Tag: Mafiosfera

Mafiosfera. Un’analisi criminologica di ‘ndrangheta vicina e lontana, in Calabria, in Italia e in giro per il mondo. Per sfatare qualche mito sul potere e sulla mobilità della mafia calabrese nel mondo; per fermarsi a riflettere sulla cronaca con occhi più attenti e consapevoli; per narrare di mondi criminali senza ridurne la complessità.

  • MAFIOSFERA| Mamma Eroina: Bang Bang Baby e la festa degli stereotipi

    MAFIOSFERA| Mamma Eroina: Bang Bang Baby e la festa degli stereotipi

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Alzi la mano chi non conosce la storia di Maria Serraino. Mamma Eroina è stata una di quelle donne che hanno sbaragliato il mito della donna di ‘ndrangheta che può solo essere vittima. Maria Serraino era carnefice, se vogliamo dirla tutta. Ai vertici di una delle famiglie di ‘ndrangheta più influenti del reggino, nella sua propaggine milanese, La Signora ha dominato il mercato dello spaccio di eroina e di hashish in Lombardia negli anni ’80.

    Come spesso accade per le donne al potere, la sua è una figura ambigua, ambivalente. Ricordata come “madre amorevole” eppure condannata per aver guidato “un’organizzazione criminale che ricorreva all’eliminazione fisica dei concorrenti”, Mamma Eroina, originaria di Cardeto (RC), è stata donna di vertice nella ‘ndrangheta in un periodo di enorme cambiamento per l’organizzazione criminale, in Calabria, in Italia e nel mondo. È morta nel 2017, agli arresti domiciliari.

    La fiction sulla nipote di “Mamma Eroina”

    Chi non dovesse conoscerla, Maria Serraino, può vederla in versione fiction su Amazon Prime, nella nuova serie Bang Bang Baby. Interpretata da Dora Romano, il personaggio di Donna Lina è Mamma Eroina, o meglio, Nonna Eroina in questo caso, come tra l’altro è conosciuta in inglese (Granny Heroin). La serie TV, infatti, non è inspirata alla storia di Maria Serraino, quanto a quella di Marisa Merico, sua nipote.

    mamma-eroina-mafia-princess
    Maria Serraino in un singolare ritratto di famiglia

    Figlia di Emilio Di Giovine, primo di 12 figli di Rosario Di Giovine e Maria Serraino, Marisa non è una rampolla di ‘ndrangheta come tutte le altre. A renderla diversa è sua madre, Patricia Riley, inglese, che incontrò e sposò Emilio a Milano e che, quando la situazione familiare diventò insostenibile (cioè spararono a Emilio, anche se non fatalmente, in un ristorante milanese) decise di andarsene, con Marisa, a Blackpool, in Inghilterra.

    La storia di Marisa non è nuova, è stata raccontata in un documentario del 2015, Lady ‘Ndrangheta. E soprattutto l’ha raccontata lei stessa nel 2010 nella sua autobiografia Mafia Princess, pubblicata da Harper Collins, come si legge sul suo sito web. Giornali, riviste, true-crime podcast, e interviste hanno raccontato del rapporto di Marisa con la famiglia milanese/calabrese, con la nonna Maria che – nonostante la vita a Blackpool – Marisa continuò a vedere nelle estati della sua adolescenza.

    Marisa Merico e la scalata al clan

    Si è raccontato del rapporto di Marisa con suo padre, della ‘scalata’ nei primi anni 90 ai vertici della famiglia Serraino di una Marisa appena ventenne e sposata con Bruno Merico, fedelissimo della nonna e del padre, prima come ‘banchiera’ della famiglia e poi come emissaria della famiglia anche all’estero. In seguito al pentimento di sua zia Rita Di Giovine, nel 1993, che ha inflitto un colpo quasi mortale a tutto il clan, Marisa scappa in Inghilterra e nel 1994 viene arrestata con l’accusa di riciclaggio (1.9 milioni di sterline in un conto in Svizzera usati per l’acquisto di un’abitazione). Marisa sconterà tre anni a Durham in carcere tra altre donne ‘pericolose’, tenute a regime carcerario particolarmente duro.

    La piccola Marisa Merico in braccio a suo padre Emilio Di Giovine

    La seconda vita in Inghilterra

    La seconda vita di Marisa inizia qui. Uscita dal carcere, completerà una laurea triennale in criminologia all’università di Lancaster, è intanto diventata madre due volte.

    marisa-merico-mamma-eroina-laurea
    Marisa Merico il giorno della sua laurea

    In Italy vs Merico, il tribunale amministrativo inglese, che nel 2011 decise di non concedere l’estradizione di Marisa all’Italia per il completamento della sua sentenza di condanna, non menziona mai né la parola mafia, né la parola ‘ndrangheta. E conclude che Marisa è «nonostante il suo passato criminale, una madre responsabile e una figlia devota». Marisa ha svoltato. Oggi utilizza la sua particolare esperienza di vita per spiegare cosa, per lei, sono crimine organizzato ed esperienza carceraria. E come si passa da essere principessa di ‘ndrangheta, il suo brand, a donna ‘normale’, laureata in criminologia, quasi attivista, a Blackpool.

    mamma-eroina-nipote
    Maria Merico con sua nonna Maria Serraino

    Nonna Maria e mamma Patricia

    Ora che Bang Bang Baby è disponibile su Amazon Prime, e la storia di Marisa è nuovamente alla ribalta, è forse necessario provare a riallineare qualche elemento di questa storia. C’è infatti un lato dimenticato nella narrazione che se ne fa. E cioè la dimensione inglese dell’identità di Marisa, e di sua madre Pat.

    La prima cosa che incuriosisce è come i giornali inglesi raccontano di questa storia. E soprattutto quali giornali inglesi. Si tratta per lo più di tabloid, giornali che cercano il sensazionalismo con molte foto e con titoli risonanti, dal The Sun al Mirror al Daily Star. La storia è considerata una storia di costume, chiaramente schiacciata sulla dimensione criminale mafiosa. Che però non è né compresa, né tantomeno raccontata criticamente.

    Tanta Italia, poca Inghilterra

    Il Daily Mail parla di una “Milan ‘Ndrangheta Gang”; il The Sun compara la nonna Maria Serraino al Padrino. Si legge chiaramente in queste storie che a fare notizia è l’influenza che la mafia ha avuto su questa ragazza prima-donna oggi di Blackpool. Non si chiede mai il contrario, e cioè l’influenza che essere cresciuta a Blackpool – una tipica cittadina balneare inglese spesso raccontata (in modo eccessivo e stereotipato) come uno dei posti peggiori, e uno dei più violenti, in cui vivere in Inghilterra – possa avere avuto su una Marisa ragazzina che andava e veniva da Milano e dalla ‘ndrangheta.

    blackpool
    Il lungomare di Blackpool

    Cos’è che non “tornava”, cos’è che appariva strano o diverso o anche uguale e familiare della calabresità milanese della ‘ndrangheta di famiglia a questa donna che per devozione al padre e alla nonna ha scelto vie criminali? E, ovviamente, non si chiede poi mai nulla su Pat, la donna inglese che si era trovata a cercare di capire cosa volesse dire entrare nella famiglia Serraino a Milano con una figlia destinata a far parte della ‘ndrangheta. Sicuramente avrebbe avuto molto da dire Pat, prima della sua morte nel 2012.

    Tabloid e pregiudizi

    Per i tabloid inglesi la storia di Marisa Merico, suo padre Emilio, sua nonna Maria e tutti gli altri personaggi, è interessante perché permette di consolidare sia i pregiudizi che si hanno sulla mafia – esterna – diversa – ‘fenomeno-che-non-ci-riguarda’ – seppur condita di un ingrediente in più, Blackpool, sia i pregiudizi sulle donne che commettono crimini e finiscono in carcere per questo.

    Per dirla diversamente, l’esperienza di Marisa come esperienza di donna, e madre, di Blackpool, che uscita dal carcere ha studiato e, sicuramente non senza fatica, ha provato a tenere insieme tante diverse identità, passate e presenti, e (tramite i suoi figli) anche future, passa in secondo piano rispetto alla sua esperienza come donna di ‘ndrangheta, come principessa di mafia, come detenuta speciale.

    Le donne appiattite

    E non solo; l’immagine di Marisa come “scolaretta” di Blackpool (“schoolgirl” nel titolo del Daily Mail) catturata nelle trame sinistre di un “sindacato criminale”, o come “un’ordinaria casalinga di Blackpool che si è trovata a gestire l’impero criminale di famiglia” (sul Mirror) ancora una volta appiattisce la realtà della criminalità al femminile su un’immagine della donna come vittima degli eventi e in balia di scelte che non comprende o che sono più grandi di lei.

    marisa-merico
    Marisa Merico (foto Chloe Dewe Matthews per il Sunday Times)

    In Bang Bang Baby, forse si fa un passo in più in questo senso, cioè si rimette al centro la storia di una donna complessa, mai totalmente condannabile ma nemmeno totalmente assolvibile. Però, il problema di narrare l’inglesità della protagonista è qualcosa che anche la serie italiana non sa recepire.

    Le mille identità scomparse di Marisa Merico

    La serie che racconta della teenager Alice (cioè Marisa) e delle sue esperienze criminali milanesi dal punto di vista fluido-pop della mente adolescente della sua protagonista, racconta la ‘ndrangheta ancora con tanti stereotipi (alcuni anche borderline razzisti sui calabresi a Milano, ma questa è un’altra storia…) e senza la dimensione inglese della sua protagonista, che invece viene fatta ‘partire’ dall’hinterland milanese. Sicuramente la storia di Marisa Merico, una storia che tenga insieme tutte le identità di questa donna, il suo accento inglese e il suo sangue calabrese, il suo essere figlia, madre, mafiosa, detenuta, studentessa universitaria, attivista, narratrice, non è stata ancora del tutto raccontata.

    mamma-eroina-bang-bang-baby-e-la-festa-degli-stereotipi
    Il cast di Bang Bang Baby
  • MAFIOSFERA| Rinascita-Scott: perché piace tanto alla stampa estera (e meno a quella italiana)?

    MAFIOSFERA| Rinascita-Scott: perché piace tanto alla stampa estera (e meno a quella italiana)?

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Il 21 aprile scorso, sui canali della Australian Broadcasting Corporation (ABC) per il programma Foreign Correspondent è andato in onda The Magistrate vs The Mob (Il Magistrato contro la Mafia), un documentario di 30 minuti sul maxiprocesso Rinascita-Scott. Preceduto da un articolo che ne delinea il contenuto, e con la professionalità che contraddistingue il programma e in particolare le produttrici di questo episodio, il documentario spalanca all’Australia le porte del Vibonese e della sua ‘ndrangheta ora a processo.

    Rinascita-Scott, il documentario australiano

    Con immagini mozzafiato catturate da un drone su Tropea e Capo Vaticano, per poi aggiungerci lunghe riprese su Vibo Valentia città, sulle campagne intorno a Limbadi, sui vicoli di Nicotera, l’episodio inizia dicendo «la Calabria è una terra di feroce bellezza». Il resto del documentario vede riprese a Catanzaro, con il procuratore capo Nicola Gratteri, a cui il maxiprocesso è notoriamente legato, nell’aula bunker di Lamezia Terme, costruita appositamente per Rinascita-Scott, e sul resto del territorio per incontrare vittime di poteri e soprusi mafiosi e anche ovviamente mostrare quella resistenza civile che, seppure ancora ai primi passi, dopo Rinascita-Scott si è sicuramente formata. Il risultato sono 30 minuti godibili, con belle immagini e note emotive, e anche, prevedibilmente, una serie di commenti stereotipati sui rapporti tra mafia e territorio.

    L’equivoco iniziale e il piano B

    Sono stata invitata a fornire una consulenza per il programma nel gennaio scorso. L’interesse dell’Australia per la ‘ndrangheta non è certo cosa nuova, visto che il paese conosce il fenomeno mafioso calabrese da quasi un secolo e – a volte con più serietà, a volte con molta meno attenzione – fa i conti con una ‘ndrangheta locale dalle molte sfaccettature. Ma i produttori non mi avevano contattato per la ‘ndrangheta australiana, bensì per Rinascita-Scott. «Ci sono dei collegamenti con l’Australia?», mi chiesero. Cercavano un aggancio alla loro ‘ndrangheta, che però in questo processo non c’è – o se c’è non appare affatto chiaro.

    pasquale_barbaro
    Il boss Pasquale Barbaro, ucciso a Sidney nel 2016

    Dopo aver precisato che questa era un’altra ‘ndrangheta – vale a dire un processo sulle dinamiche di clan mafiosi del Vibonese – che per quanto collegati alla ‘ndrangheta reggina, preponderante in Australia, non guardava precipuamente a queste connessioni – il programma è stato virato sul territorio ‘straniero’, sul processo, sul procuratore Gratteri (come rivela già il titolo), con buona pace della ‘ndrangheta australiana.

    Rinascita-Scott: Italia vs Resto del Mondo

    Questo documentario è l’ultimo di una lunga serie di articoli, video, interviste, reportage, che svariate televisioni e testate giornalistiche straniere hanno dedicato a Rinascita-Scott dal 13 gennaio 2021 quando il processo è formalmente iniziato. Decine di notiziari, in inglese, francese, tedesco, turco, spagnolo, portoghese. Anche dopo il gennaio 2021 l’interesse è rimasto alto, basti pensare al reportage di France24 titolato A trial for the history books (Un processo per i libri di storia) del gennaio 2022.rinascita-scott-fran

    Al contrario, sui giornali o sui canali di informazione italiani, a parte qualche notevolissima eccezione (pensiamo alla puntata di Presadiretta nel marzo 2021 dedicata al maxiprocesso), gli articoli si limitano primariamente alla cronaca, raramente sul nazionale, molto più spesso sul locale. Ed ecco che per alcuni l’interesse della stampa internazionale al processo è segno incontrovertibile che all’estero prendono sul serio l’antimafia e riconoscono il carattere destabilizzante di Rinascita-Scott, mentre in Italia questo non accade.

    La retorica su Gratteri

    Alcune malelingue poi mettono il carico da novanta, riconducendo il disinteresse italiano al processo (comparato all’attenzione dall’estero) a implicite prese di posizione ‘pro-Gratteri’ o ‘contro-Gratteri’. È questa una retorica di pessimo gusto, perché ovviamente non può e non deve esistere uno spazio del ‘contro-Gratteri’ in questo contesto, essendo il procuratore un bravo magistrato, al pari di tanti altri suoi colleghi, avendo egli la capacità (per alcuni il demerito) di dare alle istituzioni calabresi molta visibilità. Ma soprattutto un processo non si identifica mai con il Procuratore Capo della Procura che l’ha istruito. Specie questo processo che di procuratori, magistrati, funzionari, avvocati e, soprattutto imputati, ne ha davvero tanti.

    Quei maxiprocessi tutti italiani

    La domanda però sorge spontanea: qual è la ragione dei riflettori puntati dall’estero sul processo Rinascita-Scott, a confronto di un interesse molto più scarso in Italia? La risposta non è semplice; possiamo scomporla in quattro diverse componenti, tecniche e culturali.

    rinascita-scott-aula
    L’aula bunker del maxi processo calabrese

    Una prima componente sono i numeri e le caratteristiche del processo. Sicuramente vedere un processo con oltre 350 imputati, dozzine di avvocati, decine di collaboratori di giustizia, al punto da dover costruire un’aula bunker ad-hoc per contenerli tutti, non è spettacolo quotidiano. E uso appositamente la parola ‘spettacolo’. Se per l’Italia questo non è il primo né l’unico processo di grandi dimensioni – anche dopo il maxiprocesso di Palermo infatti ricordiamo Crimine-Infinito, Aemilia e altri processi con oltre 100 imputati – fuori dall’Italia questi numeri sono molto inusuali, se non impossibili, in un’aula di giustizia.

    La giustizia si fa spettacolo

    La giustizia (altrui, cioè la nostra in questo caso) si fa dunque spettacolo proprio per questo profilo di straordinarietà. Non scordiamoci poi che in molte giurisdizioni non esiste l’istituto per noi costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione legale. Soprattutto nei sistemi anglosassoni il pubblico ministero va a processo quando ha una quasi certezza di vittoria dell’accusa (altrimenti si patteggia o si archivia per mancanza di prove o per assenza di ‘interesse pubblico), per questo nel 90% dei casi vince e ottiene condanne.

    La tortuosità del sistema italiano, con processi abbreviati, ordinari, appelli, controappelli, rende difficile raccontare i processi, perché appunto non si sa come andranno a finire, se l’accusa reggerà oppure no, e di solito si dovranno aspettare molti anni per saperlo. Ma in questo caso il processo si può spettacolarizzare e non solo raccontare, e questo è più facile per gli stranieri che per noi italiani.

    L’eroe contro l’antieroe: Gratteri e Mancuso

    Una seconda componente è la simbologia della classica contrapposizione tra l’eroe e l’antieroe, e conseguente glorificazione del primo e dannazione del secondo. Non è un caso che i media esteri si focalizzino sul procuratore Gratteri. Come non è un caso che alcuni media italiani chiamino in causa quella retorica pro-Gratteri/contro-Gratteri di cui sopra. Sicuramente il procuratore capo di Catanzaro è l’incarnazione simbolica dell’antimafia in Calabria (e oltre), anche perché il suo lavoro è sempre stato diffusamente presentato al pubblico, oltre che nella sua attività di magistrato inquirente, anche a seguito del suo intenso impegno quale autore di libri e protagonista di interventi, dibattiti pubblici, eventi. Ciò favorisce la spettacolarizzazione di un processo che ne esalta l’operato, anche nel racconto delle sue difficoltà di uomo sotto scorta da decenni e ostracizzato da varie parti.

    luigi-mancuso
    Luigi “il Supremo” Mancuso

    All’eroe ecco poi affiancato l’antieroe, che in Rinascita ha un nome e un cognome, Luigi Mancuso, boss di Limbadi e della provincia, onnipresente in articoli e reportage esteri sul processo. Non è il solo boss a processo Luigi Mancuso. Non è neppure la prima volta che va a processo. Eppure spesso, parlando di lui, i media esteri danno a intendere che aver portato Mancuso, l’antieroe, a processo sia una delle vittorie dell’eroe, uno dei caratteri fondamentali di Rinascita. Le due facce, quella del magistrato e quella del boss, spesso affiancate, sono volti nuovi all’estero, meno in Italia e molto meno in Calabria, cosa che ovviamente rende più facile la narrazione giornalistica straniera.

    La ‘ndrangheta ovunque

    Una terza componente è poi la pervasività della ‘ndrangheta sul territorio come viene raccontata in Rinascita-Scott, soprattutto nei rapporti con la politica e le istituzioni. Ecco che all’estero si racconta dell’avvocato, ex-senatore, Giancarlo Pittelli, che accanto ad eroe ed antieroe rappresenta la corruttibilità del potere (e dunque aiuta anch’egli la spettacolarizzazione), e delle vittime, o famiglie delle vittime, della ‘ndrangheta sul territorio, come per esempio Sara Scarpulla e Francesco Vinci, genitori di Matteo Vinci ucciso da un’autobomba a Limbadi – vicenda per per cui alcuni membri della famiglia Mancuso sono stati ritenuti colpevoli.

    Limbadi-Vinci-i-calabresi
    Sara Scarpulla e Francesco Vinci, genitori del 42enne ucciso con un’autobomba a Limbadi

    Le vittime invocano, giustificano, l’intervento dell’eroe e rendono più nitida, ancor più stilizzata, la figura dell’antieroe. Fuori dall’Italia questi sono ingredienti fondamentali per creare una storia, mentre in Italia sono tutte cose già viste (purtroppo) nei grandi processi di mafia. I rapporti tra mafia e politica, mafia e vittime, mafia e istituzioni per l’Italia sono costanti delle vicende di mafia, ci si aspetta che emergano anche nei processi; così non è all’estero, dove mafia spesso è ancora ‘solo’ crimine organizzato.

    Paradossalmente la novità di Rinascita-Scott non è il presunto o reale rapporto tra mafia e politica o la pervasività delle famiglie sul territorio, ma semmai il contrario – cioè il fatto che il processo voglia confermare come certe dinamiche siano in corso e pervasive da decenni al pari di altri territori, come il reggino, in Calabria. Su LaC News, nel programma di approfondimento ‘Rinascita-Scott’, questo emerge non appena si inizia a parlare con vari ospiti e scavare negli archivi giudiziari.

    Pietro Comito conduce una puntata della trasmissione Rinascita-Scott su LaC Tv

    Gli stereotipi sulla Calabria

    E qui si arriva alla quarta componente, che è lo stereotipo della Calabria come terra meravigliosa e maledetta. Distante, fonte di nostalgia per i tanti migranti, ma impenetrabile. E soprattutto preda di una mafia potente che ne impedisce sviluppo e progresso. Questo stereotipo, che rende possibile ma non facile relazionarsi con la Calabria per chi non la conosce, non vi è nato o non la studia, assolve tanti (politici, cittadini…) e distorce il potenziale di questo processo. Se il problema è la mafia, certo portare a processo oltre 350 ‘mafiosi’ (perché non è facile poi capire a quanti e a chi tra gli imputati sono contestati reati di mafia) dev’essere un colpo mortale, no? Soprattutto se ci si aspetta, come detto sopra, che vengano condannati.

    La realtà è più complessa

    Per questo Rinascita diventa il processo per i libri di storia. Eppure così non è, come riconoscono sia alcuni magistrati che tanti rappresentanti della società civile, perché la mafia non è il ‘cancro’ di una società altrimenti sana, e l’antimafia giudiziaria non può essere l’unica ancora di salvezza.

    Tra esigenze mediatiche di riduzione della complessità e polemiche sul cono d’ombra informativo, questo processo probabilmente non è stato ancora trattato per come sarebbe auspicabile, tanto in Italia quanto all’estero. Senza spettacolarizzazione, riconoscendo la complessità del territorio, delle sue relazioni sociali e la difficoltà di ‘resistere’. D’altronde, questo non accade spesso anche per gli altri processi di ‘ndrangheta, o di mafia in generale? C’è poco da stupirsi allora.

  • MAFIOSFERA| Le nuove rotte della coca: i porti della ‘ndrangheta

    MAFIOSFERA| Le nuove rotte della coca: i porti della ‘ndrangheta

    Il 24 marzo 2022, la polizia federale brasiliana ha portato a termine un’operazione contro il narcotraffico durata tre anni, su tre stati: Paranà, Santa Catarina e São Paulo.
    Diciassette persone sono state arrestate con l’accusa di aver inviato tonnellate di cocaina in Europa dal porto di Paraguanà. Questo gruppo criminale, dice la polizia brasiliana, lavorava con un clan (non meglio specificato) di ‘ndrangheta che curava la logistica del trasporto del narcotico in Europa, per esempio dal porto di Le Havre in Francia, ma anche tramite gli scali spagnoli o tedeschi.

    I portuali al soldo delle ‘ndrangheta

    Come accade in molti casi simili, lavoratori portuali infedeli avrebbero aiutato fornendo informazioni e offrendo il proprio know-how portuale al gruppo criminale. Il narcotico veniva nascosto all’interno di vari compartimenti dei container – ad esempio nei vani frigo, oppure nascosto tra i sacchi di caffè o di frutta.

    Si usava anche il metodo del rip-on/rip-off, una tecnica che gli ‘ndranghetisti hanno pionieristicamente utilizzato sin dai tempi di Operazione Decollo negli anni ’90. Con la tecnica del rip-on/rip-off (che letteralmente significa “presa in giro” o “fregatura”) si nasconde la cocaina in borsoni che vengono poi piazzati all’interno del container all’insaputa di armatori, trasportatori e altri, per poi venir recuperati all’arrivo, sempre all’insaputa di chi ha ordinato il carico del container.

    'ndrangheta-coca-rotte-porti-amici-clan-i-calabresi
    Santos, in Brasile, è uno dei porti crocevia della coca

    A cercarlo sulla mappa, si nota subito perché proprio Paraguanà sia stato il porto prescelto per questa (apparentemente) nuova venture criminale. Quinto porto del Brasile, Paraguanà è situato proprio sotto il Porto di Santos, il porto più trafficato dell’America Latina e nella top 40 dei porti più grandi del mondo. Da Santos, dicono report e indagini di mezzo mondo, passa una delle rotte più importanti del traffico di cocaina verso l’Europa. E il primato per le importazioni, storicamente ormai, spetta ai broker dei clan di ‘ndrangheta. Da Paraguanà si muove anche il commercio dal Paraguay, che non ha suoi sbocchi sul mare e che ultimamente è diventata una nazione particolarmente interessata dal narcotraffico.

    In Operazione Pollino-European Connection, diretta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria nel 2018, si erano già documentati i viaggi che Domenico Pelle aveva effettuato in Brasile per incontrare esponenti broker e rappresentanti di vari cartelli del narcotraffico, con i quali pianificava e definiva le trattative per l’invio in Italia di varie partite di cocaina, in arrivo a Gioia Tauro.

    Nel 2019, a São Paulo, fu arrestato Nicola Assisi, considerato un broker di primo livello dei clan di ‘ndrangheta, soprattutto al nord Italia. Assisi, che era l’erede criminale di Pasquale Marando, altro broker di ‘ndrangheta, aveva contrattato col Primero Comando da Capital (PCC), un’organizzazione criminale brasiliana, per l’approvvigionamento e il movimento di cocaina sul porto di Santos verso l’Europa.

    I colletti bianchi

    E infatti, in Operazione Magma, sempre della procura di Reggio Calabria – che nel 2020 ha rivelato tra le altre cose, i contatti di alcuni associati dei clan a colletti bianchi in Argentina per facilitare la scarcerazione di Rocco Morabito ed evitarne l’estradizione – leggiamo che uno dei fornitori del gruppo facente capo al clan Bellocco di Rosarno, un certo Ruben, sta appunto in Brasile e utilizza proprio Santos come base del suo traffico.

    Lo stesso Carmelo Aglioti, imprenditore nel settore import-export associato del clan Bellocco (per cui curava gli affari del narcotraffico in America latina), che si era interessato alla vicenda di Rocco Morabito per conto della sua famiglia, informava un suo collaboratore: «Se ti dice Ruben che in questi giorni ha pronto qua… Se loro riescono a farla venire a Gioia Tauro … […] Ce l’hanno, ce l’hanno. […] Loro dicono di sì […] Ma non diretto da Buenos Aires, da Santos o da un altro porto!». E probabilmente si intende Paraguanà.

    'ndrangheta-coca-rotte-porti-amici-clan-i-calabresi
    Rocco Morabito, uomo di punta del potentissimo clan di Africo

    Le rotte della coca e i nuovi “varchi”

    Alla luce delle indagini degli ultimi anni tra Italia e Brasile, possiamo identificare quattro ingredienti chiave del narcotraffico, che aiutano anche a comprendere il ruolo della ‘ndrangheta nel mercato della cocaina.

    Innanzitutto, l’importanza di aprire “varchi”, di trovare “porte” d’ingresso – come si dice in gergo – negli scali portuali. Proprio per i volumi di merce in transito dai porti brasiliani, chiunque importi cocaina, dunque deve attrezzarsi per reperire uno o più broker che abbia accesso a tali scali. In questo, molti clan di ‘ndrangheta storicamente impegnati nel narcotraffico, si sono distinti, non solo procurandosi broker esteri, ma inviando proprio emissari che si sono poi “formati” all’estero e sono diventati broker di più clan dunque dominando il mercato. Se il broker riesce a trovare la porta d’accesso a un nuovo scalo, come nel caso del porto Paraguanà, questo influenzerà tutta la filiera di distribuzione.

    'ndrangheta-coca-rotte-porti-amici-clan-i-calabresi
    Le rotte della cocaina dai porti del Sudamerica fino allo scalo di Gioia Tauro

    In secondo luogo, è bene ricordare che le rotte della cocaina dipendono immancabilmente dalle rotte regolari delle merci. In questo senso, avere un varco, aprire una porta, in uno scalo che non ha rotte dirette o frequenti verso l’Europa, non serve a molto. Anche gli ‘ndranghetisti dunque, per quanto capaci, devono adattarsi alla legge del mercato (legale).

    Nelle intercettazioni di operazione Magma, un associato di Aglioti ritiene di non essere più sicuro di far giungere future importazioni sfruttando le rotte con scalo in Brasile delle navi cargo dirette a Gioia Tauro a causa, verosimilmente, dei sequestri degli ultimi anni. Si propone quindi un nuovo canale di spedizione mediante l’occultamento su navi cariche di carbon fossile in partenza dalla città colombiana di Santa Marta, ma con destinazione i Paesi Bassi. «[…] Navi … non
    esiste più! (intende dire navi porta container con destinazione Gioia Tauro, ndr) […] Non esiste più … non c’è … […] Se poi ti dice con la nave carbone … trovano lo spazio nella nave carbone … solo nave carbone … ma Amsterdam o Rotterdam […] Partono da Santa Marta! […]».

    'ndrangheta-coca-rotte-porti-amici-clan-i-calabresi
    La “roba” sequestrata dalle forze dell’ordine in attesa di essere distrutta

    Due porti “sicuri”: Le Havre e Gioia Tauro

    Terzo, per poter concludere l’importazione, è necessario avere la capacità di muoversi velocemente anche negli scali di arrivo, anche qualora questi cambino, se cambiano le rotte oppure se il carico è a rischio intercettazione. Ci conferma sempre Aglioti in operazione Magma di quanto sia necessario non solo avere i fornitori in America Latina, ma anche avere chi si occupa dello spostamento della cocaina una volta arrivata al porto di destinazione, qualunque esso sia, in Europa.

    Se l’organizzazione criminale riesce ad assicurarsi varchi all’origine e logistica alla destinazione, l’operazione sarà più sicura. «Noi abbiamo un altro porto sotto mano … “LE HAVRE”, sai dov’è Le Havre? In Normandia, in Francia. Io, prima di partire sono venuti due francesi di là …(incomprensibile) … coi calabresi […] “se voi mandate la roba là, dalla Francia, ve l’assicuriamo noi che la portiamo via dal porto! Al 100%!” … dal porto di Le Havre, dal porto internazionale di Le Havre. Quindi c’hanno 2 porti sicuri in questo momento, Gioia Tauro … [e Le Havre]».

    La reputazione della ‘ndrangheta

    La capacità di adattarsi ai cambi di rotta (letterali a volte) e l’abilità nel forgiare legami sia nei paesi fornitori che negli scali fondamentali per la logistica dell’arrivo sono fondamentali per quei clan di ‘ndrangheta che importano cocaina. Sono questi legami e queste capacità che rendono la mafia calabrese “conosciuta” in questo settore e ne forgiano la “reputazione”. Non bisogna dimenticare, da ultimo, un ulteriore fondamentale ingrediente che rende tutto questo possibile, e cioè la disponibilità di denaro.

    Serve molto denaro per operare a questi livelli. E in questo la reputazione acquisita aiuta gli ‘ndranghetisti. Aglioti conferma di essersi guadagnato la fiducia dei fornitori a tal punto che questi gli concedevano di inviare le partite di stupefacente previo pagamento in anticipo solo del 50% dell’intero valore «[…] tu paghi il 50%, il 50% a nostro carico, a nostro carico. In più, tu metti uno, noi mettiamo due. Tu metti dieci, noi mettiamo venti. Tu metti 50, noi mettiamo cento. Ne paghi 50, poi il resto è vostro», tutto il resto. Perché una volta andavano lì e compravano in conto vendita.

    E dunque, cambieranno ciclicamente le rotte, cambieranno anche le modalità di accesso agli scali portuali, si apriranno nuovi varchi, e si inventeranno nuove modalità di spedizione. Ma fintanto che ci sono domanda, offerta, denaro da investire e reputazione criminale, i clan di ‘ndrangheta che lo vorranno continueranno a scegliere il mercato della cocaina.

  • MAFIOSFERA| Al servizio di sua maestà, il re della cocaina: i fixer e Rocco Morabito

    MAFIOSFERA| Al servizio di sua maestà, il re della cocaina: i fixer e Rocco Morabito

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Rocco Morabito, detto U Tamunga verrà estradato in Italia. Così ha deciso la prima sezione della Corte Suprema Brasiliana il 9 marzo scorso, approvando la richiesta di Roma. Ci sono voluti 10 mesi dall’ultimo arresto di U Tamunga, nel maggio del 2021, a Joao Pessoa in Brasile. E ci sono anche delle condizioni per l’Italia: la detenzione di Morabito non potrà durare più di trent’anni e si dovrà tener conto anche del tempo già trascorso in carcere precedentemente.

    morabito
    Rocco Morabito negli anni ’90 e al momento dell’arresto in Sud America

    Narcotrafficante e membro apicale del clan omonimo di Africo, sulla costa ionica reggina, Morabito era stato condannato in Italia nel 1994 in seguito all’Operazione Fortaleza. Trenta gli anni di carcere per associazione mafiosa e traffico di stupefacenti, dall’America Latina alla Calabria e, soprattutto, nel Milanese. Secondo InsightCrime il reggino avrebbe forgiato una collaborazione tra la ‘ndrangheta e il Primeiro Comando da Capital – PCC, un network para-mafioso brasiliano dominante, tra le altre cose, nel traffico di cocaina.

    U Tamunga, il re della cocaina

    rocco-morabito-documenti-falsi
    Il documento falso ritrovato a Rocco Morabito

    U Tamunga rimane latitante fino al 2017 quando fu catturato a Montevideo, in Uruguay. A quanto pare aveva vissuto lì per 15 anni sotto falsa identità; aveva ottenuto documenti uruguaiani presentando certificati brasiliani con il falso nome di Francisco Antonio Capeletto Souza, nato a Rio de Janeiro. Durante i suoi 23 anni di latitanza, conosciuto come il “Re della Cocaina”, era considerato il secondo latitante italiano più pericoloso dopo il siciliano Matteo Messina Denaro.

    L’evasione e il nuovo arresto: dall’Uruguay al Brasile

    Rocco Morabito si è fatto conoscere anche per la sua rocambolesca evasione dal carcere con altri tre detenuti nel 2019. Dopo essere fuggito da un passaggio che portava direttamente sul tetto del carcere di Montevideo, insieme agli altri tre compagni di evasione, U Tamunga si sarebbe introdotto in un appartamento al quinto piano di un palazzo vicino. Avrebbe quindi derubato la donna che ci viveva per poi scappare in taxi.

    rocco-morabito-ricercato-uruguay
    Rocco Morabito e i suoi tre compagni di fuga

    Dopo oltre un anno passato lungo la Triple Frontera tra Brasile, Argentina e Paraguay, secondo IrpiMedia, viene ricatturato dalla polizia brasiliana nel maggio 2021 grazie a una partnership promossa da Interpol, I-CAN (Interpol Cooperation Against the ‘Ndrangheta). I-CAN, un programma voluto, sostenuto e guidato dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza in Italia, ha altri 11 stati partner in giro per il mondo:

    • Stati Uniti
    • Australia
    • Canada
    • Brasile
    • Argentina
    • Germania
    • Svizzera
    • Colombia
    • Francia
    • Spagna
    • Uruguay

    Al servizio di sua maestà Rocco Morabito

    E proprio grazie all’Interpol e ad I-CAN un altro tassello si aggiunge alla parabola di Rocco Morabito con l’Operazione Magma. A guidarla è la procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria e si concentra sui traffici di stupefacenti del clan Bellocco di Rosarno in America latina. Nell’estate del 2020 – in seguito a sei arresti guidati da Interpol tra Argentina, Costa Rica e Albania – Magma ha rivelato come Carmelo Aglioti, un imprenditore nel settore import-export associato del clan Bellocco (per cui curava gli affari del narcotraffico in America latina) si stesse impegnando anche per conto del clan Morabito, per trasferire 50.000 euro in Uruguay per facilitare la liberazione di Rocco Morabito. Dopo il suo arresto a Montevideo nel 2017 per la famiglia Morabito bisogna evitare l’estradizione.

    Rocco Morabito scortato dalla Polizia brasiliana

    Questa estradizione non s’ha da fare

    Aglioti agiva dunque per conto di Antonio Morabito, cugino di Rocco, U Tamunga: «Il cugino vostro, per riciclaggio è? […] Quindi, il motivo … per cui bisogna fare tutte questa operazione … pi mu staci ddocu (per farlo stare in quel luogo, ovvero in Uruguay, ndr) quindi non estradato qui in Italia, giusto!? […] Di farlo rimanere là! Perché i reati contestati là (Uruguay, ndr) non sono gli stessi di qua, giusto o no!? […]». E Antonio Morabito confermava «[…] Mh mh … questa è la prassi che stiamo cercando di fare! […]».

    L’avvocato del diavolo

    I messaggi whatsapp su un’utenza in uso ad Aglioti rivelano i contatti dello stesso Aglioti con Fabio Pompetti, avvocato italiano residente in Argentina, arrestato nel luglio 2020 a Buenos Aires per operazione Magma con I-CAN. «Mi hanno contattato delle persone per dirmi se conoscevo un avvocato in Uruguay, io gli ho fatto il tuo nome perché hanno bisogno di essere assistiti per un loro parente che si trova carcerato in Uruguay. Questi sono persone che pagano, praticamente e lo stesso problema di cui ti sei occupato in passato capito?». «Tutto ok per le tue persone in Uruguay. Mi devo muovere con molta cautela», risponderà Pompetti.

    Un caso, tre temi

    Il caso di Rocco Morabito offre spunti di analisi su tre temi interconnessi:

    1. le sfide alla cooperazione internazionale per finalità di polizia;
    2. la natura della ‘ndrangheta all’estero;
    3. il ruolo dei fixer in località come Argentina, Uruguay o Brasile, strategiche per gli affari dei clan.

    Indagini: serve collaborare e in fretta

    I-CAN è un progetto sicuramente innovativo, il cui massimo impegno sta nel facilitare la comunicazione tra paesi e forze di polizia molto diverse tra loro. Quando si tratta di fare indagini transnazionali o transcontinentali infatti il problema primario, soprattutto fuori dall’Europa, rimane la difficoltà delle istituzioni nei vari paesi coinvolti di comunicare velocemente e altrettanto velocemente condividere dati e intelligence.

    È necessario valorizzare, come cerca di fare I-CAN, team di indagine unitari che dall’inizio dei lavori possano condividere ipotesi e dati. Soprattutto perché, e qui arriviamo al secondo spunto di analisi, la ‘ndrangheta all’estero non ha sempre la stessa faccia. Ed è necessario non solo saperlo ma ipotizzare quale faccia ci si possa trovare davanti.

    rocco-morabito-chi-proteggeva-re-della-cocaina-sud-america-i-calabresi
    Milano, la provocazione di Klaus Davi, Pasquale Diaferia e Alberto Micelotta all’indomani dell’arresto di Morabito in Uruguay

    Rocco Morabito e la ‘ndrangheta all’estero

    Prendiamo il caso di Rocco Morabito. Abbiamo un soggetto, Aglioti, che – da associato di un clan tirrenico, i Bellocco – si pone come intermediario per un clan della ionica, i Morabito, grazie alla sua frequentazione di alcuni luoghi, nello specifico Uruguay e Argentina. «No, basta che li avvisano… non c’è problema! Buenos Aires e Uruguay sono due passi, con il traghetto si fa… arrivi a Rio de La Plata e vai fino a Buenos Aires e viceversa!»; Aglioti dimostra di conoscere i paesi in cui egli stesso fa affari. E sa dare consigli a riguardo a chi li chiede, nel suo clan o in altri clan. Questo rende alcuni soggetti particolarmente importanti all’estero.

    La ‘ndrangheta all’estero, infatti, non si presenta mai come un’organizzazione fissa, pre-strutturata e razionale, dunque prevedibile. Occasioni e opportunità individuali per i singoli clan dipendono in larga misura dalla capacità e dalla reputazione internazionale di alcuni soggetti in supporto ai clan; il tutto ovviamente si adatta di volta in volta a cosa conta nei contesti di destinazione, che sia denaro, potere o anche il capitale relazionale di individui e di associati.

    Fixer e broker: un aiuto oltreoceano

    Lo spaccato di Operazione Magma che riguarda Rocco Morabito e il tentativo (vano) della sua famiglia di proteggerlo dall’estradizione ci racconta anche altro. E cioè che è grazie alla figura del fixer – colui che aiuta i clan nelle questioni specialistiche – oltre che alla figura del broker – colui che aiuta i clan negli affari – che si mantiene un piano criminale oltre oceano. Quando il fixer e il broker sono la stessa persona, o sono molto legati come a Buenos Aires sono Fabio Pompetti e il suo ‘collaboratore’ Giovanni Di Pietro (alias Massimo Pertini) – che si occupava anche della gestione del narcotraffico per vari clan calabresi – allora si garantisce la continuità del servizio e dunque la possibilità di espanderlo a più gruppi criminali.

    Pantaleone-Mancuso
    Pantaleone Mancuso

    Non manca di far notare, Aglioti, che la ragione per cui si è rivolto a Pompetti è perché l’avvocato italo-argentino aveva già dimostrato di poter gestire questioni simili a quella di Rocco Morabito. «Dato che allora hanno fermato qua, a coso qua … a Mancuso …… l’ha cacciato lui (lo ha fatto uscire lui, ndr) … per riciclaggio, praticamente» Il riferimento è a Pantaleone Mancuso, estradato in Italia, dall’Argentina, a febbraio del 2015. Per la sua assistenza legale si sarebbe attivato proprio Pompetti insieme ad altri soggetti vicini ai clan della tirrenica.

    Non solo Rocco Morabito

    Tra colletti bianchi che diventano fixer, opportunità di fare affari sia nel legale che nell’illegale grazie a broker che utilizzano i contatti con la nutrita comunità migrante per diversificare il proprio operato, non è difficile vedere come per certi clan, con disponibilità di soldi e uomini, alcuni paesi possano diventare territori chiave.

    Rocco Morabito, uomo di punta del potentissimo clan di Africo era il secondo latitante più pericoloso d’Italia

    Rocco Morabito verrà estradato in Italia, ma a preoccuparci adesso dovrebbero essere i contatti che ha forgiato e dunque avviato in paesi come Uruguay, Argentina e Brasile. Quei contatti lo hanno protetto per anni, da latitante o da evaso, e potrebbero proteggere altri come lui, se a chiederlo sono le persone col giusto know-how.

     

  • MAFIOSFERA| ‘Ndranghetisti per caso: i free-riders canadesi sfidano Cosa nostra

    MAFIOSFERA| ‘Ndranghetisti per caso: i free-riders canadesi sfidano Cosa nostra

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    «C’è un vecchio conflitto che ancora persiste tra siciliani e calabresi nella criminalità organizzata locale». A dirlo è stato Guy Lapointe, Ispettore Capo della Sûreté du Québec, polizia provinciale del Quebéc. Siamo in Canada, e più precisamente nella capitale dello Stato francofono, la bellissima Montreal. Da fine gennaio 2022 si sta svolgendo un processo contro Dominico (sic!) Scarfo. Un capitolo importante di una guerra di mafia che da decenni non sembra ancora voler finire.

    rizzuto-potere-sesta-famiglia-sfidato-ndrangheta-free-rider-i-calabresi
    Domenico Scarfo in foto nell’articolo apparso su Montreal Gazette

    Morti ammazzati in Quebec

    Dominico Scarfo, Guy Dion con sua moglie Marie-Josée Viau, e Jonathan Massari furono arrestati nell’ottobre del 2019 in seguito ad un’operazione – Project Preméditer – della polizia provinciale del Quebec, Sûreté du Québec. I quattro vennero accusati degli omicidi di Lorenzo Giordano e Rocco Sollecito, entrambi morti ammazzati a Laval, una cittadina alle porte di Montreal, nel 2016, e dei fratelli Giuseppe e Vincenzo Falduto, scomparsi nello stesso anno.

    rizzuto-potere-sesta-famiglia-sfidato-ndrangheta-free-rider-i-calabresi
    Rocco Sollecito è stato ucciso nel 2016

    Sotto l’ombra di Vito Rizzuto sul Canada

    Rocco Sollecito era notoriamente associato alla famiglia criminale montrealese per eccellenza, i Rizzuto. Suo figlio, Stefano Sollecito, è riconosciuto come il boss della famiglia. Anche Lorenzo Giordano era loro luogotenente, mentre i fratelli Falduto erano aspiranti membri di questo sottobosco criminale nato intorno alla figura e all’aura di Vito Rizzuto.

    Vito Rizzuto, morto nel 2013 più di chiunque altro ha impersonato la figura del mafioso siciliano in Canada. Legata originariamente a Cosa nostra siciliana e, in seguito, ai gruppi mafiosi Italo-Americani di New York, la famiglia utilizza ancora l’eredità di Vito come moneta corrente a Montreal e nel resto del Canada.

    La guerra di mafia tra siciliani e calabresi

    La polizia afferma che a capo della cellula criminale contro i Rizzuto, c’erano dei calabresi, i fratelli Salvatore e Andrea Scoppa. Chiaramente sangue chiama sangue nella mafia: Salvatore Scoppa viene ucciso nello Sheraton Hotel a Laval nel maggio 2019 e Andrew Scoppa sarà fatto fuori in un parcheggio a Pierrefonds-Roxboro a ottobre dello stesso anno. Nel processo contro Scarfo la Corte ha appreso come i fratelli Scoppa, della fazione calabrese, fossero sempre più interessati a consolidare il loro potere criminale e per farlo avrebbero deciso di far fuori i siciliani. La guerra di mafia tra siciliani e calabresi, anche nel suo ultimo capitolo, è ancora una guerra per il territorio, per anni dominato dai Rizzuto, e la protezione/estorsione di quel territorio.

    Non è la prima volta che a Montreal si formano quelle che le autorità chiamano le fazioni criminali siciliane e calabresi nella mafia italiana. Anzi, questa polarità sembra essere la normalità della capitale del Québec. L’ascesa al potere dei Rizzuto si è fondata su una faida coi calabresi, il clan Cotroni-Violi, originari di Mammola e Sinopoli, su cui i Rizzuto hanno primeggiato negli anni Settanta.

    Nel 2011, l’omicidio di Salvatore Montagna (siciliano e membro di spicco dei Bonanno di New York legato ai Rizzuto) fu l’apice di una guerra intestina all’interno del gruppo Rizzuto, in un momento in cui Vito era in carcere negli Stati Uniti, che portava ancora il segno di quella vecchia faida tra calabresi e siciliani. Per la morte di Montagna in carcere finì Raynald Desjardins, addirittura un mafioso non italiano, ma ancora molto influente a Montreal nelle fila della mafia italiana, in vari periodi opposto a Rizzuto e vicino alle fazioni “calabresi”.

    Un articolo de La Presse, giornale canadese, in cui si parla dell'omicidio di Rocco Sollecito-i-calabresi
    Una bara d’oro per Nick Rizzuto, figlio del boss Vito Rizzuto

    C’entrano poco Cosa nostra e la ‘ndrangheta

    Se l’origine del conflitto tra i Rizzuto e i Cotroni-Violi negli anni ’70 poteva essere ancora letta all’interno di dinamiche regionali – in quel magma indistinto che diventa la mafia italiana all’estero – al 2022 questo conflitto tra calabresi e siciliani non sembra più giustificabile in termini di appartenenza regionale. Chi si uccide in queste lotte di mafia sul territorio di Montreal ha di solito discendenza, ma non origine, calabrese o siciliana o italiana.

    C’entra poco Cosa nostra siciliana, molto poco anche la ‘ndrangheta calabrese, che pure esiste in Canada, con identità distinta anche se ibrida. Quando gruppi di ‘ndrangheta compaiono sulla scena – ad esempio quelli nell’area di Toronto legati ai clan di Siderno spesso di interesse delle procure antimafia italiane – non sembrano trovare in Montreal il loro campo di gioco.

    I clan mafiosi “italiani” a Montreal, e un po’ in tutto il Canada (si pensi ad esempio alla città di Hamilton e alla sua mafia doppia, mista ed eterogenea) sono molto compositi; la loro italianità è sempre negoziabile. Quando c’è origine calabrese tra i mafiosi di Montreal è di solito soltanto una questione di “luogo di nascita” e non di socializzazione o appartenenza culturale; in molti casi la migrazione dalla Calabria avviene nei primi anni di vita. Gli stessi fratelli Scoppa, dalle non meglio precisate origini calabresi, rimasero saldamente ancorati alle beghe criminali locali di Montreal, con pochi contatti, e nemmeno rilevanti, con gli ‘ndranghetisti del vicino Ontario o in Calabria, e molti contatti con gruppi libanesi, messicani, greci, a seconda del business criminale – cocaina principalmente – di riferimento.

    Vito Rizzuto, capo della Sesta Famiglia, morì a Montreal nel 2013

    Dichiararsi calabresi ha una valenza identitaria

    In questi casi, il dichiararsi calabrese, e lo stare contro i siciliani, ha una valenza identitaria. I mafiosi, per riconoscersi ed essere riconosciuti, si affidano a un capitale simbolico contestualizzato. Nel contesto di Montreal, la faida Rizzuto vs Cotroni-Violi rappresenta la resistenza al potere dei Rizzuto, ergo è ipotizzabile che chiunque voglia ripercorrere, per qualsiasi ragione, un percorso di contrasto al clan reggente, lo faccia evocando quel conflitto siciliani vs calabresi, di facile riconoscimento, e simbolico, per tutti i mafiosi, o aspiranti tali, del luogo.

    Il free-rider della ‘ndrangheta a Montreal

    Ma c’è di più in questa regionalizzazione del conflitto mafioso in Quebec. C’è infatti la sedimentazione della narrazione, passata e presente. Si può dire, in studi criminologici, che la narrazione contribuisca a creare il fenomeno criminale. La narrazione costitutiva a Montreal è sicuramente quella relativa alla potenza incontrastata dei Rizzuto e all’aura carismatica del suo leader Vito, nonostante la sua morte ormai quasi decennale.

    Eppure, Dominico Scarfo – che spesso cita il film Il Padrino, a cui forse è dovuta la sua fascinazione per il sistema mafioso – avrebbe dichiarato di appartenere alla ‘ndrangheta, sebbene non sembri avere legami strutturali con i clan di ‘ndrangheta sul territorio o fuori dal Canada. Scarfo, il cui nome denota discendenza ma non origine calabrese, è quello che potrebbe definirsi un free-rider della mafia calabrese, oggi brand vincente anche in Canada.

    rizzuto-potere-sesta-famiglia-sfidato-ndrangheta-free-rider-i-calabresi
    Domenico Scarfo in un articolo apparso sul giornale canadese La Presse

    Ecco, quindi, che alla narrazione criminale primaria se ne aggiunge un’altra secondaria, ma non meno costituente e costitutiva del fenomeno criminale: quella della ‘ndrangheta. La mafia calabrese, considerata e presentata – a torto o a ragione – come la mafia più potente in Italia e quella più presente sul panorama internazionale, costituisce un’alternativa credibile al potere dei Rizzuto. Soprattutto, proprio a Montreal, dunque può diventare una nuova bandiera identitaria per quei “calabresi” che si schierano contro i siciliani.

    Un’ultima annotazione: sottovalutare questo fenomeno dei free-riders (chi potrebbe poi smentirli!) senza dare a queste narrative il giusto peso analitico, rischia di rinvigorire sia la forza percepita della ‘ndrangheta, sia il noto stereotipo etnico sugli italiani, mafiosi all’estero. In entrambi i casi questa narrativa costituirebbe una versione distorta della realtà criminale.

    Anna Sergi

    Professoressa di Criminologia nell’Università dell’Essex