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Mafiosfera. Un’analisi criminologica di ‘ndrangheta vicina e lontana, in Calabria, in Italia e in giro per il mondo. Per sfatare qualche mito sul potere e sulla mobilità della mafia calabrese nel mondo; per fermarsi a riflettere sulla cronaca con occhi più attenti e consapevoli; per narrare di mondi criminali senza ridurne la complessità.

  • MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta compie 100 anni

    MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta compie 100 anni

    Cento anni fa la nave Re d’Italia lasciava il porto di Genova e il 18 dicembre 1922 arrivava al porto di Fremantle, borgo marino vicino a Perth, la capitale dell’Australia Occidentale. Da Fremantle, la nave proseguì poi verso Adelaide, nell’Australia Meridionale, poi verso il Nuovo Galles del Sud, a Sydney, e infine a Melbourne, nello stato di Victoria nel nuovo anno (1923). In ognuno di questi porti, tra gli oltre mille passeggeri italiani, scesero tre calabresi, Antonio Barbara (spelling errato per Barbaro), Domenico Antonio Strano e Antonio Macri (spelling errato per Macrì).

    Front Page King of Italy, National Archives of Australia

    Australia: la ‘ndrangheta più longeva del mondo

    Cosa avevano in comune questi tre soggetti? E perché ne spulciamo ancora nomi e dati negli archivi nazionali a Canberra? Antonio Macri(ì) avrebbe fondato il locale di Perth; Domenico Antonio Strano rimarrà nel nuovo Galles del Sud, dove, si dice, morirà nel 1965 con funerali sontuosi. Infine, Antonio Barbara(o) conosciuto come The Toad (il Rospo), sceso ad Adelaide, si sposterà a Melbourne dove sarà una figura singolare nel mondo criminale cittadino. La relazione di una squadra d’indagine guidata da Colin Brown nel 1964 per l’Australian Security Intelligence Organisation e intitolato The Italian Criminal Society in Australia dirà che è proprio con la Re d’Italia che arrivò l’Onorata Società down under, in Australia. Tutti e tre i nostri uomini sono conosciuti – o meglio raccontati – come i fondatori della ‘ndrangheta in Australia. La ‘ndrangheta d’esportazione più longeva del mondo.

    Una pagina del report firmato da Brown

    Three is a magic number

    Chi conosce anche solo le basi della mafia calabrese avrà già forse sorriso. Tre sono i cavalieri spagnoli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che avrebbero fondato la mafia in Italia partendo proprio dalla Calabria. Sempre tre sono gli individui della ‘copiata’ nei locali di ‘ndrangheta: il contabile, il capo-locale e il capo-crimine che insieme gestiscono le doti sul territorio. Così come tre sono i mandamenti della ‘ndrangheta reggina che confluiscono nella Provincia. E tre sono anche i personaggi su cui giura(va)no i Santisti: Garibaldi, Mazzini, La Marmora. Insomma, nella numerologia della ‘ndrangheta, (e non solo) il numero tre è trinità e fa storia quanto leggenda.

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    Osso, Mastrosso e Carcagnosso

    Tra storia e leggenda

    Come in tutte le leggende, anche in quella della fondazione della ‘ndrangheta in Australia c’è un fondo di verità storica, oltre all’arrivo comprovato della nave Re d’Italia nel 1922. Le storie su Antonio Barbara(o), per esempio, ci raccontano di come appariva la ‘ndrangheta dei primordi a Melbourne. Barbara(o) fu arrestato varie volte a Melbourne: nel 1926 per stato di ubriachezza; nel 1929, per aggressione; nel 1936, per la vendita di alcolici senza licenza. Per tutti questi reati fu condannato a pagare pene pecuniarie o scontare qualche settimana di carcere, ma nel 1937 fu condannato a 5 anni per omicidio colposo di una donna vicino al Queen Victoria Market, noto mercato di frutta e verdura della città.

    È arrivato un bastimento carico di… calabresi

    Non è inusuale, soprattutto in quegli anni, che l’Onorata Società si faccia vedere con reati contro l’ordine pubblico, e l’escalation fino all’omicidio sarebbe in linea con il profilo di uno ‘ndranghetista in crescita. Barbara(o), infatti, si dedica anche ad altre attività più “organizzate”. Ad esempio, gli archivi ci raccontano che ‘il Rospo’, all’inizio degli anni Cinquanta, aveva ideato un sistema fraudolento per far arrivare alcuni suoi conterranei dalla Calabria, Platì e zona aspromontana per la precisione, verso l’Australia. Lavorando in un ufficio per l’immigrazione, utilizzava nomi di Italiani già sul territorio per contraffare richieste di sponsorizzazione, senza che questi lo sapessero.

    Il primo omicidio di ‘ndrangheta in Australia

    Ma Barbara(o) il Rospo è coinvolto anche in quello che, molto probabilmente, è il primo omicidio legato alla ‘ndrangheta in Australia; si tratta dell’omicidio di Fat Joe (Joe il Grasso) Versace, i cui documenti giudiziari sono stati desecretati solo nel 2020, 75 anni dopo. Siamo in una sera d’ottobre del 1945 nel quartiere Fitzroy di Melbourne. Quattro uomini stanno giocando a carte e bevendo birra a casa di Antonio Cardamona: Michele Scriva, Giuseppe Versace, Domenico De Marte e Domenico Pezzimenti. Tutti immigrati calabresi, tutti impiegati in attività del mercato di frutta e verdura. In seguito a una lite, Pezzimenti avrebbe attaccato Versace con un coltello. Novantuno ferite, alcune post mortem; una ferocia bestiale, l’avrebbe definita il coroner.

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    La morte di Fat Joe Versace sulle pagine di The Truth del 4 novembre 1945

    Una questione di donne?

    Sembra essere una questione di donne. Honneth Edwards era la compagna di Joe Versace, e sua sorella Dorothy Dunn era uscita un paio di volte con Pezzimenti, il quale però l’aveva insultata dicendole che «puzzava più di sua sorella». Dorothy e Honneth si sarebbero dunque lamentate con Joe e tanto sarebbe bastato per far iniziare una lite tra i due uomini. Dopo l’omicidio, Cardamone prima, Pezzimenti e De Marte poi, decisero di andare a raccontare quanto avvenuto alla polizia – accusando principalmente Pezzimenti di aver colpito Versace, ma allo stesso tempo confermando che era stata auto-difesa.

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    Antonio Barbaro riconosce il cadavere di Fat Joe Versace. Il documento riporta anche i suoi precedenti penali in Australia

    Scriva venne intercettato poco dopo a casa sua, intento a lavar via il sangue dai vestiti. Versace, dissero i tre calabresi, era notoriamente un poco di buono, un uomo violento e spesso in possesso di armi, era uno che portava guai. Tra le sue frequentazioni c’era Antonio Barbara(o). Sarà proprio lui, il Rospo, uscito dal carcere da poco in seguito alla sentenza per omicidio, a identificare Versace all’obitorio. Aveva lavorato con Versace e i due erano amici.

    Confessioni che non tornano

    Ci sono però varie cose che non tornano in questo caso. Innanzitutto, colpisce lo zelo delle confessioni: in quel periodo i calabresi, e gli italiani più generalmente, non erano molto in confidenza con le forze dell’ordine australiane; spesso vittime di discriminazione e ancora più spesso di pregiudizio, la comunità migrante era notoriamente reticente in quegli anni a collaborare con la giustizia, figuriamoci a farlo volontariamente. Inoltre, le confessioni sembrano in qualche modo artefatte, soprattutto perché non spiegano come sia stato possibile che, da una semplice lite tra due uomini, si fosse arrivati al corpo della vittima sfigurato, «con lo stomaco di fuori, e con larghe ferite sulla faccia e sulla testa», per citare le annotazioni dei detective. Queste ferite sanno di punizione precisa. E poi, il sangue trovato sugli abiti di Scriva e degli altri suggeriscono che probabilmente tutti i presenti erano intervenuti nella lotta.

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    Una foto scattata sulla scena del delitto

    Il Rospo, il Papa e la ‘ndrangheta in Australia

    Insomma, che fosse un’escalation di violenza dovuta a una rissa per donne, o che ci fossero altre motivazioni alla base di tale lite, fatto sta che la presenza di Barbara(o) a sancire la morte di Versace non sembra casuale. Antonio Barbara(o) da lì a poco diventerà uno degli uomini più (ri)conosciuti dell’Onorata Società a Melbourne. Partner del capo Domenico Italiano, detto il Papa, e fino alla morte di entrambi nel 1962, questo gruppo mafioso cittadino sarà responsabile di una serie di eventi violenti, estorsivi, fraudolenti e legati a questioni di “onore” all’interno di una ristretta comunità di calabresi che lavorava nel mercato ortofrutticolo.

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    1962, I funerali di Domenico “The Pope” Italiano

    Alla morte di Italiano e di Barbara(o) e nel vuoto di potere che essi lasciarono, scatterà una guerra di mafia, meglio conosciuta come The Queen Victoria Market Murders – gli omicidi del mercato Queen Victoria. La ‘ndrangheta delle origini, dalla Re d’Italia, era ormai cresciuta. Ma questa, e per i decenni a venire, è un’altra storia.

  • MAFIOSFERA| Pizza&Coca connection: ‘ndranghete d’Europa

    MAFIOSFERA| Pizza&Coca connection: ‘ndranghete d’Europa

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    Nella prima settimana di dicembre, due eventi ci raccontano le ‘ndranghete d’Europa. Al plurale, le ‘ndranghete, perché se non si guardano tutti gli aspetti di questo fenomeno criminale (e sociale) e ci si accontenta della conclamata ‘ndrangheta unitaria – versione da processo necessaria quanto incompleta in realtà – non se ne capisce l’evoluzione. In Europa, in questi primi giorni di dicembre, c’è una storia sulla ‘ndrangheta austriaca impegnata (parrebbe) nel riciclaggio di denaro e una storia sulla ‘ndrangheta imprenditrice della cocaina coinvolta con una rete di importazione tra le più influenti degli ultimi anni. Che differenza e che rapporto c’è tra queste ‘ndranghete? E soprattutto, che ruolo hanno queste ‘ndranghete nei più ampi mercati (criminali) europei?

    I clan e il made in Italy: l’ultimo caso in Austria

    Andiamo con ordine. Entrambi gli eventi appaiono sui giornali il 6 dicembre. Quel martedì, di mattina, i giornali austriaci riportano un imponente raid antimafia nei dintorni di Linz, Leonding e Gallneukirchen, nell’Alta Austria. Centoventi agenti tra la polizia federale (BKA) e la polizia locale, hanno perquisito 14 locali, tra cui appartamenti, pizzerie, uffici, concessionarie d’auto. Non ci sono arresti, ma al centro dell’indagine è un ristoratore italiano, calabrese di Tropea, già noto alle forze dell’ordine, e di interesse della procura antimafia di Catanzaro che ha richiesto assistenza giudiziaria per questo caso.

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    Non è la prima volta, e non sarà l’ultima, che si avanza l’ipotesi d’indagine che dietro al Made in Italy ci sia un interesse dei clan di riciclare soldi all’estero. Anzi, si potrebbe dire che sembra proprio uno dei marchi di fabbrica della ‘ndrangheta – e di altre mafie – quella di utilizzare ristoranti, pizzerie, gelaterie italiane all’estero a fini di riciclaggio. Tali attività commerciali sono di poco impatto sociale e culturale – ci si aspetta che ci siano all’estero ristoranti italiani – e sono anche di poco impatto economico, con ricavi spesso nella media e/o nella norma che non destano dubbi nelle autorità locali.

    Irpimedia, per esempio, aveva raccontato nel 2021 di come, in Lussemburgo, imprenditori della ristorazione originari di Siderno, nel Reggino, si fossero stanziati in una comunità locale ad alto tasso di migrazione dalla Calabria, soprattutto della zona di Mammola, sfruttando e inquinando la migrazione sana dei nostri conterranei. Anzi, ben conosciuti sono gli esempi di estorsione proprio ai danni della comunità italiana all’estero: ricordiamo il caso di operazione Stige, in cui ristoratori italiani in Germania si vedevano imporre vini dalla Calabria per “rispettare” patti estorsivi col clan giù a casa e mantenere rapporti non belligeranti.

    Alla luce del sole

    Quale ‘ndrangheta è questa qui? È una ‘ndrangheta principalmente “raccontata” come capace di agire ‘in segreto’ e passare inosservata, a metà tra organizzazione di tipo spionistico e organizzazione eversiva. In realtà, contrariamente alla narrazione, i soggetti che vengono legati alla ‘ndrangheta – spesso solo emissari – come il ristoratore austriaco, se ciò verrà confermato – sembrano essere particolarmente a proprio agio nell’agire alla luce del sole, abbandonando il segreto, all’interno di quelle che sono le opportunità, spesso legali, dei luoghi di destinazione per aprire locali, attività commerciali e anche sfruttare gli stereotipi che spesso accompagnano gli italiani all’estero e le comunità ospitanti: l’italiano si fida meno dell’italiano che del tedesco, il tedesco si fida di più dell’italiano che del greco, l’austriaco valorizza l’intraprendenza dell’italiano ma non si fida di nessuno (questi solo a livello esemplificativo).

    È una ‘ndrangheta che manda via il denaro dall’Italia, come farebbe qualunque soggetto, mafioso o meno, che non vuole perdere i propri soldi, per raccontarsi sempre la stessa storia: me li sono guadagnati (anche se illegalmente), e ne voglio prima o poi poter disporre. Per utilizzare questi capitali, spesso, si vuole immaginarne un loro riutilizzo semi-legale, come se tale riutilizzo semi-legale potesse giustificare l’origine illegale anche moralmente. E qui poi si vede la volontà di investire in ciò che più ci è ‘familiare’, quasi stereotipato: il cibo, l’Italianità all’estero, le Porsche o le case.

    Raffaele Imperiale, il narcotrafficante pentito

    Ma torniamo al 6 dicembre 2022. Sempre quello stesso martedì, in serata, La Repubblica dà la notizia che Raffaele Imperiale si è pentito a Napoli. Imperiale, per anni ricercato dalle polizie di mezzo mondo e finalmente arrestato a Dubai nell’agosto del 2021, è stato un narcotrafficante di riferimento per network criminali italiani, irlandesi, olandesi e ovviamente latinoamericani. La storia di Imperiale è rocambolesca, al punto da includere il rinvenimento di due quadri di Van Gogh rubati ad Amsterdam nel 2002 nella sua casa di Castellammare di Stabia nel 2016.

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    I due Van Gogh trovati in casa di Imperiale

    Riduttivamente, si racconta di Imperiale come un camorrista che ha fatto strada a livello internazionale nel mercato della cocaina. Sono noti i suoi rapporti col clan napoletano Amato-Pagano, consolidatisi in occasione della guerra di mafia degli Scissionisti di Secondigliano dal clan di Lauro a Scampia. In quella faida Imperiale si sarebbe non solo schierato con gli Amato-Pagano, ma a detta dei pentiti ne sarebbe diventato un affiliato a tutti gli effetti. Ma la storia di Imperiale non è una storia (solo) di camorra.

    Il super cartello della cocaina

    È una storia di un network internazionale che secondo la DEA (Drug Enforcement Administration) statunitense avrebbe per anni rifornito di cocaina mezza Europa grazie a varie ‘teste’ tra cui, oltre a Imperiale, figurano Ridouan Taghi – membro di spicco della criminalità di origine marocchina in Olanda (la cosiddetta Moccro-Mafia, anche se di mafia non ha proprio nulla…) arrestato nel 2019, e Daniel Kinahan, irlandese e capo del clan che reca il suo nome, su cui il Dipartimento di Stato degli USA ha stanziato una ricompensa per informazioni che portino alla sua cattura di addirittura 5 milioni di dollari.

    Il “super cartello” della cocaina, come lo chiama(va) la DEA e in seguito Europol, non era però uno e trino. Nonostante i tre nomi di spicco, moltissimi gli attori – clienti e partner – che alimentavano sia la reputazione sia la capacità di questi network intrecciati di intensificare i traffici dello stupefacente più lucrativo al mondo. Tra questi, anche uomini di ‘ndrangheta.

    I rapporti con la ‘ndrangheta

    Grazie a un intenso coordinamento di polizia da parte di Europol sulla decriptazione di chat sulle piattaforme Encrochat e SkyECC, si sono potuti tracciare i collegamenti tra i vari ‘nodi’ dei network criminali in questione. Imperiale aveva rapporti intensi con i Morabito-Palamara-Bruzzaniti, ‘ndrina egemone nel locale di Africo (RC) e con il clan Mammoliti, di San Luca. Giuseppe Mammoliti acquistava cocaina da Imperiale e il suo gruppo la trasportava e distribuiva nel sud e centro Italia, spesso con carichi in arrivo in Belgio o Olanda o a Milano attraverso altri corrieri di Imperiale anche connessi con il clan nella sua propaggine lombarda.

    Bartolo Bruzzaniti, detto Sonny, nato a Locri ma iscritto all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) in Costa d’Avorio e domiciliato a Invorio (Novara), si metteva a disposizione di Imperiale per il recupero della cocaina importata via mare dal Sud America e in arrivo in vari porti europei tra cui Gioia Tauro, grazie all’aiuto di Jolly, un funzionario doganale, e di una squadra ben rodata nel porto della Piana.

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    Il porto di Gioia Tauro

    Quale ‘ndrangheta è questa qui? È una ‘ndrangheta opportunista, disinvolta, che utilizza il proprio nome (cognome) quando serve, se serve, ma con poca attenzione all’onore, o al potere di sovranità mafiosa più largamente intesa.
    È interessante uno scambio in chat tra Bruzzaniti e un suo interlocutore a Gioia Tauro, in cui Sonny spiega di dover mantenere un basso profilo in Calabria «Se sapevano i miei quantitativi mi impazzivano compà… Sanno che lavoro ma non sanno niente… Compare se i miei parenti sapeva che numeri faccio al mese mi dovevo dare latitante ahahahaha compà».

    I compari non devono sapere

    È chiaro che entrare in contatto con Imperiale e il suo network è stata una svolta per Bruzzaniti: il contatto con Imperiale ha reso possibile – a lui e non necessariamente a tutto il suo gruppo di ‘ndrangheta – importare e rivendere ulteriori quantità di stupefacente, più di altri conterranei. C’è invidia da parte di altre organizzazioni criminali mafiose sul territorio, conferma l’interlocutore di Sonny: «Si compare qua da noi nn posso parlare con nessuno se sentono questi numeri a 24 ore siamo bruciati…Che qua se la contano per invidia… Altro che Sud America… Sanno che invece di 3 scaricatori ne ho mandato 6 per trasportare le borse… Chi ai (sic)dovere lo sa quanto e il lavoro… abbiamo fatto una bella selezione».

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    Questa ‘ndrangheta ha evidentemente il know-how per partecipare ai grandi traffici, che però sono gestiti da Imperiale e dai suoi contatti in Europa. È Imperiale che comunica coi fornitori e comunica l’arrivo dello stupefacente. È Imperiale ad avere il controllo e la supervisione; Bruzzaniti coordina e rivende. L’uno non potrebbe funzionare senza l’altro, ma il livello a cui opera Imperiale è di gran lunga più ad ampio raggio di quello di Bruzzaniti.

    Paese che vai, ‘ndrangheta che trovi

    Questa ‘ndrangheta che si occupa di traffici di cocaina in giro per l’Europa è una ‘ndrangheta che guarda in faccia solo se stessa, vive in un eterno presente, cerca di evitare i conflitti sul territorio, perché col territorio non vuole necessariamente condividere tutto di sé. Vuole sedere al tavolo, meglio se internazionale, con chi, come Raffaele Imperiale, può attivare circuiti, aprire porte e garantire guadagni grazie a una fitta rete di contatti transfrontalieri. Il traffico di cocaina in Europa è concorrenziale e caratterizzato da una concentrazione di mercato: pochi attori emergono come nodi del network, e tutti gli altri cercano di legarsi a tali nodi. Bisogna essere capaci di stare al gioco, escludere i concorrenti (anche di famiglia) e soprattutto essere pronti ai cambiamenti repentini.

    Questa ‘ndrangheta della cocaina con Imperiale, e quella dei ristoranti in Austria per noi, Italiani, con cultura (giuridica) antimafiosa, è sempre la stessa ‘ndrangheta, calabrese, e collegata – quando serve – per ragioni di gestione di potere ‘reale’ sul territorio, e di potere politico, per la resilienza dell’organizzazione e del brand. Ma a livello criminale e in Europa si tratta di ‘ndrangheta diverse, che sebbene intenzionate a più livelli a fare e mantenere profitti illeciti, danno vita a fenomeni criminali diversi, spesso scollegati e soprattutto dipendenti più dal luogo di ‘destinazione’ e dagli attori con cui ci si interfaccia, che dalla reputazione criminale di casa propria.

  • MAFIOSFERA| Quale ruolo ha la ‘ndrangheta nel traffico di migranti?

    MAFIOSFERA| Quale ruolo ha la ‘ndrangheta nel traffico di migranti?

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    La criminalizzazione degli sbarchi e della solidarietà ha un effetto collaterale molto pericoloso: offre una opportunità di lucro a gruppi oltremare che sulla disperazione dei rifugiati ci ha messo su un intero business. Pagano tra i 6.000 e i 12.000 dollari americani, più o meno la stessa cifra in euro, per imbarcarsi dalla Turchia verso l’Italia. Sono cittadini iracheni, iraniani, afghani, siriani. Il problema non è soltanto trovare i soldi, tanti, per imbarcarsi, ma affidarsi al mare su velieri, natanti, imbarcazioni più o meno solide non importa, guidate da chi si compra la loro afflizione a caro prezzo.

    Ne arrivano 40 un giorno, 115 un altro, 650 un altro, ogni settimana, ogni mese. Senza tregua, sulle coste della Calabria, a Crotone come a Roccella Ionica. In aumento nel 2022 (non solo in Calabria, ma anche in Puglia, in Sicilia, e nel resto d’Europa), decine di migliaia di derelitti pagano cifre da capogiro per viaggi della speranza che non hanno forse più.

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    Palazzo del Viminale, sede del Ministero dell’Interno

    I porti di accoglienza sono tutti uguali visti dal mare, ma alcuni sono più uguali degli altri: sono più vicini, più adatti allo sbarco. Spetta al Ministero dell’Interno accordare lo sbarco, su richiesta dell’imbarcazione e in base ai trattati internazionali sull’individuazione del porto sicuro scelto anche in base alle esigenze operative dell’accoglienza. Dovunque avvenga lo sbarco, avviene comunque indisturbato da altre ingerenze criminali. Nonostante le cifre, nonostante la stabilità del mercato, nonostante si arrivi in terra di mafia, non sembra esserci spazio per nessun altro, in quelle che sono reti transnazionali di sfruttamento dell’immigrazione clandestina.

    Migranti in casa della ‘ndrangheta

    Sembra difficile da credere che in certe zone della Calabria, dove ci sono clan di ‘ndrangheta molto attivi, si muova un mercato illegale così lucrativo in cui di ‘ndrangheta non c’è ombra. Eppure «allo stato non sono emersi legami tra trafficanti di esseri umani e esponenti di criminalità organizzata di tipo mafioso; questo è quanto emerge dalle indagini arrivate a dibattimento finora», osserva la dottoressa Sara Amerio. Sostituto procuratore della Repubblica presso la Procura Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, Amerio si occupa, tra l’altro, di indagini in materia di traffico di migranti e di tratta di esseri umani.

    Mediterraneo: la rotta orientale e quella centrale

    In certi quartieri di Istanbul, lo si sa se si chiede nel giro, è possibile prendere contatti con un’organizzazione criminale che può portare chi paga in Europa, principalmente in Grecia e in Italia, ma a seconda del network, anche via Albania Ci si trova a Istanbul come luogo di partenza, ma il viaggio inizia molto prima, i mediatori sono in Iran, Iraq, e dove altro serve. Questi individui sono iraniani e curdi, ma anche russofoni, provenienti da Russia, Ucraina, Turkmenistan, Uzbekistan. Network a volte diversi da quelli della gente che poi partirà, ma facilmente riconoscibili nel loro presentarsi come società di servizi.

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    Una barca a vela carica di migranti intercettata dalla Guardia di Finanza al largo delle coste calabresi

    Si curano della logistica, dei bed and breakfast per aspettare il giorno della partenza, si prendono passaporti e cellulari dei ‘clienti’ per evitare problemi. I mezzi di navigazione sulla rotta mediterranea orientale sono solitamente in buone condizioni, a motore o a vela, per la cui conduzione sono indispensabili delle competenze. Gli scafisti sono addestrati e sono parte dell’organizzazione criminale. Si viaggia spesso sottocoperta e di solito bisogna portarsi del cibo a parte.

    Diversa invece è la rotta mediterranea centrale, dalla Tunisia per esempio, che trasporta dall’Africa al sud Italia/Europa. Costa meno, a volte 3000-5000 euro, ma si rischia di non arrivare mai: la navigazione è molto precaria, i natanti non sono pensati per quelle acque. Ma in fondo i trafficanti, nella loro accertata disumanità, non assicurano l’arrivo da vivi: «Se ci sono problemi buttateli in mare», dicevano i presunti trafficanti nelle intercettazioni dell’indagine siciliana Mare Aperto.

    Via dalla Calabria

    Reti transnazionali, fitte ed articolate, nell’ambito delle quali ciascun componente è deputato a compiti specifici: reclutamento dei migranti da trasferire; organizzazione del loro viaggio in Turchia; reperimento delle imbarcazioni e dei conducenti; addestramento di quest’ultimi; gestione delle finanze del viaggio; acquisto delle imbarcazioni; pagamento degli scafisti e così via. Una volta arrivati a Roccella Jonica o a Crotone o direttamente sulle spiagge di Brancaleone o di Isola Capo Rizzuto – dove molto spesso non intervengono nemmeno le ONG di soccorso – chi sbarca viene intercettato dalle autorità, schedato e spedito via; pochi rimangono in Calabria, pochi vogliono rimanerci, molti vanno verso il nord, Italia ed Europa.

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    Ombre che dal mare si frangono sulle spiagge per poi tornare ad essere ombre sul territorio. Il porto di sbarco non può essere deciso a priori; quindi, fare pronostici su dove si arriverà non è possibile. All’arrivo – in Calabria, come altrove – il network criminale ha spesso concluso il suo operato. Anche quando ci sono soggetti legati alla rete criminale sul territorio italiano, di solito delle stesse nazionalità dei trafficanti, costoro sono di passaggio o di supporto alla logistica futura.

    Traffico di migranti: non c’è spazio per la ‘ndrangheta

    Ecco, quindi, perché non c’è spazio per la ‘ndrangheta. Non appena tocca il territorio, il mercato del traffico di migranti chiude le porte. All’arrivo può poi attivarsi un altro tipo di mercato: alcune organizzazioni di trafficanti continueranno ad offrire – tramite cellule italiane – ulteriori servizi fintanto che i migranti possano raggiungere i luoghi di destinazione. Ma i soldi – tanti – rimangono all’estero, la logistica è gestita dall’estero; i contatti tra cellule straniere ed eventuali cellule italiane dell’organizzazione è pure gestita dall’estero; e i traffici via mare, si sa, non si controllano soprattutto quando la destinazione è incerta.

    Non c’è spazio per i clan mafiosi del territorio perché questo mercato non riguarda il territorio. Non c’è spazio per le ‘ndrine nemmeno qualora volessero offrire servizi, perché non ci sono servizi da offrire avendo questi network criminali il controllo dei vari nodi a monte. E non c’è spazio nemmeno per la protezione mafiosa, quella tassa di signoria territoriale che a volte qualche clan può imporre agli stranieri che vogliono attivarsi sulla propria zona, dal momento che il luogo di sbarco non solo è imprevedibile (rimane appunto una decisione ministeriale su richiesta dell’imbarcazione), ma anche qualora fosse prevedibile, non offre margini di manovra estorsiva (non esiste cioè alcuna “protezione” possibile una volta avvenuto lo sbarco).

    Affari paralleli

    Indagini tra i distretti di Reggio e Catanzaro hanno confermato alcuni interessi mafiosi sulle cooperative impiegate nel soccorso in mare, e sulle strutture di ricezione così come anche sotto forma di caporalato di quei migranti soccorsi che rimangono sul territorio. Li, il giro di denaro e l’ingerenza sul territorio attirano i clan su mercati illeciti non direttamente legati allo sbarco e ai traffici di migranti, ma a essi collegati.

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    La bottega dell’acqua calda nella nuova tendopoli di San Ferdinando

    Ma prendiamo ad esempio operazione Ikaros, a Crotone, nel 2021 diretta dal sostituto procuratore Alessandro Rho. Anche in questo caso, che non riguarda gli sbarchi ma riguarda una manipolazione del sistema di ricezione dei richiedenti asilo, nonostante il lucro sull’immigrazione clandestina partisse da residenti nel crotonese (italiani e stranieri), la ‘ndrangheta non si trova. Anzi, il network in questione prescinde totalmente dal territorio e appare completamente smaterializzato. Si legge nell’ordinanza di custodia cautelare: «ciascuno dei sodali secondo le proprie competenze conferisce la propria opera» per partecipare a «un gruppo che per quanto operante in un ambito più vasto nel quale assume di riconoscersi« eventualmente ha una forma «a rete», senza capi e senza gerarchie.

    Il mercato dell’asilo politico

    Avvocati, pubblici ufficiali, mediatori culturali, così come di due appartenenti alla Polizia e in servizio nella Questura di Crotone (uno dei due poi assolto perché estraneo al sistema, anche se pareva conoscerlo), facevano parte di due sodalizi criminali che procuravano documenti falsi attestanti residenze fittizie e false assunzioni di soggetti per lo più di nazionalità curdo irachena. I “clienti” dall’Iraq (identificati grazie a mediatori) pagavano oltre mille euro (in media) per tale documentazione al fine di attivare una procedura di richiesta di asilo politico a Crotone e a Catanzaro. Una volta convocati dalle questure, costoro arrivavano in Italia con visto turistico e areo di linea per l’udienza, per poi ottenere il nuovo status di residenza.

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    Richiedenti asilo politico manifestano in strada

    Era facile “fingersi” rifugiati appena sbarcati, pernottare qualche giorno a Crotone, vista la presenza sul territorio di strutture come il CARA Sant’Anna che quotidianamente ospita centinaia di richiedenti asilo. Ma la scelta di Crotone è legata a ragioni che hanno a che fare più con le note carenze delle istituzioni locali che con la capacità criminale dei soggetti coinvolti. In Ikaros, l’assenza di controlli da una parte, e la presenza di una struttura fluida e reticolare dall’altra che prescindeva da qualsiasi ‘touch down’ sul territorio, ha fatto si che l’attività illegale non richiedesse quella protezione territoriale solitamente necessaria ai sodalizi criminali, e che di solito è offerta dalle mafie.

    Soldi all’estero e contatti da evitare: è il mercato, bellezza

    Anche qui poi, i soldi stanno all’estero, meglio che stiano all’estero. Si legge nell’ordinanza l’appello di uno dei sodali “in Italia Western Union no!”. Inoltre, da non dimenticare la generale riluttanza dei gruppi mafiosi nostrani a ‘collaborare’ seppur per fini illeciti con le forze dell’ordine e la comprensibile riluttanza di “professionisti della legalità” e colletti bianchi a entrare in combutta con gruppi mafiosi che normalmente portano con sé un rischio maggiore di essere indagati dalle procure antimafia (oltre che dalle procure ordinarie). In questo caso, comunque, più che nei traffici per mare, viene da chiedersi se l’assenza della ‘ndrangheta sia voluta, consapevole, o banalmente il risultato del funzionamento del mercato che, ancora una volta, è sospeso – e non ancorato – sul territorio.

    Troppi riflettori sui migranti per la ‘ndrangheta

    Il traffico di migranti e in generale i mercati illeciti a esso collegati, sfruttano il territorio ma quasi mai lo ‘scelgono’; così anche la ‘ndrangheta potrebbe avere varie ragioni per non ‘scegliere’ questo mercato o quantomeno per accettare pacificamente di esserne esclusa. L’immigrazione clandestina e la manipolazione del sistema di ricezione sono temi molto politicizzati. Ad ogni crisi attirano politici, giornalisti, magistrati e osservatori da mezzo mondo sulle coste e nei porti del Sud. Temi così caldi rischiano di esporre i mafiosi a ulteriore scrutinio, soprattutto in Calabria, dove già l’attenzione alla ‘ndrangheta è molto alta.

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    Una parte dei 300 migranti sbarcati nei mesi scorsi a Roccella in attesa sulla banchina del porto

    Lungi dall’essere una questione di onorabilità (rimane moralmente difficile giustificare le barbarie di questi traffici e mercati in nome di lucro), come qualcuno potrebbe pensare, il traffico di migranti, anche quando si proietta in Calabria, rimane centrato altrove, faccenda di altri, per altri gruppi criminali. E che tutto questo ci ricordi una lezione fondamentale. Nemmeno la ‘ndrangheta, la mafia più ricca e potente d’Italia (e non solo) sa, può o vuole entrare in alcuni mercati non di sua competenza; nemmeno la ‘ndrangheta può controllare tutti i mercati illeciti sul proprio territorio.

  • MAFIOSFERA | Perché parlare di ‘ndrangheta è cultura italiana

    MAFIOSFERA | Perché parlare di ‘ndrangheta è cultura italiana

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    Silvio Berlusconi disse una volta che a parlare troppo di mafia si danneggia la reputazione del Paese. Venne allora verbalmente redarguito dalle vittime di mafia e dalla società civile, eppure esprimeva un pensiero diffuso, nella politica così come nella società. Gianfranco Micciché, all’epoca candidato alla presidenza della Regione Sicilia, lo espresse con altrettanta decisione nel criticare la titolazione dell’aeroporto di Palermo: «Continuo ad essere convinto che intitolare l’aeroporto di Palermo a Falcone e Borsellino, significa che ci si ricorda della mafia. L’aeroporto di Palermo lo intitolerei ad Archimede o ad altre figure della scienza, figure che suscitano pensieri positivi».

    La Calabria a Londra

    Sulla metropolitana di Londra una sera di novembre mi trovo a chiacchierare con un signore italo-britannico. Abbiamo appena assistito alla proiezione di un film – Una Femmina – di Francesco Costabile, seguito da un dibattito con il regista collegato su Zoom dalla Calabria (sì, Francesco Costabile è di Cosenza).
    Il film, potente, nero e, direbbero in inglese, chilling, raggelante, è una storia di mafia che prende spunto dalla storia di Maria Concetta (Cetta) Cacciola e di altre donne ribelli raccontate dal giornalista Lirio Abbate nel suo libro Fimmine Ribelli. Racconta la storia di Rosa, una bambina che vive in Aspromonte e assiste, senza capire, all’omicidio di sua madre Cetta a opera della nonna e dello zio, e che una volta cresciuta, vuole vendetta nella sua famiglia di ‘ndrangheta.

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    Lina Siciliano sul set di “Una femmina” (foto Francesco Spingola)

    Non è raro che a Londra si proiettino film di questo genere – indipendenti, emergenti. Complici un cinema che ama le gemme, il Garden Cinema, un festival, il Raindance, che da trent’anni si occupa di portare sul grande schermo promettenti lavori di artisti nascenti, e una comunità italiana locale appassionata e partecipe, la proiezione di Una Femmina ha seguito infatti A Chiara di Jonas Carpignano, che a luglio scorso aveva debuttato in UK nello stesso cinema. Anche A Chiara racconta una dimensione familiare e intima della ‘ndrangheta.

    ‘Ndrangheta e reputazione, il niet dell’Istituto di cultura

    Il signore italo-britannico sulla metro aveva assistito anche alla proiezione di A Chiara e in quell’occasione c’eravamo conosciuti. Ha letto il mio ultimo libro Chasing the Mafia (che racconta della mia ricerca sulla ‘ndrangheta nel mondo) e mi ha chiesto di autografarlo. E poi mi dice, senza forse rendersi conto del peso delle sue parole, che aveva parlato con un responsabile durante un evento all’Istituto Italiano di Cultura di Londra e aveva suggerito che si facesse un evento sulla ‘ndrangheta o sulla mafia, suggerendo che io potessi essere coinvolta nell’evento, magari aiutando a organizzarlo. Si era sentito rispondere, un po’ ridendo ma nemmeno troppo, che certo era interessante ma che forse l’Istituto Italiano di Cultura preferisce eventi che danno un’immagine positiva dell’Italia.

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    La sede londinese dell’Istituto di Cultura

    Certo, si possono fare eventi sulla commemorazione delle stragi – la memoria è positiva. Si possono fare eventi su questioni spinose della storia d’Italia – la storia è anch’essa positiva, quando affrontata come insegnamento. Ma parlare di mafia, di ‘ndrangheta, oggi, quello non interessa. Argomenti cupi, che restituiscono una pessima immagine dell’Italia e della Calabria, che rovinano la reputazione della regione e dunque del paese. Ovviamente non è questa un’accusa rivolta all’Istituto Italiano di Cultura di Londra, anche perché non so con chi, intraneo o estraneo, è avvenuta la conversazione. Ma non è la prima volta che mi sento dire che parlare di ‘ndrangheta non è parte del concetto di ‘cultura’ italiana, non promuove la cultura calabrese. Mi venne detto anni fa dalla direzione di un altro Istituto Italiano di Cultura in Australia: «Interessante quello che fai, ma la ‘ndrangheta non è ciò che vogliamo chiamare cultura italiana».

    La Calabria che stupisce

    Falso. Il film Una Femmina è girato in Calabria, in un paese che dovrebbe essere in Aspromonte, ma è invece nel Pollino. Ci sono montagne immense, verde scuro, case diroccate e rovine, costruzioni aggrappate alla montagna e una natura dalla forza dirompente. Tra gli spettatori – italiani e non – ci si chiede dove siano quei posti, dove sia tutta quella bellezza. Si cantano canzoni popolari nel film, si balla la tarantella, si intonano litanie liturgiche. Gli spettatori sono ammaliati dalla musica, invasi dalla gioia delle danze, commossi dalle liturgie. Si chiedono, persone che di ‘ndrangheta e di Calabria nulla o poco sanno, com’è possibile che in una terra così bella succedano certe cose. Ci si indigna.

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    Un fotogramma di “A Chiara”

    Per il film A Chiara, una storia simile: c’è tutta la forza delle immagini del porto, del lungomare di Gioia Tauro, c’è la cittadina della Piana con le sue feste di paese, le celebrazioni familiari tra vino e musica. In quel caso, a chi assiste alla rappresentazione cinematografica viene da chiedersi come sia possibile che una cittadina con un porto che è il vanto del Mediterrano e una voglia di vivere prorompente nella musica e nell’intrattenimento, abbia una sorte così macabra.

    Dal letame nascono i fior

    E questo non succede solo per i film ben fatti. Succede per le serie tv e per i documentari, succede per i libri, quando hanno la capacità di raccontare la ‘ndrangheta, i suoi inferni privati e le sue bassezze umane all’interno di un contesto più ampio che si integra – non si separa – dalla Calabria, dalla sua bellezza ferita, dal suo potenziale inaspettato, dalla sua cultura centenaria e stratificata tra colonizzazioni, resistenza, autonomia e autoaffermazione. L’ho sperimentato io stessa, da calabrese, che non ha senso tentare di spiegare o studiare la ‘ndrangheta senza prima raccontare le incongruenze del fenomeno rispetto alla sua regione d’origine. La bruttezza vicino alla bellezza.

    Corrado Alvaro

    Grazie alla reputazione della ‘ndrangheta – quella stessa che, si badi bene, fomenta stereotipi negativi sui calabresi all’estero – l’arte produce cultura e il mondo conosce la Calabria e i suoi patrimoni. Si resta ammaliati dalla bellezza sugli schermi, si leggono la storia e le storie sui libri, si apprezza la civiltà e l’umanità del popolo calabrese, si ascolta il dialetto, si sfoglia la letteratura da Corrado Alvaro a Gioacchino Criaco, si ammira l’intraprendenza contadina.

    ‘Ndrangheta, Calabria e cultura

    Il problema non è che la ‘ndrangheta non sia cultura, e peggio ancora che distrugga la cultura e la bellezza della Calabria, o che rovini la reputazione dell’Italia. E il problema non è nemmeno che a furia di parlare di ‘ndrangheta, dell’organizzazione mafiosa più importante d’Italia e tra le più importanti al mondo, si oscura il patrimonio – positivo – della Calabria. Il problema è forse proprio il contrario. Che si insiste nel pensare alla ‘ndrangheta come corpo estraneo alla regione, un virus, una forza malvagia e aliena, dai confini chiari e precisi – diversa da noi – alimentata di uomini (e occasionalmente donne) il cui unico scopo è abusare del patrimonio e della ricchezza di una regione altrimenti bellissima e dal potenziale enorme.

    Friedrich Wilhelm Nietzsche

    Una rimozione che deriva forse dalla paura di identificarsi con il fenomeno stesso: se la ‘ndrangheta è figlia della sua terra e della sua cultura (in modo distorto e abusivo certo), cosa dice tutto ciò di noi Calabresi? Lo diceva bene Nietzsche: «Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te». L’alternativa non può essere quella di evitare di guardare nell’abisso o di negare i mostri. Perché è nell’alternanza di ombra e luce, nelle guerre contro i mostri, nei racconti delle emozioni e nelle sublimazioni delle paure, è in questi spiragli che si fa cultura.

    Cicatrici di cui andare fieri

    Continuava Micciché su Punta Raisi: «Ritengo, comunque, che sia una scelta di marketing sbagliata… Non ci si presenta ai tanti turisti con il sangue di una delle più profonde e, ancora non sanate, ferite della nostra terra». Eppure, come ci ricorda la pratica nipponica del Kintsugi, la cultura aiuta a trasforma una ferita in bellezza: mostrare con orgoglio le cicatrici è solo un racconto sulla forza della resistenza e sulla voglia di riparazione.

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    Un esempio di Kintsugi
  • MAFIOSFERA| Droga: crolla la ‘ndrangheta nel traffico globale

    MAFIOSFERA| Droga: crolla la ‘ndrangheta nel traffico globale

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    L’11 luglio scorso sono state depositate le motivazioni della sentenza del maxiprocesso “European ’ndrangheta connection – Pollino” al tribunale di Locri. Nel febbraio 2022 il primo grado si era infatti concluso con 12 condanne per complessivi 172 anni di reclusione e 5 assoluzioni. Le motivazioni confermano in sostanza gran parte della ricostruzione dell’accusa, notando il ruolo di spicco del clan Pelle-Vottari di San Luca nel narcotraffico europeo.

    Il controllo del mercato

    L’operazione si era distinta per gli arresti incrociati, avvenuti in un unico Action day, il 5 dicembre del 2019, tra Italia, Germania, Paesi Bassi e Belgio, coordinati da Europol e Eurojust. Pollino ha fatto luce su una vasta e complessa rete di importazione di narcotici, principalmente cocaina, in Europa e in Sud America: famiglie di ‘ndrangheta storiche, dalla Locride al resto del mondo, avevano dimostrato di avere un ruolo di coordinamento e di gestione del mercato.

    Qualche settimana fa, il 28 giugno, l’operazione antidroga ‘Hermano’ condotta dai carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria con il coordinamento della Direzione distrettuale antimafia reggina ha portato all’arresto di 19 persone. Hermano riguarda i clan della piana di Gioia Tauro, precisamente sul territorio di Taurianova, ma con proiezioni, e arresti, anche a Milano, Parma, Verona e Vicenza. L’obiettivo ancora una volta il narcotraffico, gestire i traffici di marijuana, hashish e cocaina dal Sud America fino all’Italia.

    Il 7 giugno scorso, infine, il tribunale di Trieste ha eseguito 38 ordinanze di custodia cautelare e disposto il sequestro di due milioni di euro contro narcotrafficanti attivi tra Italia, Slovenia, Croazia, Bulgaria, Olanda e Colombia. L’operazione Geppo2021 aveva portato al sequestro di 4.3 tonnellate di cocaina al porto triestino, il terzo sequestro più grande d’Europa.

    Dal Sud America all’Est Europa

    Rivelano le indagini, anche quelle giornalistiche, che si trattava dei giri di prova di un’alleanza tra il Clan del Golfo e importatori europei. Il Clan del Golfo, anche chiamato Urabeños, è uno dei gruppi di narcotrafficanti più importanti della Colombia, che conta fino a 2000 affiliati. Gli importatori in Europa invece sono un gruppo italiano legato alla ‘ndrangheta ma attivo anche a Roma e a Milano e una rete di individui provenienti dall’Est Europa.

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    Colombia: la cattura di Otoniel, considerato il capo del Clan del Golfo

    Queste tre operazioni non sono le uniche, ma le più rilevanti nel recente periodo. Cosa hanno in comune? Una notevole densità di rapporti con soggetti e organizzazioni criminali estere. Nel processo Pollino si erano visti i rapporti con trafficanti di Guyana e Suriname e con distributori turchi. Nell’operazione Hermano ci sono rapporti con fornitori peruviani. E nella maxi-operazione Geppo2021 compaiono colombiani, albanesi e bulgari.

    L’internazionale della cocaina

    Ovviamente, che la ‘ndrangheta sia un’organizzazione internazionale dedita all’importazione di stupefacenti già si sapeva. Sono noti, ad esempio, i rapporti con dei gruppi criminali brasiliani, come il Primeiro Comando da Capital (PCC) attivati e mantenuti per l’approvvigionamento della cocaina dai porti del Sud America all’Europa. Altrettanto noti sono gli avamposti dell’onorata società in Africa e nel resto dell’Europa. Lo aveva già confermato l’operazione Platinum nel maggio 2021, grazie anche ad approfondite indagini giornalistiche.

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    Una grafica sulla rete internazionale del narcotraffico (fonte Limes)

    I traffici illeciti che spaziano dall’Europa all’America passando per l’Africa, vedono i clan calabresi cooperare e forgiare vere e proprie partnership con Albanesi, Rumeni, Colombiani, Messicani, Brasiliani, Bulgari, Serbi e via discorrendo. È oggi normale, nelle ordinanze di custodia cautelare, dalla Calabria alla Lombardia, vedere tra gli arrestati sia italiani che stranieri. Questa ibridizzazione delle reti del narcotraffico porta a una serie di riflessioni che hanno a che fare sia con la natura dei traffici illeciti sia con l’identità della ‘ndrangheta in questi traffici.

    Le regole del narcotraffico

    Innanzitutto, il narcotraffico si muove con regole che non sono della ‘ndrangheta, nonostante il ruolo di spicco che la criminalità calabrese ha assunto e consolidato negli anni. Prendiamo la cocaina. Il mercato globale della cocaina si muove sui canali dei traffici legali, tra porti, marine, aeroporti, strade, utilizzando – sfruttando – la logistica interconnessa della nostra epoca. La produzione della cocaina è ai massimi storici negli ultimi anni, complici politiche sociali malriuscite del Sud, in paesi come Perù, Bolivia e Colombia, e drammatici flop della “guerra alla droga” (war on drugs) da parte del ricco Nord, come Stati Uniti, Canada, ed Europa.

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    Il consumo di cocaina è incostante aumento

    A questo aumento della produzione e della disponibilità del narcotico, si affianca l’atomizzazione dei gruppi criminali: in breve, c’è più gente che produce e vende la coca, c’è più gente che l’acquista. La retorica che la ‘ndrangheta controlli il mercato della cocaina europea è soltanto questo, retorica. Non solo si tratta di un mercato incontrollabile – in cui qualunque gruppo criminale alle giuste condizioni può effettivamente entrare – ma anzi, il dominio del mercato della cocaina è assolutamente concorrenziale.

    Uniti per gli affari

    Se si considera l’ascesa dei clan balcanici – che in alcuni casi hanno imparato il mestiere dai nostri corregionali ‘ndranghetisti, iniziando dalla manovalanza ai porti di Brindisi, Bari, Genova, Livorno ad esempio – si vede chiaramente come il settore in questione permetta a chi abbia denaro da investire, disponga di una gestione efficace della logistica e abbia la capacità di trovare sodali disponibili di entrare e acquistare velocemente una fetta del mercato.

    Questo implica che da una parte i clan di ‘ndrangheta hanno perso parte del loro tanto sbandierato controllo e dominio del mercato della cocaina e hanno imparato che senza collaborazione con altri nodi della rete non si sopravvive. Allo stesso tempo questa perdita di posizione non necessariamente si traduce in un guadagno minore, essendo appunto il mercato molto florido: c’è più cocaina per tutti i gruppi criminali che sanno collaborare, e le partnership cambiano quando serve agli affari.

    Ci sono un italiano, un peruviano e un albanese…

    In operazione Hermano, per esempio, leggiamo di come un gruppo calabrese utilizza come canale di approvvigionamento principalmente per cannabis e hashish dei partner albanesi, ma in seguito a un debito contratto con loro, cercano e trovano un gruppo di peruviani, stanziato a Milano e con broker anche italiani, per l’approvvigionamento di cocaina che permette un guadagno più alto e dunque permetterebbe loro di saldare il debito più velocemente.

    Un uomo della Dia intercetta una telefonata

    «Decisamente, se non ci sono i soldi, si può risolvere con macchine [ndr, cocaina, per saldare il debito con gli albanesi]».
    «Abbiamo litigato pure io con tutti…con gli albanesi, pure Flamur s’è incazzato con me (…)».
    «Ma lo sai che io ho perso diecimila euro qua con questi figli di puttana [il gruppo peruviano], ti ricordi quella sera che ti dicevo io che avevo anticipato io i soldi per le tre Pande [riferimento ad automobili, per intendere partite di cocaina]?».
    «E come fai a perdere diecimila euro… (…) vieni che ci andiamo insieme e le recuperiamo».
    «E certo che le devo recuperare, sto aspettando che viene zio qua a Baggio».
    «Perché per questo figlio di puttana qua, perché avevo preso impegni con Flamur»
    «Gli dici, Flamur, qua è successo questo, questi qua ci hanno preso per il culo e non rispondono più, hanno preso ancora giorni e a me non mi va di fare più figure di merda con le persone, basta!».

    Il potere della reputazione

    A questo si deve aggiungere una seconda riflessione. Certamente l’identità della ‘ndrangheta si fonda su un potere reale, concreto, che interferisce con la vita della gente di Calabria e non solo, dall’estorsione all’intimidazione, dalla violenza all’infiltrazione nella politica paesana o cittadina. La ‘ndrangheta ha ancora oggi un potere intimo, familiare, locale.

    Ma diverso dall’aspetto identitario locale e familiare, è il potere economico prettamente criminale dei clan, che una volta sui mercati globali non hanno bisogno di identificarsi come ‘ndrangheta o mafia, ma utilizzano la solidità della loro reputazione di acquirenti e fornitori che saldano i conti e sanno aggirare le forze dell’ordine. Proprio come si legge anche dall’intercettazione precedente e in quella successiva che proprio di questa solvibilità parla.
    «Sistemiamo così che è la migliore cosa perché non voglio fare casini perché dopo perdo l’amicizia capito? (…) Perdo la stima che avevo io su di lui e lui proprio mi dice ma che persona sei, capito?».

    Nessuno è infallibile

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    Finanzieri in azione nel porto di Gioia Tauro

    Se le due anime dell’organizzazione criminale stanno insieme da un punto di vista analitico, da quello meramente fattuale questa unità non aiuta a comprendere il successo – o il fallimento – nei mercati illegali. Infatti, ricordiamoci anche che le operazioni contro narcotraffico sono iniziative fallite, intercettate dalle forze dell’ordine quindi andate male. Ci mostrano clan che a volte faticano a far tornare i conti, altre volte sbagliano a fidarsi di qualcuno, altre volte ancora incappano in problemi dalla fornitura alla distribuzione, fino al pagamento. E non capita poi così di rado. Di questo, in fondo, ci si può rallegrare: sicuramente neanche la ‘ndrangheta è infallibile, quanto meno nel frammentato e concorrenziale mercato degli stupefacenti.

  • MAFIOSFERA| Detective ucciso in Australia con una bomba: condannato il calabrese Perre

    MAFIOSFERA| Detective ucciso in Australia con una bomba: condannato il calabrese Perre

    Il 30 giugno 2022, ad Adelaide, capitale dell’Australia Meridionale, un uomo è stato condannato per l’omicidio di un detective, Geoffrey Bowen, e il tentato omicidio di un avvocato, Peter Wallis, dopo 28 anni. Quest’uomo è Domenic(o) Perre, originario di Platì, in Aspromonte.

    Emigrato da Platì in Australia

    Emigrato con la sua famiglia in Australia nel 1962, come tanti altri dalle sue parti in cerca di fortuna, Perre è protagonista di uno degli eventi più chiacchierati della cronaca australiana: il cosiddetto NCA bombing. L’NCA era la National Crime Authority (istituzione non più esistente oggi, ma assimilabile all’attuale Australian Criminal Intelligence Commission) i cui uffici nel centro di Adelaide saltarono in aria il 2 marzo del 1994, a causa di un pacco bomba che era indirizzato a Geoffrey Bowen.

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    L’ufficio dell’Nca dopo l’esplosione del 1994 che costò la vita al detective Bowen

    La bomba uccise il detective e ferì severamente l’avvocato Peter Wallis, con lui in quel momento, che perse un occhio nell’esplosione. La morte di Geoffrey Bowen è stata per 28 anni uno dei principali cold cases – casi irrisolti – in Australia, nonostante le indagini, sin da subito, si fossero concentrate su quest’uomo, Domenic Perre, che non solo aveva un chiaro motivo per uccidere Bowen, ma, a quanto pare, anche i mezzi per farlo.
    Il 2 marzo 1994, poco dopo le 7 del mattino, un dipendente dell’NCA si apprestava a distribuire la posta del giorno.

    “Potrebbe essere una bomba”

    Un cartellino rosso nella cassetta della posta indicava che c’era un pacco in attesa di essere ritirato dallo sportello. Era un pacco Express rosso, bianco e giallo, indirizzato a ” Geoffrey Bowen, NCA”. Il mittente sembrava essere “IBM Promotions”.

    Geoffrey Bowen arrivò nel suo ufficio al 12° piano alle 9 del mattino, chiamò l’ufficio postale e chiese se fosse arrivato qualcosa per lui. Stava aspettando alcuni reperti che gli sarebbero tornati utili per un processo a cui doveva presenziare il giorno dopo, contro un uomo di nome Perre.

    Gli fu detto che era arrivato un pacco, qualcosa a che fare coi computer. E Bowen, confermando che non aspettava niente da IBM, scherzò, tragicamente: “Potrebbe essere una bomba!” Poiché si trattava di posta non attesa, il pacco fu scansionato, ma la scansione non mostrò alcuna anomalia. Alle 9.15 Bowen aprì il pacco.

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    Geoffrey Bowen, il detective ucciso dal pacco bomba

    «Si sentì un forte crack, come un colpo di fucile o qualcosa di simile, e ricordo che Geoff emise un grido strozzato, un urlo, e cadde di lato. E poi – deve essere stato quasi istantaneo – c’è stato un enorme soffio di vento e un suono acuto che posso solo descrivere come elettricità statica molto forte. Ecco com’era. Sono stato immediatamente accecato. Quella è stata l’ultima cosa che ho visto».
    Queste furono le parole di Peter Wallis, l’avvocato che lavorava con Bowen, e che appunto rimase gravemente ferito nell’esplosione. Wallis è morto qualche anno fa. Geoffrey Bowen rimase ucciso quasi sul colpo, all’età di 36 anni.

    I soccorsi all’avvocato Peter Wallis dopo l’esplosione del pacco bomba

    L’arresto di Domenic Perre

    Nove giorni dopo l’esplosione, Domenic Perre fu arrestato e accusato dell’attentato.
    Perre era già noto alle autorità australiane perché era stato coinvolto fin dagli anni 80 nel traffico di cannabis. In particolare, nel settembre 1993, la polizia del Territorio del Nord aveva scoperto una piantagione di cannabis, composta da 10.000 piantine, in una località remota della Hidden Valley, che aveva un valore complessivo di oltre 40 milioni di dollari australiani. Francesco Perre, fratello di Domenico, fu arrestato insieme ad altre 12 persone, tra cui altri calabresi per lo più della zona Aspromontana.

    Francesco Perre

    Tra loro c’era Antonio Perre, zio di Domenic e Francesco, che all’epoca si trovava in Australia con un visto turistico. Antonio Perre era entrato in Australia dopo aver dichiarato falsamente di non avere precedenti penali: in realtà, era stato condannato per omicidio in Calabria e aveva trascorso 12 anni in carcere. Per l’operazione dell’Hidden Valley, Antonio Perre fu condannato a 18 mesi di reclusione ed estradato in Italia nel 1994. In seguito alla retata, si capì subito che le persone arrestate erano solo una parte dell’organizzazione criminale. Le indagini confermarono che Domenic Perre e altri erano i reali finanziatori dell’operazione.

    La ‘ndrangheta? In Australia la chiamano Onorata Società

    Comparve quasi subito l’ombra dell’Onorata Società, la ‘ndrangheta come viene ancora chiamata in Australia. Emersero collegamenti, incluse parentele molto scomode, tra la famiglia Perre ad Adelaide e le famiglie di ‘ndrangheta a Griffith, nel nuovo Galles del Sud, tra cui i Barbaro e i Sergi, che nei primi anni ’90 erano già notoriamente conosciuti come la Griffith Mafia, e abbondantemente collegati al commercio di cannabis e ad altre attività tipicamente mafiose, dall’estorsione all’omicidio alla corruzione politica nonché a un altro omicidio eccellente, quello dell’attivista-politico Donald Mackay nel 1977, tutt’ora caso irrisolto nonostante una commissione d’inchiesta abbia indicato le famiglie dell’Onorata Società di origine platiota quali responsabili dell’omicidio.

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    Il boss Pasquale Barbaro, ucciso a Sidney nel 2016

    Geoffrey Bowen aveva guidato le indagini dell’Hidden Valley, e avrebbe dovuto testimoniare a processo contro i Perre e gli altri coinvolti, uno o due giorni dopo la sua morte. Le sanzioni per questo caso arrivarono nel 1997/1998 e segnarono l’inizio di una serie di condanne, per droga ma non solo, in capo a membri della famiglia Perre. Ma l’attentato all’NCA del 1994 rimase sullo sfondo, perché le indagini procedettero in modo schizofrenico.

    All’inizio del settembre 1994, il direttore della pubblica accusa emise un nolle prosequi in relazione a entrambi i capi d’accusa contro Perre: non c’erano prove sufficienti. Ma l’ufficio del coroner, medico legale, dello stato dell’Australia Meridionale aprì una nuova inchiesta nel 1999. Gran parte dell’inchiesta ruotava intorno al comportamento di Domenic Perre prima e dopo l’attentato; si documentò la sua avversione nei confronti di Bowen che era diventata quasi un’ossessione. Si scoprirono molte delle menzogne che all’epoca furono raccontate alla polizia per confondere le indagini.

    Victoria Square, Adelaide

    Passarono quasi vent’anni da quell’inchiesta del coroner, ma quando la polizia dell’Australia Meridionale decise di riprendere in mano il caso, nel 2018, grazie a nuove prove finalmente disponibili, sostanzialmente decise di ripartire da li. Proprio dal comportamento di Perre e della sua famiglia, dal suo movente e dalla sua capacità di costruire un pacco bomba e porre in atto l’attentato. Il tutto ovviamente supportato da nuove prove forensi sull’esplosivo e sul DNA.

    In attesa di leggere le motivazioni della sentenza, è necessario però riprendere quella scomoda domanda sui collegamenti alla ‘ndrangheta che erano apparsi già nel 1994, e mai sono stati effettivamente né chiariti né negati.
    Nel 2018 l’accusa mi chiese di redigere una relazione – e poi presentarla alla corte – in qualità di esperta di cultura e mafia calabrese, da portare tra le prove a processo contro Perre. Le domande che mi vennero fatte erano su questi toni: «Esiste un modo per collegare la cultura calabrese e la (sotto)cultura mafiosa? Cosa hanno in comune, come si differenziano? Si può sostenere che il comportamento di qualcuno è in realtà legato a entrambe queste culture?».

    L’equazione sbagliata tra Calabria e ‘ndrangheta

    La tesi dell’accusa si basava sul presupposto che a prescindere dal fatto che l’imputato si identifichi o meno come membro della ‘ndrangheta, lui e la sua famiglia erano cresciuti e hanno vissuto in quella (sotto) cultura sia a Platì, sia in Australia. Si legge nell’atto di accusa: «Alcuni atteggiamenti culturali hanno un’influenza sulla valutazione di una serie di aspetti delle prove di questo caso, tra cui: l’importanza e la sacralità della famiglia; il ruolo delle donne; la sfiducia nell’autorità, in particolare nelle forze dell’ordine; la cultura del silenzio».

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    Australia: armi, droga e denaro sotto sequestro a seguito dell’operazione Ironside del 2021

    Bisogna chiarire: il processo contro Perre dopo 28 anni dall’NCA bombing non è un processo alla ‘ndrangheta in Australia. Eppure, denota un chiarissimo cambiamento di approccio alla criminalità mafiosa da parte delle autorità australiane. Se da una parte è molto promettente, dall’altra rischia di creare ulteriori fraintendimenti sulla presenza dell’Onorata Società nel paese.

    È promettente che si ammetta che esiste in Australia un sistema di potere criminale che si alimenta di una condivisa e cristallizzata cultura mafiosa, risultato di una manipolazione di comportamenti, valori e tradizioni calabresi che la comunità migrante ha portato con sé. Riconoscere come avviene la manipolazione della cultura migrante, cosa differenzia un mafioso calabrese, uno ‘ndranghetista, da un calabrese onesto è un passo fondamentale proprio per preservare quella stessa cultura migrante e non fare di tutta l’erba dei calabresi d’Australia un fascio.

    La “trappola etnica”

    Ma, allo stesso tempo, un focus culturale sulla mafia porta sempre con sé il seme della potenziale discriminazione. Si tratta della ‘trappola etnica’ che porta alcune autorità estere a presumere che certi atteggiamenti e certe forme di criminalità (quella mafiosa in primis) siano legati a una specifica comunità migrante, e che, di conseguenza, ci sia qualcosa di sbagliato nella cultura di uno specifico luogo, in questo caso la Calabria, che rende più probabile per coloro che da lì migrano essere coinvolti in certi tipi di criminalità. Questo è problematico in quanto non vero; i comportamenti mafiosi possono appartenere potenzialmente a tutte le culture, e sopravvivono fintanto che ci sono meccanismi economici e sociali che nulla hanno a che fare né con la cultura d’origine né con la migrazione (si pensi al supporto alla ‘ndrangheta dei colletti bianchi o dei politici o degli industriali, del nord e centro Italia come dell’Australia).

    Un panorama di Platì

    No, il processo contro Perre non è un processo alla ‘ndrangheta, ma è il primo processo australiano che davvero parla di ‘ndrangheta come sistema di potere a connotazione culturale, oltre il traffico di stupefacenti.

    Salvo il diritto d’appello e altri step procedurali, Perre – attualmente in carcere per altra condanna legata a un’importazione di stupefacenti – sconterà forse una lunga pena carceraria. Rimane però da chiedersi, conoscendo la ‘ndrangheta sia calabrese che quella australiana, quanto di concertato ci possa essere stato dietro all’NCA bombing. Se davvero ci sono dei legami della famiglia Perre con il resto della ‘ndrangheta Australiana, viene appunto da chiedersi se qualcun altro sapeva, e approvava, quest’omicidio, o se qualcuno ha aiutato dietro le quinte, anche per far si che per 28 anni non si arrivasse a una condanna.

  • MAFIOSFERA| Ucraina: il prossimo outlet di armi per la ‘ndrangheta?

    MAFIOSFERA| Ucraina: il prossimo outlet di armi per la ‘ndrangheta?

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    Ucraina e ‘ndrine: quanto è grande il pericolo? Tra i protagonisti semi-invisibili della guerra, che va avanti dal 24 febbraio 2022, ci sono le armi e i mezzi di offensiva bellica.
    Certo, di armi si parla sempre: sia per disquisire dell’attacco russo sia per comprendere la difesa ucraina. Anche perché dall’Occidente (gli Usa ma anche l’Italia) continuano ad arrivare armi in supporto all’Ucraina.
    Tuttavia, queste armi rimangono largamente “immaginate”, astratte, semi-invisibili, “ingoiate” da un conflitto che non si sa quanto ancora durerà.

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    Soldati ucraini con nuove armi occidentali

    Si spera, però, che prima o poi le ostilità finiranno. Solo allora molte cose che appaiono ingarbugliate emergeranno, anche e soprattutto fuori dall’Ucraina.

    Armi dall’Ucraina alle ‘ndrine: l’allarme di Gratteri

    A proposito di armi e della loro invisibilità, la comunità internazionale, in prima linea l’Interpol, ha lanciato l’allarme: dopo il conflitto ci potrebbe essere un’iniezione di armi da guerra sul mercato nero, a disposizione di gruppi criminali che le acquisteranno o faranno affari col loro traffico.

    In Italia, ha ribadito il monito, tra gli altri, il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri.
    Gratteri, durante un’intervista a Piazza Pulita del 27 maggio, ha avvertito che la guerra in Ucraina potrebbe avvantaggiare la ’ndrangheta proprio per l’accesso al mercato illegale delle armi da guerra.

    Il magistrato aveva già fatto riferimento al Crimine, una struttura all’interno di ogni locale di ‘ndrangheta, che agirebbe come Ministero della guerra.
    Il suo compito, commenta il procuratore, è anche procurarsi armi per “l’esercito”: «Già era successo dopo la guerra in Jugoslavia, dove la ‘ndrangheta acquistava esplosivo, armi, bazooka. Lo stesso accadrà in Ucraina, con armi ancora più sofisticate: si potranno comprare a prezzo di outlet, perché la gente avrà fame, e non si sa in che mani vanno a finire».

    Il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri

    Povertà in Ucraina e armi low cost alle ‘ndrine

    Queste espressioni fanno riflettere sulla disponibilità di armi a basso costo, dovuta alla povertà della popolazione ucraina. Inoltre, mettono l’accento sulla praticabilità e permeabilità di questo mercato illecito da parte della ‘ndrangheta.
    Da un punto di vista analitico, però, non tutto è poi così chiaro o determinato o giustificato. D’altronde non spetta certo al procuratore Gratteri offrire analisi di criminologia, visto che lui fa un altro lavoro.

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    Un catalogo d’armi nel dark web

    Eppure, diversi commentatori hanno rilanciato l’allarme, incluso il riferimento alla ex Jugoslavia. Essi hanno fatto capire che la ‘ndrangheta, ma non solo, potrebbe intervenire in diversi settori della guerra Russa-Ucraina oltre che in quello delle armi (ma non si sa bene quali siano questi settori) e che il traffico di armamenti include percorsi virtuali (il dark web).
    Come spesso succede negli shock geopolitici (disastri naturali, crisi sanitarie e umanitarie, guerre e via discorrendo) si rischia di reagire con un’iperbolica percezione – e narrazione – del rischio. E questa, a sua volta, genera un fenomeno noto in criminologia: il panico morale.

    Il panico morale

    Per panico morale si intende il processo per cui un evento (o un gruppo) ordinario e già esistente viene percepito e raccontato dai media come straordinario.
    In questo caso, l’evento ordinario e presente è il traffico di armi. A esso viene associata una minaccia straordinaria legata alla guerra in Ucraina.
    Proprio com’è stato per la pandemia, si rischia di esemplificare uno scenario complesso e poliedrico – il traffico di armi (da guerra e non) – attribuendo alle mafie la deterministica volontà, basata su una capacità scontata, di cogliere una ghiotta occasione di arricchimento.

    La mafia onnipotente? Non esageriamo

    Non vorrei essere fraintesa: è indubbio che alcuni gruppi mafiosi vogliono cogliere tutte le opportunità di arricchimento. E sono innegabili le condanne subite negli anni dai membri di alcuni clan per la detenzione di armi, comuni e da guerra (si veda per esempio la sentenza d’appello per il processo Mandamento Ionico di qualche giorno fa), e per il loro traffico (preponderante nel processo Imponimento ancora a dibattimento).

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    La lettura della sentenza del processo “Mandamento Ionico”

    Eppure, la capacità della ‘ndrangheta – o meglio di alcuni suoi clan – di entrare e avere successo in un settore (nuovo o improvvisamente rivitalizzato) non è mai predeterminata.
    Affermare il contrario – e quindi rendere assolute evidenze occasionali e sporadiche – o parlare al futuro anziché al condizionale, crea solo una forma di panico morale, secondo cui, ancora una volta, la mafia è onnipotente e incontrastabile.

    Armi e ‘ndrine: il mercato nero in Ucraina

    Nelle crisi e nelle opportunità che esse offrono il successo di nuove o rincarate imprese mafiose dipende da tre fattori: la natura del mercato; la natura degli attori nel mercato e i meccanismi di controllo e contrasto.
    Per quel che riguarda la natura del mercato e i suoi attori dal punto di vista dell’offerta, è interessante l’analisi del Global Organised Crime Index. Secondo questo studio, l’Ucraina vanta da anni uno dei più estesi mercati di armi in Europa. Non è dunque una novità di questa guerra, ma un primato consolidato dal conflitto nell’Ucraina orientale di quasi dieci anni fa.

    L’identikit dei trafficanti

    In Ucraina, la maggior parte delle armi era già trafficata all’interno del Paese (e ora anche inviata in supporto alla guerra). Tuttavia i network impegnati nel traffico illegale di armi nel paese non sono individuali o spuri. Né sono collegati necessariamente a condizioni transitorie di povertà.
    Inoltre, sono collegati a network criminali in Russia, Bielorussia, Moldavia, Georgia e Turchia, oltre che a broker e acquirenti in Paesi dell’UE e dell’ex Jugoslavia.

    Armi dal mercato nero balcanico

    Dal punto di vista della domanda, in Europa occidentale – quindi anche in Italia – il commercio maggiore riguarda le armi leggere. In questo mercato dominano le forniture provenienti dall’ex Jugoslavia e dai network balcanici che dominano le rotte. Laddove è relativamente facile, per i gruppi criminali europei – ’ndrangheta inclusa – procurarsi una pistola o un fucile d’assalto, molto più difficile risulta reperire un Rpg (lanciarazzi) o una mitragliatrice e i loro ricambi. Per farlo occorrono denaro e i giusti collegamenti nell’area.

    Armi ucraine: il vero mercato non è l’Europa

    È probabile che la maggior parte delle armi provenienti dall’Ucraina – che in Europa sembrano quasi un esubero – sarà destinata ad altre zone di conflitto. Cioè l’Iraq, la Siria e la Libia.
    In questi luoghi, molto più che da noi, c’è una domanda di armi pesanti tale da renderne redditizio il traffico.
    Ciò non vuol dire che qualcuno dei “nostri” gruppi criminali non acquisterà ulteriori armi da guerra. Né che, in alcune circostanze, persone vicine ai clan calabresi non si occuperanno di traffico di armi dalle zone ora in guerra.

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    Miliziano in azione nel teatro libico

    Il business è lucrativo e soprattutto già abbondantemente avviato. Le motivazioni dei clan mafiosi nell’acquisto di tali armi poi, sono ancora tutte da comprendere. Ad ogni modo, nel grande schema del mercato in questione, degli incentivi per l’acquisto e dei suoi attori, le armi ucraine andranno massicciamente altrove.

    Non sottovalutiamo l’allarme

    Occorre comunque prendere sul serio l’allarme di Interpol e di Gratteri, sebbene lo si debba sfrondare dai toni deterministici e assoluti: anche poche armi in più possono fare la differenza nel danno sociale.
    A livello internazionale si discute da tanto del mercato delle armi per prevenirne il traffico.

    Rimedi necessari ma insufficienti

    Al riguardo, si parla di potenziare il tracciamento di ogni singola arma, e dell’aumento delle risorse di polizia internazionale per comprendere i network e le rotte criminali. Ma, come in molti altri traffici illeciti, il problema è la produzione del bene illecito, e non tanto il suo sfruttamento.
    Detto altrimenti: il nodo vero nel contrasto al traffico di armi è l’esistenza stessa delle guerre, senza le quali non si produrrebbero tante armi.
    Perciò, rendere il traffico di armi meno lucrativo per i gruppi criminali e potenziare i controlli, non può purtroppo essere strategia sufficiente, se dopo questa guerra ce ne sarà un’altra.

  • MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta della porta accanto

    MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta della porta accanto

    Ci sono circa 5.000 mafiosi italiani in Australia divisi in 51 clan di cui 14 di ‘ndrangheta. Questa la notizia con cui ci si è svegliati nel nostro emisfero la mattina del 7 giugno. Capita spesso di arrivare ‘tardi’ quando qualcosa accade in Australia; complice il fuso orario al nostro risveglio è già successo molto Down under. I principali canali di comunicazione australiani, dall’ABC (Australian Broadcasting Corporation) al The Guardian, hanno pubblicato nella notte la notizia, già commentata in radio e in tv locali, e twittata e condivisa sui social plurime volte, ripresa da un lancio stampa sul sito dell’Australian Federal Police. Nel leggere il comunicato stampa dell’AFP, prima ancora che le news rielaborate, si comprendono una serie di cose.

    Fbi e telefoni criptati: AN0M

    Primo: non si tratta di un’operazione in corso, ma di una serie di chiarimenti sull’operazione Ironside, altrimenti conosciuta come AN0M. Proprio un anno fa, l’8 giugno 2021, uno sforzo congiunto tra FBI americana e AFP australiana portava a centinaia di arresti, oltre 700 in tutto di cui 340 solo in Australia, in Australia, grazie a un’idea geniale: intercettare una app criptata, AN0M, che funzionava solo su un particolare tipo di telefono che costava oltre 2.000 dollari e non aveva accesso né a mail né a GPS, dunque irrintracciabile.

    Calabresi d’Australia e influencer della ‘ndrangheta

    App e telefoni, ideati appunto dalla FBI – che chiamò l’operazione Trojan Shield – erano stati introdotti nel mercato criminale grazie a degli “influencer”, cioè membri di spicco della criminalità australiana la cui voce e reputazione fosse in qualche modo adeguata per un’operazione di marketing. Tra questi, un certo Domenico Catanzariti, di Adelaide nell’Australia meridionale, che di giorno fa l’orticoltore, e nel tempo libero, dicono gli inquirenti, importa cocaina e altri narcotici dall’Europa grazie a un network di ‘ndrangheta e di altri trafficanti locali, tra cui altri australiani di origini calabresi, come Salvatore Lupoi e Rocco Portolesi ad esempio. Altri nomi, chiaramente di origine calabrese, sono quelli di Francesco Nirta e Francesco Romeo, arrestati nell’Australia meridionale. Gli arresti tra Stati Uniti e Australia e alcune indiscrezioni su questo caso sono quindi roba dell’anno scorso. Li hanno ripescati un anno dopo quasi in commemorazione di questa grossa operazione del 2021.

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    Il porto di Melbourne, dove molta della droga importata dai calabresi continua ad arrivare

    Il contributo dell’Italia

    Secondo: l’AFP chiarisce che molta dell’intelligence che si è riusciti a ricavare dall’intercettazione della piattaforma AN0M, è stata studiata in questi mesi grazie all’aiuto delle autorità italiane, di Europol e di Interpol, in particolare il programma I-CAN (Interpol Coordination Against the ‘Ndrangheta), in cui l’Australia è uno degli 11 paesi coinvolti. Per questo oggi, e non un anno fa, si riescono a dire una serie di cose a riguardo della presenza mafiosa nel paese, tipo il fatto che alcuni ‘ndranghetisti prendano ‘ordini’ dalla Calabria, o mantengano vivi i rapporti con la madrepatria, oppure che operino insieme ad altri gruppi locali su cui a volte esercitano un notevole potere.

    Come bande di motociclisti

    Terzo: c’è un problema di numeri. L’AFP dice che «ci sono 51 clan di criminalità organizzata italiana in Australia. Abbiamo identificato e confermato 14 clan di ‘ndrangheta in Australia, che contano migliaia di affiliati». E ancora «La nostra intelligence suggerisce che il numero di affiliati potrebbe essere simile a quello delle bande di motociclisti» che, per chi non lo sapesse, sono da anni il nemico numero uno delle forze di polizia nella criminalità organizzata australiana. Si è dunque calcolato, arbitrariamente e senza né conferma né smentita dalle forze dell’ordine, che si tratti di circa 5.000 affiliati, visto che appunto questi sono i numeri correnti anche per i motociclisti.

    Bikers di una gang australiana

    E gli altri 36 clan?

    Chi siano poi i 36 clan, di 51 menzionati, che non siano legati alla ‘ndrangheta non è dato ancora sapere. Probabilmente si tratta di altri gruppi criminali, a prevalenza italiana, legati a opportunità nel mondo del traffico di stupefacenti e/o ad altri gruppi minori. Ma il comunicato stampa non parla d’altro che di ‘ndrangheta e si ‘scorda’ di approfondire tutti gli altri ‘criminali italiani’. Visto ciò che si sa sulla criminalità di origine calabrese in Australia verrebbe da pensare che le affiliazioni mafiose siano un po’ più evolute e forse anche un po’ più specifiche del mero attributo etnico ‘italiano’, sebbene sicuramente dai contorni sfumati e di difficile comprensione.

    I 100 anni della ‘ndrangheta in Australia

    Volendo entrare ancora un po’ più a fondo in questa notizia, bisogna sollevare una serie di critiche. Innanzitutto, risulta strano il senso di urgenza e il senso di novità che accompagna questa notizia, non solo nel comunicato dell’AFP quanto in tutto ciò che ne è seguito. Sembrerebbe, a leggere le notizie, che si sia appena scoperta o confermata la presenza della mafia in Australia.
    Questo farebbe quasi ridere: l’Australia è l’unico paese al mondo dove la ‘ndrangheta – e solo la ‘ndrangheta in maniera strutturata – è presente da 100 anni. Anzi, si festeggerà il centenario a dicembre 2022, in ricordo della nave Re D’Italia che ha approdato a Fremantle, Adelaide e Melbourne nel dicembre 1922 portando i tre fondatori della onorata società dalla Calabria all’Australia.

    Adelaide, il pavimento del Museo dell’immigrazione

    Tanta confusione, anche per colpa nostra

    Questo aspetto leggendario della nascita della ‘ndrangheta australiana ne dimostra la forte valenza identitaria. Dal 1922, ciclicamente, l’Australia passa da momenti di panico mediatico a momenti di totale blackout nel capire, ricercare, perseguire la ‘nostra’ mafia. A volte a indurre la confusione sono state le autorità italiane: la commissione parlamentare antimafia negli anni ’70, interpellata dalle autorità australiane su alcuni eventi di sangue nelle comunità calabresi d’Australia, risponderà che non si tratta di mafia (la mafia è siciliana!) e che il mafioso non potrebbe comunque vivere così lontano dal Sud Italia. A volte, è stato per mancanza di fondi che si è smesso di analizzare il fenomeno: la famosa operazione Cerberus proprio sulla criminalità organizzata calabrese e italiana, guidata negli anni 90 dalla National Crime Authority, si chiuse al voltar del secolo per assenza di interesse e risorse.

    La culla della ‘ndrangheta in Australia

    Insomma, tutto si può dire tranne che la ‘ndrangheta sia un fenomeno urgente e nuovo oggi in Australia, quando nella storia del paese ci sono addirittura omicidi eccellenti legati a questi clan (se ne parlerà nelle prossime puntate della rubrica sicuramente). Inoltre, è in Australia – e non in Italia – che si sono per la prima volta definiti i caratteri organizzativi dell’Onorata Società – in contrapposizione con la mafia siciliana Cosa Nostra – principalmente all’epoca a Melbourne oltre che in una città del Nuovo Galles del Sud, Griffith – considerata la ‘culla’ della ‘ndrangheta platiota in Australia – in documenti di polizia del 1958 e poi nel 1964.

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    L’Italian museum di Griffith. La città del New South Wales è considerata la patria della ’ndrangheta in Australia

    Un pericolo tutto calabrese

    Un ulteriore riflessione meritano poi proprio i numeri che arrivano da operazione Ironside. L’AFP negli anni, principalmente dal 2006-2007 quando ha ripreso a occuparsi a tempo pieno di questo fenomeno, ha sempre ammesso che il ‘pericolo’ in Australia è sempre stato solo associato alla ‘ndrangheta. E che gli altri gruppi criminali a cui collaborano persone di discendenza o origine italiana non sono qualificabili come ‘mafie’ né sono cosi rilevanti come la ‘ndrangheta australiana.
    Inoltre, l’AFP lavora per mappe familiari quando si tratta di ‘ndrangheta – family trees – più o meno corrispondente alla ‘ndrina, basata sul cognome e sulle alleanze familiari.

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    La prima pagina del report del 1958 sulla Onorata Società a Melbourne

    L’Australia e la ‘ndrangheta della porta accanto

    In base alla ricerca condotta negli anni sulla ‘ndrangheta in Australia, alla sottoscritta risulta difficile pensare che ci siano “solo” 14 ‘ndrine soprattutto se ci si continua a chiedere chi siano i rimanenti 36 clan dei 51 annunciati. Si potrebbe invece ipotizzare una confusione tra ‘ndrina e locale, non inusuale all’estero, laddove 14 locali e/o 51 ‘ndrine potrebbero effettivamente corrispondere a più realtà. Il che potrebbe ridimensionare anche i numeri totali, nonostante l’affermazione del commissario AFP Nigel Ryan, riportata dal Guardian, secondo cui «è interamente possibile che qualcuno viva vicino a un membro della ‘ndrangheta senza saperlo».

    Il metodo Falcone

    Ma per saperne di più ovviamente si aspettano ulteriori dati. Fatto sta che non risulta contestato che la ‘ndrangheta australiana abbia sue connotazioni precise, storicamente rilevanti e totalizzanti nel panorama criminale ‘italiano’ del paese, dove i clan – soprattutto di origine aspromontana e ionica – offrono continuità e protezione criminale. Si tratta comunque di una notizia che fa ben sperare per il futuro degli sforzi antimafia in Australia. Infatti, come ricorda l’AFP, si è scelto di proseguire tali sforzi partendo dal metodo Falcone, quindi da un focus sul riciclaggio di denaro e il movimento di fondi illeciti nell’economia.

    Il problema non sta certo nella volontà o nella capacità delle autorità australiane nell’agire in questo senso, ma più che altro sta nella difficoltà tecnica di coordinare operazioni di polizia e processi trans-giurisdizionali all’interno di quello che è effettivamente uno stato-continente. Inoltre, il rinnovato interesse all’argomento porterà sicuramente dei finanziamenti e ricalibrerà le priorità delle forze di polizia nel paese che è conditio sine qua non per l’analisi corretta del fenomeno.

    Troppe sfaccettature per un solo metodo di contrasto

    Rimane però da chiedersi se sarà questo finalmente il momento di svolta della lotta antimafia in Australia, e cioè quel momento in cui le autorità down under finalmente inizieranno a perseguire il fenomeno ‘ndrangheta sulla stregua di quello che la ricerca criminologica degli ultimi anni riesce a intuire: un fenomeno multi-sfaccettato contro cui non funziona un solo metodo di contrasto e con diverse manifestazioni da Perth a Sydney, passando per Brisbane, Adelaide, Melbourne, Canberra e l’hinterland.

    Il cimitero di Melbourne, a Carlton, storica e attuale Little Italy e ultima residenza di molti calabresi, ‘ndranghetisti e non

    Particolarmente avvezza alla prossimità politica, con influenza e interesse anche ad alti livelli nazionali, capace ancora di vittimizzare alcune frange della comunità calabrese, meridionale e italiana, e inserita in modo totalmente integrato nella storia economica e sociale del paese, la ‘ndrangheta in Australia, a chi scrive, è sempre sembrata una delle formule più riuscite della mobilità mafiosa.

  • Mafiosfera| La ‘ndrangheta invisibile del porto di New York

    Mafiosfera| La ‘ndrangheta invisibile del porto di New York

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    In un ufficio pieno di carte, con una scrivania disordinata e faldoni incolonnati a terra, legati alla meno peggio con nastri, pezzi di corda e grandi elastici verdi, nell’aprile del 2018 a Manhattan ho incontrato il direttore esecutivo della Waterfront Commission of New York Harbour, la commissione del porto di New York. Un uomo dall’esperienza decennale come pubblico ministero antimafia, o meglio anti Cosa Nostra americana, Walter Arsenault è diventato Executive Director della Waterfront Commission nel 2008. Ha una conoscenza profonda del fenomeno mafioso newyorkese, principalmente e notoriamente legato alle cinque famiglie storiche: Gambino, Genovese, Lucchese, Colombo, Bonanno.

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    Walter Arsenault, Executive Director della Waterfront Commission

    Ma in quell’occasione, insieme ad alcuni agenti della Commissione, parlammo di ‘ndrangheta. E – con mio stupore – non solo di traffici illeciti via navi container attraverso il porto – che era il mio oggetto di ricerca in quel momento. Ma andiamo con ordine. La Waterfront Commission è periodicamente sui giornali – da ultimo il Financial Times qualche giorno fa – in quanto la sua esistenza è oggetto di contenzioso. E non di contenzioso qualunque. È addirittura questione di stato. Anzi di Stati: New York e New Jersey.

    New York: da Brando alla ‘ndrangheta

    Se si pensa a mafia e porto di New York, alcuni forse ricorderanno un vecchio film in bianco e nero del 1954, Fronte del Porto, (On the waterfront) con un giovanissimo Marlon Brando. Tra le altre cose, il film ci racconta di Johnny Friendly, a capo del sindacato dei portuali, che detiene il controllo delle banchine, oltre a essersi macchiato di svariati delitti, frustrando gli sforzi delle forze dell’ordine e di una commissione – proprio la Waterfront Commission – sulla criminalità portuale che tentano di portare avanti le indagini sul fronte del porto. La Commissione, infatti, è nata un anno prima dell’uscita del film, nel 1953. E ha fino ad oggi un mandato e una struttura molto peculiare.

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    Marlon Brando diretto da Elia Kazan in una scena di Fronte del Porto

    Un porto per due Stati

    Innanzitutto, è un’istituzione gestita da due stati, New York e New Jersey, perché a cavallo tra questi due stati si spalma quello che è il principale porto della costa orientale degli Stati Uniti d’America. Dopo quasi 70 anni di storia, il mandato della Waterfront Commission è cambiato certamente, ma non poi così tanto. Nata per contrastare il potere delle famiglie mafiose appartenenti a Cosa Nostra americana sulle banchine del porto e soprattutto il loro controllo delle procedure di reclutamento dei sindacati dei portuali, ad oggi ancora si occupa principalmente di questo.

    La Commissione è chiamata a controllare che chiunque lavori o venga in contatto col porto non abbia legami con il crimine organizzato, e in particolare con la mafia. Per farlo, gestisce autonome unità di intelligence e di polizia che sono un unicum spaziale e temporale. Non esiste altrove una realtà simile, con tale competenza sulla criminalità dentro un porto (e anche fuori dal porto a dire il vero) e da così tanto tempo.

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    Una barca della Waterfront Commission in azione a NYC

    Il New Jersey, la Commissione e il sindacato

    Quale sarebbe dunque il contenzioso? Il New Jersey, nelle persone dei suoi ultimi due governatori, Chris Christie prima e Phil Murphy al momento, ha deciso che la Waterfront Commission non serve più, al punto tale da legiferare, unilateralmente nel 2018, per la rescissione del suo operato proprio in New Jersey. Ne sono nate battaglie legali, finite anche in Corte Suprema – che a marzo scorso ha bloccato l’uscita unilaterale del New Jersey dalla giurisdizione della Commissione.

    Ma all’origine di tutto questo clamore c’è una fondamentale differenza di vedute – o diciamo pure la negazione da parte dei politici del New Jersey – di quello che è oggi il crimine organizzato nel porto di New York, oltre al protrarsi di una sorta di guerra fredda – che dura da 70 anni – tra il sindacato dei portuali, l’International Longshoremen Association (ILA), e la Commissione.

    Il potere della criminalità

    Secondo il governatore del New Jersey Murphy, non ha senso mantenere in vita un ente formato nel 1953, oggi come oggi «inefficace». Un sostenitore di Chris Christie nel 2018, affermava che la Commissione è un impedimento alla crescita economica del porto. Repubblicani e Liberali in New Jersey, insomma, dubitano che serva una commissione che controlli le pratiche di reclutamento del porto, oggi che il potere della mafia a New York è inferiore a qualche decennio fa e l’evoluzione tecnologica ha comunque portato alla riduzione della manodopera sulle banchine. E si sbagliano.

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    L’ex governatore del New Jersey, Chris Christie

    Infatti l’ultima relazione pubblicata dalla Commissione ci dice che il 18% di chi chiede di lavorare al porto nel 2020 – che tra l’altro è un lavoro particolarmente lucrativo a New York (un stipendio medio da portuale si aggira tra i 100,000 e i 200,000 dollari annui secondo i dati pubblici della Commissione) – è stato rifiutato per ‘legami con la criminalità organizzata’. E dice pure che esistono ancora, come esistevano nel 1953 seppur con le dovute differenze, ingerenze pesanti della mafia cittadina sui sindacati. In particolare sull’ILA, il sindacato dei portuali.

    I Gambino, i Genovese e le assunzioni al porto

    Non stupisce affatto. George Barone, affiliato alla famiglia mafiosa Genovese, durante il processo US vs Coppola (2008-2012) confermò che la cosca utilizzava «intimidazione, paura, qualunque cosa» per continuare a controllare la forza lavoro sul porto, estorcendo i membri dell’ILA e gestendone le sorti grazie a presidenti complici. Uno dei presidenti della sezione numero 1235 dell’ILA, Albert Cernadas, fu infatti arrestato nel 2010 proprio per condotte di racketeering (il termine legale usato in USA per crimini simili a quelli di mafia). Fu rivelato in questi casi, come fu proprio la famiglia Genovese a decidere che un certo Harold Daggett, dovesse poi diventare (e tutt’ora rimanere) presidente dell’ILA.

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    Harold Daggett

    Nel 2007, una causa civile contro l’ILA, ancora non risolta, si spinge a dire che Harold Daggett non era/è solo un presidente corrotto, ma sarebbe proprio membro di un’organizzazione criminale che esercita influenza sul porto di New York, con associati sia delle famiglie Gambino che Genovese, il cosiddetto “Waterfront Group”. La vicinanza, personale e politica, tra Harold Daggett e l’ex governatore del New Jersey Chris Christie, hanno poi fatto ipotizzare la chiusura del cerchio: l’opposizione del New Jersey alla Waterfront Commission si rispecchia spesso nelle posizioni prese dall’ILA. Non è difficile quindi vedere come le percezioni di corruzione e malaffare sul porto siano legate ai legami opachi tra la politica e i sindacati.

    ‘Ndrangheta a New York

    E che c’entra qui la ‘ndrangheta? Il riferimento non è (del tutto) diretto; a parte qualche indagine, per esempio Columbus o New Bridge che hanno osservato nuclei ‘ndranghetisti muovere cocaina tramite il porto di New York con l’aiuto di sodali in loco, pochi e sporadici – seppur costanti – sono i dati pubblici sui collegamenti della ‘ndrangheta con le famiglie newyorkesi. Eppure, è proprio nelle parole della Waterfront Commission che troviamo un dato interessante. Nella relazione del 2018 infatti la Commissione rivela di aver ricevuto domande di impiego al porto – non approvate – da soggetti italiani, calabresi, legati alla ‘ndrangheta.

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    I boss protagonisti di “Fear City”, docu-serie di Netflix sulle cinque famiglie

    Questo dato apparentemente banale, rivela molto di più. Infatti, appurato che l’influenza sul porto di 2 delle 5 famiglie di New York, Gambino e Genovese, rimane particolarmente invasiva per quanto riguarda il reclutamento, rimane da chiedersi quale sia il rapporto tra questi presunti ‘ndranghetisti – che vengono addirittura ‘mandati’ dalla Calabria a lavorare al porto – e le famiglie mafiose newyorkesi. Non è questo un esercizio di retorica, ma semmai un problema di analisi. Tutte le mafie vivono anche di reputazione: più solido è il loro brand, più saranno resilienti e riconosciute. Nonostante i tanti ‘successi’ criminali della ‘ndrangheta, a New York il brand delle 5 famiglie è quello vincente.

    Calabresi di nascita, siciliani d’adozione

    Da decenni, le ‘ndrine si muovono dentro le famiglie Gambino e Genovese abbandonando la loro ‘calabresità’ e ‘obbedendo’ al marchio dominante. Proprio per questo in nessun altro luogo, come a New York, è così difficile capire il vero potere – oltre ai traffici illeciti – della ‘ndrangheta. Ma ci sono individui, soprattutto legati alle ‘ndrine di Siderno (Commisso-Macrì), della costa ionica, ma anche legati ai cognomi ‘pesanti’ del rosarnese, che oggi hanno raggiunto posizioni apicali all’interno delle famiglie newyorkesi. Negli anni, molti hanno diversificato le loro attività, investendo nella logistica portuale e inserendosi nelle imprese dedite alle infrastrutture del porto. Sono questi individui a ‘invitare’ giovani leve dalla Calabria a venire a lavorare al porto e a indirizzarli nelle file delle famiglie Genovese e Gambino. Sicuramente tutto ciò conferma come la Waterfront Commission sia ancora molto necessaria.

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    Il porto di New York

    Quando si parla dunque di mafia nel porto di New York, bisogna tenere a mente che parte della storia di questa mafia non è oggi molto chiara. E che ancora la si percepisce, errando, con una stereotipata composizione ‘siciliana’. Una volta compreso l’inghippo analitico che affligge ancora la mafia americana, realizzare che la ‘ndrangheta a New York è inserita all’interno delle famiglie storiche da decenni, mantiene i contatti con l’Italia – e, soprattutto, con il Canada (ma questa è un’altra storia…) – ed è oggi una forza dinamica anche all’interno della contestata realtà portuale, potrebbe generare quesiti molto difficili da affrontare, su politica, sindacati e ‘ndrine, tra New York e New Jersey.

  • MAFIOSFERA| Luna di miele con delitto: si fa presto a dire ‘ndrangheta

    MAFIOSFERA| Luna di miele con delitto: si fa presto a dire ‘ndrangheta

    Le spiagge di Cartagena, città caraibica sulla costa nord della Colombia, in queste settimane sono invase dal sole e dai colori. Cartagena non è solo una bellissima città, dove il giallo-oro ispanico-coloniale si mischia perfettamente al rosso, verde e blu di cibo, vestiario e vita di strada. È anche una città la cui posizione geografica ha sempre attirato molto turismo e reso il territorio un importante hub commerciale, grazie anche al porto, il più importante dei Caraibi.

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    Il magistrato paraguayano Marcelo Pecci con la moglie, la giornalista Claudia Aguilera

    Marcelo Pecci ucciso in luna di miele a Cartagena

    L’isola di Barù a poche miglia da Cartagena è stata l’ultima meta turistica del procuratore paraguayano Marcelo Pecci, ucciso il 10 maggio 2022 a colpi di pistola da individui su una moto d’acqua venuta dal mare, mentre era sulla spiaggia con la moglie, la giornalista Claudia Aguilera. I due, appena sposati e in luna di miele, avevano appena annunciato sui social di aspettare il loro primo figlio, cosa che ha reso questo omicidio, se possibile, ancora più tragico.

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    Il procuratore Marcelo Pecci e la moglie: le scarpette del bambino che il giudice non potrà conoscere

    Marcelo Daniel Pecci Albertini aveva 45 anni e aveva dedicato gli ultimi anni della sua professione alla lotta al narcotraffico e al crimine organizzato, anche nelle sue manifestazioni terroristiche, tra Paraguay, Colombia, Bolivia e il resto dell’America Latina. “A Ultranza Py“, l’operazione anti-droga e antiriciclaggio che lo aveva coinvolto in prima linea insieme alla Drug Enforcement Administration – la DEA americana – colleghi uruguayani e forze di polizia di Europol, aveva portato, solo un paio di mesi fa, il presidente del Paraguay Mario Abdo Benítez a chiedere le dimissioni di due ministri, per il loro coinvolgimento con dei narcotrafficanti tra Brasile e Paraguay.

    Le vie della coca: Paraguay e ‘ndrangheta

    L’operazione, infatti, si concentra sul ruolo che il Paraguay ha assunto nel panorama del narcotraffico da Bolivia e Colombia verso l’Europa sfruttando i container, la logistica e i network brasiliani da un lato, e i porti, la rete di distribuzione e la disponibilità di capitali in nord Europa. Che il Paraguay sia diventato un paese chiave per comprendere il traffico di cocaina dai paesi produttori, non è una novità.

    L’indice globale sulla criminalità organizzata redatto dall’Ong The Global Initiative Against Transnational Organized Crime nota come in Paraguay sia non solo aumentata la capacità di lavorare la coca, dunque diventando una tappa importante della catena di produzione, quanto sia anche aumentata la presenza – proprio per questo – di gruppi brasiliani sul territorio, come ad esempio il PCC – Primeiro Comando da Capital – temuta organizzazione criminale che da anni – si dice – essere in combutta con i peggiori (o migliori, dipende dai punti di vista) ‘ndranghetisti. Dal Brasile infatti, ‘ndranghetisti importatori di stupefacenti, hanno da lungo tempo stabilizzato una delle rotte più importanti dell’approvvigionamento di cocaina verso l’Europa.

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    Il Paraguay è una tappa fondamentale della catena di produzione e commercializzazione della cocaina

    Colletti bianchi in Sud America

    Questo lo sapevo sicuramente Marcelo Pecci, che infatti proprio a dicembre 2021 si era recato a Buenos Aires a incontrare l’esperto per la sicurezza italiana stazionato in Sud America. Avevano discusso anche di ‘ndrangheta, come ricorda proprio un suo tweet. In un’intervista rilasciata sotto Natale a La Nacion, il procuratore parlava molto lucidamente della presenza della mafia calabrese in Paraguay e avvertiva che membri di questa organizzazione nel suo paese «sono persone con preparazione accademica e senza precedenti penali», le cui attività commerciali «vanno da ristoranti a hotel, il tutto con un sistema di comunicazione attento e cifrato»; i soliti fixer in colletto bianco. Marcelo Pecci notava come ci fossero cittadini italiani indagati, ma come ciò non significasse che venissero necessariamente considerati parte dell’organizzazione.

    La ‘ndrangheta dietro la morte di Marcelo Pecci?

    Il procuratore paraguayano aveva compreso bene, dunque, che la ‘ndrangheta d’oltremare è una criminalità affarista, che si protegge spesso con la legge – nei gangli della società – e non dalla legge – come spesso fanno i gruppi di narcotrafficanti, con armi, forza bruta e terrore. Nonostante la chiarezza delle analisi di Pecci (decisamente più bilanciate di tante disamine italiane sull’argomento della ‘ndrangheta all’estero), e sicuramente complice lo shock della notizia del suo omicidio, è subito stata paventata, da alcuni canali di informazione italiani e non solo, l’ipotesi che dietro questo atto efferato ci fosse proprio la ‘ndrangheta. Non a caso si parla, in Italia, dell’ombra della mafia calabrese tra i possibili mandanti del crimine.

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    Marcelo Pecci, magistrato paraguayano ucciso sulla spiaggia di Cartagena, in Colombia

    Marcelo Pecci diventa pm antimafia

    A sostegno di questa tesi, sposata anche da canali spagnoli, proprio quelle indagini discusse da Pecci nel dicembre 2021, e alcuni arresti che ne sono seguiti. Non mancano riferimenti alla sua discendenza italiana. Tra i giornali italiani si intervistano magistrati, da Gratteri a Ingroia, perché speculino (ché di pura speculazione si tratta) su queste voci e in generale ché parlino dei rischi di chi è esposto in prima linea nella lotta al crimine organizzato. Non a caso poi Pecci, il cui ruolo ufficiale era ‘Fiscal Especializado contra el Crimen Organizado’, diventa nelle news italiane ma anche straniere “pm antimafia”. Perché quando si tratta di morire per mano di gruppi organizzati dediti, tra le altre cose, al narcotraffico e al riciclaggio, siamo noi – italiani, o meglio siciliani e calabresi – a saperne di più, nel bene e nel male.

    In quest’ottica la corsa a far commentare la notizia dai procuratori nostrani non è di per sé cosa stranissima: Gratteri ammette di non averlo conosciuto di persona e si concentra sui metodi “mafiosi” utilizzati. Vista la nota efferatezza dei narcos, Ingroia si chiede come mai non fosse protetto. Altri commentatori poi dicono che «è perfettamente possibile» che ci sia la ‘ndrangheta dietro all’omicidio.

    L’ex magistrato siciliano Antonio Ingroia

    Perché potrebbe non essere un omicidio di ‘ndrangheta

    Sarà anche perfettamente possibile ma è veramente improbabile per almeno tre ragioni con la natura del crimine organizzato di cui si occupava il procuratore Pecci. Primo, quei narcos efferati, come li definisce Ingroia, come già detto scelgono lo scontro diretto con lo Stato perché il loro potere si fonda – tra le altre cose – sulla paura (e non solo sul consenso) e sulla sopraffazione violenta di qualunque competitore: i loro mezzi sono pertanto molto più violenti che in altre parti del mondo e soprattutto impiegati senza necessariamente che ci siano delibere dall’alto del gruppo criminale, spesso molto più fluido nell’organizzazione.

    Questione di metodo

    Secondo, se si va a guardare quel metodo mafioso di cui parla anche Gratteri, non può non notarsi che se il metodo terrorista-brutale è stato certamente usato dalle nostre mafie (cade questa settimana proprio il trentennale del morte di Giovanni Falcone), la ‘ndrangheta è stata molto più parsimoniosa di questo strumento soprattutto per “esterni” all’organizzazione. Bisognerebbe poi capire di “quale” ‘ndrangheta staremmo poi parlando, perché – come ci ha ricordato Pecci – in America Latina – soprattutto Paraguay, Brasile e Colombia – non sembra esserci capacità decisionale dell’organizzazione calabrese a questi livelli – quindi il massimo ipotizzabile è una partecipazione secondaria degli ‘ndranghetisti a una vicenda del genere.

    Terzo, infine, non dimentichiamo poi che un omicidio a migliaia di chilometri di distanza, in territorio altrui non è organizzabile in poche settimane (come in questo caso sarebbe successo se davvero l’operazione A Ultranza Py fosse la ragione scatenante) perché richiede contatti locali e supporto in caso seguano indagini dal carattere imponente; un’organizzazione cauta e sotto-esposta come la ‘ndrangheta dovrebbe, a rigor di logica, vedere un omicidio del genere come un’attività molto rischiosa e poco utile.

    Orgoglio e pregiudizio

    Detto questo, come mai si vuole tirare dentro per forza in questa vicenda la ‘ndrangheta, come mandante, o anche solo i metodi mafiosi? Da una parte perché la nostra concezione della mafia, come anche dell’antimafia, è etnocentrica e relativista: cioè, in molti magari pensano che la mafia, e dunque anche la ‘ndrangheta, siano non solo archetipo ma anche prototipo del crimine organizzato nel mondo. Così non è, le mafie sono in realtà tra le forme di crimine organizzato meno diffuse sul pianeta, senza volerne negare diffusione o pericolosità ovviamente.

    Inoltre, soffriamo in Italia – e ultimamente anche in Calabria – di orgoglio negativo nei confronti della mafia e della ‘ndrangheta. Il paese, l’Italia, che ha l’antimafia più forte del mondo (così va il noto adagio) – orgoglio positivo – ha anche le mafie più forti del mondo – orgoglio negativo. Così forti che diventa possibile, anche quando altamente improbabile, che siano i mandanti di un omicidio come quello di Marcelo Pecci.

    Conferenza stampa della Polizia colombiana dopo i 17 arresti nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio del procuratore Pecci

    Le indagini: 17 arresti e la pista che porta al clan Rocha

    Le indagini vanno avanti: ci sono stati almeno 17 arresti di individui di varie nazionalità in Colombia. Le piste sono concentrate, al momento, sul clan Rocha, un gruppo criminale su cui Marcelo Pecci indagava, legato al Primeiro Comando da Capital (PCC) brasiliano e dedito al traffico di stupefacenti da Bolivia, Perù e Colombia verso Stati Uniti, Africa ed Europa. Mentre ci auguriamo che si faccia presto chiarezza, oltre ogni ragionevole dubbio, su mandanti ed esecutori, e si riflette sul come si possano evitare in futuro altri atti così tragici, qui da noi sarebbe auspicabile mettere da parte il protagonismo, soprattutto quello negativo.