcellulosa o poliestere – sono intrinsecamente instabili.

    LA SINDROME DELL’ACETO

    L’idrolisi, nota come “sindrome dell’aceto”, corrode questi materiali, rilasciando odori acidi e rendendoli illeggibili entro 20-30 anni se non conservati in condizioni ideali (temperatura sotto i 18°C, umidità al 40-50%). In Calabria, con climi umidi e depositi spesso in scantinati non climatizzati, questo degrado è accelerato. Molte emittenti, come quelle provinciali di Vibo Valentia o Cosenza, non hanno investito in digitalizzazione: i master originali giacciono in scatoloni, esposti a muffe, roditori o alluvioni. Il progetto “L’archivio fragile” dell’Unical ha riscoperto proprio questo: “archivi dimenticati” di emittenti private, dove bobine di documentari su migrazioni interne o tradizioni arbëreshë rischiano l’annientamento.

    COSÌ MUORE UN EMITTENTE

    Sul piano economico, la precarietà è endemica. Le TV locali calabresi nascono da iniziative imprenditoriali familiari o associative, con ricavi da pubblicità locale (negozi, sagre) che mal sopporterebbero i costi di conservazione. Negli anni ’90, la concorrenza di Mediaset e la crisi pubblicitaria post-2000 portano chiusure: emittenti come Studio 3 o Telespazio Calabria sopravvivevano con syndication precaria, senza fondi per archivi professionali. A differenza della RAI, con le sue Teche digitalizzate, queste realtà private non hanno obblighi normativi stringenti fino al 2004, e anche dopo, i contributi statali per le locali sono esigui. Il risultato è la dispersione. Al fallimento di un’emittente, i nastri finiscono in discarica, venduti a rigattieri o ereditati da eredi indifferenti. Un esempio emblematico è il fondo di Promovideo TV: attivo dagli anni ’80, i suoi archivi – ricchi di footage su eventi calabresi – languono in spazi non protetti, minacciati da obsolescenza tecnologica.

    In un Mezzogiorno storicamente ai margini della narrazione nazionale, questi archivi incarnano una “memoria minore”. Non epica, ma quotidiana: un servizio su una processione a Mammola o un dibattito su disoccupazione giovanile a Catanzaro. La loro fragilità riflette quella di un territorio emarginato, come denunciato nei documentari televisivi del periodo, che il progetto PRIN descrive come “voci del piccolo schermo d’inchiesta”. Senza riconoscimento istituzionale – a differenza degli archivi AAMOD a Roma o delle cineteche settentrionali – questi materiali rischiano l’oblio, perpetuando un colonialismo culturale interno all’Italia.

    LE ROVINE DI WALTER BENJAMIN

    Questa fragilità non è solo tecnica, ma è esistenziale. Riflettendoci, gli archivi audiovisivi calabresi evocano la teoria di Walter Benjamin sulla storia come “cumulo di rovine”, dove il passato non è lineare ma frammentato, recuperabile solo da chi osa frugare tra le macerie. In un contesto come la Calabria, segnato da terremoti metaforici – emigrazione, ‘ndrangheta, spopolamento – questi nastri sono rovine vive che catturano non la grande Storia, ma le storie di chi resiste.

    La loro precarietà interroga il nostro rapporto con la memoria: in un’era di big data, perché tolleriamo la perdita di miliardi di ore di footage locale? È forse perché, come suggerisce il convegno “Il documentario televisivo in Italia” all’Università del Salento, questi materiali sfidano il narrativo dominante, valorizzando “folclore e rivitalizzazione della cultura popolare” contro l’omologazione globale?
    Filosoficamente, la fragilità richiama Paul Ricoeur e la sua “memoria, storia, oblio”: senza conservazione attiva, la memoria si riduce a oblio selettivo, dove il Sud è sempre “altro” da narrare. Eppure, proprio qui sta la speranza: progetti come “Telling the Territory” dimostrano che la digitalizzazione non è solo salvataggio, ma atto etico di restituzione. Riscoprire un nastro su una protesta operaia a Gioia Tauro negli anni ’80 significa ridare agency a comunità silenziate, trasformando la fragilità in forza dialettica.

    TV PRIVATE CALABRESI: L’UNICAL IN CAMPO PER DIFENDERE GLI ARCHIVI

    La fragilità degli archivi audiovisivi delle TV private calabresi (1974-2004) è metafora di un’Italia divisa: ricca di storie, povera di cure. Ma in questo rischio di perdita si annida un invito alla responsabilità collettiva. Istituzioni, università e comunità devono convergere – come nel PRIN Unical coordinato dal professor Daniele Dottorini – per digitalizzare, catalogare e narrare questi tesori. Chi scrive, con Patrizia Fantozzi e Antonio Martino, dell’unità di ricerca calabrese, è convinto che solo così, le immagini effimere diventeranno immortali, testimoni di un territorio che, pur fragile, ha sempre saputo inventare la propria voce. In fondo, conservare questi archivi non è mera filologia, ma è un atto di giustizia poetica, affinché il silenzio delle bobine perse non inghiotta il brusio vitale di una Calabria mai doma.

  • Nicola Gratteri racconta le origini del male

    Nicola Gratteri racconta le origini del male

    La prima puntata di Lezioni di mafie, il programma condotto da Nicola Gratteri su La7, andata in onda il 17 settembre 2025, ci riporta alle radici antropologiche di una delle più potenti organizzazioni criminali del mondo quale la ‘ndrangheta calabrese. Attraverso il dialogo tra Gratteri, lo storico Antonio Nicaso e il giornalista Paolo Di Giannantonio, il programma è stato un interessante resoconto giudiziario, che si apre a un viaggio profondo nella psiche collettiva di una terra aspra, dove l’ombra della mafia coesiste con l’essenza stessa della cultura umana.

    Come aspirante antropologo, vedo in questa narrazione un’opportunità unica per decifrare il crimine, quel tessuto sociale che lo ha generato e nutrito, trasformandolo da fenomeno locale in impero transnazionale.
    La ‘ndrangheta emerge come un sistema rituale e simbolico che riecheggia le strutture tribali antiche del Mediterraneo meridionale. Nata sulle montagne della Calabria – come Gratteri evoca con passione, ricordando la sua infanzia a Gerace, un paese isolato tra rocce e silenzi – questa organizzazione è mera delinquenza economica, ma anche una vera e propria “religione profana” del potere.

    Riti e iniziazioni, tra sacro e sciamanesimo

    I riti di affiliazione, descritti nel programma con dovizia di dettagli storici da Nicaso, richiamano le iniziazioni sciamaniche o le società segrete delle culture preindustriali: giuramenti su sangue e croci, gerarchie basate su vincoli familiari e codici d’onore che trascendono la legge statale. Questi elementi non sono casuali: sono radicati in un’antropologia della sopravvivenza.

    La Calabria, con il suo terreno impervio e la storia di emigrazioni forzate, ha forgiato comunità dove il clan familiare – la ‘ndrina – funge da rete di protezione contro lo Stato assente e le carestie storiche. Come osserva l’antropologo Edward Banfield nel suo classico Le basi morali di una società arretrata (1958), in tali contesti il “familismo amorale” diventa norma: la lealtà al sangue prevale sull’interesse collettivo, permettendo alla ‘ndrangheta di evolvere da bande di briganti ottocenteschi a holding globali.

    Dalle antiche montagne, alla conquista del resto del mondo

    Dalle montagne più dure verso i cinque continenti

    Il programma illumina brillantemente questa metamorfosi antropologica. Partendo dai villaggi montani – luoghi di isolamento che favoriscono la coesione endogamica e il sospetto verso l’esterno – Gratteri e Nicaso tracciano il percorso della ‘ndrangheta verso i cinque continenti. Espansione economica, attraverso il traffico di cocaina o l’infiltrazione in finanza e politica, adattamento culturale darwiniano. La mafia calabrese, a differenza della più spettacolare Cosa Nostra siciliana, opera nel silenzio, un’etica del “non detto” che riflette il codice dell’omertà come meccanismo di difesa comunitario.

    Eppure, qui emerge il dramma umano: l’infiltrazione silenziosa nelle istituzioni legali corrompe il capitale sociale, trasformando reti di solidarietà in catene di dipendenza. Pensiamo alle storie di resistenza raccontate nella puntata – imprenditori e cittadini che “dicono no” – come esempi di agency antropologica, di individui che rompono il ciclo culturale del conformismo mafioso per rivendicare un’identità autonoma.

    Nicola Gratteri e Antonio Nicaso. La loro collaborazione è iniziata molti anni fa

    Magistrato e antropologo

    Ma ciò che rende Lezioni di mafie un gioiello non è solo l’analisi storica, bensì il suo invito a una riflessione etica profonda. Gratteri, con la sua voce rotta dall’esperienza di una vita sotto scorta, incarna l’antropologo militante: un insider che decostruisce la cultura mafiosa dall’interno, mostrando come essa sfrutti le vulnerabilità umane – paura, povertà, senso di appartenenza – per perpetuarsi. In un mondo globalizzato, dove la ‘ndrangheta usa il dark web e le criptovalute (temi accennati come anticipazione delle puntate successive), questa mafia diventa metafora di un’antropologia post-moderna, ibrida, fluida, capace di mimetizzarsi nelle economie legali. Eppure, il programma ci ricorda che le radici rimangono in Calabria, dove il paesaggio montano è sfondo, ma anche agente culturale che modella l’identità, la lotta alla mafia è una battaglia per reclamare l’umanità collettiva.

  • Giacomelli limited edition, il centenario sulle patatine

    Giacomelli limited edition, il centenario sulle patatine

    Da David Maria Turoldo di “Io non ho mani che mi accarezzino il volto” al packaging delle patatine: basta la circostanza di essere delle stessa Senigallia, Mario Giacomelli e il produttore delle patatine, perché il centenario dalla nascita del primo venga celebrato con una limited edition di patatine del secondo?

    «Il concetto di Arte è sinestetico – recita il comunicato del brand delle suddette – e questa collaborazione racconta proprio come i cinque sensi possono godere della creatività in tutte le sue forme: contemplando la bellezza delle immagini di Giacomelli, immaginandosi gli odori delle campagne marchigiane uniti a quello salmastro del mare Adriatico, mentre si degusta una chip Patatas Nana».

    E ancora: «Le immagini di “Presa di coscienza sulla natura” (1976-’80) e “Metamorfosi della terra” (fine anni ’80) con i loro solchi e le atmosfere lunari che ricordano le pennellate della pittura informale, ma che al tempo stesso comunicano le radici profonde del proprio essere, le ritroviamo sui pack di Patatas Nana da 50g e 140g; i pretini che giocano nel cortile del seminario di Senigallia dalla serie “Io non ho mani che mi accarezzino il volto” (1961-63) si rincorrono invece sul barattolo dei Fiammiferi, mentre la spensieratezza attonita dei ragazzi al luna park in uno scatto tratto dalla serie “Per Poesie” (1958) scelto per la scatola».
    E poi, come perdere l’occasione di una stampa di Giacomelli da collezione su polipropilene! In vendita dal 6 aprile.

  • PAROLE ‘MPACCHIUSE | Il mio flip book sognando i Lumiére

    PAROLE ‘MPACCHIUSE | Il mio flip book sognando i Lumiére

    Centotrenta, anniversario tondo, celebrato ufficialmente il 19 marzo. Per l’occasione, il 3 aprile uscirà nelle sale italiane Lumiére. L’avventura del cinema, che è appunto di questo che si parla, della nascita dello stupore.
    Il film, diretto da Thierry Frémaux, megadirettore del Festival di Cannes e dell’Institut Lumiére di Lione, raccoglie 120 “vedute” dei fratelli Auguste e Louis, fra cui il l’arcinoto arrivo del treno in stazione e l’uscita degli operai dalla fabbrica. Roba da 50 secondi l’una – tanto durava un caricatore di pellicola – restaurate dal laboratorio della Cineteca di Bologna “L’Immagine Ritrovata” senza aiuto dell’intelligenza artificiale. Un film, per chi ha voglia di saperne di più, del quale sono disponibili sul web tutti i dettagli, dal pianoforte di Gabriel Fauré che fa da colonna sonora, alla voce narrante di Valerio Mastandrea, con corollario di recensioni varie, qualcuna alla Bertoncelli.

    Café Lumiére

    Ma c’è una cosa, che dura ancora meno di quei 50 secondi, altrettanto ipnotica quanto la meraviglia del cinema dei Lumiére. Che fu tale che ancora oggi, a distanza di 130 anni, si racconta del pubblico del Salon Indien du Grand Café, lungo il Boulevard des Capucines di Parigi, che alla vista dell’arrivo della locomotiva scappò dalla sala per paura di essere travolto.

    Prima di quel treno si provò in tanti modi a riprodurre il movimento con aggeggi come il fenachistoscopio o il prassinoscopio (qui www.collectorsweekly.com/articles/dawn-of-the-flick/), roba non facilissima da maneggiare, oltre che da pronunciare. Come lo erano invece i flip book, quei libricini che si tengono in una mano mentre il pollice dell’altra gira le pagine così velocemente che le immagini sembrano prendere vita.

    Flip book era il nostro smartphone

    Ce n’è uno con la copertina di un certo tono di viola invecchiato dal tempo, sopravvissuto miracolosamente alla mia infanzia, che conservo in una di quelle scatole magiche che ci vai a frugare quando hai bisogno di ripigliarti, come alternativa low cost ad una seduta dall’analista. È un gadget dei primi del ‘900 delle sigarette Turkish, di cui mio nonno è stato estimatore fino all’enfisema, che riproduce una milf in mutande che fa esercizio ginnico. All’epoca di noi boomer non c’erano gli smartphone a fare da strepito-calmante istantaneo quando sei fuori a tentare di mangiare una pizza, con i genitori ad arrangiarsi come potevano.

    Ecco, quel flip book aveva su di me lo stesso effetto dello schermo di uno smartphone, e in realtà, sempre dell’ipnotismo delle immagini in movimento si tratta. Poi, nel tempo, quel mazzettino mignon di foto stampate ha cambiato funzione, come oggetto per meravigliare amici e soprattutto amiche in odor di piacenza, fino ai giorni di ricordi quasi-bamba.
    Quelli bravi lo chiamerebbero dispositivo ottico, vivisezionandolo in mila pagine dotte, ma la magia del cinema nonostante tutto, nonostante Netflix, pandemia e blablabla, è ancora questa: innescare orditi di ricordi e suggestioni

  • Palombella Prodi

    Palombella Prodi

    Spoiler: non è un tirare i capelli al proprio mulino, aka, non è una riflessione che va a parare da una parte politica. Anzi, da sinistrorso penso che il buon Mortadella abbia già dato, in altre epoche. Perciò keep calm, e parliamo di immagini, che l’occasione è buona per ribadire, allo sfinimento, come non siano mai oggettive. C’è sempre un punto di vista, destinato ad influenzare le nostre opinioni anche quando non è intenzionalmente ideologico, ma semplice posizionamento nello spazio, come in questo caso.
    Intanto, alla notizia della tirata di capelli per una domanda che ha scatenato il Michele Apicella che è in lui, la prima reazione è stata un maddài di non è possibile, come per lo shopping di Fassino al duty free: chi, Prooodi?!? E il servizio tivvù, con lui ripreso frontalmente e gesticolante sembrava alimentare quell’incredulità, nonostante un linguaggio del corpo comunque un tantino sopra le righe.

    Prodi, framing e Bateson

    E invece, scava che ti riscava, viene fuori un’altra clip, questa volta girata da un punto di vista diverso, con inquadratura di spalle. Ed è a quel punto che mi è tornata in mente un’illustrazione che circola da qualche anno sul web, attribuita a David Suter e usata per spiegare il concetto di “framing”.
    C’è un cameraman che filma una scena che si svolge davanti a lui: un uomo scappa inseguito da un altro uomo che brandisce un coltello. Ma l’inquadratura stretta, eliminando il contesto, inverte il senso della realtà: la scarpa dell’uomo in fuga sembra un coltello, e quindi è l’inseguitore a sembrare inseguito.

    Allo stesso modo, l’inquadratura stretta su Prodi della prima clip ha alterato la nostra capacità di interpretare correttamente la scena, ristabilita invece dalla seconda clip. Un esempio dunque da manuale, che farebbe felice Gregory Bateson, il primo a introdurre il concetto di framing, dove i frame sono da intendere in senso psicologico, e definiti come una delimitazione spaziale e temporanea di un insieme di messaggi interattivi che operano come una forma di metacomunicazione. A noi basta sapere, in soldoni, che per il solo fatto di inquadrarla, la realtà, la si altera, e che perciò si può anche disinformare accidentalmente con le migliori intenzioni.
    È così che un maddài diventa un maveramente…

    Attilio Lauria

  • La realtà manipolata nell’era del Deepfake

    La realtà manipolata nell’era del Deepfake

    Il concetto di realtà è qualcosa di molto più sfumato di quanto non ci piaccia credere: i nostri sensi ci ingannano, la nostra memoria riscrive e riorganizza i ricordi e, talvolta, ci induce a rimuovere episodi traumatici. La nostra percezione degli eventi varia in base alla nostra prospettiva. Potremmo dire che il  nostro rapporto con il reale è mediato dalla nostra esperienza del mondo o da quella che ci viene trasmessa in varie forme e attraverso vari mezzi. Esiste, però, una netta differenza tra ricostruzioni soggettive del reale e falsificazione della realtà.
    La prima è un processo inevitabilmente legato alla fallacia umana, la seconda è un’arma di influenza sociale e politica. E i deepfake ne sono un esempio evidente.

    Bugie, algoritmi e manipolazione della realtà

    La manipolazione della realtà non è un fenomeno nuovo né esclusivo della nostra epoca storica: basti pensare alla falsificazione di documenti e reperti storici, alla propaganda politica dei regimi novecenteschi o al fenomeno delle fake news sui social media attraverso cui si manipola l’opinione pubblica. Ciò che cambia oggi è la portata della manipolazione e la velocità con cui essa può essere diffusa.
    Una delle espressioni più sofisticate di questa tendenza è rappresentata, appunto, dai deepfake.
    Essi nascono dall’unione del deep learning e della generazione di contenuti falsi: algoritmi come le Generative Adversarial Networks (GAN) apprendono dai dati visivi e vocali per creare immagini, video e audio di altissimo realismo, sovrapponendo voci e volti reali su foto o video mai scattati o ripresi.

    Arte e porno

    Questi strumenti trovano interessanti applicazioni nella sfera della produzione artistica, ricostruendo volti storici o permettendo di girare film ringiovanendo o invecchiando gli attori. Allo stesso tempo possono essere usati come strumenti di potere.
    Il fenomeno non è trascurabile: dalle analisi realizzate da Security Hero emerge un aumento del 550% dei deepfake online tra il 2019 e il 2023, anno in cui sono stati diffusi 95.820 video di questo tipo. Ma qual è lo scopo principale per cui sono realizzati? Campagne di disinformazione politica? Intrattenimento? No. Il 98% dei video deepfake online è di natura pornografica e il 99% dei soggetti usati per la realizzazione di questi video sono donne.

    Deepfake in Calabria: il caso di Acri

    Ci scandalizziamo per la pornografia? No, ma ciò che deve allarmarci è l’assenza di consenso esplicito per la creazione di tali contenuti. Un caso emblematico si è verificato alla fine di febbraio 2025 ad Acri, nel cosentino.
    Un’inchiesta della Procura di Cosenza, avviata grazie alle denunce di alcuni genitori, ha portato alla luce un grave fenomeno di manipolazione digitale: più di 1.200 foto di adolescenti, principalmente ragazze, sono state alterate tramite intelligenza artificiale per creare contenuti a sfondo sessuale, poi diffusi su Telegram.
    Le foto originali erano foto quotidiane, non diverse da quelle che molte e molti di noi postano sui social o inviano su gruppi di compagni di scuola o colleghi. L’indagine ha coinvolto oltre 200 minori e ha avviato perquisizioni informatiche per identificare i responsabili. Le accuse che potrebbero includere la diffusione di materiale pedopornografico.

    Una veduta di Acri

    Uso dell’immagine e social

    Il problema dei deepfake si radica profondamente nella violazione del consenso, sollevando interrogativi cruciali: chi ha il diritto di decidere come e in quali contesti la propria immagine venga utilizzata?
    Il deepfake rappresenta una forma di violenza simbolica, che si avvicina per impatto e dinamiche, al reato di stupro. In entrambi i casi si tratta di un esercizio di potere, esercitato ai danni di chi subisce questo abuso, e la mancanza di consenso priva l’individuo del controllo sulla propria identità, sia essa fisica o digitale, e nega la possibilità di scegliere rispetto al proprio corpo.

    Inoltre, la diffusione non consensuale di materiale intimo assume una nuova dimensione con i deepfake: non è più necessario che esistano immagini intime reali per compromettere la reputazione di una persona, è sufficiente creare contenuti falsi ma credibili. La creazione di contenuti pornografici non consensuali, che sfruttano il volto delle donne, è una manifestazione di violenza di genere che perpetua la cultura dello stupro. Come l’invasione fisica del corpo, il deepfake manipola l’immagine personale trasformandola in un oggetto e negando alla vittima il diritto fondamentale all’autodeterminazione. Questo fenomeno non è solo una questione tecnica, ma un attacco diretto all’identità e alla soggettività delle donne e può essere visto come una manifestazione digitale della violenza sessuale.

    Vittime dei deepfake senza tutele

    Ma quali tutele ci sono per le vittime? La natura stessa dei deepfake rende complessa la loro regolamentazione. In Italia non esiste una legislazione specifica che affronti direttamente il fenomeno dei deepfake. In assenza di una normativa ad hoc, si fa riferimento a leggi esistenti, come quelle sulla diffamazione e sulla violazione della privacy, per perseguire legalmente gli autori di deepfake dannosi.
    A livello europeo la situazione non differisce molto: sebbene si riconosca l’esigenza di regolamentazioni specifiche, che tutelino l’integrità degli individui rendendo l’uso di questi strumenti più trasparente e responsabile, la rapida evoluzione dei deepfake richiede un approccio legislativo flessibile. L’intervento dei governi, tuttavia, rischia di non essere sufficiente senza la collaborazione delle piattaforme su cui i deepfake sono diffusi.

    Francesca Pignataro

  • IN FONDO A SUD | L’Oliver Twist di Gianni Amelio a Catanzaro

    IN FONDO A SUD | L’Oliver Twist di Gianni Amelio a Catanzaro

    Una delle scene più belle del primo film del regista Gianni Amelio, La fine del gioco, girato 55 anni fa a Catanzaro, rimane sorprendentemente impressa dopo averlo visto. È quella che ritrae un gruppo di ragazzini. Prima seguiti dall’alto e poi a livello della strada. L’occhio del regista che li segue, mentre a ritmo lento e dolente, sfilano in corteo.

    Una marcia a testa bassa, in silenzio e braccia conserte dietro la schiena, come fossero in ceppi. Il gruppo di adolescenti messi in fila come un plotone sono seguiti lentamente da un’auto, che li tiene d’occhio e li scorta infine dietro un cancello e oltre le mura di un recinto. In quel passaggio sorvegliato tra strade cittadine di una Catanzaro illividita dai toni del bianco e nero, in una controra quasi spettrale, c’è tutta la condizione di privazione di libertà dei giovani che erano detenuti all’interno del carcere minorile di Catanzaro. Il luogo dove il film si ambienta dopo quelle prime scene.

    Il regista Gianni Amelio durante un intervento alla Stampa estera

    Gianni Amelio a Catanzaro

    A lato di quel primo scorcio rivelativo, a quel piccolo gruppo di ragazzi sorvegliati, si contrappone l’allegra e libera frenesia che anima il gioco di un altro gruppetto di figuranti. Un gruppo dei bambini che si svagano sparpagliati e vocianti oltre la transenna di una grande piazza. Loro, uno sciame di liberi, e i separati, gli estranei, già lontani, chiusi da quei confini, in quelle stanze, le camerate del correttorio già così simili a celle. Sembra il distillato del set iperrealista di uno dei film di Amelio più belli, Il ladro di bambini. Catanzaro del dopoguerra, e questi ragazzi che guardano sempre per terra e non si voltano indietro, e in alto non guardano mai.

    L’infanzia difficile, il rapporto tra i bambini, i giovani e gli inganni degli adulti, il sentimento del tempo e la nostalgia, gli sfregi alla bellezza e al paesaggio, le rivelazioni che balenano nel movimento che coglie lo spazio e la luce, il senso profondo della storia. In questo piccolo film di 60 minuti, c’è, riassunto in un’epitome tutto il cinema che sarà di Amelio, da quei primi spezzoni di pellicola sperimentale sino ad oggi.

    La proiezione organizzata da Fondazione Trame

    È merito della Fondazione Trame, guidata da Nuccio Iovene, che da 13 anni organizza il Festival dei libri sulle mafie a Lamezia Terme, e di “Trame a Sud”, lo spin-off affidato al giornalista e scrittore Vinicio Leonetti per promuove iniziative di riflessione artistica e cinematografica legate alla Calabria e al Mezzogiorno, a cui va il merito di aver allestito e organizzato questo primo appuntamento, se a Catanzaro nei giorni scorsi il cinema fuori dalle sale è tornato in luogo della città così significativo, vicinissimo e lontano, il Minorile di Catanzaro, che oggi si chiama Istituto Penale per Minorenni con Sezione per Semilibertà. “Trame a Sud” comincia da questo luogo e da questo autentico, e presto dimenticato, capolavoro riscoperto.

    Gianni Amelio gira nel carcere minorile di Catanzaro

    La fine del gioco è il primo mediometraggio filmato realizzato e prodotto per la Rai dal regista Gianni Amelio nel 1970. Un film in cui un regista della televisione nazionale, decide di intervistare un bambino molto particolare. Leonardo è un piccolo orfano che senza colpe che non siano la sua condizione di orfano e piccolo lazzaro, si trova chiuso in una casa di correzione. Il regista lo sceglie per farne il protagonista di un film-documentario per la televisione.

    E’ sta la straordinarietà del cinema, che diventa il cinema girato proprio lì, con il racconto di una storia che si svolgeva nel recinto del Carcere Minorile di via Paglia, diventato set, con un protagonista che, come quei ragazzi, era uno di loro. Amelio girò La fine del gioco in bianco e nero a soli venticinque anni, scrivendolo insieme ad un altro importante catanzarese del cinema italiano, Mimmo Rafele, che di questa pellicola di Amelio fu aiuto regista e sceneggiatore.

    Con gli studenti del Galluppi, il liceo di Amelio

    La visione del film, a distanza di più di mezzo secolo dalla sua realizzazione, è stata condivisa adesso dagli studenti del Liceo Classico Galluppi (che fu il Liceo di Amelio), insieme ai ragazzi che entro le mura del Minorile di Via Paglia, sono ancora oggi come allora ristretti. Difficile, se non irrealizzabile per la ritrosia sentimentale e umana che contraddistingue il suo autore, far tornare Amelio, che ha da poco compiuto 80 anni ed è al cinema con il suo ultimo film Campo di Battaglia, nella città del suo debutto di regista per celebrare questa bella e simbolica ricorrenza.

    Era presente invece Domenico Rafele, felice di ritornare dopo 55 anni nella sua città e sui luoghi che furono set di quel film. Rafele è uno dei più noti e affermati sceneggiatori italiani. Oltre che con Amelio, ha poi collaborato tra gli altri con registi come Bernardo e Giuseppe Bertolucci. Tra i suoi film come regista e sceneggiatore si ricordano Domani (1974) Ammazzare il tempo (1979), La piovra, Il giovane Mussolini, Vite a termine, Codice Aurora. Oggi Rafele vive a Roma, dove continua a dirigere film e a scrivere (anche libri; suo il romanzo La forma della paura, scritto con Giancarlo De Cataldo) come sceneggiature per il cinema e la televisione.

    Leonardo, il piccolo protagonista di allora

    Alla proiezione de La fine del gioco, tra gli ospiti radunati da Leonetti per la proiezione nel piccolo cinema del Minorile, non c’era il regista, ma c’era invece, il suo protagonista di allora, Leonardo. Gino Valentino, che a 12 anni fu preso dalla strada e scelto proprio da Amelio per interpretare il piccolo protagonista del racconto, che nel film si chiama appunto Leonardo. Gino/Leonardo è oggi un simpatico, sorridente, e affabile signore di una certa età. Una vita ordinaria di lavoro e di affetti.

    Un tranquillo pensionato quasi settantenne che vive nel quartiere popolare di Fortuna, tra la città e il lido di Catanzaro. Ma quella del film fu per lui un’esperienza indimenticabile, che ha raccontato ai ragazzi e al pubblico con l’incanto intatto di quando era bambino, con ingenuità e fervore, esattamente come allora. «Gianni e Mimmo mi sono stati molto vicino allora, io non avevo mai visto il cinema; mi hanno guidato loro in tutto, ma se feci bene l’attore per quella parte fu perché mi sentivo davvero com’ero nel film».

    Un ragazzino di una periferia del Sud, cresciuto in quegli anni faticosi, ingenuo testardo, diffidente e incantato da tutto. Rivisto, nella parte di Leonardo, lui è davvero un magnifico. Anche il giorno della proiezione i ragazzi ristretti del Minorile lo avevano scambiato per uno di loro. Invece Gino allora era solo il ragazzino di un suburbio di case popolari, l’abitante di un quartiere di provincia, cresciuto per le strade polverose di una Calabria fine anni ‘50 povera e piena di speranze, non ancora smagata dalle illusioni del boom. Il Minorile lui, Gino, lo chiama ancora “riformatorio”.

    E confessa che ancora oggi tra i suoi conoscenti c’è chi fatica a credere che lui non fosse uno degli adolescenti reclusi lì dentro. Ci tiene a raccontare di non avere mai avuto problemi con la giustizia, né prima né dopo il film. Ma forse fu, dice, solo per caso, per fortuna, aggiunge, se lui fece “le scuole”, ebbe genitori buoni e con loro un destino che lo portò lontano dalle mura del riformatorio di Via Paglia. Racconta come fu che arrivò a fare quella parte.

    La troupe si presenta nella sua scuola di Catanzaro. Alla selezione si affollano in tanti, tutti ragazzini delle medie cittadine. Lui ad un certo punto, irrequieto com’era stava per scappare via per tornarsene a casa, quando Amelio lo fermò, interpellandolo in dialetto catanzarese: “Duva fuji tu!, veni accà!”. Era lui quello che cercava per il suo Lorenzo. Gino aveva la faccia giusta, il gesto, i tratti, la voce, la postura che cercava Amelio. Da quel giorno Gino fu per sempre il Lorenzo del film. Lavorò per alcuni mesi fianco a fianco con Amelio e Rafele, ogni giorno sul set, girando diligentemente e con una bravura stupefacente buona parte delle scene tra gli spazi interni al carcere minorile, che ancora oggi è accanto allo Stadio dove gioca il Catanzaro.

    Il set per gli esterni fu poi portato anche tra gli scompartimenti deserti di un treno del Sud. Gino recita le sue scene in compagnia del solo grande Ugo Gregoretti, che nel film interpreta il giornalista della Rai che vuole intervistare Leonardo. Gregoretti è l’adulto che lo scruta e lo indaga, lo straniero viene da una città lontana, l’altro che lo avvicina tentando di offrire con il passaggio dallo schermo uno spiraglio redenzione piccolo borghese al piccolo carcerato ribelle. Devono ad un certo punto fare insieme un viaggio, uno spostamento altrove, trasognato, teso, solitario.

    Un vagone di un Treno Espresso fu per questo preso in affitto dalle Ferrovie dello Stato. Si girò, ricorda Mimmo Rafele, su un convoglio in movimento che faceva realmente la spola sulla tratta tra Roma e Lamezia.
    Colpiscono anche quelle scene prese dal vero e registrate in diretta da Amelio e Rafele. Con i sobbalzi e lo sporco di fondo, mentre dai finestrini del treno scorre un paesaggio del Sud già rotto e privo di bellurie, con voci e rumori che si sovrappongono, con piani sequenza e lunghi silenzi, poche parole spezzate e gli sguardi persi e poeticamente intensi di Leonardo. Furono girate così le scene del viaggio con cui il film nel racconto del piccolo Lorenzo si conclude.

    L’Oliver Twist di Amelio

    Il piccolo orfano ribelle prima si nasconde, poi scende dal treno a una delle fermate, da solo, scalzo. Fugge. Va via. La vita e la rinascita prospettata per lui restano incerte, ma la strada che sceglie sarà quella che farà, a modo suo. Allo stesso modo Amelio cominciava in sordina ma in forma luminosa e poetica il suo cinema a Catanzaro con questo piccolo film. Lo fece raccontando in pellicola la parabola malinconica del piccolo Leonardo, un lazzaro fantasioso e ribelle – un orfano povero, che parte senza mezzi verso l’età adulta e per compiere la sua avventura dal profondo della provincia fugge via, come fu del resto per lo stesso Amelio.

    Come Dickens circoscrisse in letteratura le scabrosità e le esclusioni brutali della società vittoriana dipingendo di speranze e di fidente genuinità il volto del suo Oliver Twist, Amelio lo fa nel suo film riuscendo a dare un volto e un sembiante poetico al suo piccolo Leonardo, dipingendo speranze e ribellione sul volto innocente e riottoso di Gino, aggiungendo scetticismo e malinconia alle gesta minime del suo piccolo protagonista. Non a caso, quindi, da questo luogo di “correzione” e da questo particolare racconto cinematografico era partita l’originale avventura cinematografica di Amelio.

    Dal carcere ai vagoni del treno

    Il film implicitamente e per contrasto ci appare oggi anche come un discorso figurato sull’immaginario e sull’iconografia culturale catanzarese degli ultimi decenni. Merito anche questo di Amelio, intellettuale e regista transfuga dalle circonvenzioni cittadine. Allievo, come Alvaro, del famoso Liceo Galluppi, dopo una parentesi universitaria messinese, Amelio evade da Catanzaro per rinascere cinematograficamente a Roma. La fine del gioco è anche per questo un film già precocissimo e completo. Compendia il tema del ritorno, sia nel soggetto del film – la storia del ragazzino che appena dodicenne si trova rinchiuso senza colpe in un riformatorio calabrese, da cui cerca faticosamente di fuggire per trovare fuori la sua strada –, sia nella suggestiva e minimalistica ambientazione dei paesaggi, con gli esterni girati a Catanzaro. Mentre nel carcere minorile della città si girarono tutti gli interni, solo le scene della seconda parte in viaggio, furono spostate dentro i vagoni di un treno.

    Nella pellicola tutti i temi di Gianni Amelio

    Questo primo film catanzarese contiene in cifra, dicevamo, tutti gli ingredienti della filmografia maggiore sviluppata successivamente da Amelio: i temi del contemporaneo, il cinema sul cinema, il rapporto fra padri e figli, quello difficile e irrisolto del richiamo dei luoghi delle origini, con la lotta fra gli integrati e i fragili, i marginali, i fuoriposto, opposti alla logica conformista e feroce della società contemporanea. Centrale, come in tutto il cinema di Amelio, è anche il tema dello spaesamento e del viaggio, narrati come archetipi culturali e umani di un Sud inaridito, slogato e fuori posto. Forse proprio il conflitto intimo e mai risolto di Amelio con la sua Catanzaro resta intatto e ancora aperto come sottotesto implicito del film.

    La città per lui «ferma» e «malferma», il suo ricordo di una piccola società di provincia, burocratica, conservatrice e chiusa nei suoi privilegi, a cui si oppone oggi l’immagine contemporanea di luogo di incroci politici e di potere prepotenti e corrivi, riflessi nello specchio rovesciato di paesaggi urbanistici caotici e sconvolti. Un catalogo di contrasti irrisolti che restano ancora oggi il tratto distintivo e perturbante di questa capitale ideale della Calabria di adesso.

    Un luogo che oggi scorre ineffabile, immobile e chiazzato di enormi palazzoni e costruzioni fuori scala, lontano dai finestrini delle auto in corsa sui grandi snodi stradali, nel traffico impazzito delle circovallazioni, oltre i ponti vertiginosi gettati su calanchi e burroni di questa Calabria post-tutto. Un paesaggio che sembra un compimento di quel primo set di Amelio, l’apoteosi di quelle cupe location del non-finito sudista di un tempo. Set ideale, magari, per girarci un nuovo film di Gianni Amelio, un’altra fine del gioco.

    Il dibattito e la proizione nel carcere minorile

    Alla fine del dibattito e della proiezione, la sala-cinema del Minorile era strapiena: studenti, docenti, ma soprattutto tanti giovani in vinculis, i ragazzi in custodia presso il Minorile che hanno visto il film. Tutti bravi, tutti in parte. I dirigenti della struttura di oggi, l’aiuto regista di allora, il protagonista del film, Vinicio Leonetti e i dirigenti di Trame festival, la giornalista e scrittrice Annarosa Macrì, autrice -con Giosi Mancini- di una bella e dettagliatissima intervista ad Amelio per i suoi ottant’anni uscita nei gironi scorsi su Il Quotidiano del Sud. Con la sorveglianza delle guardie carcerarie, che lì per servizio, hanno apprezzato molto anche loro.

    Tutti insieme a vedere e compitare le scene di questo bellissimo film, un apologo sull’adolescenza e il senso della vita che dopo più di mezzo secolo da quando fu girato, non smette di interrogarci e farci riflettere. Applausi per tutti. Quindi. A cominciare da quelli che nel lontano 1970 hanno immaginato, realizzato, interpretato questo piccolo prezioso capolavoro nascosto del cinema italiano – che va riportato all’attenzione del pubblico e restaurato prima che sia troppo tardi. Se ai giovani spettatori radunati a vederlo è rimasto attaccato qualcosa della poesia e della luce di questo primo scarno e potentissimo film di Amelio, di questa storia povera e pensosa, in cui un piccolo orfano ribelle, povero e malvissuto, si stacca dagli adulti e prende la sua vita in mano, anticipando “la fine del gioco”, sarà questo di nuovo e soprattutto il suo vero successo.

  • Il fascino disadorno del Brutalismo

    Il fascino disadorno del Brutalismo

    E infine, l’Oscar: ad Adrien Brody, come Miglior attore protagonista, che insieme al talento dell’uomo sancisce l’apoteosi definitiva del brutalismo. In realtà di Oscar il film ne ha presi altri due, per la miglior fotografia di Lol Crawley, e per la miglior colonna sonora originale di Daniel Blumberg, ma a noi basta il concetto. Che per chi diffida delle coincidenze, suggerisce un parallelo fra il riconoscimento cinematografico, e l’affermazione come corrente estetica di quello che era “semplicemente” uno stile architettonico. Al culmine di un’ascesa lunga una decina d’anni, e in un crescendo di like a milionate, distribuite fra le varianti hashtag più fantasiose, dal palco scintillante di Hollywood il brutalismo fa il suo ingresso ufficiale nell’empireo del mainstream.

    E come per la turistificazione di quei posticini che per eccesso di passaparola diventano impraticabili, con la notorietà inizierà a svanire da oggi quell’aura di esclusività di massa che lo aveva reso un termine identitario. Anche per chi non ne sapeva molto di pensiero architettonico che riformula il lessico del costruire, ma bastava la pronuncia per sentirsi un passo avanti.

    In realtà, esclusivo in senso proprio questo stile da futuribile distopico lo era, proprio per il fatto di essere nato con lo stigma della scostanza, certamente non facile da apprezzare. Il che obbliga ad interrogarsi su cosa ci sia di attraente in questo stile fattosi moda. Ed ecco che qui entra in gioco la solita fotografia, con il suo potere di mostrarti le cose per il loro lato migliore. Grazie ad una certa sapienza ruffiana, quella stessa artefice dell’instagrammizzazione dell’esistenza, la traduzione della realtà in pura forma-immagine ‘rende tollerabile persino la gastrite’, cantava Sergio Caputo.

    Brutalismo, un crescendo editoriale

    E così quel fascino dell’orrido, che da sempre ha fatto la fortuna di scrittori e registi, è giunto fino all’editoria, con la pubblicazione negli ultimi anni, e su scala planetaria, di alcuni volumi dedicati. Qui da noi, ad esempio, è di un paio d’anni fa “Brutalist Italy – Concrete Architecture from the Alps to the Mediterranean Sea”, ricerca di Roberto Conte e Stefano Perego che attraverso 12.000km e 150 foto tratteggia la mappa e al tempo stesso l’iconografia di questa architettura proveniente dagli anni ’50 del Novecento. Decisamente più ludica, con i suoi modelli in cartone pressato da assemblare che ricordano l’enciclopedia boomer ‘Il mio amico’ di Garzanti, è “Brutalia”, volume della polacca Zupagrafika dedicato anch’esso agli edifici patri.

    L’effetto su carta patinata è certamente lontano dalla desiderabilità del reale quale luogo in cui vivere, come racconta la cronaca delle vele di Scampia, o del Corviale romano, e forse neanche dove riposare in eterno, sebbene un Guido Guidi rapito dal tratto di Carlo Scarpa abbia dedicato un intero libro alla tomba Brion, e Denis Villeneuve una citazione nel secondo capitolo di Dune.
    Ma verrà l’obblio, anche se ancora non sappiamo che occhi avrà; di certo, dopo tanto celebrare, dovrà essere all’altezza di cotanto Oscar. E forse c’è già qualcuno che con l’AI sta immaginando queste strutture come novelle Angkor Vat inghiottite dalla natura…

    Attilio Lauria

  • Fenomenologia di Brunori Sas: quando le canzoni (e non solo) diventano patrimonio identitario

    Fenomenologia di Brunori Sas: quando le canzoni (e non solo) diventano patrimonio identitario

    «C’è una identità che scalpita per essere rappresentata, che ha bisogno di un portavoce, di un ambasciatore, di un condottiero», dice con convinzione Olimpia Affuso, sociologa dell’Unical e vice coordinatrice del corso di studio di Media e società digitale, fornendo una spiegazione possibile all’impazzimento collettivo verso Dario Brunori.
    È pressoché sicuro che il cantautore cosentino non si senta un condottiero, eppure durante l’ultima edizione del Festival della canzone ha incarnato la rappresentazione di un territorio e di una cultura anticamente relegati alla pena del silenzio o, peggio, incatenata ai ceppi di una narrazione nefasta.

    I commenti social

     

    Brunori Sas e la nuova narrazione della Calabria

    Per una manciata di giorni questa narrazione si è spezzata e al suo posto sono emerse dolcezze e poesia e appresso a loro un inatteso orgoglio. Ma le cose sono sempre più complesse di quanto appaiano e per muoversi con disinvoltura dentro l’articolata fenomenologia brunoriana c’era bisogno di uno sguardo in grado di cogliere le sfumature psico-sociali.

    Paola Bisciglia, psicologa e psicoterapeuta, Giap Parini, sociologo e direttore del Dispes e la già citata Olimpia Affuso, sono stati i compagni di un viaggio dentro un fenomeno collettivo fatto di entusiasmo, rivendicazione e senso di appartenenza, tutti sentimenti che hanno trovato in Brunori Sas il riferimento. E considerata la veemenza fideistica che a un certo punto ha invaso i social, c’è il rischio che possa vagamente avverarsi la profezia espressa con la consueta intelligente autoironia dallo stesso Dario: quella di immaginarsi come una Madonna portata a spalla e con i devoti che attaccano banconote al suo mantello, come ancora avviene durante certe processioni nei nostri paesi.

    Cultura alta e cultura pop

    Questo richiamo divertito a una religiosità devozionale ancora viva in Calabria non è stato il solo riferimento a radici culturali profonde, come quando sapientemente, nel corso di una intervista, ha spiegato l’affascino e i riti magico-religiosi per neutralizzarlo, citando, senza citarlo davvero, De Martino. Sud e magia sul palco dell’Ariston, un passaggio tra cultura alta e quella pop, che ha suscitato non solo il sorriso, ma la rivendicazione orgogliosa «di una storia di cui ci vergogniamo», dice Paola Bisciglia, spiegando che la parola necessaria a comprendere alcune cose è proprio questa: la vergogna da cui vogliamo riscattarci.

    «Si ha l’impressione che i calabresi detestino la Calabria e invece la amano, ma se ne vergognano», continua la psicologa. Poi arriva Brunori, che con la sua autenticità parla a una platea nazionale raccontando della scirubetta, «che per noi è come una cosa intima, solo nostra, e lui lo fa sfidando e vincendo quel senso di pudore che noi abbiamo per le cose che consideriamo private e da non esporre, come il dialetto, l’inflessione cosentina che Dario ha disinvoltamente esibita, la perifericità dei luoghi. In sintesi, ha ridefinito in positivo i limiti».

    La psicologa avverte che tutto questo è avvenuto senza strategia, ma con assoluta autenticità e ha fatto scattare la dinamica dell’immedesimazione. Dario «è diventato uno di noi ed è forte la voglia di riconoscersi in lui». Brunori insomma ci dice che non dobbiamo nasconderci, che possiamo parlare di noi, di come siamo davvero, che possiamo rivendicare la nostra indolenza mediterranea, che il nostro ni sicca è espressione del pensiero meridiano fiero e alto. È repulsione infastidita dell’urgenza imposta dalla post modernità, noi che manco abbiamo avuto la modernità.

    Brunori a Sanremo

    Brunori Ipertesto, segno della contemporaneità

    «Lui ha una caratteristica tipica della contemporaneità: è un ipertesto – dice Olimpia Affuso – dove si collegano testi, codici culturali diversi, parole, immagini e anche tecnologie della narrazione differenti ma con un intento unitario. E questo oggi è la chiave del successo».
    Parini invece osserva il fenomeno da un punto di vista diverso. Per lui Brunori è espressione di una storia solida, capace di rappresentare «una cultura un poco blasé, disincantata, che potrebbe essere la cifra di una certa cosentinità colta, ironica, spesso antagonista, ma non certamente pensiero subalterno. Anzi, si tratta di una cultura forte». Da questo punto di vista il cantautore per Parini «rinverdisce un orgoglio che già c’era e che aveva le sue radici in una città che è stata – e, in parte, è ancora rispetto ad altre aree della regione – colta, moderna, intellettuale».

    La Pizzica e la Tarantella

    L’essere blasé però non aiuta a cambiare le cose: altrove la Pizzica è diventata identità culturale, mentre noi consideriamo la tarantella un ballo tamarro.
    È mancato fin qui il salto per capovolgere il paradigma. La politica non sembra interessata a una operazione di rivendicazione orgogliosa, tocca quindi alla cultura cercare di fare il passo.

    Il sociologo Franco cassano

    «In Puglia c’era un gioco di squadra tra Vendola e Franco Cassano, tra la visione  politica e le aule universitarie», aggiunge Olimpia Affuso, ricordando come Sergio Bisciglia, docente di Sociologia urbana, abbia sottolineato che lo sviluppo turistico della Puglia sia passato dalle università. Il confronto tra la Puglia di Vendola e la Calabria di Occhiuto sembra piuttosto audace ed è vero, come avverte Parini, che tra qualche tempo l’eco sanremese si sarà stemperato, «ma intanto abbiamo trovato un ambasciatore che ha nazionalizzato la Calabria».

    Brunori e la potenza della bellezza

    Di tutto questo adesso resta «la potenzialità politica della bellezza», come conclude Affuso e che è stata rappresentata dall’arte di Dario Brunori.
    Dobbiamo trovare l’intelligenza per trasformare questa bellezza in azione. Ma più di tutto ce la dobbiamo meritare.

     

  • Ecco perché Brunori mi piace ancora di più dopo Sanremo 2025

    Ecco perché Brunori mi piace ancora di più dopo Sanremo 2025

    Ecco perché, dopo questo Sanremo 2025, Dario Brunori mi piace ancora di più, senza che il mio essere “conterroneo” c’entri nulla.
    Da quando me ne ricordo, senza scomodare storiografie che mi sciorinerebbero come da sempre funzioni così, la musica è identitaria, una bandiera tribale. Noi giovani vs genitori e umarell vari, innanzitutto, che all’epoca non avevano etichette stile zeta o millennial, divisi semmai fra quelli che avevano fatto la prima o la seconda guerra, e tutti aspettavano Canzonissima del sabato sera. E poi sorcini, baglionisti e quelli dei Pooh. Canzoni spesso dedicate con tanto amore sulle radio libere da una qualche stella di periferia ad un Marco, anche lui di periferia.

    Roba da disimpegnati un po’ coatti per quelli che noi solo cantautori, ma non tutti, perché Battisti è di destra, salvo ascoltarlo di nascosto. Canticchiandolo pure, ma a voce bassa, per placare quel senso di colpa che tutto vede e tutto sa. Per non parlare del dissing antesignano fra Venditti e De Gregori, con relative tifoserie, e tanto di “scusa Francesco” per un lieto fine da amici antichi. Poi, come canta proprio quello di Rimmel, “elleppì” anche lui ormai cinquantino, a un certo punto ti volti a guardarli, quei tuoi anni. E non li trovi più.

    Brunori: Sanremo 2025 o Frittole?

    Nel frattempo, senza neanche accorgertene, hai perso il contatto, fino allo smarrimento di chi si ritrova catapultato alla Benigni & Troisi nella Frittole del Sanremo 2025. Un mondo dove gli umani, per noi che i Jalisse erano già un’eversione, ma di quelle innocue da sorriso «per pazzi sprasolati e un poco scemi», hanno nomi da esercizio di fantasia un tempo riservato ai pet: Rkomi, Irama, Shablo, e via a chi la spara più sorprendente, fino al Tormento.

    So bene, in qualità di sessantenne a rischio ‘signora mia dove andremo a finire’ di dovermi stoppare qui, risparmiandomi tutta la manfrina sulla fenomenologia di costume, ma…
    Sarà pur vero che ogni epoca ha le sue liturgie, e che con gli anni capita sempre più spesso che ti frulli per la testa quel ritornello dei Rem che fa «it’s the end of the world as we know it», ma il vizio antico di sentirsi parte di qualcosa non muore mai.

    Uno normale

    È il bisogno di identità, bellezza, direbbe qualcuno. Già, l’identità, quella cosa che ti fa sentire protetto, al sicuro delle tue certezze quando diventa faticoso inseguire il mondo, e decidi che “sì, io mi fermo qui”.
    Ecco perché, dopo questo Sanremo 2025, Dario Brunori mi piace ancora di più, senza che il mio essere “conterroneo” c’entri nulla. «Cazzo, uno “normale”!», ho pensato nel vederlo cantare su quel palco in giacca elegante quanto basta e chitarra! Venghino signori, venghino, non c’è trucco e non c’è inganno!

    Anche qui, so bene che nel dizionario, peraltro molto a rischio, woke il termine normale è fastidiosamente avvertito come sinonimo di una qualche forma di conservatorismo, e che necessita pertanto di una dichiarazione di accezione. Ebbene, nel mio personalissimo, quanto insindacabile dizionario, normale sta per privo di orpelli ed eccessi, in sintonia con la propria natura, che si esprime senza cedimenti al mainstream. Il che non vuol dire che in quanto artista l’uomo non promuova se stesso, ma in maniera percepita come espressione di un autentico sé. Comunque, roba rara, qui a Frittole.

    Tutto ciò confermerà probabilmente da quale parte della storia mi trovi, un vecchio grumpy insensibile all’edonismo griffato a tanto ad apparizione del Sanremo System, con un certo fastidio per gli epigoni a cascata. L’indizio da terzo posto è comunque quello di essere in tanti, non solo televotanti, e certo, mi fa anche molto piacere, come un friccico ner core, l’illusione di essere calabrese come lui.

    Attilio Lauria