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Mafiosfera. Un’analisi criminologica di ‘ndrangheta vicina e lontana, in Calabria, in Italia e in giro per il mondo. Per sfatare qualche mito sul potere e sulla mobilità della mafia calabrese nel mondo; per fermarsi a riflettere sulla cronaca con occhi più attenti e consapevoli; per narrare di mondi criminali senza ridurne la complessità.

  • MAFIOSFERA| Processi alla ‘ndrangheta? All’estero non si può (o quasi)

    MAFIOSFERA| Processi alla ‘ndrangheta? All’estero non si può (o quasi)

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    Nel novembre del 2022, in Germania, il Tribunale di Costanza ha emesso una sentenza di condanna nei confronti di Salvatore Giorgi (33 anni) di origini calabresi, cameriere in un ristorante di Überlingen, sul Lago di Costanza. Il tribunale, la cui sentenza è divenuta definitiva questa settimana, ha giudicato Giorgi colpevole di traffico di droga e riciclaggio di denaro e lo ha condannato a un totale di tre anni e sei mesi di carcere (poi ridotta in appello a due anni e cinque mesi).

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    Il tribunale di Costanza

    Come hanno ricostruito i giornalisti di MDR, la cosa notevole di questa sentenza è che Giorgi ha subito la condanna anche per aver sostenuto un’organizzazione criminale straniera. Quale? La ‘ndrangheta.

    La prima condanna “ufficiale” per ‘ndrangheta

    Secondo la ricostruzione di MDR, questa è la prima volta che la Germania giudica la ‘ndrangheta in modo ufficiale in un tribunale. Il paragrafo 129 del Codice Penale tedesco – reato di formazione di un’associazione a delinquere – è stato riformato nel 2017 per facilitare il lavoro delle forze dell’ordine. Ma, come riportato sempre da MDR, le condanne sono ancora molto poche.

    Il paragrafo 129 recita, tra le altre cose:

    «Chiunque costituisca un’organizzazione o partecipi in qualità di membro a un’organizzazione i cui obiettivi o attività siano finalizzati alla commissione di reati punibili con una pena detentiva massima di almeno due anni incorre in una pena detentiva non superiore a cinque anni o in una multa. Chiunque sostenga tale organizzazione o recluti membri o sostenitori per tale organizzazione incorre in una pena detentiva per un periodo non superiore a tre anni o in una multa».

    La norma successiva, 129b, precisa che il paragrafo 129 si applica anche a organizzazioni criminali transnazionali e/o straniere.

    Il primato di Giorgi

    Ecco dunque che Salvatore Giorgi, condannato per reati di stupefacenti, risulta anche condannato – sebbene poco cambi per la sentenza in sé – per favoreggiamento della ‘ndrangheta, per aver sostenuto e supportato la mafia calabrese. La ‘ndrangheta è tutt’altro che sconosciuta in Germania anche a livello giudiziario: ricordiamo che nell’ottobre del 2020, in seguito agli arresti incrociati a livello europeo nell’operazione European ‘Ndrangheta Connection, conosciuta anche come Pollino, è iniziato a Düsseldorf in Germania, un processo contro 14 imputati principalmente per traffico di droga in cui si contestano, tra le altre cose, la partecipazione diretta all’associazione calabrese e suo favoreggiamento. Ma questa condanna a Giorgi è arrivata prima, per un procedimento separato, del 2021, in seguito all’operazione Platinum-Dia, sempre tra Italia e Germania, col supporto di Europol e Eurojust.

    Ristoranti, cocaina e omertà

    La sentenza tedesca ricostruisce l’organigramma dell’organizzazione criminale di San Luca a cui appartiene Salvatore Giorgi, e in particolare il clan Boviciani, noto per il particolare interesse nel traffico di cocaina, oltre che per il radicamento in Germania. Ricostruisce MDR come Salvatore Giorgi lavorasse come cameriere a Überlingen in un ristorante situato direttamente sul lungolago turistico. Gli investigatori considerano questo ristorante e altri due a Baden-Baden e a Radolfzell come appartenenti al gruppo.

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    Agenti tedeschi perquisiscono un ristorante

    Giorgi era anche stato il direttore della società che gestiva il ristorante sul lago di Costanza. Il tribunale, dunque, ritiene che Giorgi abbia sostenuto il gruppo criminale di San Luca nella sua attività relativa ai narcotici. L’associazione ‘ndranghetistica di San Luca viene descritta nei ruoli dei suoi membri. Scrivono i giornalisti Margherita Bettoni, Axel Hemmerling e Ludwig Kendzia, per MDR: «Si parla di una cassa comune di circa cinque milioni di euro; si parla del voto di silenzio tipico della mafia, l’omertà». La ‘ndrangheta, e il clan Giorgi che ne fa parte, diventano per il tribunale l’organizzazione criminale straniera sottostante a una serie di altri reati.

    Canada e ‘ndrangheta

    Se questa è la prima volta che la Germania riconosce la ‘ndrangheta come organizzazione criminale straniera ai fini di una condanna penale, non è la prima volta che ciò accade all’estero. E febbraio è il mese fortunato.
    Il 28 febbraio 2019, la Corte Suprema dell’Ontario condannava Giuseppe Ursino (11 anni e mezzo) e Cosmin Dracea (10 anni) per reati di criminalità organizzata, incluso il traffico di stupefacenti. Tra le altre cose, si imputava ai due di aver trafficato cocaina «a beneficio di, sotto la direzione di, o in associazione con, un’organizzazione criminale, vale a dire la ‘Ndrangheta, commettendo così un reato contrario alla sezione 467.12 del Codice penale».

    In questo caso la norma riguarda un “reato commesso per conto di un’organizzazione criminale” e recita, al comma 1:
    «Chiunque commetta un reato perseguibile d’ufficio ai sensi della presente o di qualsiasi altra Legge del Parlamento a beneficio di un’organizzazione criminale, sotto la sua direzione o in associazione con essa, è colpevole di un reato perseguibile d’ufficio e passibile di reclusione per un periodo non superiore a quattordici anni».

    Boss in pensione

    Soprattutto, «In un’azione penale per un reato ai sensi del comma 1, non è necessario che l’accusa dimostri che l’imputato conosceva l’identità delle persone che costituiscono l’organizzazione criminale». Questa sentenza descrive la struttura e le attività della ‘ndrangheta grazie ad informazioni fornite da un ufficiale dei Carabinieri dall’Italia. Si descrivono le operazioni di questa mafia nella sua versione canadese, e soprattutto la Corona ha sostenuto che Giuseppe Ursino non solo era un membro della ‘ndrangheta, ma era un “boss” locale. Ciò si basava in modo significativo su conversazioni registrate con l’agente di polizia. Giuseppe Ursino ha negato in sede di testimonianza di essere un membro della ‘Ndrangheta e tanto meno un “boss”. Nella sua testimonianza ha ammesso di essersi riferito a se stesso come tale, ma ha detto che si stava vantando solo per provocare l’agente di polizia.

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    Giuseppe Ursino

    Ursino, originario di Gioiosa Ionica, emigrò in Canada a 18 anni nel 1971. I familiari lo descrivono davanti alla corte come «un marito, un padre e un nonno di buon cuore, premuroso e gentile». Questo, però, non gli impedirà di essere considerato un membro apicale della ‘ndrangheta. Non aveva precedenti penali ed era stato titolare di un’attività di distribuzione di prodotti alimentari a ristoranti e sale per eventi, ma al 2019 era in pensione da due anni. Invece i giudici non hanno considerato l’altro imputato, Dracea, un membro dell’organizzazione mafiosa nonostante della sua attività avesse comunque beneficiato la ‘ndrangheta anche perché sapeva chi era Ursino e che ruolo aveva.

    ‘Ndrangheta all’estero: sempre e solo calabrese?

    Due paesi, due sentenze, due normative simili ma non uguali, e sicuramente diverse dalla normativa italiana. Rimane chiaro che laddove sembri ormai fattibile riconoscere la ‘ndrangheta all’estero come “organizzazione criminale straniera” – in Germania, come in Canada – l’appartenenza alla ‘ndrangheta come organizzazione radicata altrove non è ancora realtà. La criminalizzazione della ‘ndrangheta come organizzazione criminale tedesca o canadese, per capirci, non è ancora realtà. La ‘ndrangheta a processo all’estero rimane calabrese e all’estero per ora si punisce solo chi commette reati in supporto agli ‘ndranghetisti calabresi.

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    Beni confiscati al clan calabro-canadese Figliomeni di Toronto

    Se questo è un enorme passo avanti – soprattutto in paesi che hanno uno storico problema di mafia italiana sul loro territorio – denota ancora un’alienazione- alterità del problema – vale a dire, un riconoscimento del problema mafioso come ‘altro’, ‘straniero’ rispetto alla realtà locale. La ‘ndrangheta in Canada e in Germania – per quanto concerne queste sentenze soprattutto – rimane una questione di importazione criminale e non – come invece dimostra la ricerca – un fenomeno altamente legato ai contesti locali. Certo, la ‘ndrangheta è calabrese – ma in Canada è anche canadese, con dei connotati locali, e lo stesso in Germania -e non sempre si manifesta solo come criminalità di supporto.

    L’Italia nelle indagini sulla ‘ndrangheta all’estero

    L’alienazione-alterità giuridica del fenomeno porta a delle difficoltà procedurali, soprattutto quando c’è di mezzo la cooperazione internazionale. Per esempio, in Canada, un’indagine su un presunto ‘ndranghetista – Jimmy DeMaria rischia di andare a rotoli. Il governo canadese vuole espellere DeMaria sulla base di registrazioni ottenute da intercettazioni telefoniche condotte dalla polizia italiana, sostenendo che le registrazioni provano la sua associazione alla ‘ndrangheta. Ma l’avvocato di DeMaria sostiene che queste sono state ottenute illegalmente – perché effettuate su territorio canadese dalle autorità italiane.

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    L’arresto di Vincenzo “Jimmy” DeMaria

    Infatti, fornire le prove dell’associazione alla ‘ndrangheta rimane spesso una faccenda ‘delegata’ all’Italia e non sempre riconosciuta all’estero. In alcuni casi questo porta all’incomunicabilità tra i sistemi giuridici: si pensi al caso della Svizzera che, in seguito ad operazione Helvetia portò a processo alcuni individui che si ‘dichiaravano’ ‘ndranghetisti, parlavano di rituali e anche di estorsione. Li hanno assolti perché non basta raccontarsi mafiosi, se non lo si fa in pratica. Costoro in Svizzera non commettevano reati identificabili come ‘crimine organizzato in supporto della ‘ndrangheta’ dunque il loro essere o dichiararsi ‘ndrangheta non serviva a molto, giuridicamente.

    Paese che vai, ‘ndrangheta che trovi

    Questo per concludere: ottimo il passo avanti della Germania e in bocca al lupo al Canada nelle loro lotte contro la ‘ndrangheta -o, meglio, le ‘ndranghete – all’estero. Ma il fenomeno mafioso all’estero non è sempre e solo ‘straniero’; la ‘ndrangheta non è solo quello che in Italia chiamiamo ‘ndrangheta. Bisogna che i sistemi giuridici internazionali introiettino la propria ‘ndrangheta, o mafia che sia, senza soltanto ‘trasferire’ conoscenza e aspettative dall’Italia.

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    Serve che in altri paesi si capiscano – oltre alle ramificazioni transnazionali – le evoluzioni locali delle mafie, di varia origine. E, soprattutto, i comportamenti mafiosi “migranti” – che saranno parzialmente diversi, e storicamente differenti, in Germania come in Canada. La ricerca già lo fa. In questo senso, ha successo il modello statunitense che ‘legge’ il fenomeno mafioso – siciliano, calabrese, americano, svedese (se esistesse) non importa – come comportamento di “corrupt enterprise” (impresa corrotta) lesivo dell’economia e della politica locale, in seguito a comportamenti penalmente rilevanti per il sistema nazionale. Ma questa è un’altra storia.

  • MAFIOSFERA | Latitanti senza frontiere: un affare di famiglia

    MAFIOSFERA | Latitanti senza frontiere: un affare di famiglia

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    Si dice spesso che la ‘ndrangheta non abbia confini. Ma di fondo, qualche confine chiaramente ce l’ha, o meglio ancora, le viene imposto. Si tratta molto spesso di confini anche abbastanza prevedibili, in realtà, se i diretti interessati – gli affiliati in questo caso – fossero tutti persone dotate di senso pratico, arguzia, acume e soprattutto mancassero di deliri di onnipotenza. Un viaggio, una vacanza dall’Australia all’Indonesia quando si è nell’elenco dei latitanti ricercati in mezzo mondo, infatti, non rientra tra le attività che uno ‘ndranghetista dovrebbe intraprendere.

    ‘Ndrangheta e I-Can: 3 anni, 42 latitanti in arresto

    Le autorità locali – con il supporto dell’Unità I-Can – Interpol Cooperation Against ‘Ndrangheta e dell’esperto per la sicurezza italiana a Canberra hanno arrestato Antonio Strangio, 32 anni, all’aeroporto di Bali, in Indonesia, mentre sbarcava da un volo proveniente dall’Australia. è stato arrestato. La notizia è dell’8 febbraio.  «Con Strangio», rende noto la direzione centrale della Polizia Criminale, «sono 42 i latitanti arrestati in tutto il mondo in poco meno di tre anni dall’avvio del progetto I-Can, che sta raccogliendo i risultati di un lavoro volto a far crescere nelle forze di polizia di 13 Paesi la consapevolezza della pericolosità globale dalla ‘ndrangheta».

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    Antonio Strangio dopo l’arresto a Bali

    Antonio Strangio è affiliato del clan omonimo – alias Janchi (i bianchi) – di San Luca, feudo aspromontano in provincia di Reggio Calabria che non ha tristemente bisogno di introduzioni quando si parla di mafia. La famiglia mafiosa in questione è balzata agli onori della cronaca, tra le altre cose, per una faida durata decenni e culminata con la strage di Duisburg, in Germania, nel 2007. Strangio era ricercato per produzione e traffico di sostanze stupefacenti con l’aggravante del metodo mafioso in seguito all’operazione Eclissi 2 nel 2015, tra San Luca e San Ferdinando, contro esponenti del clan Bellocco della Piana.

    Latitante ma non troppo

    In fuga dal 2016, Strangio in realtà latitava poco. Era infatti in Australia, pare principalmente ad Adelaide, in quanto cittadino australiano naturalizzato. La Red Notice di Interpol – l’avviso di cattura internazionale per i soggetti ricercati in tutto il mondo – non lo toccava in Australia, in quanto il paese non agisce per una segnalazione di Interpol e quindi non procede all’arresto di un proprio cittadino ai fini dell’estradizione. Ma le autorità lo seguivano, lo guardavano, lo tracciavano.

    La domanda vera, dopo l’arresto, non può che essere: cosa ha fatto in questi anni Strangio ad Adelaide o, in generale, in Australia? E richiede il solito abbozzo di risposta difficilissima da contestualizzare e molto facile da manipolare per giustizialisti dallo sguardo miope: aveva famiglia in Australia, legami di sangue e legami di territorio. Ma il caso di questo Strangio non è né il primo né l’ultimo del suo genere.

    Antonio Strangio: un nome, due latitanti

    Un altro Antonio Strangio, alias U Meccanico o TT, praticamente della stessa famiglia, finì in manette nel 2017 a Moers, vicino a Duisburg, in Germania. All’epoca aveva 38 anni, lo arrestarono esattamente nel quinto anniversario dall’inizio della sua latitanza. In questo caso, a raggiungere questo Strangio fu un mandato di arresto europeo. Cosa ci faceva TT nell’area di Duisburg? Risultava chiaramente alle autorità italiane che altri esponenti della stessa famiglia fossero residenti lì e la strage di Ferragosto del 2007 ne era ovviamente prova indiretta. Quindi, aveva famiglia anche lui.

    In più, c’era l’operazione Extra Fines 2 – Cleandro del 2019, a Caltanissetta, incentrata tra le altre cose sulle attività del clan Rinzivillo di Cosa nostra. In Germania, emergeva – mi ricordano fonti tedesche – che il presunto referente del clan Rinzivillo a Colonia, Ivano Martorana, fosse dedito a reperire e trafficare stupefacente e che a tale scopo era in contatto con altri soggetti, tra i quali proprio Antonio Strangio, TT. Dunque, sembrerebbe che lo Strangio di Germania facesse ancora quello per cui era ricercato e fu arrestato: traffico e importazione di stupefacenti.

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    Antonio “U meccanico” Strangio

    Infatti, U Meccanico fu coinvolto anche nell’operazione European ‘Ndrangheta Connection, altrimenti conosciuta come Operazione Pollino, nel 2018. C’era anche lui tra i 90 individui in arresto per un traffico internazionale di stupefacenti tra Belgio, Paesi Bassi, Germania, Italia, Colombia e Brasile. L’operazione coinvolse affiliati clan di San Luca e di Locri, come i Pelle-Vottari, i Romeo alias Stacchi, i Cua-Ietto, gli Ursino e appunto i Nirta-Strangio (nonché esponenti della criminalità turca). Oltre a diverse tonnellate di cocaina e alla scoperta di azioni di riciclaggio, l’operazione rivelò anche l’uso di attività di ristorazione – segno di presenza stabile sul territorio – in supporto alla logistica del narcotraffico.

    ‘Ndrangheta, latitanti e famiglia

    Oltre al nome, questi Strangio hanno in comune la latitanza all’estero e la protezione che deriva dal nascondersi “in famiglia”. Perché se c’è una cosa che è cambiata, con i processi di globalizzazione e con l’amplificazione dell’interconnettività che questi processi hanno attivato per le esistenti comunità di immigrati in giro per il mondo, è proprio la famiglia.
    Se un tempo poteva apparire dispersa, dislocata in vari luoghi di migrazione, è oggi famiglia integrata, interconnessa. Ci si telefona o video-telefona, ci si visita, ci si collega coi parenti all’estero per motivi di studio, lavoro, esperienza, vacanza. Vale per moltissimi emigrati (o immigrati) e vale anche per le dinastie criminali di ‘ndrangheta. Forse anche di più per alcune dinastie criminali di ‘ndrangheta come gli Strangio, che della famiglia hanno fatto un business, rendendola la chiave del loro successo criminale, quanto della loro reputazione. Nel bene (per loro) e nel male (per noi).

    Succede dunque che al 2023 – ma anche prima a dir la verità, ché la globalizzazione e i suoi processi non sono certo roba così recente – la famiglia amplificata e interconnessa sia la normalità. Idem per una serie di altre ‘prassi’: la doppia lingua, la doppia cittadinanza, due passaporti, ad esempio. Quindi non sorprende che in paesi di migrazione stabile dalla Calabria, come la Germania e l’Australia (ma anche ovviamente gli Stati Uniti, il Canada, la Svizzera, il Belgio…) sia proprio all’interno di alcune famiglie (dinastie criminali, appunto) che si innestano servizi e attività in supporto al crimine organizzato, laddove questo sia organizzato proprio a dimensione familiare.

    ‘Ndrangheta e latitanti: i casi Vottari, Crisafi e Greco

    Simili a quello di Antonio Strangio, l’ultimo della dinastia sanlucota arrestato a Bali qualche giorno fa, furono altri arresti di suoi ‘vicini di casa’. Anzi, di case al plurale: Calabria e Australia). Le manette scattarono a Fiumicino per Antonio Vottari nel 2016, anch’egli di San Luca, latitante e nascosto in Australia dalla “famiglia” ad Adelaide. Stessa sorte e stesso aeroporto per Bruno Crisafi, anche lui sanlucota, in arrivo dall’Australia nel 2017. Clan Pelle-Nirta-Giorgi, alias Cicero, risiedeva da anni – e faceva il pizzaiolo – a Perth. Entrambi, Vottari e Crisafi, legati al narcotraffico con altri pezzi di famiglia tra Germania (e Olanda, Belgio e Nord Europa) e Calabria, tra l’altro.

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    Edgardo Greco

    Può sembrare, quello di Crisafi, un primo «ciak, si gira!» del film appena andato in scena con l’arresto di Edgardo Greco in Francia. Altro latitante calabrese del Cosentino (la sua appartenenza alla ‘ndrangheta andrebbe problematizzata, proprio per il suo ruolo – killer – e i gruppi a cui si legava, più gangsteristici che ‘ndranghetisti, tra l’altro), Greco faceva lo chef. C’è differenza, però, tra chi scappa e si nasconde all’estero per mimetizzarsi e nascondersi – «Il modo migliore per nascondere qualcosa è di metterlo in piena vista», in fondo già scriveva Edgar Allan Poe – e chi scappa all’estero come estensione della propria protezione familiare, facendo in fondo ciò che farebbe anche a casa propria.

    Dinastie criminali stabili

    L’arresto di Antonio Strangio a Bali – e la sua permanenza in Australia – come quelle di Vottari e di Crisafi prima di lui o dell’omonimo TT in Germania – ci confermano anche stavolta una cosa: la forza della ‘ndrangheta – quella “doc” – è legata anche alla presenza stabile di dinastie criminali internazionalizzate che possono offrire servizi in giro per il mondo. Ad altri ‘ndranghetisti o anche ad amici o ai colleghi degli ‘ndranghetisti, si veda Edgardo Greco.

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    L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg

    I clan di San Luca (e non sono i soli), nello specifico, “hanno famiglia” sia ad Adelaide che a Perth, in Australia, tanto quanto ne hanno a Duisburg o a Erfurt, in Germania. Questo permette loro non solo di avere protezione – nel senso di ‘nascondiglio’ durante la latitanza – ma anche e soprattutto di stabilirsi in Australia qualora decidano di farlo, come fossero a casa. Alcuni lavorando, come Crisafi il pizzaiolo. Altri studiando, come Vottari, che aveva un visto da studente per iniziare un corso a un’università di Melbourne. Spesso, ancora, dedicandosi al narcotraffico comunque, come lo Strangio di Germania.

    Cognomi che pesano

    Sempre attività di famiglia. Questo non significa assolutamente che tutte le famiglie con tali cognomi o con legami a tali cognomi all’estero siano ‘omertose’ o famiglie di ‘ndrangheta. Esattamente come questo non sarebbe il caso nemmeno a San Luca. Le stesse variabili, di intento quanto di contesto, operano anche all’estero nelle famiglie migranti. Ma all’estero sono molto più difficili da districare e comprendere.San-Luca-latitanti-ndrangheta

    Al di là del panico mediatico che si scatena ogni qual volta la ‘ndrangheta si scopre all’estero, in realtà c’è davvero poco da sorprendersi. Quando della ‘ndrangheta si comprendono i tratti caratterizzanti, tra cui il funzionamento delle dinastie internazionali all’interno di processi più complessi e spesso ‘banali’ nel senso di ‘ricorrenti’ della migrazione che la ‘ndrangheta sfrutta e macchia (come fa in Calabria con interi paesi e dinastie), appare chiaro che questa risorsa diventi preziosa.
    Se come diceva George Bernard Shaw «una famiglia felice non è che un anticipo del paradiso», probabilmente una famiglia di ‘ndrangheta “felice”, o quanto meno assestata, non è che un anticipo dell’inferno o del purgatorio. Soprattutto per chi, ricordiamolo, con certi soggetti condivide legami di famiglia e magari non vorrebbe.

  • MAFIOSFERA | Dalla Calabria alla Colombia: una lezione di criminalità

    MAFIOSFERA | Dalla Calabria alla Colombia: una lezione di criminalità

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    Cosa può imparare da noi italiani – e calabresi in particolare – la Colombia?
    Parliamo di un Paese che ha (e ha avuto) gruppi criminali armati, alcuni anche ideologicamente orientati: ricordate le Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia) e il negoziato di pace del 2016?.
    Non solo: la Colombia rimane ad oggi il primo produttore al mondo di cocaina, sfruttata e gestita da gruppi criminali organizzati più o meno territorialmente radicati.

    Calabria e Colombia: ridurre la violenza

    Presto fatto. La prima domanda emersa nella conferenza internazionale organizzata da Fundación Ideas Para La Paz, Global Initiative Against Transnational Organized Crime e Konrad Adenaur Stiftung (enti che si occupano di consulenza e ricerca su strategia internazionale e sicurezza), è: come si riduce la violenza della criminalità organizzata?
    Questa, nella loro prospettiva internazionale, diventa la domanda posta anche a me: come ha fatto l’Italia a ridurre la violenza mafiosa? E cosa può insegnare la Calabria con la mafia più importante d’Italia?

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    Esercito e polizia colombiani in un’operazione interforze

    Due giorni su Calabria e Colombia

    Le risposte sono difficili. Vi si sono impegnati, per due giorni, il presidente del Congresso colombiano Roy Barreras, il capo della Procura generale del Paese (la Fiscalia) Francisco Barbosa, l’ex capo della Polizia nazionale ed ex vicepresidente colombiano, Oscar Naranjo, insieme a Sergio Jaramillo, ex viceministro della Difesa ed ex Alto Commissario per la pace (per capirci, l’incaricato della gestione dei negoziati con le Farc fino all’agosto 2016).
    A loro si sono uniti accademici nazionali e internazionali (come chi scrive), giornalisti da tutto il Sudamerica, analisti ed esperti del territorio.
    Il tutto è terminato in una cena-discussione con il ministro della Giustizia, il Viceministro della difesa, e il capo dell’Unità investigazioni della Polizia colombina.

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    Un momento del convegno di Bogotà

    Faide, sequestri e stragi

    La violenza mafiosa, e della criminalità organizzata in generale, non è una caratteristica dell’Italia odierna, ma è parte di tutta la nostra storia.
    Oltre le stragi di Cosa Nostra, tutte le mafie hanno prodotto in diversi periodi livelli di violenza molto elevati.
    Nella guerra di ’ndrangheta tra il 1985 al 1991 a Reggio Calabria, i morti accertati furono poco più di 600, ma le stime oscillano tra i 500 e i 1000.
    La ’ndrangheta, infatti, ha costruito la sua reputazione sulla violenza.
    Ne sono esempi le faide per il controllo del territorio che hanno decimato intere famiglie (ad esempio quelle di Siderno, 1987-1991, tra i Costa e i Commisso, in cui vinsero questi ultimi), o che addirittura si sono manifestate all’estero (la strage di Duisburg del Ferragosto del 2007, segmento della guerra di San Luca tra i Nirta-Strangio e i Pelle-Vottari iniziata nel 1991).
    E ne sono altri esempi gli oltre 200 sequestri di persona in Aspromonte tra gli anni ’70 e i primi ’90, alcuni caratterizzati da inaudita bestialità.
    La violenza sistemica della ‘ndrangheta ha sicuramente lasciato un’eco nella popolazione che è parte del fenomeno mafioso calabrese e della sua reputazione.

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    L’esterno del locale in cui si è consumata la Strage di Duisburg

    Tre lezioni dall’Italia

    Cosa può insegnare l’Italia alla Colombia? Tre cose principalmente:

    • Una risposta dello stato molto forte, con un arsenale antimafia fatto di normative dirette (repressive) e indirette (di prevenzione) che contengono un messaggio primario: la violenza non conviene.
    • Una capacità delle organizzazioni criminali (non ideologiche né insurrezionaliste) di trovare altri mezzi per risolvere i propri problemi (tra cui il coordinamento, l’alleanza e soprattutto la corruzione).
    • L’accettazione di un livello di violenza “tollerabile” e la definizione (negoziazione interna) della soglia di tollerabilità. La violenza mafiosa non è sparita, ma il suo allarme sociale si: dà allarme quella violenza oltre un certo soglia, o in mercati “anomali” (sorprenderebbe violenza nelle attività semi-lecite delle mafie, ma non nel mercato della droga).

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      Scorcio di piazza Bolivar a Bogotà

    Tre lezioni calabresi

    Altre cose le può insegnare proprio la Calabria.

    • Innanzitutto, il decentramento della violenza nel crimine organizzato moderno: non c’è una testa pensante nella ’ndrangheta che commissiona o modula la violenza. Questo da una parte è un un vantaggio, dall’altra porta anche a reazioni molto diverse a seconda di luoghi e tempi in cui questa violenza si manifesta.
    • Si è anche parlato di quella violenza che per alcuni violenza non è, ma che tuttavia è pronunciata in certi posti della Calabria: l’estorsione ambientale. Questa si configura quando il clan è abbastanza potente da non avere più necessità di fare richieste palesi, con le relative minacce. Ormai basta il sussurro e l’allusione.
    • Per ritenere estinta o ridotta qualsiasi violenza la vera differenza la fanno le vittime, non i carnefici. Laddove si riuscisse, come in Italia e Calabria, a ridurre il rapporto di violenza tra le organizzazioni criminali e le loro comunità, la vittimizzazione diventerebbe più subdola quanto più l’organizzazione rimanesse economicamente e socialmente potente, come la ‘ndrangheta in alcune parti del nostro territorio.

    Paz Total: il sogno di Gustavo Petro

    Questa domanda sulla riduzione della violenza deriva dalla proposta ambiziosa, forse troppo, del nuovo presidente della Colombia, Gustavo Petro.
    Petro, ex guerrigliero del gruppo M-19, è stato eletto nel giugno 2022 con una piattaforma politica incentrata sulla promessa della Paz Total, la pace totale.
    Questa pace, secondo Petro e i suoi ministri, si può raggiungere negoziando con l’ultimo gruppo di guerriglia rimasto, l’Eln (Ejército de liberación nacional), come si è fatto con le Farc, ma anche con oltre altri 20 gruppi “ad alto impatto”, solo criminali, coinvolti nel mercato di cocaina, marijuana e altre attività illecite di criminalità organizzata.

    Gustavo Petro, il presidente della Colombia

    Tregua delle armi e legalizzazione

    Aprire i negoziati di pace – strumenti di solito legati ai conflitti internazionali – alla criminalità organizzata, che non è in conflitto con lo Stato colombiano ma è spesso violenta al suo interno, crea cortocircuiti concettuali e pratici.
    Già: cosa si offre a questi gruppi? Come si permette ad essi un incentivo a collaborare? In che modo si riduce la loro violenza? E si può impedire che “morto un gruppo se ne faccia un altro”?
    Quesiti molto politici (e metodologici) per la paz total immaginata da Petro. Ma Petro non vuole fermarsi qui: il suo esecutivo ipotizza anche una depenalizzazione della cocaina e della marijuana, che sono tra i business illegali più lucrativi del Paese, e non solo.
    La decriminalizzazione della cocaina, unita a un tentativo di pacificazione del crimine organizzato, avrebbe effetti rivoluzionari – positivi e negativi – sul mercato globale dei narcotici. Cioè sul settore più redditizio dell’economia criminale.

    Guerriglieri di Eln

    La ’ndrangheta senza Colombia

    E qui arriva la seconda domanda sottoposta alla prospettiva internazionale, e soprattutto relativa alla ‘ndrangheta.
    Eccola: cosa succederebbe a quegli importatori più attivi sul mercato internazionale della cocaina – cioè alcuni gruppi di ’ndrangheta – se si arrivasse, anche parzialmente, alla paz total in Colombia con qualche cartello?
    Meglio ancora: cosa accadrebbe alla ’ndrangheta e ai suoi traffici se si sconvolgesse – coi negoziati e la decriminalizzazione – il mercato colombiano?

    Broker ’ndrine e narcos tra Calabria e Colombia

    Le risposte non sono semplici: siamo nel regno delle ipotesi.
    Come detto nella puntata precedente di questo viaggio, i rapporti tra ’ndrine storiche e cartelli storici del narcotraffico in Colombia sono consolidati e intergenerazionali, intra-cartello (a monte e a valle), e basati su contratti a rinnovo automatico.
    La cocaina arriva dalla Colombia in Calabria grazie a broker specializzati con rapporti solidi in entrambi i territori. Dunque, è possibile immaginare che tali broker si muoveranno per restaurare l’“ordine”, a dispetto delle politiche di “pace” e decriminalizzazione.

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    Un carico di cocaina sequestrato

    Liberalizzare? Impossibile, in Calabria e Colombia

    È improbabile che si arrivi a una liberalizzazione delle droghe a livello internazionale. Perciò il mercato delle importazioni rimarrà inalterato, seppur con iniziali possibili difficoltà di procacciamento della merce.
    Infatti, la cocaina è un bene a domanda “rigida” (vale a dire che non solo non esistono beni simili sul mercato, ma a domanda pressoché fissa) perci l’offerta rimarrà quanto meno costante.

    Bolivia e Perù: gli astri nascenti della coca

    Quindi se la situazione diventasse più complessa in Colombia, anche temporaneamente, la Bolivia (dove la coca è anche spesso più pura) e soprattutto il Perù (dove i gruppi criminali hanno uno stile imprenditoriale) potrebbero sostituirla nella produzione e nell’approvvigionamento. Per farla breve, ai nostri ’ndranghetisti servirà rimanere flessibili, comprendere il sistema locale e offrire soldi e risorse anche all’estero per risolvere problemi.

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    I partecipanti al convegno internazionale di Bogotà

    La lezione colombiana

    Dalla Colombia, però, abbiamo da imparare anche noi.
    A sentire l’insistenza con cui si parla di pace, inclusa quella dal crimine organizzato, è interessante riflettere sugli strumenti collettivi per ottenerla. Tra questi, la ricerca della verità, la riconciliazione tra vittime e carnefici, la memoria.
    Senza memoria (del dolore, delle armi, della violenza, dei traumi collettivi) non si può avere riconciliazione e non si può tentare la pace.
    Questo, forse, dovrebbe essere uno spunto di lavoro per la nostra classe dirigente, che si scorda come intere fette della popolazione, soprattutto del Sud (per esempio alcune comunità Aspromontane), debbano ancora comprendere e affrontare le ferite della violenza che fu, con memoria storica, verità e per riconciliarsi con l’eco della violenza attuale.
    Ma questa è un’altra storia.

  • MAFIOSFERA | ‘Ndrine, narcos e coca: in tour nella Colombia dei cartelli

    MAFIOSFERA | ‘Ndrine, narcos e coca: in tour nella Colombia dei cartelli

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    «Tenemos muchos otros problemas!», «abbiamo molti altri problemi», mi sorride un agente della Fiscalia General de la Nación, l’ufficio del procuratore nazionale della Colombia, quando iniziamo a parlare della ‘ndrangheta in America Latina. Della serie: sicuramente la ‘ndrangheta è un problema, per l’Italia, l’Europa, il mondo intero, ma di guai legati alla criminalità (organizzata, violenta, strutturata), in Colombia, ce ne sono molti altri.

    I-Can: quattordici polizie contro la ‘ndrangheta

    La mattinata è iniziata presto: riunione alle 8.30 alla sede della Direzione per le indagini criminali della Polizia di Stato Colombiana, dove anche Interpol ha i suoi uffici.
    La Colombia fa parte del progetto I-Can (Interpol cooperation against the ‘ndrangheta), fondato e finanziato dal Dipartimento di pubblica sicurezza in Italia, guidato dalla Polizia di Stato.
    A quest’iniziativa aderiscono altri dodici Paesi, europei e non. La parola chiave di I-Can è cooperazione: cioè condivisione dei dati più veloce, coordinamento delle azioni di contrasto più fluido, e sicuramente un’armonizzazione della conoscenza sul fenomeno ’ndranghetista. Contenuto, accesso e azione.

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    La sede dell’Interpol in Colombia

    La ‘ndrangheta? In Colombia è diversa

    È la prima volta che parlo di ’ndrangheta formalmente con autorità di un Paese sudamericano. Ora che sono qui – soprattutto dopo il commento dell’agente della Fiscalia – mi ricordo come mai c’è voluto più tempo per venire in questo territorio e non, per esempio, in Canada o negli Usa.
    La ’ndrangheta qui è altra cosa rispetto ad alcuni Paesi europei e del globalizzato Nord (allargato anche all’Australia, per ragioni economiche e sociali).

    Già dall’inizio di questa riunione – organizzata dalla sottoscritta a fini esplorativi e di ricerca (e dunque senza contenuti protetti e confidenziali), presenziata da unità scelte di Interpol, Fiscalia, e altri membri delle forze dell’ordine – si inizia parlare di chi è chi, nella ’ndrangheta contemporanea, e soprattutto di chi non è chi.
    La ’ndrangheta, qui in Colombia è un’organizzazione per lo più astratta di cui si conosce poco la struttura – e poco serve conoscerla ai colombiani – la quale ogni tanto si presenta con individui di origine italiana che si muovono in un mercato degli stupefacenti largo e complesso. La criminalità calabrese partecipa da anni a questo mercato, i cui protagonisti assoluti sono però tutti del luogo.

    Salvatore Mancuso: dalle Auc al narcotraffico

    Una persona su cui si è tanto detto negli anni, per esempio, è Salvatore Mancuso. Salvatore Mancuso Gómez – nato a Monteria, in Colombia, e di origini familiari di Sapri, è stato uno dei principali leader dell’Auc – Autodefensas unidas de Colombia.
    L’Auc è stata un’organizzazione paramilitare, dedita al narcotraffico, insurrezionista di estrema destra che durante il conflitto armato interno in Colombia ha combattuto contro Farc, Eln e Epl, altri gruppi di guerriglia organizzata.
    L’Auc smobilitò nel 2006 dopo aver goduto del supporto di vari pezzi dell’élite colombiana. Dalle sue ceneri sono nati altri gruppi criminali: ad esempio il famigerato Clan del Golfo, altrimenti detto degli Urabeños, uno dei principali cartelli della cocaina del Paese. Almeno fino a qualche anno fa.

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    Salvatore Mancuso Gómez, ex leader delle Auc e re della droga

    Il re della droga

    Questo Mancuso, è bene chiarirlo, non c’entra niente con i Mancuso del Vibonese, protagonisti negli ultimi mesi e anni di svariati processi istruiti dalla Procura antimafia di Catanzaro.
    L’omonimia però, non mancano di notare i miei interlocutori, è stata spesso notata e ha portato a una serie di fraintendimenti su chi è chi, e chi non è chi.
    Salvatore Mancuso non è certo uno ’ndranghetista, sebbene tra i suoi clienti ci siano stati  anche i clan calabresi, quelli delle origini, come rivelato da ultimo da un’inchiesta giornalistica di InsightCrime.

    Giorgio Sale, il mediatore di Mancuso

    Mancuso ai tempi dell’Auc era a capo di un’organizzazione che controllava un vasto territorio dove si produceva la coca. «Ma veda, professoressa, c’è spesso qualche grado di separazione tra i broker della produzione e gli acquirenti».
    Detto altrimenti: Mancuso aveva altri che lavoravano per lui e che gli portarono, negli anni ’90, i clienti calabresi.
    Tra questi c’era Giorgio Sale, un imprenditore del Molise, morto nel 2015, semi-sconosciuto in Italia (dove poi verrà condannato per narcotraffico), che in Colombia però aveva ristoranti, bar, proprietà immobiliari, utilizzati per riciclaggio di denaro, legati a Mancuso.

    Il ritratto di Pablo Escobar in un mercatino di Bogotà

    Calabresi e paramilitari: il rapporto perverso

    Questa storia già la si sa – è la storia d’inizio del legame tra alcuni clan calabresi e i gruppi paramilitari (e poi criminali) colombiani. Il legame esiste ancora oggi, nonostante l’arresto (e nel 2020 la scarcerazione) di Mancuso, e lo smantellamento dell’Auc e della rete di interessi di Sale.
    Infatti, al tavolo della riunione gli sguardi scorrono complici quando si fa il nome del prossimo uomo “di interesse”, che prima lavorava con Sale portando gli acquirenti calabresi – e non calabresi qualunque, ma i platioti – fino a Mancuso: Roberto Pannunzi.

    Pannunzi, L’Escobar della ‘ndrangheta in Colombia

    Romano ma di famiglia originaria di Siderno, Pannunzi è definito un po’ da tutti il Pablo Escobar della ‘ndrangheta, di cui è il broker più influente di tutti i tempi. Ai suoi reiterati arresti (l’ultimo nel 2013 a Bogotà) hanno lavorato la Procura di Reggio Calabria, la Guardia di finanza, la Dea americana, la Polizia colombiana.

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    Roberto Pannunzi

    Pannunzi non fa ovviamente affari solo con Mancuso: i suoi rapporti con i cartelli colombiani sono radicati e segnano un salto di qualità di una parte della ’ndrangheta nel mercato della cocaina: mandare i propri emissari, direttamente, in Sudamerica, per negoziare meglio con i produttori.
    Come si farà ancora con Rocco Morabito, in Uruguay (ma di fatto coordinava la negoziazione dei prezzi e delle provvigioni di coca per conto di clan ‘ndranghetisti per tutta l’America Latina).
    Oltre a Pannunzi e in tempi più recenti a Morabito, si fanno i nomi di altri broker italiani, come Enrico Muzzolini, friulano, attivo più o meno negli anni di Pannunzi e in contatto anch’egli con alcuni esponenti dell’ex Auc.

    Il mercato maledetto

    È passata solo una mezz’ora di questa riunione mattutina a Bogotà e stiamo ancora parlando di storia. Non della ’ndrangheta, ma del mercato della cocaina in Colombia, al cuore del conflitto armato e al centro delle negoziazioni per la pace che il governo colombiano ha attivato (e in parte raggiunto con alcuni gruppi) negli ultimi anni.
    I nomi degli ’ndranghetisti che compravano da Pannunzi fino a 10 anni fa, non li conoscono o non li ricordano. Ma in fondo poco conta che fossero i Barbaro-Papalia oppure i Nirta con i loro traffici dalla Spagna, oppure i Commisso per i loro traffici dagli Stati Uniti: «Tenemos muchos otros problemas!», appunto.

    Poliziotti colombiani in azione

    Però l’interesse per la mafia nostrana c’è eccome: anche se i tempi sono cambiati da Pannunzi in poi, ogni tanto compare ancora qualcuno che porta contatti coi calabresi.
    «Se qui le cose sono cambiate, saranno cambiate anche li in Calabria, no?». Questa domanda è l’argomento di un’altra parte della nostra conversazione.
    Ad esempio, mi chiedono, se ricordo l’arresto nel febbraio 2021 di Jaime Eduardo Cano Sucerquia, alias J, che fungeva da link con la Colombia per la mafia calabrese.

    Strani traffici a Livorno

    C’entravano il porto di Livorno e 63 chili di cocaina. Nel 2021, a Livorno, in alcune indagini sul narcotraffico – ad esempio l’operazione Molo 3 – si parlava di un certo Henry, in Colombia, a cui alcuni clan del Catanzarese e del Vibonese si rivolgevano per l’approvvigionamento dello stupefacente.
    Sempre nel 2021, l’operazione Geppo aveva invece raccontato di un certo Leonardo Ferro, alias Cojak, che si era recato da Reggio Calabria a Medellin nel 2017 per trattare gli affari direttamente lì, grazie anche all’aiuto di un soggetto di origini colombiane, ma nato nel Regno Unito: “Alex” Henriquez. Insomma, al pari di J, altri broker condividevano quella rotta su Livorno, e soprattutto, abbiamo concluso, il modus operandi è diverso anche in Calabria.

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    Dario Antonio Úsuga, alias Otoniel

    Atomizzati i cartelli – «A Medellin ora ci sono 12 gruppi, invece di un cartello” – e arrestato qualche grande leader – Dario Antonio Úsuga, alias Otoniel, a capo degli Urabeños, che lascia una situazione complessa nel suo gruppo – adesso serve saper fare affari con tutti, perché ci sono più affari da fare. E questo lo sanno anche i calabresi.

    Una mafia senza nomi

    La riunione continua, ma appare chiaro che la ‘ndrangheta a questo tavolo non ha nomi e cognomi. È un’organizzazione “piatta” di cui contano poco i connotati specifici.
    La si conosce, la ‘ndrangheta perché offre dei servizi, ma ne compra di più – primo fra tutti la cocaina – e, diversamente da altre strutture, ha una ramificazione internazionale che permette di “cadere in piedi”.

    ‘Ndrangheta in Colombia? Solo compratori potenti

    Non si parla di riti, di doti, né di capi-mafia e uomini d’onore. Qui – nel Paese che ha il triste primato di esportatore di cocaina verso il ricco Nord del mondo e la ricca Europa – la ’ndrangheta è un gruppo di acquirenti stranieri che, a monte come a valle, ha il potere di influenzare il narcotraffico.
    Cosa dobbiamo sapere, chiedono, della struttura della ’ndrangheta? E cosa dobbiamo sapere noi, chiedo io, dell’attuale situazione colombiana? Lo chiariremo nella prossima puntata.

    (CONTINUA…)

  • MAFIOSFERA | Massondrangheta? Ce n’è una, ma non chiamiamola così

    MAFIOSFERA | Massondrangheta? Ce n’è una, ma non chiamiamola così

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    Riassunto delle puntate precedenti: Matteo Messina Denaro viene arrestato il 16 gennaio 2023 dopo latitanza trentennale. Nel frastuono mediatico, si è rinvigorito lo spettro massonico, ossia l’evocazione di un potere occulto, nutrito di mentalità mafiosa, che avrebbe coperto il boss impedendone la cattura. Tesi accattivante, non fosse per la vaghezza di queste affermazioni.
    Troppo spesso una presenza massonica viene richiamata senza curarsi delle evidenze storiche e sociologiche (per non parlare della rilevanza penale) di quel fenomeno – esistente, seppur dai confini labili – che è la borghesia mafiosa. Tale si definisce quella classe sociale connotata da pratiche illecite sistematiche, alimentate dal contatto ravvicinato tra mafie e “potere” (istituzionale o politico). Nonostante le ambiguità, rimane valida la domanda: che tipo di protezioni ha avuto Matteo Messina Denaro, e soprattutto, quanto c’entra la massoneria?

    Massondrangheta e apericene

    I termini massomafia e massondrangheta dovrebbero cadere in disuso. Parole assimilabili a ristopizzerie, gastropub, o apericene: espressioni lessicali che fondono due cose diverse, preservandone l’identità doppia. Per pigrizia linguistica, non si trovano espressioni più appropriate e articolate. Si uniscono due concetti singolarizzati all’estremo – tutti fenomeni plurali, compositi, stratificati – come massoneria e mafia o ‘ndrangheta (fino a che non esca una massocamorra, o peggio una massosacracoronaunita…). Poi li si semplifica fino all’osso sublimandone la natura in un concetto sdoppiato, indefinito, inutilizzabile a livello di analisi.

    massoni

    La massoneria è un fenomeno storico, sociale e organizzativo, contraddistinto da fumose aspirazioni di elevazione personale e sociale. La mafia e la ‘ndrangheta sono organizzazioni criminali, da contestualizzare storicamente e sociologicamente. Di fatto, le condotte di mafiosi e massoni vanno attribuite a specifiche persone e sottogruppi, con un impatto differenziato a seconda della funzione esercitata.

    Massoni deviati e mafiosi

    Il ruolo sociale con cui si arriva alla massoneria spesso detta la motivazione per entrarvi: opportunità di affari, per molti; volontà di seguire un percorso d’illuminazione spirituale, per alcuni; opportunità di incontrare persone di analoga estrazione sociale e accrescere il proprio prestigio, per altri. Il comportamento qui conta più che lo status. Del resto, lo status di “massone” – a differenza, in certi casi, di quello del “mafioso” – non è affatto indipendente. Nessuno è “professionalmente” soltanto massone (a parte forse i vertici delle principali obbedienze). Esistono il medico-massone, l’avvocato-massone, il politico-massone, e via discorrendo.

    Si possono individuare quattro formule di interazione in cui la figura di un massone deviato, cioè un massone che non segue la vera ‘chiamata’ della massoneria – all’interno di logge irregolari, spurie, coperte, segrete, o interamente devianti – interferisce nel rapporto tra mafie e potere. Le abbiamo individuate e analizzate in una ricerca sviluppata assieme al professor Alberto Vannucci.

    P2 e Iside 2: comandano i venerabili

    Prima formula: il massone (formalmente in regola o meno con gli statuti della sua obbedienza, ma comunque deviato) è promotore di condotte illecite in un network in cui egli stesso fa da garante agli scambi tra attori di varia estrazione, inclusi i mafiosi e i politici/funzionari. Questo è il caso della P2 di Licio Gelli – ragno in mezzo alla sua ragnatela, o meglio burattinaio, come lui stesso si autodefinì – nella vicenda che ha irreversibilmente modificato la narrazione sulla natura della massoneria contemporanea in Italia, ridotta nell’immaginario collettivo a sede occulta di affari illeciti e maneggi loschi affidati alle potenti mani di insospettabili.

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    Licio Gelli, è stato il capo della P2

    È anche il caso, sempre negli anni ’80, della loggia Iside 2 di Trapani (che faceva capo al Centro studi Scontrino) – unico processo penale in cui si è applicata con successo la legge Anselmi (approvata dopo lo scandalo P2) contro l’interferenza nella vita pubblica delle società segrete. Il maestro venerabile della loggia Iside 2, il docente Giovanni Grimaudo, imitando Licio Gelli, pilotava le attività illecite di un reticolo di affiliati composto da “colletti bianchi”, ma anche da alcuni esponenti di Cosa nostra: tutti portavano in dote opportunità, entrature, risorse.

    Grimaudo, come Gelli, offriva servizi di “protezione”, risolvendo i problemi che affliggevano i fratelli nei loro rapporti con l’apparato pubblico. Sia nella P2 che in Iside 2 ai massoni era reso pressoché impossibile incontrarsi e accordarsi tra di loro: tutto doveva passare per l’intermediazione dei maestri venerabili, realizzando così una piena personalizzazione in capo a un solo soggetto dell’attività massonica deviata.

    Rinascita-Scott, la quasi massondrangheta

    Seconda formula: il massone (deviato) è parte di un network di vari soggetti, coinvolti in attività e scambi informali, illeciti, o criminali, inclusi i mafiosi e i politici/funzionari, senza che nessuno abbia un ruolo dominante. Qui il massone deviato opera all’interno di una cerchia in cui gli scambi di favori, gli illeciti e gli abusi coinvolgono congiuntamente una pluralità di attori. Sono le frequentazioni tra avvocati, medici, politici e imprenditori, oltre che con mafiosi o ‘ndranghetisti, più che lo status di massone, a facilitare la loro proficua interazione. Lo status di massone può amplificare la devianza, all’interno di una camera di compensazione tra contropartite.

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    Nicola Gratteri durante il maxi processo Rinascita-Scott

    È questo il caso presentato nel maxiprocesso Rinascita-Scott – non concluso– quando si fa riferimento ad avvocati presunti massoni coinvolti in pratiche di corruzione e presunti reati di concorso esterno in associazione mafiosa.
    È anche il caso dell’operazione Geenna, in Valle D’Aosta: un massone (presunto/irregolare) avrebbe tentato di coordinarsi con ‘ndranghetisti locali per convincerli a entrare in una nuova loggia utile a canalizzare consenso elettorale; alcuni degli ‘invitati’ si sentono tra loro per valutare questa opportunità e rinunciano, ma stringono altri accordi sottobanco.

    La paramassoneria e la mafia defilata

    Terza formula: il massone (deviato) è figura marginale in un network dominato da ‘potenti’ (in ruoli politici e istituzionali) che regolano autonomamente attività illecite, con la sporadica inclusione dei mafiosi. Nell’Operazione Artemisia (2019) a Trapani, o meglio a Castelvetrano (paese di Matteo Messina Denaro) un ex assessore regionale siciliano avrebbe dato vita a un’entità para-massonica, in parte sovrapposta ad una loggia ufficiale, della quale il vero maestro venerabile ignorava l’esistenza. Il gruppo operava a prescindere dalle direttive della loggia regolare, permettendo ai suoi membri ‘coperti’ di aiutarsi a vicenda, a spese dei massoni regolari, in caso di necessità. A queste intese nell’ombra partecipavano altri soggetti, spesso neppure massoni, che influenzavano assunzioni e carriere negli enti pubblici.

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    Matteo Messina Denaro nella sua foto più celebre

    In un simile contesto la capacità di accordarsi ‘privatamente’ può tenere ai margini la mafia, giacché i mafiosi “portano problemi”. Un massone siciliano coinvolto in Artemisia racconta che il maestro venerabile della loggia aveva preferito cambiare obbedienza, dalla Gran Loggia d’Italia al Grande Oriente, per ragioni di opportunità, ossia “il tentativo dei massoni della Gran Loggia d’Italia di Agrigento di far entrare nella loggia di Castelvetrano personaggi vicini a Cosa nostra”.
    I mafiosi, dunque, e solo alcuni – persino qualcuno come Matteo Messina Denaro – possono restare defilati, clienti o amici di un gruppo di potenti “colletti bianchi” in grado di “governare” autonomamente i propri patti segreti senza ricorrere ai mafiosi. L’ex consigliere regionale dichiarerà di conoscere Messina Denaro fin dall’adolescenza, e di avere avuto il suo appoggio in ambito politico-elettorale, non massonico.

    Massondrangheta: la Santa e Porta Pia

    Quarta formula: il massone (deviato) è mafioso egli stesso o pienamente coinvolto in una struttura mafiosa che ha tratti (para/pseudo) massonici, essendosi appropriato del capitale simbolico (e relazionale) della massoneria. È quanto emerge a Reggio Calabria dagli ultimi processi Gotha, ‘Ndrangheta Stragista, Meta e altri più datati come Olimpia, trent’anni fa. In questo contesto alcuni massoni (deviati) vengono “plasmati” nella loro nuovo identità dalla ‘ndrangheta, facendo emergere col tempo un sistema di potere integrato, in cui solo i clan hanno mantenuto la loro identità criminale, mentre si è diluito fino a perdersi del tutto il senso di fratellanza a una “obbedienza massonica”. Non ci sono più politici che supportano i clan, o viceversa, bensì politici legati a doppio filo all’associazione tra vari clan dominanti in quel territorio.

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    Bruciare santini e immagini sacre fa parte dei rituali di affiliazione alla ‘ndrangheta

    Quest’associazione – a un dato momento chiamata Santa o Società di Santa – agiva/agisce come una setta segreta, una sezione riservata (invisibile, per gli inquirenti) che si eleva al di sopra della ‘ndrangheta dedita allo sgarro (la criminalità comune). Il santista era allo stesso tempo massone e ‘ndranghetista: perché ciò potesse accadere, si operò negli anni ‘60-‘70, un cambiamento radicale all’interno dell’élite dell’Onorata Società, ammettendo anche “esterni”, non ndranghetisti. Non più intermediazione massonica tra “mondi” (criminali e dei colletti bianchi) autonomi e separati, ma integrazione tra ruoli, all’interno di un’infrastruttura organizzativa, con un capitale simbolico e relazionale comune, che è terza – né massoneria, né mafia, ma con attributi di entrambe – cesellata da rituali massonici prestati alla ‘ndrangheta.

    Dirà il collaboratore Cosimo Virgiglio: «Dopo il 1995, abbiamo descritto il rapporto con questa criminalità, con la ‘ndrangheta, come un “varco” e nel nostro linguaggio, nel nostro gruppo riservato, si parlava di “Porta Pia”, in riferimento alla “breccia di Porta Pia”… Diverso il discorso per gli ‘ndranghetisti, per i quali questa apertura era chiamata Santa». È il caso più eclatante di rapporto integrato tra massoneria deviata e ‘ndrangheta, in cui entrambe le organizzazioni sembrano cambiare pelle nel perseguire le finalità degli affiliati, al punto da dar vita a una nuova entità che conserva alcuni attributi delle sue matrici, ma non gli scopi originari.

    La vera anomalia italiana

    Che in Italia vi siano state molteplici occasioni di incontro tra mafiosi, politici, imprenditori e professionisti – che erano/sono anche massoni per scelta o per occasione – non implica che dalle loro relazioni nascoste sia germogliato il seme di un’integrazione, o che si siano alterate identità e finalità. La compresenza di fenomeni diversi non significa che siano correlati, né che tra essi esista un nesso causa-effetto.
    Se cercassimo quanto più si approssima all’ambiguo concetto di massomafia, solo la quarta formula potrebbe esservi – con cautela – assimilata. Le altre realtà, in misura maggiore o minore, raccontano di sovrapposizioni e intrecci strumentali, talvolta solo occasionali, legati a personaggi e contesti specifici.massondrangheta

    Ma da queste formule si ricava uno spunto importante: mafiosi e massoni deviati si trovano spesso in posizioni subalterne o paritarie rispetto a politici, funzionari e figure istituzionali o professionali coinvolti in scambi illeciti o favoritismi a sfondo criminale. Ciò è particolarmente evidente nella seconda e terza formula: la vera anomalia italiana è l’ampiezza delle sfere di informalità, illegalità e corruzione che coinvolgono i “potenti”. E la loro attività criminale si nutre di segretezza, simboli, riconoscimenti, frequentazioni, ostentazioni di onnipotenza, aspettative di impunità.
    Mafia e massoneria (deviata) sono interlocutori e sedi ideali per propiziare i crimini dei potenti, la cui complessità richiede però nuovi concetti e strumenti di analisi per essere compresa.

    (in collaborazione con Alberto Vannucci, professore di Scienze politiche, Università di Pisa)

  • MAFIOSFERA | Messina Denaro: aridaje con la massondrangheta

    MAFIOSFERA | Messina Denaro: aridaje con la massondrangheta

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    Sventurata la terra che ha bisogno di eroi, diceva Bertolt Brecht. Ma si potrebbe aggiungere anche sventurata la terra che ha bisogno di antieroi. E noi italiani ne abbiamo, di eroi e di antieroi, soprattutto quando si tratta del nemico numero uno per eccellenza dello Stato italiano e della sua storia: la mafia. Al netto delle congratulazioni per aver portato a termine con successo un’operazione complessa, come può essere la caccia e l’arresto dell’ultimo latitante stragista – l’ultimo antieroe – Matteo Messina Denaro, la cerchia vociante di alcuni analisti dell’antimafia – una nutrita compagine di magistrati, giornalisti, accademici, portavoci e analisti specializzati (inclusa chi scrive) – non può non lasciare perplessi e anche un po’ sopraffatti.

    Messina Denaro, eroi ed antieroi

    Abbiamo tutti troppo da dire per nessuna ragione, oppure c’è davvero troppo da dire? È appurato che sappiamo in questo caso chi è l’antieroe, l’incarnazione del male e l’obiettivo del disappunto e della rabbia (giustificata certamente) di un popolo che ricorda le stragi degli anni ’90. Ma siamo sicuri di sapere chi sono gli eroi di questa storia, a parte ovviamente il procuratore capo Maurizio De Lucia che, da grande conoscitore del fenomeno mafioso nella sua Palermo, ha dimostrato di avere il polso insieme al suo sostituto Paolo Guido e a tutti le forze dell’ordine dispiegate, di completare tale operazione. Sicuramente non ci sono eroi politici, ma ci sono eroi della memoria, coloro che, anche per la memoria, sono stati sacrificati. Ed è difficile districarsi tra complotti, speculazioni e scarsa memoria storica.

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    Paolo Guido, il magistrato cosentino tra i protagonisti dell’arresto di Messina Denaro

    La storia si ripete

    Scriveva Leonardo Sciascia in A ciascuno il suo (1966): «Ma il fatto è, mio caro amico, che l’Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua… Ho visto qualcosa di simile quarant’anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto». I «quarant’anni fa» di Sciascia non sono i nostri “quarant’anni fa” ovviamente, eppure la citazione ancora vale.

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    Totò Riina dietro le sbarre

    Nella cattura di Matteo Messina Denaro ci sono tragedie e farse, corsi e ricorsi storici, che rimandano alla memoria di quel che accadde in seguito alla cattura di Totò Riina, e in parte a quella di Bernardo Provenzano. Ma c’è soprattutto la lingua, la lingua che si accompagna all’antimafia contemporanea che non è nata ovviamente il 16 gennaio 2023, al momento della cattura del super latitante stragista, ma che in seguito a quest’arresto è quanto di più visibile e riconoscibile.

    Messina Denaro e le zone grigie

    Ad esempio, si parla molto in questi giorni, ragionevolmente, delle protezioni che avrebbero – che hanno – permesso a Messina Denaro di nascondersi praticamente a casa sua per 30 anni. Ritornano nomi e cognomi di politici, regionali e nazionali, delle donne intorno al boss (aiutano i dettagli sulla presenza di viagra e preservativi nel covo di Campobello di Mazara…) e si fa un gran rumore parlando di poteri occulti, zone grigie e zone proprio nere, che avrebbero aiutato il boss a muoversi fuori dalla Sicilia e poi a proteggerlo sull’isola.

     

    Ritorna, prepotente, il tema delle massomafie, entità invisibili, potentissime proprio perché dai confini imperscrutabili, popolate da classi dirigenti e dalla ‘borghesia mafiosa’, e che si proteggono grazie ad agganci più o meno regolari, spesso spurie, alla massoneria (deviata). Ha dichiarato per esempio Teresa Principato, magistrata oggi in pensione, a Repubblica, che è grazie a un network (non meglio specificato) di massoni che Messina Denaro sarebbe stato protetto; sull’Huffington Post abbiamo conferme, ma anche note critiche a questa tesi, sollevate da Piera Amendola; e ricorda il Quotidiano del Sud, che Messina Denaro era originario – e si nascondeva – in uno dei ‘feudi massoni’ per eccellenza, la provincia e la città di Trapani. Dulcis in fundo, il medico Tumbarello, indagato per aver curato il boss, era pure massone ed è stato già espulso dal Grande Oriente d’Italia.

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    Il medico Alfonso Tumbarello, espulso dalla massoneria dopo l’arresto del boss

    Ma che cos’è questa massomafia?

    Ma siamo sicuri che tale linguaggio sia neutro, oppure utile? Che esistano segmenti della politica, dell’imprenditoria e delle professioni coinvolte in attività criminali anche di matrice mafiosa, è innegabile. Innegabile anche la densità di strutture massoniche (regolari, riconosciute) o para-massoniche (spurie, irregolari o coperte) in certi territori, soprattutto del Sud Italia, come – tra le altre cose – rivelato dalla Commissione Antimafia in una relazione del 2017. Sono comprovati i legami di una certa classe dirigente con i clan mafiosi; alcuni mafiosi sono stati anche massoni; alcune strutture massoniche o para- (o pseudo) massoniche sono stati luoghi di incontro e camere di compensazione di comitati d’affari illeciti a partecipazione mista.

    Ma usare questa terminologia vaga, imprecisa quanto suggestiva, per imboccare dietrologie e poteri occulti alla base dei grandi segreti inconfessabili e soprattutto inconfessati (che a pensar male si fa sempre bene in Italia…) ha come risultato solo indebolire il discorso ed eventualmente dire niente. Chi sarebbero poi i massomafiosi? Cosa fanno, se esistono? Ma soprattutto, siamo davvero sicuri che l’appartenenza alla massoneria, regolare o spuria che sia, abbia davvero un peso nelle scelte che alcuni ‘potenti’ fanno di avvicinamento alla criminalità organizzata?

    La confusione aumenta

    Non sarà che un incrocio tra comportamenti, aspettative legate al territorio, voglia di affari e soprattutto disponibilità a trafficare favori, non siano molto più utili come criteri analitici che non uno status vacuo e vuoto come quello della ‘massomafia’? Esistono relazioni tra soggetti, individui (massoni e mafiosi) come organizzazioni, ad esempio clan e logge (coperte o no) – che convergono per interessi, scambi e alleanze di vario genere: ma spesso, quasi sempre, le logiche, le strategie, e gli obiettivi di tali soggetti rimangono distinte: bisogna leggere le (non tante ma dense) indagini che fanno un po’ di luce su queste realtà composite e complesse.massoni

    Parlare di massomafia per spiegare i segreti d’Italia – come la cattura o la protezione di un boss stragista – attiva e consolida una narrativa ammantata di originalità e segretezza, ma che effettivamente altro non fa che nutrire una confusione concettuale: ammettere che un aggregato, la massomafia – impossibile da vedere, da studiare, da generalizzare – abbia poteri occulti e come tali non misurabili perché fonde due poteri spesso allineati (mafia e massoneria) che sulla segretezza e l’evasione hanno costruito fratellanze, è sostanzialmente un fallacia logica e metodologica.

    E poi c’è la massondrangheta

    Si confondono organizzazioni e comportamenti, criminali e non, fintanto che appaiono insieme, in unico calderone, invocando una realtà che non esiste se non in alcuni suoi attributi. Cum hoc vel post hoc, ergo propter hoc, si dice in logica, “dopo questo, dunque a causa di questo”. Si basa sull’idea che, quando due cose, vaghe, si presentano insieme, vengono pensate come correlate, ma in fondo così non è. La correlazione è forse probabile, ma non ci aiuta a capire alcuna verità sostanziale.
    Se poi oltre alla massomafia esce anche la massondrangheta – perché è ‘naturale’ che la mafia calabrese, oggi considerata e definita la più potente, abbia la propria formula individuale di massoneria deviata mischiata con mafia – comprendiamo che la confusione sulla lingua della mafia è dunque sistemica.

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    Un’udienza del processo ‘Ndrangheta stragista

    La massondrangheta è tornata alla ribalta recentemente nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Marcello Fondacaro durante il processo ‘Ndragheta Stragista: consolidata è oggi la narrativa autonoma della ‘ndrangheta rispetto alla mafia (siciliana), ergo anche quella della massondrangheta rispetto alla massomafia di siciliana memoria. Sicuramente vertici di Cosa nostra e ‘ndrangheta si sono incontrati, parlati, alleati. Sicuramente ci sono state delle sinergie, e direi, anche ovviamente è così: ci si aspettava forse che ai vertici di due organizzazioni criminali di questo calibro ci fossero uomini che non vedessero il beneficio di allearsi gli uni con gli altri? Sarebbe contraddittorio della loro ‘potenza’ e lungimiranza.

    Messina Denaro e «un’unica famiglia»

    Ed ecco che non sorprende che nella storia dell’arresto di Matteo Messina Denaro, dove si è già parlato dei rapporti del boss con la Calabria, alle commistioni di mafia, massoneria, massomafia e politica, non potevano mancare ‘ndrangheta e eventualmente massondrangheta. Avrebbe detto, Matteo Messina Denaro, nel 2015 che Cosa nostra e ‘ndrangheta dovevano «lavorare assieme per diventare un’unica famiglia»; Messina Denaro, consapevole o meno, va ad aggiungersi a quella schiera di analisti che, partendo da indubbie sinergie tra le mafie italiane (o tra i capi, o tra singoli clan) parlano da qualche anno di un’unica grande mafia a regia unica.

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    Matteo Messina Denaro tra gli uomini del Ros dopo l’arresto

    Il processo ‘Ndrangheta stragista ci racconta certamente di una regia intenzionata a essere unica nel periodo stragista. Ma vale tale intenzione di alcuni a cambiare i connotati della ‘ndrangheta? A giudicare da quel che è venuto dopo, direi di no. Di nuovo calderoni dai confini impossibili, di nuovo gli aggregati dall’impossibile concettualizzazione che rischiano di far dimenticare non solo le specificità (territoriali quanto storiche) dei fenomeni, ma anche che le alleanze e le sinergie portano semmai a fenomeni terzi, plurali e integrati, di nuova fattezza, non a fenomeni ibridi e dall’identità confusa.

    Più sostanza, meno suggestioni

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    Pasquale Gallone

    Ricordiamo le parole di Pasquale Gallone, storico braccio destro del boss Luigi Mancuso, mandate in onda da LaCNews nel programma Mammasantissima; «Messina Denaro? È buono, fa sempre cose buone ma i siciliani… i siciliani hanno ‘a vucca, specialmente i palermitani e i catanesi. Per fare un calabrese ce ne vogliono 10 di siciliani!». Per quanto siano solo frasi in libertà queste parole consolidano comunque una precisa narrativa: riaffermare le identità d’origine (di ‘ndrangheta) e i confini della sinergia (tra ‘ndrangheta e Cosa nostra).

    Quindi, aspettiamo di carpire ulteriori dettagli inutili quanto suggestivi su borghesie massomafiose, protezioni, e alleanze calabresi dell’ultimo boss stragista di Cosa nostra. Aspettando di capire se costui è intenzionato a parlare almeno un po’ di tutti quei segreti che si dice si porti dentro. E proviamo – anziché cadere vittima del pourparler che fa sempre piacere a chi vive di eroi ed antieroi – a chiedere un po’ di sostanza alle cose che vengono dette. Nomi, cognomi e condotte delittuose se si può, fino a prova contraria ovviamente. E nei limiti dello stato di diritto e non solo della morale.

  • MAFIOSFERA | Quando i clan rubano i titoli, ma i criminali sono (pure) altri

    MAFIOSFERA | Quando i clan rubano i titoli, ma i criminali sono (pure) altri

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    “Batterie per auto da smaltire, così la ’ndrangheta di Cosenza vuole trasformare il piombo in oro” – così titola LaCNews, a firma di Marco Cribari, il giorno dell’Epifania. Seguono altre testate, come CosenzaChannel “‘Ndrangheta Cosenza, ecco come i clan vogliono smaltire le batterie per auto”, Calabria7 che riprende AffariItaliani, “Batterie esauste, il nuovo business della ‘ndrangheta che avvelena l’Italia”.

    La notizia suggerisce chiaramente un business dei clan cosentini nei rifiuti speciali. Si fa riferimento ad un’informativa del 2020 allegata alle ultime indagini che la DDA di Catanzaro ha effettuato nel cosentino sugli interessi dei clan mafiosi cittadini. Tale informativa confermerebbe che carichi di batterie per auto esauste, ergo da smaltire, partono dal Cosentino per venire poi interrati in modo illecito in provincia di Caserta, a Marcianise per la precisione. Si tratta di rifiuti speciali e dunque, dicono le notizie riportando i risultati della DDA, di ingenti guadagni per le cosche, sempre fameliche di soldi facili e illeciti.

    ‘Ndrangheta, Cosenza e rifiuti speciali

    Come ogni volta che sui giornali c’è una notizia che riguarda faccende di mafia – che ha nel titolo la ‘ndrangheta e qualche suo business come in questo caso – è spesso necessario “pelare” la notizia, come si fa con le cipolle per capirci. Strato dopo strato, bisogna levare via le superfici per cercare di arrivare al cuore della faccenda, possibilmente senza lacrimare troppo.
    Appare chiaramente dalle notizie, una volta lette fino in fondo e una volta approfonditi i dati riportati, che prima di reati di mafia qui si tratta innanzitutto di reati ambientali.
    Cosa è successo, dunque, in questo caso?

    ‘Ndrangheta, Cosenza e il traffico di rifiuti

    Nella geografia dei clan mafiosi della città di Cosenza (spesso per semplicità chiamati clan di ‘ndrangheta, nonostante per alcuni non sembra essere confermata l’affiliazione alla casa madre) si trovano i cosiddetti clan ‘italiani’ a confronto con i clan degli “zingari” o “nomadi”. Quest’ultimo gruppo, secondo le cronache, avrebbe detenuto un monopolio sul traffico di rifiuti speciali fino a qualche anno fa.
    Ma ecco che un imprenditore cosentino – e qui la questione diventa interessante – è intenzionato ad ampliare il mercato e a coinvolgere anche gli altri clan “italiani” della città. Può farlo, tale imprenditore, perché in possesso della licenza che gli consente di smaltire batterie esauste in modo lecito e regolare.

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    L’ingresso del tribunale di Cosenza

    Ma avrebbe commesso una leggerezza: a fronte di un investimento iniziale di duecentomila euro, ne ha dovuto sborsare oltre la metà di tasca propria in quanto solo un’altra persona ha risposto all’appello per investire nel business. L’obiettivo, dunque, è recuperare gli investimenti e per farlo serve coinvolgere altre società del cosentino e del crotonese, di fatto interessate a frodare lo Stato – quindi a non smaltire regolarmente le batterie esauste – e così facendo, a condonare quell’avvelenamento che lo smaltimento illegale necessariamente provocherà, a Marcianise nel casertano.

    I clan al servizio delle imprese

    Nella gerarchia della serietà della condotta criminosa in questo caso, il traffico di rifiuti speciali e pericolosi sovrasta – per danno sociale – il coinvolgimento mafioso. In pratica questo vuol dire che i reati relativi ai mafiosi sono dipendenti dal reato madre, che è il reato ambientale a opera di colletti bianchi. Detto ancora più chiaramente: la condicio sine qua non di questa vicenda – cioè l’elemento che, qualora mancasse, cambierebbe l’evento stesso – non è la disponibilità della mafia cosentina, italiani o zingari che siano, a essere coinvolta nel traffico di rifiuti, bensì l’esistenza di imprenditori che tentano di aggirare le regole sullo smaltimento dei rifiuti. E che, per farlo, chiedono aiuto a chi, come certi gruppi mafiosi, non si fa problema a entrare nel business illecito.

    La mafia che presta servizi in mercati illeciti lucrativi è variabile dipendente rispetto all’intenzione dell’imprenditore di turno, che dà il via alla partita. Europol, nel suo report sui rischi legati ai crimini ambientali del 2022, ricorda appunto come, a differenza di altri settori in cui sono gruppi di criminalità organizzata si attivano autonomamente, nel settore del traffico di rifiuti, pericolosi e non, il motore criminale parte dalle imprese che cercano di tagliare e evitare i costi dello smaltimento. I gruppi criminali, dunque, non solo in Italia, agiscono sempre più a servizio delle imprese, o “da dentro” di esse.

    Privacy a imputati alterni

    Ma c’è in questa notizia ancora altro che stona. Sui mafiosi o presunti tali coinvolti ci sono dettagli, nomi, cognomi e analisi di intenzioni e possibilità. Così non è né per l’imprenditore cosentino che avrebbe avviato il tutto, né per le società che si sarebbero prestate, o dimostrate interessate, alla frode insieme a lui. Non solo non sappiamo chi sono (e questo potrebbe essere giustificato in termini di privacy), ma non sappiamo nemmeno se e quando qualche provvedimento verrà preso nei loro confronti o se quanto meno ci sia un modo – ideato o potenziale – di protezione di questo mercato.

    Sicuramente siamo tutti pronti a indignarci e gridare allo scandalo della mafia onnipotente perché i mafiosi cosentini fanno i mafiosi, o ci provano: vogliono fare soldi facilmente anche con attività di servizio altrui e questo è riprovevole, come sempre. Ma come mai non ci indigniamo allo stesso modo per i colletti bianchi che quel servizio lo creano? E come mai non ci indigniamo ancora di più quando oltre al mercato illecito che porta guadagni indebiti si commette anche un’atrocità ambientale?

    Nonostante l’inserimento degli eco-reati nel Codice penale dal 2015, la complessità delle normative in materia di rifiuti, spesso associata a scarse risorse per il monitoraggio, l’ispezione e l’applicazione delle norme, comporta ancora rischi ridotti per coloro che infrangono la legge a monte – colletti bianchi, imprenditori e più o meno grandi società e imprese – mentre i profitti illeciti che possono trarre da questo settore sono elevati. Nel caso delle batterie si parla di 1.500-1.800 euro a tonnellata.

    Chi sta sul carro

    Ma il problema non è solo l’arricchimento indebito e illecito – reale o potenziale – di qualche clan mafioso; il problema vero qui è che ci sono pratiche, quasi interamente condonate, di avvelenamento del territorio con i liquidi contenuti all’interno delle batterie esauste, mistura di acqua e acido solforico. Il traffico di rifiuti speciali o la mala gestione dei rifiuti pericolosi non ha solo ha gravi implicazioni per l’ambiente e la salute. Ha un impatto economico anche sulla concorrenza, ponendo le imprese che rispettano i regolamenti per lo smaltimento in una posizione di svantaggio economico.

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    Qual è l’incentivo a seguire i regolamenti se chi non li segue, o cerca di aggirarli, di solito non viene punito? Infatti, si puniscono facilmente i mafiosi coinvolti in questo traffico proprio perché sono “già” mafiosi, ergo già sotto osservazione delle forze dell’ordine; ma in questo mercato i clan sono solo una delle ruote del carro: sul carro stanno imprenditori, colletti bianchi, a volte grandi imprese e i loro arsenali di avvocati.

    Non solo ‘ndrangheta

    Mi permetto un’ulteriore riflessione. A guardare le notizie di cronaca in Calabria sembra spesso che a fare da protagonista assoluta, in faccende criminali di una certa serietà e complessità, sia sempre e solo la ‘ndrangheta: estorsioni, droga, traffici illeciti, appalti truccati, corruzione politica. Sicuramente, nella nostra regione, esistono monopoli criminali; c’è una densità tale dell’operatività dei clan mafiosi che spesso erroneamente si presume che ogni nefandezza che succede qui da noi debba passare dalla ‘ndrangheta, sia collegata alla ‘ndrangheta, oppure sia ideata dalla ‘ndrangheta.

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    Una parte dei 300 migranti sbarcati nei mesi scorsi a Roccella in attesa sulla banchina del porto

    Non paiono esistere, nella pubblica percezione calabrese, reati complessi e attività lucrative che non coinvolgano la ‘ndrangheta: reati ambientali, reati societari, reati dei colletti bianchi, reati finanziari e via discorrendo. Fa eccezione, per ora, solo il traffico di migranti, che esula dagli interessi mafiosi perché di base non riguarda il territorio. Quando tali reati complessi si manifestano– e questo caso del traffico di batterie ne è esempio lampante – non paiono esistere in formula del tutto autonoma dall’interesse dei clan, da essi, o dalla loro narrazione, vengono fagocitati Questo non sorprende nessuno, vista appunto la capacità dei gruppi mafiosi locali di penetrare l’economia legale (come illegale) in modo totalizzante e vista la capacità legata alle indagini di mafia di ‘scoprire’ anche altri reati che ruotano intorno ai soggetti attenzionati per mafia.

    I colpevoli dimenticati

    Ma così facendo si rischia, come in questo caso cosentino, di mancare il focus, attribuendo tutto il male di vivere della nostra amara terra a una ‘ndrangheta onnivora mai sazia di denaro facile e moralmente sempre corrotta, senza vedere le sfumature, le differenze tra i clan. E, soprattutto, senza realizzare che le fattispecie criminali locali sono molto più complesse della volontà, dei successi e dei fallimenti della ‘ndrangheta. È un po’ come chi guarda il dito e non la luna: a furia di concentrarsi solo sul ruolo della ‘ndrangheta come protagonista in tutto ciò che non va in Calabria, si rischia di banalizzare fattispecie e attori criminali a volte molto più dannosi e a volte più scaltri di tanti gruppi mafiosi. Quando si riesce a identificare e accusare il mafioso, altri spesso finiscono nel dimenticatoio: per condannare la ‘ndrangheta, si finisce per assolvere de facto altri potenziali colpevoli.

  • MAFIOSFERA| ‘Ndrangheta international: l’anno che verrà

    MAFIOSFERA| ‘Ndrangheta international: l’anno che verrà

    Caro ‘ndranghetista ti scrivo, ma da distrarsi c’è molto poco.
    Nella generalizzata incapacità analitica che caratterizza gli organi di potere e alcuni organi di stampa, italiani e non, non sorprende che a fare presagi sull’anno che verrà, quando si tratta di criminalità organizzata, ci si confonda soltanto.
    Da una parte, è ormai consolidata una retorica per cui certa parte della criminalità organizzata – primariamente la ‘ndrangheta calabrese – onnipresente e onnivora, sia praticamente indomabile. E, dunque, a che serve fare pronostici?

    Dall’altra, la difficoltà a mettere ordine tra dati, tendenze e orientamenti occasionali di mercati illeciti, che dipendono da tante variabili sovrapposte e sovrapponibili, chiama in causa i ricercatori. Che, si sa, non comunicano sempre molto bene o non sono chiamati a farlo da chi poi si occuperà di comunicazione o politiche di massa. E, dunque, come ci si può districare tra i mille dati, spesso contraddittori?

    Cinque elementi da considerare nel 2023

    Il mondo cambia poi troppo velocemente, tra pandemie, guerre, nuovi e vecchi volti della politica mondiale. E i fenomeni sociali sono un po’ come le funzioni matematiche: una scatola che collega vari elementi, in dipendenza tra loro. Se aumentano gli elementi in campo, i fenomeni sociali – sì, anche la mafia – si atteggeranno e si manifesteranno diversamente. Ma questo non ci esime, al volgere del nuovo anno, dal guardare al futuro. E, una volta tirate le somme di quello appena trascorso, da quelle somme immaginare l’anno che verrà.

    L’anno che verrà per la ‘ndrangheta è un anno schizofrenico. Come schizofrenica è la realtà che circonda clan, favoreggiatori, e tutta la popolazione che sta intorno ai clan – sia in supporto che in contrasto. Ci sono però almeno cinque elementi da considerare nel 2023, ognuno dei quali può cambiare la mafia calabrese, fermarne quanto agevolarne gli affari e il potere locale e internazionale.

    Il mercato della cocaina cambia

    Primo fra tutti, il mercato della cocaina che in questi ultimi anni – tendenza assolutamente confermata nel corso del 2022 – è sicuramente cresciuto. Cresciuta la produzione nei paesi dell’America Latina – fino a oltre 4 volte in più rispetto a cinque anni fa – e cresciuta l’importazione e il consumo in Europa. Riporta l’EMCDDA (European Monitoring Centre for Drugs and Drugs Addiction) di come siano aumentate le confische nei porti europei. E come, secondo i dati di Europol, oltre il 40% dei gruppi criminali attivi in Europa si occupi di narcotraffico, in cui la cocaina è regina. Sono tante le rotte della cocaina e ancora di più gli snodi per la distribuzione.

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    Un carico di cocaina sequestrato

    I trend del mercato della cocaina portano a un incremento degli attori criminali e a quella che in principio era apparsa come una frammentazione del mercato, ma che, guardando meglio, ha anche dei tratti di segmentazione. Più attori si occupano di momenti diversi nel mercato in questione (produzione, importazione, traffico, distribuzione) ma al contempo esistono più attori in generale che si occupano di quello stesso nodo. In altre parole, laddove per anni (decenni?) si è raccontata una ‘ndrangheta (indistinta) leader incontrastata nel mercato della cocaina, questa leadership è oggi sicuramente condivisa con altri gruppi criminali in Europa come nel mondo. E, soprattutto, più che una leadership si tratta di una compartecipazione con sodalizi multi-etnici e transfrontalieri.

    Ciò non significa meno soldi per i clan, ma meno potere di influenzare questo mercato criminale rispetto a quello che spesso si racconta. L’anno che verrà testerà i clan di ‘ndrangheta attivi nel mercato della cocaina. Quelli capaci di adattarsi a partnership composite e caratterizzate da cambiamenti repentini riusciranno a mantenere i profitti e margini di manovra. Altri invece, se arrancheranno in questi sodalizi, dovranno pensare a piani B.

    Classici intramontabili

    Da non sottovalutare poi, in seconda battuta, il cambiamento che nuove partnership e sodalizi di diversa natura, origine e destinazione, possono poi portare per i vari clan mafiosi calabresi. A caratterizzare l’anno che verrà sarà una diversificazione interna alle ‘ndrine. Aspettiamoci i gruppi criminali storici, dalla Piana all’Aspromonte, impegnati a mantenere il proprio potere locale ‘chiudendosi’ nelle loro pratiche storicamente vincenti, dalle estorsioni all’assistenza locale o anche alla ‘beneficienza’ mafiosa. Questo potere locale non sempre direttamente collegato al potere affaristico internazionale, ma indirettamente a esso propedeutico, permetterà la sopravvivenza e il superamento delle ‘intemperie’ portate dal mutamento dei mercati criminali e dall’attività delle forze dell’ordine.

    Il brand ‘ndrangheta

    Aspettiamoci però anche clan più ‘spuri’, nuovi o di nuova ‘gestione’ che si attaccheranno al brand ‘ndrangheta perché conviene, ma che della ‘ndrangheta non sempre avranno pedigree, (finti) onori e disonori. Lo abbiamo visto nel 2022. E lo vedremo molto probabilmente nel 2023: clan dai cognomi (calabresi) semi-sconosciuti, impegnati in attività locali, che cercano (e spesso ottengono) di ‘diventare’ ‘ndrangheta in Calabria come altrove, per fare salti di qualità possibili solo con un brand forte. Questi ultimi piacciono tanto a certi media o a forze dell’ordine poco avvezzi a farsi domande sul “controllo qualità” nel crimine organizzato mafioso.

    Tradizione e innovazione

    Nuovi e vecchi mercati, recenti e soliti attori, altro non sono che la conferma della tendenza numero tre, che esiste da sempre nella mafia calabrese (e non solo): la tensione tra tradizione e innovazione. Le nuove generazioni di ‘ndranghetisti – proprio come le nuove generazioni di non ‘ndranghetisti in Calabria – alternano consuetudini e mutamento. Il passato, la memoria, la reputazione e la storia dei clan sono parte della pedagogia della mafia e del suo potere sul territorio.

    Ma il business, il denaro, i cambiamenti tecnologici, richiedono menti abili a gestire il cambiamento, a usare telefoni criptati (pensiamo a Encrochat, SKYECC, AN0M) quanto a parlare le lingue, a ‘leggere’ la realtà dei mercati, a sapersi godere la vita senza dare nell’occhio nell’era dei social. Insomma, l’anno che verrà testerà le famiglie di ‘ndrangheta come tante altre famiglie: sapranno i figli fare meglio dei padri, e allo stesso tempo con altrettanto successo?

    La cooperazione internazionale

    Da ultimo, da non sottovalutare sono altre due tendenze che riguardano il mondo dell’antimafia e del contrasto ai traffici illeciti internazionali. Sicuramente il mondo della cooperazione internazionale ha recentemente messo la ‘ndrangheta al centro come forse si era fatto in passato solo con cosa nostra tra Sicilia e Stati Uniti e con altri clan, come il cartello di Cali in Colombia. Interpol con la sua unità I-CAN (Interpol Coordination Against the ‘Ndrangheta) colleziona arresti eccellenti, come Rocco Morabito, e operazione transfrontaliere antidroga e antiriciclaggio, come quella che ha portato all’arresto di tre donne polacche accusate di aver facilitato clan mafiosi nell’est Europa nel dicembre scorso.

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    Rocco Morabito, supernacotrafficante arrestato dopo oltre 20 anni di latitanza

    Europol non è da meno, con operazioni imponenti, coordinate spesso con Eurojust, la procura europea, della portata di Petrolmafie, nel 2021, ma anche indagini nazionali, specialmente quando si tratta di grosse quantità di stupefacente, come nel caso di oltre 4 tonnellate di cocaina a Gioia Tauro nell’ottobre 2022.

    Se da una parte questa è cosa buona e giusta, non sempre è fonte di salvezza: l’elevazione della ‘ndrangheta a minaccia globale porta anche con sé il germe dell’incomprensione del fenomeno tra media e autorità estere e del suo conseguente ‘annacquamento’ su scala globale. Si perdono di vista le specificità dei clan e si favorisce un discorso generico e di facile consumo.
    Nell’anno che verrà ci si può aspettare sia l’aumento dell’incomprensione che dell’annacquamento su scala transnazionale, ma anche una maggiore capacità delle forze dell’ordine di raggiungere capitali e latinanti in giro per il mondo, e di coordinare risposte di contrasto.

    Mafie e Governo Meloni

    Last but not least, come si dice, ultimo ma non per importanza, si deve fare riferimento alla schizofrenia nazionale in tema di contrasto alla mafia, a firma del governo Meloni (e in parziale continuità con altri governi precedenti). Alzare il tetto del contante da un lato, il condono del reato di evasione fiscale dall’altro (della serie se lo stato scopre che non paghi le tassi te le fa pagare ma ti condona il reato), l’auspicato e temuto programma di limitazione delle intercettazioni e dell’abolizione dei reati di abuso d’ufficio e traffico di influenze illecite, nonché la riforma delle prescrizioni in materia di reati contro la pubblica amministrazione, sono tutti punti in agenda di questo governo che nel 2023 rischiano di tradursi in politiche di matrice regressiva sul fronte della lotta alla mafia e alla corruzione, e che facilitano l’illegalità e l’informalità degli scambi illeciti.

    Il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (FdI) posa in occasione del giuramento

    Se da una parte la legge di bilancio e i provvedimenti annunciati accrescono le disuguaglianze sociali e portano solo più pressione proprio in quelle aree del paese che di più hanno bisogno di politiche di sviluppo, l’europeismo di facciata del governo Meloni non aiuterà a combattere quella tendenza che è al cuore della mafia, e soprattutto della mafia calabrese, e cioè lo sfruttamento dei canali dell’economia legale, nazionale e non, per ripulirsi dalla sporcizia dei reati di droga e di estorsione.

    Repressione e voti

    In altre parole, è conveniente e populisticamente efficace iniziare il 2023 dicendo che la ‘ndrangheta è potenza europea e internazionale, e dunque ha bisogno di una risposta efficace in Italia e di cooperazione con tutti i paesi dell’Unione e oltre. Aiuta a creare paura questa retorica, nutrita di orgoglio in negativo per la mafia più potente del mondo; questo, in seguito, aiuterà ad attirare voti in favore della repressione. Ma se poi in pratica si vanno a indebolire proprio quegli strumenti nazionali che permettono di intercettare la crescita economica di quei clan che hanno la fortuna di avere successo nei mercati illegali mondiali, ecco che allora l’anno che verrà in fondo per questa mafia così drammatico – almeno in casa – potrebbe non essere.

    Di certo, l’anno che sta arrivando tra un anno passerà, e quelli che oggi sono solo tendenze e pronostici potranno essere dati più o meno riscontrati o smentiti dai fatti. Ma c’è poco da rilassarsi.

  • MAFIOSFERA | New York: calabresi alla carica grazie a Cosa Nostra

    MAFIOSFERA | New York: calabresi alla carica grazie a Cosa Nostra

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    Quando un giorno di dicembre ci si sveglia con i titoli dei giornali della seguente tipologia “Estorsioni a Manhattan: 18 arresti nel crotonese”, ci si aspetta – prima ancora di capire di che notizia si tratti – che gli arresti del crotonese siano collegati ad arresti a New York. Oppure che ci sia evidenza di estorsioni da parte di soggetti del crotonese a Manhattan. Suona un po’ inusuale, ma sicuramente sarebbe una gran notizia. Ma cosa significa che la ‘ndrangheta, un qualche clan di ‘ndrangheta, effettua estorsioni a Manhattan? Il 19 dicembre, una volta uscita la notizia, dettagli su estorsioni a Manhattan non compaiono né sui giornali né nelle carte dell’operazione. Men che meno tra le notizie americane: non ci sono arresti, indagini, niente di niente, a New York.

    Il 19 dicembre, gli arresti a Rocca di Neto sono tutti concentrati sulla realtà crotonese. Nel corso di quel giorno, aspettando documenti dalle procure e giornalisti che iniziano a raccontare la vicenda, si comprende che gli arresti a Rocca di Neto sono legati ai clan mafiosi, di matrice ‘ndranghetista, e soprattutto alla famiglia Comito-Corigliano, legata a doppio filo al gruppo mafioso Iona-Dima e al locale di Belvedere Spinello, oggetto di plurime risultanze processuali sin dagli anni ’80, «coordinato e diretto da Iona Guirino dal carcere il quale agiva anche all’esterno mandando direttive (tramite il figlio Iona Martino) ai sodali» come si legge già in una sentenza del Tribunale di Crotone già nel 2006.

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    Rocca Di Neto, teatro della recente operazione della Dda di Catanzaro

    Le relazioni pericolose

    Negli atti dell’operazione, riportati su Il Fatto Quotidiano a firma di Lucio Musolino, poi su altri canali nazionali e locali, fino al giorno di Santo Stefano con ulteriori dettagli da Antonio Anastasi su Il Quotidiano del Sud, si legge poi che è proprio al clan Iona di Belvedere Spinello e al clan Corigliano di Rocca di Neto, che farebbero riferimento alcuni soggetti dimoranti da tempo a New York e particolarmente nell’area di Long Island. Si tratta di soggetti attenzionati dall’FBI di New York, per ora a livello investigativo, come Teodoro Matozzo, detto Terry, coinvolto con la criminalità organizzata locale – famiglie Gambino e Colombo si dice – e garante dei servizi in tema di estorsioni a un imprenditore newyorkese.

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    Uno scorcio suggestivo della Grande Mela, dove la ‘ndrangheta prospera grazie a Cosa Nostra

    Matozzo, ponte tra la criminalità locale e alcune nuove (e vecchie) leve calabresi a New York, avrebbe incaricato il gruppo criminale calabrese dei rocchitani di compiere ulteriori estorsioni a danno di imprenditori residenti nello Stato di New York, dopo un’estorsione andata a buon fine. Tale gruppo e il loro piano estorsivo sono diventati dunque oggetto di indagine da parte dell’FBI dal marzo del 2020 – in collaborazione con le nostre procure antimafia tramite I-CAN (Interpol Cooperation Against the ‘Ndrangheta) e avevano portato anche a osservare le relazioni tra altri soggetti negli Stati Uniti, lì dimoranti o in visita.

    Estorsioni e unità a New York

    Tra questi, Ernesto Toscano, di Rocca di Neto, che grazie a Matozzo aveva iniziato a frequentare New York con vari intenti, alcuni dei quali criminali, come ad esempio cambiare assegni a nome di una società locale appartenente ad alcuni “amici” per liquidità pari a quasi un milione di dollari. Tra chi ha un negozio di compro-oro e cambio-assegni, e chi gestisce imprese di pitturazione o imprese edili, la comunità della zona della Valle del Neto fa cerchia e sostiene i conterranei, vecchi e nuovi. Molti dei soggetti menzionati in questa operazione e indagine hanno business o dimora nelle zone di Franklin Square e Glen Cove, nella Nassau County a Long Island – a est di New York City.

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    Una mappa di New York e Long Island

    Insomma, dicono le carte e raccontano i giornalisti che in questa operazione e indagini collegate, grazie al coinvolgimento dell’FBI e del Dipartimento di Giustizia americano, si conferma «l’esistenza di un gruppo unitario di ‘ndrangheta operante nell’area di Long Island, direttamente riferibile ai clan Corigliano di Rocca di Neto e Iona di Belvedere Spinello». Ma, dunque, cosa significa che la ‘ndrangheta di Belvedere Spinello e Rocca di Neto, ‘offre’ estorsioni a Manhattan?

    La ‘ndrangheta come manovalanza di chi comanda davvero

    Di base, significa, che questa ‘ndrangheta viene usata come manovalanza per organizzazioni criminali autoctone – principalmente famiglie di Cosa nostra americana – che si ritengono, o sono ritenute, superiori, al punto da poter commissionare ai rocchitani i servizi di racketeering, cioè protezione ed estorsione. È dunque una ‘ndrangheta riconosciuta in territorio statunitense, sebbene criminalmente – nella gerarchia del crimine organizzato – su un gradino inferiore.

    Si parla spesso di ‘ndrangheta globalizzata, come se fosse in qualche modo quasi un “merito” della criminalità organizzata calabrese riuscire a inserirsi in altre realtà criminali e non. E ancora ci si sorprende che l’antimafia italiana e l’FBI facciano operazioni di contrasto comuni (ricordiamo che in realtà ciò accade dai tempi di Pizza Connection con Giovanni Falcome…). Ma da un punto di vista analitico si sa che la globalizzazione del crimine organizzato è effetto collaterale della mobilità del capitalismo: mobile è il capitale, mobile è l’individuo, mobile la comunicazione, mobile è anche l’azione di contrasto.

    È dunque da considerarsi normale – nel senso di atteso, previsto e prevedibile – sia che clan mafiosi facciano affari all’estero, sia che le autorità si adoperino per cooperare e stopparne le attività. È da considerarsi normale attività da mondo globalizzato che si utilizzino le asimmetrie giudiziarie e finanziarie tra Stati Uniti e Italia per spostare i soldi da una parte all’altra e ricavarci qualcosa anche illecitamente. Normale è che da New York si telefoni a Catanzaro sperando di riuscire a coordinare indagini e azioni di polizia.

    Controllo del territorio a New York

    Ma in questo caso a New York ci sono le estorsioni, che non sono “banali” attività criminali da mafia globalizzata. Non si tratta qui solo di iniziative di sfruttamento di contesti diversi e opportunità illecite e di arricchimento all’estero – che pure ci sono. Le estorsioni a imprenditori locali nella città statunitense (effettive o tentate) denotano un certo grado di controllo del territorio – fisico quanto virtuale o settoriale – e soprattutto un gruppo che sul territorio vuole rimanere e si dimostra intraprendente.

    Matozzo e i suoi sodali, per quanto nati in Calabria, questo controllo sembrano avercelo o mirano a consolidarlo perché sono americani sia nello spazio di azione che per la loro rete relazionale. Vengono definiti gruppo di ‘ndrangheta per origini e per collegamenti alla Calabria, ma di fatto sono molto di più. È il loro essere non solo calabresi, ma anche e soprattutto newyorkesi, a renderli capaci di sfruttare al meglio le varie sfaccettature dei possibili scenari illeciti.

    Più americani che calabresi

    Non è il loro essere ‘ndrangheta – qualunque cosa questo implichi – a renderli capaci di offrire servizi di racketeering; è grazie alla dimestichezza con l’economia legale della città americana e ai contatti con le famiglie criminali di Cosa nostra americana che questo gruppo di migranti riesce a cooptare calabresi sbarcati oltreoceano con visto turistico da impiegare in non meglio precisate attività, tra cui verosimilmente lavoro in nero e/o manovalanza criminale in varie aree della Grande Mela. Ad esempio, parrebbe che il gruppo avesse ideato la possibilità di estorcere imprenditori grazie anche all’attività (legale) della moglie di Matozzo, riconosciuta dalle Camere di commercio newyorkesi.

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    Le cinque famiglie di Cosa nostra amaericana (foto Marianne Barcellona, Irpimedia)

    C’è poi un altro dato da considerare in questa vicenda. L’elemento interessante per l’analisi dei fenomeni criminali in questo caso riguarda soprattutto l’assetto criminale della città americana. A New York – come già detto – non può entrare la ‘ndrangheta dalla Calabria a gamba tesa, o chiunque altro, se non per offrire servizi necessari per il crimine organizzato, ma di “derivazione” o su “commissione” di gruppi locali già radicati – protezione, estorsione, distribuzione di sostanze stupefacenti. Esiste un brand più forte, quello di LCN (La Cosa Nostra – americana) con le cinque famiglie, Gambino, Genovese, Colombo, Bonanno, Lucchese che sopravvivono (a fatica, comunque) grazie a un’identità acquisita e consolidata da decenni, a cui gli altri, italiani e calabresi arrivati oggi come 40 anni fa, si legano.

    In trasferta è un’altra cosa

    I cinque cognomi – intorno a cui FBI e NYPD (New York Police Department) organizzano il loro lavoro da oltre quarant’anni – sono ormai cognomi tipici dei casati reali, non più indicativi della loro leadership (non c’è un Genovese a capo o nelle fila della famiglia Genovese per dire) ma chiaramente riconoscibili da esterni e interni. Che un gruppo di calabro-americani possa offrire servizi di protezione ed estorsione ad affiliati di una o più delle cinque famiglie, conferma che i clan calabresi – quelli in Calabria – sanno giocare la partita, sanno adattarsi ai campi da gioco, vogliono giocare fuori casa, ma non sempre sono i campioni in carica nelle trasferte.

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    E ci fa riflettere sul fatto che anche quando si tratta di attività che riguardano il territorio – tipo le estorsioni – la presenza e la partecipazione della ‘ndrangheta all’estero è dipendente dagli assetti criminali locali: sono effetto della globalizzazione la mobilità e la fama della mafia calabrese, ma non il successo oltremare.

  • MAFIOSFERA| Commissione antimafia, molto rumore per nulla

    MAFIOSFERA| Commissione antimafia, molto rumore per nulla

    Gli arresti di ‘ndrangheta a Rocca di Neto del 19 dicembre hanno fatto parlare anche per la collaborazione tra le forze di polizia italiane e quelle statunitensi. L’FBI avrebbe infatti fornito delle informazioni cruciali per l’operazione crotonese su legami tra presunti ‘ndranghetisti e controparti newyorkesi.
    Di questa operazione, una volta chiariti i dettagli, si potrà parlare più specificatamente. Perché sì, la ricerca accademica – condotta sia sul campo che su fonti aperte – può fornire analisi del caso e degli scenari a esso connessi che non sempre le notizie di cronaca possono mettere in luce. Eppure, questo bacino di conoscenza che la ricerca scientifica offre, non è, in Italia, considerato sistematicamente nella produzione di conoscenza istituzionale.

    La Commissione Antimafia si congeda

    Che a molte autorità e istituzioni italiane non piaccia la ricerca è forse un dato che non fa notizia. Ma quando questa ignoranza volontaria diventa ragione per missioni istituzionali, che oltre ad avere un costo elevato, producono risultati banali e superficiali, bisognerebbe forse chiedersi cosa ci sia alla radice di questo difficile rapporto con la ricerca. È questo il caso degli ultimi rapporti della Commissione Parlamentare Antimafia uscente, che, a differenza di alcune Commissioni passate e nonostante il potenziale valore compilativo, deludono ricercatori e addetti ai lavori.

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    Morta una Commissione Parlamentare Antimafia se ne fa un’altra. E mentre aspettiamo le nomine per una nuova Commissione, usiamo questi ultimi momenti del 2022 per fare un bilancio di quella appena morta e che per gli ultimi 4 anni ha portato avanti – o avrebbe dovuto portare avanti – il lavoro di ricerca, analisi e disseminazione sul fenomeno delle mafie e dei fenomeni a esse collegate in Italia.
    Sicuramente il lavoro della Commissione Parlamentare Antimafia, istituita nel 1963, ha un ruolo di rilievo; una voce istituzionale – a volte più sommessa, a volte urlante – che negli anni ha contribuito a sistematizzare la conoscenza sulla criminalità organizzata nel nostro paese e punto di riferimento dall’estero per qualunque forza politica e autorità voglia un confronto sul tema.

    Passato e presente

    Gli archivi della Commissione sono poi tesoro inestimabile per ricercatori e addetti ai lavori. È la continuità della memoria storica che la Commissione rappresenta a darle, oltre ai singoli lavori e rapporti, il suo valore istituzionale, legislatura dopo legislatura. È ruolo della Commissione, infatti, oltre a preservare la memoria istituzionale, anche dare nuovi indirizzi per analisi innovative.
    La Commissione può arrivare laddove molte ricerche non possono arrivare, o non possono arrivare in breve tempo. Questo vantaggio fa sì che in passato alcuni lavori della Commissione – ad esempio quella presieduta da Rosy Bindi, che ha prodotto rapporti innovativi e fruibili come quello su Mafia e Massoneria – siano diventati punti di riferimento e di partenza, nonché spunti di ricerche, per gli anni a venire.

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    Una seduta della Commissione Antimafia ai tempi in cui a guidarla era Rosy Bindi

    Ecco perché, quando una Commissione Parlamentare Antimafia uscente pubblica la sua relazione di chiusura – approvata, in questo caso, quest’estate ma resa pubblica solo in autunno nei suoi contenuti – il ricercatore va a leggerla con aspettative e attenzione.
    Ma che succede se il ricercatore o la ricercatrice in questione si dimentica di avere comunque a che fare con forze politiche, fatta di politici – quelli degli ultimi anni poi – e non di esperti? E se poi si dimentica di alcune vicissitudini personali di alcuni membri della Commissione in questi anni, che hanno ‘distratto’ dal lavoro? Ecco, il ricercatore o la ricercatrice potranno effettivamente rimanere delusi.

    Niente di nuovo sul fronte criminale (o quasi)

    Nei rapporti che compongono la relazione conclusiva della Commissione Parlamentare Antimafia uscente al dicembre 2022, c’è davvero poco di nuovo. Anzi, non c’è praticamente nulla di nuovo. Fatta eccezione per il valore della sistematizzazione di alcuni fatti da un lato – ad esempio la relazione sulla visita nei distretti di Catanzaro e Vibo Valentia, in seguito alla risonanza mediatica del processo Rinascita-Scott – e l’attenzione posta su alcuni temi – si veda il rapporto su criminalità organizzata e porti, a seguito dei sequestri di cocaina o a processi che guardano (ancora!) al rapporto tra mafia e massoneria – il contenuto analitico di questi rapporti rimane superficiale.

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    Nicola Gratteri durante il maxi processo Rinascita-Scott

    Eppure, si tratta di rapporti spesso molto densi: quello sui porti è lungo 65 pagine ed è il risultato di una serie di interviste con forze dell’ordine e presidi di sicurezza portuale. Nessuna menzione della ricerca accademica, che, per quanto non nutritissima sul tema di criminalità in ambito portuale, si è focalizzata proprio sui due porti di cui la Commissione si è occupata, Genova e Gioia Tauro con dati spesso più ‘freschi’ di quelli analizzati dalla Commissione.

    A che pro?

    Insomma, un occhio attento vede tre caratteristiche ricorrenti in questi rapporti:

    • la ‘rincorsa’ del tema del momento;
    • l’assenza di analisi indipendente;
    • l’assenza di coinvolgimento della ricerca.

    Tra l’altro, emerge chiaramente che c’è un problema con l’accademia: solo 2 le audizioni di docenti universitari dichiarate dalla Commissione (a fronte di 18 magistrati e 17 funzionari pubblici per esempio), sui temi dell’usura e sui risultati di una ricerca compilativa, sicuramente utile per la Commissione ma poco utilizzata nella pratica, L’Università nella lotta alle mafie.

    Emerge una questione cruciale: quale valore hanno missioni e rapporti di approfondimento su temi specialistici che ignorano lo stato dell’arte della ricerca, sia accademica sia di ricognizione sistemica delle fonti aperte, sui temi prescelti, quando i risultati che si ottengono da tali missioni e per questi rapporti si rivelano datati, carenti e soprattutto non dicono niente di nuovo?

    La Commissione Antimafia sbarca in America

    Prendiamo – nell’ambito dei lavori svolti dalla Commissione uscente – proprio la relazione sulla missione a New York e a Washington dal 13 al 18 gennaio 2020. La relazione è di 27 pagine. Si prefigge, come detto nella sua introduzione «un obiettivo conoscitivo» sui «profili generali concernenti il tema della presenza, negli Stati Uniti, di insediamenti della criminalità organizzata di origine italiana, nonché dei rapporti tra la criminalità organizzata locale e quella del nostro Paese». Altri obiettivi erano «analisi e valutazione dello stato di evoluzione della cooperazione giudiziaria e delle relazioni intercorrenti tra autorità italiane e statunitensi, con specifico riferimento alla materia della criminalità̀ organizzata».

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    La Commissione Parlamentare Antimafia all’ONU presso la missione italiana (Foto Twitter @ItalyUN_NY)

    C’erano poi obiettivi di discussione più specifica sulla legislazione di contrasto al terrorismo e sull’attuazione e aggiornamento della Convenzione ONU di Palermo del 2000, contro la criminalità̀ organizzata transnazionale. Cinque giorni intensi per la delegazione italiana della Commissione, in visita alla DEA (Drug Enforcement Administration), all’FBI (Federal Bureau of Investigation), al Department of Justice. Un tour proseguito incontrando procure specializzate tra Washington e New York, per finire con la Rappresentanza permanente italiana presso l’ONU.

    Nelle puntate precedenti

    Quali i risultati di questo viaggio alla scoperta dell’America? Innanzitutto, una descrizione di come funzionano le autorità statunitensi e soprattutto un’analisi della legislazione sia penale che patrimoniale contro il crimine organizzato. E fin qua, si potrebbe anche dire che sia un esercizio compilativo utile, sebbene si potesse, ovviamente, fare comodamente da casa, sui libri scritti sull’argomento e sui siti web appositi.
    Il resto è un riassunto delle puntate precedenti. La DEA che riassume i suoi rapporti annuali – a consultazione aperta sul web – comunicando le ultime novità in merito a chi traffica cosa e soprattutto chi ricicla denaro: informazioni ancora una volta ricavabili da fonti aperte da un qualunque ricercatore.

    Con altre autorità, soprattutto le procure, si parla di casi negli anni precedenti. L’arresto di Ferdinando “Freddy” Gallina, latitante palermitano vicino a Matteo Messina Denaro, a New York nel 2016, per esempio. Oppure le operazioni New Connection, New Bridge, tra il 2011 e il 2014 e Columbus nel 2015, che hanno riguardato indagini sulla famiglia Gambino in Sicilia e in USA e arresti di soggetti residenti a New York connessi alla ‘ndrangheta. O, ancora, operazioni locali contro le cinque famiglie newyorkesi (Bonanno, Lucchese, Colombi, Gambino e Genovese).

    Basso profilo is the new basso profilo

    L’FBI ha poi confermato «un vero e proprio ruolo di superiorità gerarchica che la mafia di New York esercita rispetto alle altre organizzazioni criminali diffuse sul resto del territorio nazionale», altro fatto decisamente noto alla ricerca. Alle organizzazioni criminali italiane si attribuisce un “nuovo” trend – che nuovo non è per niente, basta chiedere a chiunque si occupi del tema – che sarebbe quello di mantenere un basso profilo, senza violenza.
    Si ritiene rilevante – definito «impressionante» – «il numero di siciliani aventi legami con organizzazioni mafiose che ogni anno compiono viaggi nella città di New York», anche questo fatto noto. Soprattutto, già rilevato in connessione al porto di New York.

    ‘Ndrangheta, molto rumore per nulla

    E poi c’è la ‘ndrangheta, ovviamente, immancabilmente. Ancora una volta molto rumore per nulla, però.
    La Commissione ha sentito di come clan di ‘ndrangheta siano stati accertati a New York (Commisso, Aquino- Coluccio, Mazzaferro, Piromalli). Non sorprende, visto che il cosiddetto Siderno Group of Crime è attivo tra Stati Uniti e Canada da oltre mezzo secolo.
    Operazione Provvidenza, poi, aveva dato dettagli sulla presenza dei clan della Piana in un business di prodotti Made in Italy verso gli Stati Uniti nel 2017.
    Che la ‘ndrangheta abbia attivato collaborazioni con le cinque famiglie newyorkesi è anche roba vecchia. Tale collaborazione di fatto esiste da quando il Siderno Group è attivo, come ha fatto plurime volte notare negli anni la Waterfront Commission per il porto di New York e New Jersey.

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    Il porto di New York

    Questo porta poi a raccontare che tali clan di ‘ndrangheta mantengono rapporti con il Canada e con altri gruppi sul territorio, ad esempio in California. Laddove la ricerca sulla ‘ndrangheta in Canada è notoriamente avviata da decenni, la California sembrerebbe dato nuovo, Ma può leggersi nella più ampia considerazione che tra le 5 famiglie almeno una, i Gambino, sono notoriamente legati a Los Angeles e che i collegamenti tra clan sidernesi e i Gambino sono anche li, notoriamente avviati.

    Da ultimo, la Commissione in America ha fatto il punto sulla collaborazione internazionale e sullo stato dell’arte della normativa penale legata alla Convenzione di Palermo e alla possibilità di attivare non solo arresti, ma anche sentenze e pene transfrontaliere.
    Anche stavolta la ricerca a livello europeo è molto attiva a riguardo. E conforta forse vedere come la Commissione arrivi a risultati in fondo simili: le raccomandazioni sulle squadre investigative comuni, sullo scambio di informazioni, sulla formulazione di indirizzi di pena comuni e via discorrendo.

    Commissione Antimafia impreparata?

    Probabilmente molte più cose avranno ascoltato i membri della Commissione Antimafia in missione negli Stati Uniti, cose che non sono scritte in questo rapporto.
    Il problema non è solo di “risultati” scritti, ma di capacità analitica: se non c’è preparazione a monte, come si fa l’analisi dei dati a valle? Se non si assorbe la conoscenza già in circolazione, come si può davvero elaborare la nuova conoscenza?

    E dunque il dubbio ab origine: sono necessarie queste missioni, che di nuovo non solo non dicono nulla, ma mostrano – urlano – con chiarezza l’assenza di interazione con ricerca sul tema e con la conoscenza pregressa che dovrebbe essere la base per tutti gli interessi di approfondimento politico e istituzionale?
    Alla luce anche dell’operazione di Rocca di Neto, questo porta a un’ulteriore dolorosissima domanda: come possono le forze politiche del nostro paese commentare, intervenire, direzionare il discorso pubblico sull’argomento, se di questo argomento sanno solo notizie di seconda mano raccolte in missioni di 5 giorni?

    Errori da non ripetere

    Morta una Commissione Parlamentare Antimafia se ne fa un’altra. E speriamo che gli errori dei padri non ricadano sui figli. E che magari, oltre a fare le audizioni di qualche sparuto collega accademico, si scelga – che so – di creare una unità di ricerca più strutturata, capace di ricerca su fonti aperte, in lingue diverse, e già pubblicate (che già aiuterebbe) e anche collegata con chi sul campo – sui campi – della ricerca sulla criminalità organizzata ci sta da anni.