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Mafiosfera. Un’analisi criminologica di ‘ndrangheta vicina e lontana, in Calabria, in Italia e in giro per il mondo. Per sfatare qualche mito sul potere e sulla mobilità della mafia calabrese nel mondo; per fermarsi a riflettere sulla cronaca con occhi più attenti e consapevoli; per narrare di mondi criminali senza ridurne la complessità.

  • MAFIOSFERA| Dove c’è Calabria c’è ‘ndrangheta? Paradossi e faide in Canada

    MAFIOSFERA| Dove c’è Calabria c’è ‘ndrangheta? Paradossi e faide in Canada

    Basta trovare un calabrese che commette crimini vari all’estero per annunciare la presenza della ‘ndrangheta oltremare? No, non dovrebbe bastare. Eppure due eventi recenti in Canada, uno in Ontario e uno in Quebec, quando letti insieme, ci offrono uno spaccato interessante dello stato dell’arte – e della difficoltà di comprensione e accettazione – delle dinamiche criminali para-mafiose quando si ha la cosiddetta dimensione etnica all’estero.

    Il delitto Iacono: Calabria e ‘ndrangheta in Canada

    L’evento più recente riguarda un omicidio avvenuto a Montreal. A cadere è stata Claudia Iacono, il 16 maggio, uccisa in pieno giorno davanti al salone di bellezza di cui era proprietaria. Non sembrano esserci dubbi sul fatto che fosse proprio lei la vittima designata. Ma non sembra nemmeno essere un colpo da professionisti.
    A rendere morbosa (più del solito) l’attenzione su questo omicidio sono l’identità della vittima e quella della sua famiglia. Claudia Iacono era una influencer locale. Ed era sposata con Antonio Gallo, il figlio di Moreno Gallo, un tempo importante membro della cosiddetta fazione calabrese della mafia di Montreal.

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    Antonio Gallo e Claudia Iacono

    Laddove Claudia Iacono non sembra essere stata coinvolta in attività criminali, lo stesso non si può dire per suo marito e suo suocero. Moreno Gallo fu assassinato in un ristorante italiano in Messico nel 2013, dopo essere stato espulso dal Canada.
    A molti dei locali il delitto Iacono pare illogico: che senso avrebbe toccare la nuora di un boss? Forse avrebbe avuto più senso che la vittima fosse stata suo marito.
    Nonostante ancora non ci sia chiarezza sulle motivazioni dell’omicidio, subito si è consolidata una teoria che lo collega ad una faida di criminalità organizzata. E siccome si tratta di Montreal, per niente estranea a questo tipo di violenza (sono già 8 gli omicidi in città nel 2023), questa teoria non è affatto campata per aria.

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    Moreno Gallo, ucciso in Messico 10 anni fa

    Calabria vs Sicilia: ‘ndrangheta e Cosa nostra in Canada

    Di faide a Montreal non ne sono mancate. L’ultimo troncone, a più riprese e con periodi di pausa (forzata o forzosa) è in corso dalla morte, nel 2013, del boss Vito Rizzuto. Rizzuto era una storica figura della mafia canadese, legato alla famiglia Bonanno di New York City e originario di Cattolica Eraclea, in provincia di Agrigento.
    Come ho già delineato in un altro articolo, l’origine del dominio della famiglia Rizzuto è collegato ad una faida con un’altra famiglia, il clan Cotroni-Violi, originari di Mammola e Sinopoli in provincia di Reggio Calabria, su cui i Rizzuto hanno primeggiato negli anni Settanta.

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    Vito Rizzuto è stato il capo della Sesta Famiglia in Canada fino alla sua morte

    Tra le fila dei Cotroni-Violi c’erano dei vecchi affiliati di ‘ndrangheta. Poi, però, come è successo nella vicina città di Hamilton, il gruppo si è trasformato in una famiglia criminale ibrida, senza ‘bandiere’ mafiose chiare. E, soprattutto, legata alle dinamiche locali e non internazionali.
    Alla base del potere mafioso di Montreal c’è dunque un male primigenio mai davvero risolto che è passato alla storia cittadina come faida tra siciliani e calabresi. E qui torniamo a Moreno Gallo, di origine calabrese ma effettivamente mafioso nelle fila dei Rizzuto. Quindi, “ufficialmente” legato a Cosa nostra americana nella sua versione canadese.

    Montreal: ma la Calabria in Canada è tutta ‘ndrangheta?

    La sua è una parabola normalissima per quei territori. Lì la regionalizzazione del crimine organizzato italiano – calabresi e siciliani – non ha lo stesso significato che può avere da noi. Nel periodo di vuoto di potere legato alla carcerazione del boss Rizzuto, Gallo si era legato a un gruppo di dissidenti interno alla famiglia Rizzuto. Erano i cosiddetti calabresi, guidati però da un siciliano di Castellammare del Golfo, Salvatore Montagna, da Joe Di Maulo, molisano, membro apicale della famiglia (di origini calabresi) Crotoni, e suo cognato Raynald Desjardins, nemmeno italiano.

    E qui arriva il vero nocciolo della questione. Molti giornali italiani hanno infatti riportato la notizia della morte di Claudia Iacono definendola “vittima di ‘ndrangheta” o da inserire comunque all’interno di una faida di ‘ndrangheta a Montreal. Quest’accezione non potrebbe essere più errata: non solo Moreno Gallo non era ‘ndrangheta, ma praticamente quasi nessuno dei cosiddetti calabresi di Montreal ha qualcosa a che vedere con la ‘ndrangheta (salvo alcuni collegamenti storici o legati a business vari ed eventuali).

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    Una strada del quartiere Little Italy – o, meglio, Petite Italie – a Montreal

    Anzi, tale confusione finisce per alzare il profilo di alcuni di questi soggetti, rendendoli più di quel che sono, nel mondo criminale. Ma la questione si fa ancora più complicata quando si va ad allargare l’analisi oltre Montreal. Che esista una fazione calabrese nella mafia canadese/americana/italiana a Montreal che non è collegata con la ‘ndrangheta ovviamente non significa che non esista la ‘ndrangheta sul territorio. Anzi.
    Il secondo evento ci dimostra che così non è. E che la confusione che regna sovrana nel leggere gli eventi di mafia canadese in una connotazione etnica non fa altro che aiutare quelli che ‘ndranghetisti sembrano proprio esserlo.

    L’espulsione di Vincenzo Jimmy DeMaria

    Vincenzo “Jimmy” DeMaria, un uomo di 69 anni, originario di Siderno ma residente in Ontario – in particolare nella zona di Mississauga, un sobborgo di Toronto – è sotto processo (dal 7 maggio) davanti all’Immigration and Refugee Board, il Tribunale per l’Immigrazione. Il Canada vuole rispedirlo in Italia in seguito a una serie di intercettazioni e risultanze italiane, inammissibili però in sede di processo penale, secondo cui DeMaria farebbe parte del Crimine di Siderno, membro della ‘ndrangheta in Ontario. Nonostante i tanti anni in Canada (da metà anni 70) in seguito a una condanna per omicidio – un’esecuzione in piena regola – DeMaria non ha mai potuto prendere la cittadinanza canadese. E l’espulsione per questioni legate a un possibile coinvolgimento con la criminalità organizzata è sempre alle porte.calabria-canada-ndrangheta-tribunale

    Ma facciamo una digressione perché il background qui non è da poco. Il fratello di Jimmy – o Gimì come viene chiamato da alcuni sidernesi ‘in vacanza’ a Toronto – è Joe, Giuseppe. Joe DeMaria, secondo gli inquirenti di Reggio Calabria durante l’indagine Canadian ‘Ndrangheta Connection del 2019, è membro apicale della ‘ndrangheta sidernese della Greater Toronto Area, cioè proprio delle aree intorno a Toronto, da Brampton a Vaughan fino a Mississouga.
    Insieme ai DeMaria, altri membri apicali sarebbero Luigi Vescio, Angelo Figliomeni, Cosimo Figliomeni, Rocco Remo Commisso, Francesco Commisso. Ma coinvolti nel Siderno Group sono i cugini di Gimì e Joe, e in particolare Michele Carabatta sempre in Ontario e Vincenzo Muià, intorno al cui viaggio in Canada si muove quasi tutta l’indagine in questione.

    La ‘ndrangheta del Canada che pesa anche in Calabria

    Muià era, infatti, andato ‘in vacanza’ in Canada per capire come risolvere (e in caso per avere autorizzazione a farlo) l’omicidio di suo fratello Carmelo in Calabria.
    A prescindere da una serie di assoluzioni a processo, l’indagine fu importante perché raccontò di come si andasse a risolvere faccende di ‘ndrangheta sidernese in Canada. Questa ‘ndrangheta di Toronto non solo è ‘ndrangheta DOC, ma è anche ‘ndrangheta che influenza la Calabria (anche se provarlo a processo è un’altra cosa).

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    Beni sequestrati nel corso dell’operazione Canadian ‘Ndrangheta Connection

    Finita questa digressione torniamo a Jimmy DeMaria, che era stato già sotto processo davanti al tribunale per l’immigrazione altre volte. L’ultima – in appello – risale al 2019, prima di Canadian ‘Ndrangheta Connection, e lo vedeva in aula in quanto presunto affiliato alla ‘ndrangheta (riconosciuta come organizzazione mafiosa straniera in Canada) e coinvolto in una serie di attività di riciclaggio grazie a società di servizi finanziari.

    U mastru Commisso e le prove insufficienti

    Nel 2018 il tribunale aveva dichiarato «che esistono ragionevoli motivi per ritenere che il Richiedente (Vincenzo, Jimmy, DeMaria) sia un membro della ‘Ndrangheta». Di conseguenza, si era ritenuto che vi fossero ragionevoli motivi per ritenere che DeMaria e uno dei suoi business, The Cash House, operato da suo figlio Carlo, fossero coinvolti nel riciclaggio di denaro. La cosa portò nello stesso 2018 a un ordine di espulsione dal Canada per DeMaria, che si appellò nel 2019.

    La camera d’appello rifiuterà il primo grado e dirà che: «Il Board sembra partire dal presupposto che, poiché ufficiali e forze di polizia esperti ritengono che il Richiedente [DeMaria] sia un membro della ‘Ndrangheta, ciò costituisca di per sé una ragionevole motivazione. Tuttavia, come ha dimostrato il Richiedente [DeMaria], ci sono problemi significativi con queste prove che il Board avrebbe dovuto affrontare prima di accettare le conclusioni della polizia … Gran parte dell’analisi del Board si basa su “transazioni sospette” e “ipotesi” che richiedono l’appartenenza alla ‘Ndrangheta per essere considerate ragionevoli motivi a cui credere. Pertanto, la decisione deve essere annullata anche per questo motivo e rinviata per un nuovo esame».

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    Giuseppe “U mastru” Commisso

    Insomma, dice il Tribunale amministrativo nel 2019, bisogna dimostrare che DeMaria è ‘ndranghetista. E non solo tramite la testimonianza delle forze di polizia o dei giornali o dalle intercettazioni o da resoconti di sorveglianza. Non è molto chiaro cos’altro effettivamente chieda questo tribunale, dal momento che a processo, contro DeMaria, si erano portate anche delle intercettazioni di Giuseppe Commisso, u mastru, capo indiscusso della ‘ndrina omonima di Siderno e a un certo punto anche capocrimine, che raccontava della connessione tra Jimmy DeMaria e alcuni problemi della ‘ndrangheta con la polizia a Toronto.

    Jimmy DeMaria e la profilazione etnica

    Complice quindi la difficoltà – nota – di provare l’appartenenza alla ‘ndrangheta in Canada, ecco che Jimmy DeMaria in sede processuale non solo dichiara di aver appreso della ‘ndrangheta a/di Siderno soltanto dai giornali, ma anche di essere vittima di profilazione etnica. Prende un’equazione superficiale che equipara lo ‘ndranghetista al calabrese (criminale o meno) e la usa a suo vantaggio.

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    Vincenzo Jimmy DeMaria

    «A mio parere … molto di questo, se si guarda davvero a molto di questo, c’è un sacco di profiling etnico in corso qui, perché vieni da una certa area, vieni da lì, quindi perché vieni da lì, questo e quello, deve essere il caso». E ancora: «Se vai in un ristorante italiano qui e sei italiano, subito: “Ah, sì, beh, sai, dobbiamo tenere d’occhio questo tizio”, capite? È uno stereotipo che purtroppo quando sei italiano ci vivi dentro». Gli verrà risposto da chi presiede l’udienza con molta attenzione e correttezza politica – e di base per evitare appunto un’accusa di pregiudizio etnico – che così non è, assolutamente, e che tutti conoscono italiani che nulla hanno a che fare con la mafia. Ci mancherebbe, aggiungerei.

    Se la Calabria in Canada equivale alla ‘ndrangheta

    Ma eccoci al cerchio che si chiude. Claudia Iacono – le cui sorti non sono chiare, ma la cui vita (e morte) sono state già legate alla criminalità organizzata – viene tirata dentro all’equazione superficiale criminale calabrese = ‘ndranghetista, a torto. Ma tale equazione è ormai prassi da giornalismo disattento e analisi superficiale. E altro non fa che rafforzare quella trappola etnica da cui dovremmo soltanto voler uscire in nome della chiarezza dei fenomeni.

    Jimmy DeMaria utilizza quella stessa trappola etnica e quella prassi a suo favore, sapendo che potrebbe proprio attecchire. E che è vero, c’è una sorprendente maggioranza di gente che non opera distinzione tra italiano/calabrese e mafioso/‘ndranghetista. Questo alla fine dei giochi confonde la narrativa. Rende rumorose le indagini sul perché abbiano ucciso una donna a Montreal. E rischia di aiutare un presunto ‘ndranghetista a rimanere in Canada.

    Insomma, se le cose hanno un nome vuol dire che quel nome implica dei confini: se c’è ‘ndrangheta, c’è anche una non-‘ndrangheta. E sarebbe il caso di ricordarsi – come ci ricorda il processo a DeMaria – che ad annacquare i nomi e a espandere i confini di un fenomeno sociale si rischia soltanto che ci si ritorca contro. E che il fenomeno perda di chiarezza al punto da non essere proprio più riconosciuto e riconoscibile.

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  • MAFIOSFERA | Operazione Eureka: una guerra europea alla ‘ndrangheta

    MAFIOSFERA | Operazione Eureka: una guerra europea alla ‘ndrangheta

    Una delle cose più interessanti nel seguire i movimenti globali della ’ndrangheta è l’entrare in un mondo di specchi. Lì le cose si riflettono l’un l’altra, e alcuni pattern di movimento emergono con più chiarezza di altri.
    L’Operazione Eureka ha portato all’arresto di 108 persone in Italia, legate in vario modo a clan di ’ndrangheta, 30 in Germania, 13 in Belgio, più una serie di perquisizioni e confische anche in Spagna, Portogallo, Francia, Romania e Slovenia, e poi Brasile e Panama.

    Eureka vista dagli inquirenti

    Oltre ai numeri, rileva la novità del meccanismo di coordinamento europeo.
    Infatti, anche se gli arresti sono in maggioranza italiani, Eureka è l’esito di uno sforzo europeo, perché europei sono i fatti contestati agli imputati.
    Lo descrivono bene Europol, la polizia di coordinamento europeo, ed Eurojust, l’autorità di coordinamento giudiziario europeo. Ecco cosa racconta al riguardo Eurojust:
    «Eurojust ha sostenuto le autorità coinvolte istituendo e finanziando due squadre investigative congiunte. L’agenzia ha inoltre ospitato dieci riunioni di coordinamento e ha istituito un centro di coordinamento per consentire una rapida cooperazione tra le autorità giudiziarie coinvolte nell’action day. Tre casi collegati sono stati aperti presso Eurojust su richiesta delle autorità italiane, tedesche e belghe. Eurojust ha inoltre facilitato la trasmissione e l’esecuzione degli ordini di indagine europei».
    Il Progetto di analisi sulla criminalità organizzata italiana di Europol ha fornito pacchetti di intelligence alle unità investigative nazionali coinvolte.
    In totale, riporta Europol, sono stati scambiati più di 200 messaggi tra i Paesi coinvolti.

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    Un momento della conferenza stampa di Eureka a Reggio

    Prima di Eureka

    Questa cooperazione ovviamente non nasce dal nulla. Europol ed Eurojust sono in partnership con la Direzione nazionale antimafia nel progetto Empact, azione operativa 2.3, che si occupa principalmente di ’ndrangheta e mafia siciliana, ritenute gruppi criminali ad alto rischio.
    Inoltre, l’indagine e la giornata d’azione comune sono state sostenute dalla Rete @ON finanziata dall’Ue (Progetto ISF4@ON) e guidata dalla Direzione Investigativa antimafia italiana (Dia).
    Eureka, soprattutto, si basa su di una serie di messaggi decriptati – nei citati pacchetti di intelligence– all’interno delle maxi operazioni Encrochat e SkyEcc, le quali negli ultimi anni hanno fatto emergere, e smantellato, canali di comunicazioni nel sottobosco criminale di mezzo mondo.

    Una battaglia europea

    Oltre che per le informazioni sulla ’ndrangheta all’estero, Eureka fa scuola perché è il risultato di anni di compromessi e difficoltà nella cooperazione, pratiche e concettuali, sia da parte delle istituzioni europee sia da parte di quelle italiane. Chi scrive ha condotto una ricerca nel 2021 proprio con Eurojust, Europol e le procure italiane.
    Da essa emerge che, al netto delle frustrazioni espresse da qualche pubblico ministero o da qualche analista poco attento, non è affatto vero che all’Europa o agli Stati europei importi poco della mafia, e dell’antimafia, italiana.
    Anzi, l’attenzione è molto alta, la capacità di adattare le leggi e le procedure nazionali per raggiungere risultati comuni è una priorità.

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    Gendarmi tedeschi impegnati negli arresti di Eureka

    Antimafia made in Ue

    Soprattutto, si sono fatti molti passi avanti, in quei Paesi – pensiamo a Germania e Svizzera – che hanno un problema di infiltrazione mafiosa di origine italiana e matrice ’ndranghetista notevolmente più alto di altri.
    Stesso discorso per i Paesi Bassi e il Belgio – di storica presenza mafiosa, siciliana, campana e calabrese – che negli ultimi anni hanno sviluppato squadre di indagine specializzata, squadre investigative europee. Di più: hanno sviluppato processi autonomi alle cellule criminali, all’interno dei propri ordinamenti.
    Tutta quest’attenzione europea alle mafie italiane è, va da sé, anche il risultato dell’incessante lavoro delle procure (in particolare, Reggio Calabria prima di tutte, ma anche Milano, Genova, Torino, Catanzaro per dirne alcune) interessate a informare le autorità estere e a collaborare senza pregiudizi.

    Tutti i problemi dell’antimafia internazionale

    Non ogni cosa funziona, si badi bene, e non sempre la frustrazione passa.
    C’è ancora tanto da mettere a punto nei rapporti tra l’Antimafia italiana e quelle europee. Ad esempio, nelle modalità di confisca e in quelle di ricerca congiunta della prova nelle indagini transfrontaliere. E restano problemi nelle normative sulle indagini bancarie in materia di riciclaggio. Per tacere delle difficoltà di allargare le indagini oltre il crimine organizzato e verso la criminalità dei potenti.
    La lista è lunga, complice anche un po’ di schizofrenia italiana nel definire i campi di azione di alcune indagini antimafia (con una tendenza ad allargare il concetto di mafia oltre quello compreso e comprensibile all’estero).
    Ma ci si lavora costantemente per migliorare almeno i risultati. Ed Eureka, lo ripetiamo, è chiaramente il prodotto di questi sforzi.eureka-segreti-primo-vero-blitz-europeo-anti-ndrangheta

    Eureka: i dettagli che contano

    Eureka offre tantissimi spunti di interesse anche al ricercatore-analista. I giornali locali, moldo più di quelli nazionali, hanno riportato vari dettagli. Le vicende raccontate nell’inchiesta (che riguardano principalmente affiliati e associati ai clan Nirta-Strangio di San Luca e i Morabito-Palamara-Bruzzaniti di Africo) toccano il traffico internazionale di cocaina e il riciclaggio di denaro tra pizzerie, gelaterie e altre attività commerciali.
    Ma in quest’operazione ci sono anche spunti notevoli sulla struttura della ’ndrangheta. Quest’ultima è sì aperta alle collaborazioni, tra clan e con tanti altri gruppi criminali europei e non, soprattutto per la cocaina, ma rimane legata al territorio e alla sua reputazione sul territorio.

    Bevilacqua: un cervello in fuga

    Altro elemento di interesse è il ritorno di certi “cervelli in fuga”.
    Pasquale Bevilacqua, imprenditore ritenuto dagli inquirenti vicino ai clan di Bianco, in provincia di Reggio Calabria, è una figura centrale dell’inchiesta. Cittadino australiano, Bevilacqua è rientrato dall’Australia e da li avrebbe portato, oltre ai soldi, anche “metodi” di arricchimento alle spalle dei calabresi che lui stesso considera potenziali “soldati”. Essi vanno tenuti «molto poveri» per avere sempre manovalanza «da mandare a fare il traffico o per andare in carcere per loro [gli ‘ndranghetisti]». Un vero e proprio manifesto della ‘ndrangheta, il suo.

    Carabinieri del Ros

    Dall’Australia alla Calabria

    Bevilacqua ha ottenuto il massimo nel Nuovo Galles del Sud, in Australia. Lì, insieme a moglie e figli, avrebbe attività commerciati di carne, servizi legati all’acqua, ospitalità e una serie di immobili di ingente valore. Inoltre, giocherebbe al casinò, anche per muovere capitali.
    Inoltre (e ovviamente) avrebbe legami con presunti ’ndranghetisti australiani e spiega come in Australia si sia abituati a fare affari con chiunque, a prescindere da affiliazioni e alleanze. Dice al riguardo: «Noi in Australia siamo abituati così… ti dico subito … io conoscevo a tizio … la mangiata mia era là … nessuno me l’ha tolta! mai! gli amici miei … sempre!». Tradotto in parole povere: a prescindere dai necessari legami di business, la struttura di mafia (dove, appunto, si ha la “mangiata”) non cambia e gli amici (gruppo di riferimento mafioso) non cambino.
    Un’interessante conferma sia dell’importanza dei “ritorni” di personaggi che portano in Calabria ciò che hanno imparato all’estero sia della scissione tra struttura organizzativa e attività criminale che ha sempre caratterizzato la ’ndrangheta.

    Quattro chiacchiere su San Luca

    Oltre ai commenti di Bevilacqua, altre conversazioni degne di nota vengono da Giuseppe Scriva e Stefano Soriano che commentano il gruppo di Erfurt in Germania (collegato ai clan di San Luca). In particolare, i due parlano di Domenico Giorgi detto Berlusconi per la ricchezza accumulata col narcotraffico. «Pensa da quanto sta questo qua in Germania … infatti non gli hanno fatto proprio niente … quante indagine pipipipi pipipipi … che vuoi hanno fatto un casino, hanno ucciso sei persone». Il riferimento va alla strage di Duisburg – considerata un errore di calcolo che ha dato troppa visibilità ai Sanlucoti – e, al contempo, alla capacità del soggetto, e del gruppo, di non farsi toccare più di tanto dalle azioni di contrasto. Tutto questo accresce la reputazione dei Sanlucoti visti non solo come uomini d’onore di successo ma anche come persone scaltre che eludono i controlli diversificando gli investimenti in Europa.
    «Loro sono sempre i vincenti, loro sono tosti come i selvaggi…ma tu ti rendi conto?… poi ne hanno un altro confiscato … qua … in Germania ne hanno quattro ed a Lisbona in Portogallo, uno … hanno nove locali … che cazzo gli devono prendere, questi spendono centomila euro al giorno, minimo … solo dove stiamo andando noi pagano …incassano quindicimila euro al giorno … loro fanno attività … ma questi ormai con le attività pulite guadagnano».

    Carabinieri del Ros eseguono alcuni arresti di Eureka

    Eureka: un nuovo racconto della ’ndrangheta

    Il modo in cui la ‘ndrangheta e le sue strutture si “raccontano” in Calabria è diverso dalla percezione che se ne ha nel resto d’Europa. Infatti, in Calabria si parla di strategia, reputazione, riconoscimento criminale e sociale. In Europa si parla di capacità manageriali, stupefacenti, movimenti di denaro, porti in cui “entrare”, e corruzione.
    Alcuni colleghi criminologi-accademici, non amano il termine “glocale” per definire questa peculiarità organizzativa e narrativa. Ma siamo tutti d’accordo che solo guardando al fenomeno sia nelle dimensioni locali che in quelle globali si possono fare passi avanti.
    Già: raccontare (e aspettarsi) solo una ’ndrangheta globalizzata sui mercati del narcotraffico è un errore. Ma lo è anche raccontare (e aspettarsi) la ’ndrangheta come organizzazione altamente ritualizzata e definita da criteri di riconoscimento e reputazione all’estero come al paesello. Queste due anime stanno insieme da tempo. Ed è per questo che di Eureka, probabilmente, parleremo ancora.

  • MAFIOSFERA | Bonavota e non solo: cambia la caccia alle “primule”

    MAFIOSFERA | Bonavota e non solo: cambia la caccia alle “primule”

    È proprio cambiato il linguaggio, dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro e in seguito alla sua trentennale latitanza.
    Dal 16 gennaio 2023 – giorno della cattura del boss di Castelvetrano – è cambiato il linguaggio di giornalisti e autorità, e non solo italiani, in riferimento alla cattura di altri latitanti di mafia. Quest’attività è diventata uno sport nazionale in cui le nostre autorità chiaramente primeggiano.
    Proprio a partire da gennaio c’è stata quasi un’inflazione delle catture. Le quali sono proseguite a febbraio con Edgardo Greco (che boss non era ma come tale è passato al momento dell’arresto in Francia). E poi con Antonio Strangio, beccato all’aeroporto di Bali. entrambi a febbraio 2023.
    L’ultimo (per ora) è Pasquale Bonavota, arrestato il 27 aprile mentre pregava in una chiesa di Genova, dove pare risiedesse da tempo con sua moglie.

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    Pasquale Bonavota, il boss di Sant’Onofrio arrestato a Genova

    Pasquale Bonavota: la primula di Sant’Onofrio

    Bonavota, a capo dell’omonimo clan di Sant’Onofrio, in provincia di Vibo Valentia, è ricercato dal 2018. È stato assolto in un processo ma è ricercato per Rinascita-Scott. Il suo gruppo criminale compare in molte attività antimafia di questi ultimi anni, da Roma alla Svizzera al Canada, dal Nord Italia a Vibo Valentia.
    Soprattutto, Bonavota era tra i latitanti considerati tra i più pericolosi dalla Direzione centrale della Polizia Criminale nella lista del Ministero dell’Interno. Ora ne restano tre: Attilio Cubeddu, Giovanni Motisi e Renato Cinquegranella.
    E diciamolo pure: prima che venisse arrestato Messina Denaro, pochi sapevano che questi individui fossero in una lista tutta per loro. Ma non c’è dubbio che quello di Pasquale Bonavota sia un arresto molto importante, perché è il vertice di un’organizzazione ’ndranghetista transnazionale e particolarmente attiva in diversi settori.

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    Rocco Morabito, supernacotrafficante arrestato dopo oltre 20 anni di latitanza

    Il cambio di passo

    A ben vedere qualcosa è cambiato dalla cattura di Rocco Morabito, nel maggio 2021 a Joao Pessoa in Brasile.
    Il cambiamento si avverte sia nel modo in cui si raccontano i latitanti e le loro fughe più o meno rocambolesche o bizzarre. E si avverte nel modo in cui il resto del mondo si interessa a loro.
    Dietro la cattura di Matteo Messina Denaro e Rocco Morabito, c’è un eccellente Reparto operativo speciale dei carabinieri.
    La cattura di Messina Denaro, dunque, ha consolidato l’operato delle forze dell’ordine a caccia di latitanti pericolosi e certe tendenze di narrazione che già il caso di Morabito aveva sdoganato.
    Facile dire cosa siano queste tendenze: subito le varie testate giornalistiche, locali e nazionali, raccontano la storia del boss sotto il profilo criminale e umano con dovizia di particolari Poi alle autorità si chiede di raccontare i dettagli della “caccia”: le intercettazioni, sorveglianza, lavoro di squadra e, ovviamente, la cattura Da ultimo i giornali stranieri riportano la notizia con un titolo di scarsa inventiva «Fugitive Italian mafia boss captured in…while…» (Boss latitante di mafia catturato a…mentre…).

    Pasquale Bonavota: un arresto da copione

    Sulla cattura di Bonavota abbiamo ovviamente visto tutto il repertorio.
    Il perché è facile da intuire: non solo è un latitante di ’ndrangheta, ricercato per il maxi-processo Rinascita-Scott (ad oggi in corso nell’aula bunker di Lamezia Terme), ma è anche un boss calabrese di particolare caratura criminale.
    Infatti, il mammasantissima di Sant’Onofrio è considerato un simbolo di quel cambiamento generazione della ’ndrangheta vibonese (e non solo) in cui i nuovi boss (Bonavota ha 49 anni e fa il boss da tempo) usano la testa e non solo le armi.
    Abbiamo letto il suo profilo e una sorta di memo sulle sue pendenze giudiziarie e le sue attività criminali sui giornali locali e nazionali.
    E abbiamo appreso i dettagli della cattura.
    Ci si è ovviamente già chiesto chi lo stesse aiutando e dove fosse il suo “covo” (altro dettaglio in voga dopo le avventure a caccia dei covi trapanesi di Messina Denaro). E da ultimo, le testate internazionali, come spesso accade in questi casi, semplificano talmente tanto per agevolare i loro lettori da stravolgere i fatti. Ed ecco che per la Bbc Bonavota «leads the notorious ’Ndrangheta mafia», cioè sarebbe nientemeno che il leader della ’ndrangheta.

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    Edgardo Greco

    La notizia prima di tutto

    A conti fatti la vera notizia non è solo che venga catturato un latitante (chiaramente la stampa estera non sempre entra nel dettaglio di cosa ciò implichi) ma che questo latitante sia di Italian Mafia. Il che significa due cose: la mafia italiana esiste ancora e l’Italia la combatte costantemente.
    Quindi, con una forzatura dei criteri di notiziabilità, non basta che l’arrestato sia pericoloso. Deve essere sempre un leader, un boss, il top boss, dal momento che l’Italia ci investe soldi. Ma soprattutto si tratta di mafia italiana, argomento notoriamente acchiappa-lettori.
    E questo succede sia che si tratti davvero di una figura apicale di un clan, come Bonavota, sia che si tratti di un killer come Edgardo Greco o di un narcotrafficante come Morabito, tutti in vari momenti definiti boss.

    La mafia tira ancora, ma non esageriamo

    Questa lettura estremizzata, spesso spettacolarizzata, di quello che significa catturare un latitante (anche quando non è un big come Bonavota) è anche alimentata dal fatto che tali catture ora sono possibili anche all’estero. E lo ribadiscono i dati di Interpol che grazie al progetto I-Can (Interpol Coordination Against the ’Ndrangheta) ha operato 42 arresti in tutto il mondo in poco meno di tre anni dall’avvio dell’iniziativa.
    La mafia italiana – ora nella versione ’ndrangheta international – tira ancora e i suoi boss, che sempre tentano di sfuggire alla giustizia non hanno scampo.
    Però sarebbe il caso di smetterla di chiamare tutti boss: non si aiuta una narrazione della mafia calabrese (e di tutte le altre mafie) se si dimostra di non capire o non saper raccontare, che queste organizzazioni criminali sono fatte da uomini e non da supereroi in fuga.

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    Matteo Messina Denaro, l’ex superprimula del crimine italiano

    La retorica della cattura

    È una delle più classiche costruzioni narrative: la caccia al malandrino scaltro, al supereroe appunto. Un lavoro d’astuzia, strategia, e con uso mirato delle risorse laddove funzionano di più. Quindi non nella mera “rincorsa”, ma nell’accerchiamento.
    Il risultato, quando si può comunicare l’arresto del latitante, è la gratificazione istantanea per tutti.
    È un risultato spesso preciso e pulito, anche se non veloce, ma soprattutto non equivoco: lo Stato vince, tu, latitante, non puoi scappare. Il messaggio ha valore di sicuro deterrente, ma probabilmente anche dimostrativo.
    E tutto ciò che ne consegue, dalla rassegna delle frasi del boss ai dettagli della cattura, può dimostrare che lo Stato, a prescindere da chi ha davanti, riesce, se vuole, a vincere. Perciò a dimostrare che la lotta alla mafia si fa sul serio.

    Le massime di Pasquale Bonavota

    Sono note alcune “perle” di Pasquale Bonavota, riportate negli atti di Rinascita-Scott e dai giornali in questi giorni. Il boss avrebbe detto per esempio: «Mio padre, ha detto una parola che allora io non capivo perché ero un ragazzo, ed oggi debbo dire la verità, se uno vuole fare il malandrino, oltre che devi essere, devi avere pure la mentalità, perché il malandrino, non siamo più che si fa con il fucile, mangiavamo, bevevamo, dopo che ci ubriacavamo … uscivamo in piazza e parlavamo, ormai si fa con il cervello, con diplomazia no?».
    Ma a quanto pare il boss di Sant’Onofrio non ha bene imparato a usare cervello e diplomazia, se oggi è in manette. Il messaggio dello Stato è chiaro e univoco, in un momento storico in cui sull’antimafia i messaggi chiari e univoci non sempre abbondano.

  • MAFIOSFERA | Cosa manca all’antindrangheta dei canguri?

    MAFIOSFERA | Cosa manca all’antindrangheta dei canguri?

    La ‘ndrangheta più radicata nel mondo dopo l’Italia, lo abbiamo già detto, è probabilmente in Australia. Ma questo porta ovviamente a chiedersi cosa ne sia dell’antimafia – o meglio dell’anti-ndrangheta – down under. Sicuramente rispetto a un fenomeno radicato da praticamente un secolo, e integrato nella società australiana, è arrivata una risposta non sempre adeguata. Andiamo con ordine, perché i problemi dell’antimafia australiana sono tutti strutturali e vengono da molto lontano.

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    Una mappa di qualche anno fa sulla distribuzione delle cosche italiane in Australia

    L’Australia è quel bellissimo paese che nell’innocenza dei suoi primi anni di vita (nel 1901 nasce la federazione australiana come la conosciamo oggi) riesce a riconoscere la ‘ndrangheta – l’onorata società – come organizzazione criminale diversa da cosa nostra siciliana, e con un numero di affiliati superiore a 200 nella sola città di Melbourne.

    Gli omicidi al mercato e la banda di Carlton

    Era il 1965 e nella capitale dello stato di Victoria, una serie di omicidi nel mercato di frutta e verdura della città, il Queen Victoria Market, avevano fatto presagire una guerra di mafia, Italian-style.  In quelli che vengono ricordati come gli anni della “Gangland Melbourne”, varie organizzazioni criminali si contendevano il “territorio” del mercato – sostanzialmente per gestirne cartelli di prezzi ed estorsioni – e tra questi una acerba onorata società, di origine calabrese, reggina, e la cosiddetta Carlton Crew (la banda di Carlton – storico quartiere italiano di Melbourne), composta da italiani in senso generale, non affiliati di ‘ndrangheta. Sin da allora, dal cosiddetto Rapporto Brown sulla criminalità italiana nello stato di Victoria del 1965, si operava una distinzione tra onorata società calabrese e crimine organizzato italiano. Questa distinzione non solo perdura ma crea non pochi problemi ancora oggi.

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    L’ingresso del Queen Victoria Market

    Antimafia Australia cercasi

    A Spencer Street a Melbourne, nella nuova sede della Victoria Police – VicPol – polizia di stato, partecipo a un meeting con la nuova squadra anti-crimine organizzato e la squadra omicidi, con i rispettivi analisti, cioè quelli che lavorano l’intelligence – i mezzi di ricerca della prova.

    Non è la prima volta che li incontro ma – ed è questo un altro problema – le squadre cambiano spesso, la rotazione interna è brutale, pochi stanno sullo stesso progetto oltre 2 o 3 anni. Creare conoscenza storica del fenomeno – soprattutto quello mafioso – richiede ovviamente molto di più. In molti dentro VicPol hanno conoscenza del fenomeno dell’onorata società, anche da un punto di vista “storico” di criminalità urbana, ma non sono sempre questi a guidare le indagini. Ad ogni modo, anche oggi, un sottogruppo della squadra contro il crimine organizzato, prevede indagini su Italian Organised Crime (IOC) dentro cui ci sono vari detective, ispettori, sergenti e analisti che si occupano di seguire uno specifico target o più target, spesso – ma non sempre – legati al traffico di stupefacenti.

    Un fotogramma del video dell’operazione Ironside condotta dalla AFP

    Dopo l’operazione Ironside del 2021 e 2022 infatti – che ha portato all’arresto di oltre 700 persone coinvolte nel traffico di droga in tutta Australia – si è chiarito che “gli italiani” sono fondamentali per le importazioni e stanno una spanna sopra gli altri nella catena logistica del narcotraffico. Le indagini di droga sono sicuramente più semplici e dirette, e ovviamente frequenti.

    La struttura dell’onorata società

    Ma il focus del nostro meeting non sono i traffici cocaina o metanfetamine – entrambe droghe prescelte dai clan locali in quanto sorprendentemente ancora più redditizie che altrove in Australia – bensì la struttura dell’onorata società oggi in Australia e come questa struttura si lega alla criminalità locale a Melbourne e dintorni. Sì, perché struttura di ‘ndrangheta e criminalità organizzata locale non sono necessariamente legate. Che vuol dire? Essenzialmente due cose: primo, esiste una fetta di onorata società, nello stato di Victoria, tra le città di Melbourne e Mildura, che non “fa crimine” o almeno non direttamente, non nel senso di contravvenzione di norma penale per le leggi australiane (ricordiamo che l’appartenenza alla mafia non è qui reato). Secondo, e in perfetta continuità con gli anni ‘60, non tutta la criminalità “italiana” è riconosciuta o riconoscibile come onorata società, quindi, bisogna chiedersi in che rapporto siano i clan di ‘ndrangheta con gli altri “italiani” generici.

    Antimafia Australia? Reati associativi anticostituzionali

    Infatti, quanto è diverso quello che accade nella onorata società rispetto a quello che accade in altri gruppi cosiddetti etnici, inclusi altri italiani, o anche libanesi, cinesi, albanesi, per esempio? La ‘ndrangheta è organizzazione criminale transnazionale, dunque poter “attivare” i contatti da fuori rimane un vantaggio anche in Australia. Ci sono poi profili comportamentali degli ‘ndranghetisti che vanno a influenzare le loro scelte, più che i loro affari criminali: chi succede a chi, come ci si incontra, chi conta di più e perché e via discorrendo. Appunto, esiste una fetta di ‘ndrangheta australiana che non è direttamente coinvolta nella criminalità organizzata per gli inquirenti, ma che è ragione costituente e costitutiva dell’attività criminale di altri, anche a causa di una reputazione appunto creata sul territorio da decenni. Il reato associativo però è anticostituzionale in Australia: si può rispondere di concorso -intenzionale, sostanziale – ma non di reato per associazione. E questo non cambierà facilmente in quanto contrario ai principi del diritto – sacrosanti – locali.

    La polizia australiana e Frank Barbaro davanti a casa di suo figlio Pat

    Migranti di “successo”?

    Come si fa, dunque, a indentificare il rapporto che intercorre tra un businessman di successo, a capo di una squadra di calcio locale o di un impero del mercato ortofrutticolo, e il traffico di stupefacenti portato avanti ora o qualche anno fa da membri della sua famiglia? Abbondano le mappe familiari, si conoscono le dinastie storiche, i cognomi sono sulla bocca di tutti i presenti. Il legame tra reputazione e criminalità è spesso solo superficialmente esplorato e compreso. Mi viene chiesto se conosco un certo Pasquale C. o Diego L., oppure come penso sia organizzata la famiglia di Tony M. Tutti cognomi calabresi, migranti di una, due o tre generazioni fa, tutti italo-australiani e spesso persone che appaiano tra i “migranti di successo”, le storie che si raccontano qui da noi su chi ce l’ha fatta all’estero, esempio e invidia per molti. I loro soldi? Le loro fortune? Spesso avvolte in un mistero non tanto misterioso quando si allarga l’orizzonte di veduta e si nota da una parte la capacità di certi soggetti di impegnarsi sul serio nel mondo del lavoro, e dall’altro i cosiddetti “aiuti da casa”, somme di denaro che circolano in donazioni o trasferimenti interni alle famiglie di dubbia provenienza.

    ‘Ndranghetisti alle cene di beneficienza

    E ancora, se ad una cena di beneficienza del valore di oltre 2 milioni di dollari australiani (1 milione e duecento euro circa) partecipano magnati dell’industria, costruttori, ma anche ‘ndranghetisti o presunti tali, o le loro famiglie non direttamente coinvolte in criminalità organizzata, come “leggere” questo mischiarsi di ruoli intenti e amicizie strumentali che porteranno quasi certamente a più affari in comune? Per esempio, quando crollò parzialmente un palazzo a Melbourne l’anno scorso, tra gli investitori vennero notate varie persone del sottobosco criminale, al fianco dei costruttori. Galeotta fu la cena di beneficienza, appunto. Provare i rapporti tra crimine, denaro e potere non è cosa da poco e richiede prima di tutto una comprensione delle strutture criminali.

    Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

    Uno dei mezzi che notoriamente aiuta gli inquirenti in tutto il mondo – eredità sicuramente anche dell’ingegno del giudice Giovanni Falcone – è il cosiddetto “follow the money” – il metodo per cui se si seguono i flussi finanziari si arriva a capire la struttura criminale. Il “follow the money” è un’aspirazione frustrata in Australia. AUSTRAC, l’unità di indagini finanziarie che si dovrebbe occupare di seguire appunto i flussi di denaro e delineare che struttura ci raccontano, non ha sempre la capacità effettiva per farlo a causa di normative che funzionano sulla carta, ma non in pratica eseguite, e a causa di una struttura procedurale per cui le indagini si fermano spesso allo stato e alla giurisdizione di riferimento.

    Indagini spesso in tilt

    In parole semplici, è difficile seguire i soldi nell’attuale legislazione australiana perché gli ordini preventivi sulla ricchezza non giustificata (Unexplained Wealth Order) in teoria mezzo potentissimo di contrasto, non vengono effettivamente seguiti una volta emanati: sono complessi e costosi da gestire. E ancora, se Tony, residente a Melbourne, è considerato da VicPol responsabile di un’importazione di metanfetamine a Sydney, l’indagine va spesso in tilt a causa del confine giuridico tra gli stati di Victoria e del Nuovo Galles del Sud (NSW). Interverrà l’Australian Federal Police (AFP), e le indagini subiranno un corso diverso, federale appunto, di difficile coordinamento con le indagini statali che per esempio cercano di capire se Tony è coinvolto o meno nell’omicidio di un avvocato qualche anno fa. Rimarranno due indagini pressoché separate – ergo rendendo impossibile comprendere la reale natura della criminalità in corso. Condividere dati, e indagini, è spesso solo fattibile con l’istituzione di squadre comuni di indagine, che – attualmente in fase di costruzione tra AFP e VicPol e AFP e polizia del NSW – magari porteranno a risultati più importanti sulla criminalità organizzata calabrese.

    I problemi dell’antimafia Australia

    Dunque, i problemi dell’antimafia in Australia hanno a che fare con una concettualizzazione etnica complessa del fenomeno mafioso di matrice calabrese, con la difficoltà di tracciare la ricchezza legata al crimine organizzato quando migra nel “mondo legale” o meglio nel mondo dei poteri – finanziari e politici, e soprattutto con la difficoltà di comprendere come la triade reputazione-criminalità-potere – presente in molti gruppi di criminalità organizzata – si manifesta all’interno di un’organizzazione criminale come la ‘ndrangheta in Australia, che può inoltre contare su rapporti e contatti in mezzo mondo.

    Tu chiamale se vuoi… frustrazioni

    Insomma, la strada è lunga, e l’interesse è chiaramente sempre presente. Dopo il meeting in VicPol si va per una birra con qualcuno dei presenti: frustrazione, curiosità, sorpresa, sono comuni. «Tu chiamale se vuoi emozioni»– scherza con me un poliziotto italo-australiano che conosce Battisti. Frustrazione per non riuscire spesso a risolvere le difficoltà amministrative procedurali; curiosità per il mondo della ‘ndrangheta e le sue evoluzioni; sorpresa nello scoprire che la loro ‘ndrangheta è spesso tutta australiana e fa anche attività semi-legali o del tutto legali, e non solo calabrese-transnazionale e dedita al traffico di stupefacenti. Provo le stesse emozioni anche io, nel fare ricerca in Australia su questi temi, come sempre grande palestra di umiltà e di conoscenza.

  • MAFIOSFERA | Donne e ‘ndrine: le good mothers dei Barbaro

    MAFIOSFERA | Donne e ‘ndrine: le good mothers dei Barbaro

    Dal 5 aprile, sulla piattaforma Disney+, è disponibile The Good Mothers. La serie tv racconta le storie di Lea Garofalo, di sua figlia Denise, di Giuseppina Pesce e di Maria Concetta Cacciola. Donne che hanno messo in difficoltà l’organizzazione maschile della ‘ndrangheta. E che con le loro rivelazioni – e le loro scelte – hanno contribuito alle indagini della magistratura, rischiando, e a volte pagando con la propria vita. A febbraio The Good Mothers ha vinto il premio come miglior serie nella sezione Berlinale Series al Festival Internazionale del Cinema di Berlino.
    Non sono storie nuove, quelle raccontate dalla serie. Ma, proprio perché non sono nuove, forse permettono una riflessione più incisiva sul rapporto tra mafia e mondo femminile, in una terra, come la Calabria, o in comunità calabresi fuori regione, dove il femminile costantemente deve negoziare i propri spazi.

    Un podcast sulle donne e la ‘ndrangheta

    In occasione dell’uscita di The Good Mothers, dunque, si è voluta fare questa ulteriore riflessione. L’occasione è stata un podcast, sponsorizzato da Disney+ e prodotto da Il Post che ha affiancato una serie di spunti analitici da parte della sottoscritta, su ‘ndrangheta, femminile e donne, alla voce del giornalista Stefano Nazzi, notoriamente conosciuto agli amanti dei podcast per Indagini, da mesi primo in classifica in Italia.

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    Il podcast, che si chiama Le Onorate, è una conversazione sull’onore nel mondo mafioso e sull’importanza dell’altro lato dell’onore – la sua luna come la chiamiamo – cioè il mondo femminile che di quell’onore si deve fare, volente o nolente, garante. Raccontiamo alcune delle storie di The Good Mothers anche nel podcast, ma cerchiamo anche di andare oltre, con altre storie, per superare la dicotomia donne-vittime o donne-carnefici e essenzialmente riconoscere la “normalità” di molte delle donne che stanno attorno e dentro ai sistemi mafiosi. E infine, ovviamente, parliamo anche delle donne contro, includendo una riflessione sul rapporto che si istaura tra magistrati/e e mafiosi/e e come questo possa rivelarci molto di come alcune indagini si evolvono.

    Ruoli e capacità d’azione

    Tre puntate di podcast, sei di serie tv, libri e studi accademici, certamente non completano l’universo del femminile nel sistema ‘ndrangheta. Come ricorda Ombretta Ingrascì, esperta proprio negli studi di donne e mafia, guardare a queste donne pone infatti un problema di agency – capacità di azione – di queste donne: alcune saranno conformiste, altre adempienti, altre trasformative.
    Ma c’è un elemento della mafia calabrese che conta molto per comprendere il fenomeno di oggi, e dove proprio il ruolo delle donne e l’evoluzione di un discorso di genere meriterebbe più attenzione. Si tratta della dimensione globale della ‘ndrangheta, della presenza di strutture e di attività dei clan in altri paesi del mondo che sicuramente è fatta anche di ruoli cangianti, ambigui, complessi, di madri, figlie, sorelle, nonne e in generale, delle donne.

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    Una mappa di qualche anno fa sulla distribuzione delle cosche italiane in Australia

    Storie di donne e ‘ndrangheta fuori dalla Calabria e dall’Italia sono difficili da rinvenire, per un motivo abbastanza ovvio: è molto difficile spesso individuare – e chiamare come tale – lo ‘ndranghetista fuori dai confini nazionali, ergo è molto difficile raccontare le storie di chi gli sta intorno. Ma guardando a casi che riguardano gli uomini vicini al mondo ‘ndranghetista, si trovano tante tipologie di comportamenti delle donne che gravitano attorno a questi uomini. E come spesso accade, è nell’Australian ‘ndranghetauna delle più evolute manifestazioni globali della mafia calabrese fuori dall’Italia – che si trovano esempi di una varietà di comportamenti più o meno ortodossi nell’universo femminile mafioso.

    Donne e ‘ndrangheta in Australia: la famiglia Barbaro

    Una delle famiglie più esposte della ‘ndrangheta in Australia è sicuramente la famiglia Barbaro. È una dinastia criminale di stampo ‘ndranghetista originaria di Platì, da decenni attiva tra il Nuovo Galles del Sud, lo stato di Victoria, il Queensland, ma anche nella capitale Canberra. Ed è pure una famiglia notoriamente legata alla criminalità organizzata locale, soprattutto nella città di Melbourne. Ergo, è spesso protagonista di atti violenti, effettuati e subiti.

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    La bara di Ellie Price al suo funerale

    Ellie Price, di 26 anni, fu uccisa nel maggio del 2020 a Melbourne: Ricardo ‘Rick’ Barbaro è ad oggi sotto processo per il suo omicidio. Si dichiara non colpevole. Anzi, il suo avvocato fa notare come la Price fosse «una donna che aveva problemi mentali, abusava di sostanze, era una persona solitaria e aveva un comportamento erratico». Barbaro però si era dato alla fuga per oltre dieci giorni in seguito al rinvenimento del corpo di Ellie Price.

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    Ricardo Rick Barbaro

    Proprio in quei giorni, Anita Barbaro, formalmente Anita Ciancio, ultima moglie del padre di Ricardo fece appello affinché Rick si facesse trovare. Una rara apparizione nella famiglia, e da parte di una donna che si appella alla cura e alla responsabilità. Una donna la cui immagine viene spesso associata all’ordine e alla maternità nella famiglia in questione. Diceva infatti Anita Barbaro: «Ricky ti prego di farti avanti e di fare la cosa giusta per il bene di questa povera giovane donna e della sua famiglia e per il dolore incomprensibile che devono provare, devi metterti in contatto con qualcuno». E ancora «Hai una figlia e delle sorelle minori, se questo fosse accaduto a loro avresti bisogno di sapere cosa è successo».

    Una lunga scia di violenza

    Il padre di Ricardo Barbaro è Giuseppe Dom “Joe” Barbaro, condannato per reati legati agli stupefacenti. Una scia di violenza è associata agli uomini di questo ceppo della famiglia una volta platiota. Questi Barbaro furono per esempio sospettati di aver giocato un ruolo nell’omicidio di Colin Winchester, vicecapo della polizia federale ucciso nel 1989. Cugino di Joe era Pasquale Barbaro, ucciso insieme al gangster Jason Moran mentre assisteva a un allenamento di calcio per bambini a Essendon nel 2003. Il padre di Joe era Pasquale Barbaro ‘il Principale’, forse il primo ‘collaboratore di giustizia’ di ‘ndrangheta in Australia, ucciso a Brisbane nel 1990. Il Principale era parte di quel gruppo mafioso che negli anni ’70 e ’80 coltivava i “castelli d’erba” a Griffith, nel nuovo Galles del Sud.

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    Rossario Barbaro

    Il fratello di Rick, Pasquale Tim Barbaro, ucciso a 35 anni a Sydney, nel 2016, da un gruppo di associati del suo gruppo criminale (non italiani o italo-australiani). Circa sei mesi dopo l’uccisione di Pasquale, il fratello Rossario (sic!) si tolse la vita, caduto in una profonda depressione. La ex moglie di Pasquale Tim, Melinda Barbaro – i giornali riportano che fa l’imprenditrice, non meglio specificato in che settore – dirà che suo marito «era un tipico italiano e amava tutto ciò che aveva a che fare con la religione e il cibo», ma che il carcere lo aveva cambiato.

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    Pasquale Tim Barbaro e la sua ex moglie Melinda

    I due si erano separati nel 2013. Pasquale Tim Barbaro si era legato a Chantel Baptista, una ragazza di origine portoghese definita dagli amici “bellissima”, “glamour” e “social butterfly”, esibendo grandi abilità di socializzazione. Insomma, una famiglia alla ribalta nel mondo criminale, che con i codici di ‘ndrangheta sembra entrarci molto poco – a parte forse il tatuaggio ‘Malavita’ al collo di Pasquale Tim e di Rossario Barbaro.

    In fuga dai Barbaro

    Otto figli, nati da tre donne diverse e non tutte italiane, dal patriarca Joe. Da Joe e Anita Ciancio, ad esempio, è nata nel 2004, Montana. Montana aveva solo tre settimane quando la rapirono dal passeggino in centro commerciale di Brimbank, un sobborgo di Melbourne. La ritrovarono due giorni dopo con la testa rasata in una casa abbandonata a nord della città, un passante aveva sentito le sue urla. Era stata rapita non per motivi di criminalità organizzata, si disse.

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    Anita Ciancio tiene in mano la piccola Montana Barbaro poco dopo il ritrovamento della bimba

    Nel 2020, ormai teenager, Montana scomparve di nuovo. La ritrovarono quasi subito in quanto – venne rivelato – stava tentando di scappare. Voleva raggiungere sua sorella maggiore Sienna, figlia di un’altra moglie di Joe Barbaro, in tipico atteggiamento adolescenziale, si disse. Anche Sienna però, nel 2018, a soli 15 anni, sparì dalla circolazione e la famiglia dichiarò di non sapere dove fosse o dove vivesse. Un’altra figlia di Joe, Letesha, a quanto pare, scoprì dell’esistenza delle sorelle soltanto in occasione del rapimento di baby Montana. La prese malissimo, in quanto cresciuta come la preferita di papà mentre viveva con sua madre, una donna di origine non italiana, a Canberra.

    Barbaro, donne e ‘ndrangheta 3.0 in Australia

    Si tratta di ragazze e donne con capacità di azione, sicuramente. Prodotto del sistema, influenzate dagli uomini intorno a loro, ed eredi del cognome, spesso non vittime né tantomento carnefici. Donne che, come ricordiamo nel podcast Le Onorate, normalizzano la famiglia mafiosa-gangsteristica, quando ovviamente questa famiglia non le distrugge apertamente (a volte nel vero senso della parola). I loro profili social rivelano un attaccamento tra di loro e in generale alla famiglia – Sienna e Montana si dichiarano calabresi – e rivelano anche un’assunzione di modi di fare gangsteristici, inclusi gli stereotipi di donna-gangster dall’aspetto appariscente – capelli biondi tinti oppure trucco pesante. Se questa dei Barbaro in Australia è ‘ndrangheta, è ‘ndrangheta 2.0 o anche 3.0.

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    Chantel Baptista

    Insomma, nella famiglia Barbaro essere donna significa tante cose. Ellie Price viene uccisa, Melinda si allontana dalla famiglia, Chantel si godeva la ribalta, Montana rapita da bimba prova poi a fuggire di casa da teenager, Sienna fuggita via poco meno che maggiorenne, e Anita cerca l’ordine. È una famiglia su cui sicuramente da un punto di vista analitico bisognerebbe fare un lavoro di ricerca più approfondito, per capire quanto l’essere nate in una dinastia mafiosa condizioni, determini, influenzi, le paure e le scelte, come le maschere e le azioni, di tutte queste donne. Chiaramente australiane eppure legate, in qualche strano modo, ancora a noi, qui in Calabria.

  • MAFIOSFERA | Australia, la grande isola dell’arcipelago ‘ndrangheta

    MAFIOSFERA | Australia, la grande isola dell’arcipelago ‘ndrangheta

    Ci sono due storie della ‘ndrangheta in Australia. Una la conoscono quasi tutti ormai. È la storia della più potente mafia d’Italia che, soprattutto dagli anni ’90 in poi, ha fatto fortuna in giro per il mondo grazie a un florido mercato degli stupefacenti e a una resilienza dovuta alla capacità di adattarsi ai cambiamenti, di allearsi con vari altri gruppi criminali. E, ovviamente, di mimetizzarsi all’interno della società civile che viene sia vittimizzata sia inesorabilmente manipolata dalla presenza di capitali e di interessi mafiosi sui vari territori.

    L’Australia e l’arcipelago ‘ndrangheta

    È una storia in cui la magistratura e la società civile hanno registrato importanti passi in avanti soprattutto dalla fine degli anni 2000, gli anni ruggenti delle operazioni Crimine a Reggio Calabria e Infinito a Milano. Sono gli anni di processi che finalmente arrivano a compiere quello che si tentava di portare a compimento da anni: dichiarare e riconoscere la ‘ndrangheta come un’organizzazione criminale unitaria e con propaggini fuori dalla Calabria, incluso il Nord Italia, ma anche l’estero, Canada, Germania, Svizzera e anche Australia.

    Sicuramente molto si sapeva già, prima di Crimine-Infinito, soprattutto perché altre indagini – principalmente, ma non soltanto quelle di droga (pensiamo alle operazioni Decollo nei primi anni 2000) – avevano già visto i clan calabresi protagonisti del narcotraffico. Eppure, con Crimine-Infinito si arriverà, nel 2016, a una conferma che servirà per il futuro: la ‘ndrangheta ha una struttura unitaria, per quanto i clan mantengano una propria indiscussa autonomia criminale. L’arcipelago ‘ndrangheta è fatto di tante isole, a nome collettivo e a interesse e brand comune.

    L’unione fa la forza

    Da allora, il ‘marchio’ ‘ndrangheta è soltanto cresciuto. Fino ad arrivare al 2023 a un consenso generale, non solo in Italia, sulla pervasività della mafia calabrese tanto nel mercato globale di cocaina e altri stupefacenti, quanto anche nell’economia legale. Il progetto I-CAN, Interpol Coordination Against the ‘Ndrangheta, nato nel 2020, guidato dall’Italia e composto per ora da 14 paesi, si prefigge proprio un tipo di azione globale che si confa a una minaccia considerata, appunto, globale.

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    Si legge sul sito di I-CAN: «L’insidiosa diffusione della criminalità di tipo mafioso rappresenta una minaccia unica e urgente, poiché i forti legami familiari e le pratiche politiche e commerciali corrotte le consentono di penetrare in tutti i settori della vita economica.
    Spinta dal potere e dall’influenza, la ‘Ndrangheta è coinvolta in un’ampia gamma di attività criminali, dal traffico di droga e riciclaggio di denaro, all’estorsione e alla manipolazione degli appalti pubblici. Questi enormi profitti illegali vengono poi reinvestiti in attività commerciali regolari, rafforzando ulteriormente la presa dell’organizzazione e inquinando l’economia legale».

    Il Barbaro di Melbourne

    L’Australia è partner del progetto I-CAN. Ciò conferma che non solo la ‘ndrangheta ha una presenza globale molto lontana da casa, ma anche che il fenomeno ‘viaggia’ a diverse latitudini e prende forme diverse, seppur riconoscibili.
    Mentre si portavano avanti gli arresti per Crimine-Infinito il 13 luglio 2010, a compimento di due anni di indagine, a Melbourne una corte stava occupandosi di un soggetto, Pasquale Barbaro, arrestato un paio di anni prima all’interno di Operazione Inca, guidata dalla Polizia Federale Australiana (AFP). Avrebbe deciso, nel dicembre del 2010, che Barbaro era a rischio di fuga e di recidiva, pertanto bisognava respingere la sua richiesta di uscita su cauzione.

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    La droga nei barattoli di pelati sequestrata a Barbaro e i suoi soci

    Barbaro, cittadino australiano, doveva rispondere a una serie di accuse per attività di importazione, traffico e distribuzione di MDMA e cocaina insieme ad altri, nonché riciclaggio di denaro, il tutto tra il 2007 e il 2008. Si trattava di quella che è diventata famosa come la Tomato Tin Importation, in quanto lo stupefacente, 4.4 tonnellate di MDMA e 160 kili di cocaina, arrivarono a Melbourne dall’Italia in barattoli di pelati. Quelli della Tomato Tin Importation erano poco più di una decina di uomini, in parte di discendenza italo-calabrese (come, ad esempio, Francesco Madaffari, Saverio Zirilli e Carmelo Falanga) di cui Barbaro era il capo. In quell’occasione la polizia federale riuscì non solo a confiscare la quantità imponente di stupefacente, ma a monitorare la reazione del gruppo criminale così da poter procedere ad arresti e confische.

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    Le pasticche di Mdma sequestrate con impresso il simbolo del canguro

    L’Onorata Società e il delitto MacKay

    A prima vista questa vicenda sembra confermare la prima storia della ‘ndrangheta, la minaccia globale, l’organizzazione unitaria leader nel mercato degli stupefacenti nel mondo. Ma questa è invece la seconda storia della ‘ndrangheta in Australia, l’Onorata Società. E riguarda un gruppo di famiglie – dinastie criminali le dobbiamo chiamare – che dall’Aspromonte è emigrata in Australia dagli anni ’50 in poi.
    Pasquale ‘Pat’ Barbaro, infatti, è uno dei golden boys dell’Onorata Società australiana; figlio di Frank ‘Little Trees’ Barbaro (a sua volta fratello di Rosario, Rosi, Barbaro, storico capobastone di Platì), Pat ha un accento australiano e un network di associati multietnico. Ma ha un cognome che pesa in Australia, risultato di una reputazione criminale costruita negli anni ’70 e ’80 per questioni che con la ‘ndrangheta di oggi, quella globale, c’entrano indirettamente (seppur ovviamente avendo tanto in comune).

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    La polizia australiana e Frank Barbaro davanti a casa di suo figlio Pat

    È la storia, questa, raccontata, da una commissione d’inchiesta sul narcotraffico nello stato del Nuovo Galles del Sud, la Woodward Commission, che dal 1979 al 1981 scandagliò il mercato degli stupefacenti nello stato australiano in seguito all’omicidio del politico e attivista Donald Bruce MacKay nella cittadina di Griffith.
    La Commissione Woodward, in sei volumi fitti di informazioni, audizioni, acquisizioni di prove da varie fonti, parla di un gruppo criminale, con a capo uomini delle famiglie Sergi, Barbaro e Trimboli – tutti originari di Platì – dedite alla coltivazione e distribuzione sistematica di marijuana sul territorio australiano oltre che abile di riciclare denaro tramite il lavoro delle fattorie che possedevano, prestiti interni gli uni agli altri e a compravendite di immobili tra Sydney e Melbourne.

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    Lo schema di prestiti e depositi tra i soggetti coinvolti nelle piantagioni di marijuana a Griffith negli anni ’70

    La ‘Ndrangheta tra Platì e l’Australia

    C’è anche evidenza, nei calcoli precisi della commissione Woodward, di denaro ‘importato’ dall’Italia, donazioni non meglio specificate, che dalla Calabria finivano Down Under. Erano già gli anni dei sequestri e, lo sappiamo, gli ‘ndranghetisti platioti erano in prima linea. Si erano messe su società di varia natura per ‘legittimare’ questi scambi e questi prestiti, e soprattuto per finanziare la compravendita di terreni su cui poi coltivare marijuana. Lo schema era semplice ma efficace.
    Concluderà seccamente la commissione d’inchiesta nel Nuovo Galles del Sud: «Sono state ricevute prove in relazione all’esistenza in Australia e in particolare nel Nuovo Galles del Sud, di una società segreta calabrese, impegnata in alcune attività criminali. L’organizzazione si chiama L’Onorata Società oppure ‘N’Dranghita’ (dialetto calabrese per Onorata Società). (…) Nel nostro caso questo gruppo include persone delinquenti tutte originarie dalla Calabria, e da un piccolo villaggio di nome Platì».

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    Donal MacKay

    Queste persone, continua il rapporto, sono responsabili per aver ‘ordinato’ la sparizione di Donald Mackay. Mackay non fu l’ultimo omicidio con sospetto coinvolgimento della ‘ndrangheta in Australia, ma sicuramente fu il più importante. Sia da un punto di identità dell’organizzazione criminale, sia di ciò che questa divenne agli occhi di tutto il paese. Ancora aperto oggi, il caso rimane un ‘omicidio impunito di mafia’ per tutti.

    La ‘Ndrangheta d’Australia: un unicum al mondo

    Ma alcuni di quegli uomini indicati dalla Commissione Woodward, soprattutto quelli in posizioni apicali, non furono mai perseguiti in una corte di giustizia. Andarono avanti utilizzando i loro appezzamenti di terreno, tanti, per varie cose: case vinicole, fattorie, residenze. I loro figli, come Pat Barbaro ad esempio, hanno spesso seguito le orme dei padri, ma con i cambiamenti dovuti a qualunque scarto intergenerazionale. Si sono adattati all’Australia che chiede loro collaborazione multietnica, flessibilità e soprattutto di essere sia calabresi sia australiani. È una ‘ndrangheta effettivamente transculturale, diversa dalla ‘ndrangheta calabrese sebbene a questa ricollegata e da questa riconoscibile.

    Si tratta di una storia tutta australiana, quella che porta dai ‘castelli d’erba’ di Griffith, the grass castles come vengono chiamati, a un omicidio eccellente, e a un esecutivo di mafia a cuore platiota ancora esistente e resistente. Questa storia tutta australiana, che si intreccia e si confonde con la storia della ‘ndrangheta globale, rappresenta un unicum al mondo. È in Australia molto più che altrove che le varie facce della ‘ndrangheta ci mostrano la realtà complessa di questo gruppo criminale, che non può esistere a livello globale – non a certi livelli – senza riuscire a diventare storia locale. E la storia di Pat Barbaro, delfino degli ‘ndranghetisti di Griffith ma trafficante di stupefacenti a livello globale, non è che l’inizio di questa storia.

  • MAFIOSFERA | L’ombra della ‘ndrangheta sull’omicidio Winchester?

    MAFIOSFERA | L’ombra della ‘ndrangheta sull’omicidio Winchester?

    Il 22 marzo 2023, in Australia, sul canale commerciale Channel 9, è andato in onda The Hit, un episodio del programma Under Investigation, che in stile talk-show si occupa di riconsiderare, riaprire e discutere le prove su casi criminali controversi, finiti male o non ancora del tutto finiti.

    Chi ha ucciso il superpoliziotto Winchester?

    The Hit, anche disponibile su YouTube, si pone due domande chiare: chi ha ucciso Colin Winchester, Assistant Commissioner della Polizia Federale Australiana (AFP), il 10 gennaio del 1989? E un’altra domanda che fa rabbrividire: e se la mafia l’avesse fatta franca nell’omicidio di un poliziotto d’alto rango? Siccome siamo in Australia, ed era il 1989, mafia significa Honoured Society, l’Onorata Società, quindi la ‘ndrangheta.

    Riaprite questo caso

    A questo talk-show per Under Investigation ho partecipato da remoto, come accademica esperta di ‘ndrangheta: ma ero affiancata da persone che il caso Winchester lo conoscono molto bene: Terry O’Donnell, uno degli avvocati di David Eastman, colui che per anni è stato considerato il colpevole dell’omicidio, poi scarcerato con tante scuse; Jim Slade, un ex capo dell’intelligence nel Queensland vicino alle indagini, e un altro avvocato, Geoffrey Watson, coinvolto nel caso in vari momenti per assicurarne l’integrità. L’obiettivo – guidato primariamente da Watson, non è solo raccontare il caso, ma chiedere ufficialmente che si apra un’inchiesta pubblica sull’omicidio Winchester che, ad oggi, risulta non solo impunito, ma praticamente “chiuso”.

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    Per la polizia federale australiana non ci sono prove del legame tra l’omicidio Winchester e la ‘ndrangheta

    La Polizia federale australiana: non ci sono prove

    La AFP ha infatti dichiarato nel luglio 2022, in seguito a una serie di articoli che ripercorrevano alcuni degli indizi della cosiddetta pista mafiosa nel caso:  «L’AFP non ha riaperto i fascicoli precedentemente chiusi sull’assassinio di Winchester. Non ci sono prove che suggeriscano che la criminalità organizzata italiana sia responsabile della morte di uno dei nostri, il vicecommissario Colin Winchester. I nostri pensieri sono sempre rivolti alla famiglia Winchester».
    Nello stesso documento si legge: «L’AFP vuole essere chiara: non c’è alcun esame, rapporto o intelligence recente dell’AFP che suggerisca che la mafia sia responsabile dell’omicidio dell’ex vicecommissario Winchester. Non c’è alcuna indagine aperta su questa vicenda. Non è in corso di revisione».

    Winchester, ‘ndrangheta e Rapporto Martin

    Il caso Winchester è piuttosto complicato dopo decenni di tira e molla giudiziari. Un funzionario pubblico, David Eastman, fu condannato per l’omicidio nel 1995, ma 20 anni dopo, nel 2014, a seguito di una Commissione d’Inchiesta (“Rapporto Martin”), un tribunale ha ordinato un nuovo processo e ha riaperto il caso. Il rapporto disse che altre piste investigative non erano state esplorate a fondo; alcune cose erano state attivamente insabbiate. C’erano, tra queste, anche alcune “piste calabresi”. Il 22 novembre 2018, la giuria del nuovo processo dichiarò Eastman non colpevole dell’omicidio. Eastman, che aveva intanto scontato 19 anni di detenzione, ottenne un risarcimento di 7 milioni di dollari australiani nell’ottobre 2019: il caso collassò per problemi legati all’ammissione delle prove, e soprattutto perché ai tempi dell’indagine le forze di polizia avevano avuto una cosiddetta tunnel vision e non avevano adeguatamente escluso altre piste investigative.

    Piantagione di cannabis

    I calabresi coinvolti nella produzione di droga

    Il Rapporto Martin aveva descritto come Winchester fosse percepito come un poliziotto corrotto da alcune famiglie di origine calabrese coinvolte nella produzione di droga. Si tratta di famiglie della zona della Riverina Valley, in particolare legate ai clan di Platì stabilitisi a Griffith, nel Nuovo Galles del Sud. Questi clan hanno fatto la storia della mafia italiana in Australia, in quanto coinvolti in altri eventi “misteriosi” della storia australiana, indirettamente o direttamente. Tali clan, disse l’inchiesta, avrebbero ritenuto che Winchester – corrotto – avesse fallito nel proteggerli, come aveva invece promesso di fare – lasciandoli quindi esposti al controllo della polizia. Erano gli anni delle operazioni Bungadore 1 e 2, condotte da Winchester quando era ancora nella polizia a Canberra, prima della promozione a vice-commissario, sulle piantagioni di cannabis nella Riverina Valley, a firma Sergi-Barbaro-Trimboli.

    Ammazzato prima del processo 

    Winchester fu ucciso due settimane prima dall’inizio dei processi per Bungadore, contro alcuni calabresi ‘ndranghetisti. Giuseppe Verduci, che era l’informatore primario di Winchester – colui che forse faceva il doppio gioco tra i clan e la polizia – si rifiutò di testimoniare a processo per paura, e il processo di fatto finì in un nulla di fatto.

    La pista di mafia, però, fu eliminata quasi subito dalla polizia federale che gestiva l’indagine. Un misto tra difficoltà investigative e possibili insabbiamenti. Non tutti all’epoca si trovarono d’accordo con l’abbandono della pista mafiosa. Per esempio, si legge in una dichiarazione dell’Australian Bureau of Criminal Intelligence del dicembre 1990: «L’omicidio del vicecommissario Winchester, avvenuto il 10 gennaio 1989, è stato commesso da, o per conto di, un gruppo organizzato di italiani, residenti a Griffith e Canberra per proteggere i beni e la libertà delle persone coinvolte nella produzione e commercializzazione su larga scala della canapa indiana in Australia».

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    L’omicidio di Winchester raccontato nel giornale australiano “The Canberra Times”

    I soliti sospetti

    Dello stesso avviso si era in Italia, dove l’omicidio viene infatti annoverato tra i reati di ‘ndrangheta. I dati del rapporto Martin sulla pista calabrese citano i soliti sospetti: membri della famiglia Barbaro-Sergi a Griffith e Melbourne; noti esponenti della criminalità organizzata italo-calabrese con cognomi importanti – Pelle, Nirta, Tizzoni – tutti affiliati a clan mafiosi estremamente noti in Calabria nel locale di Platì, tutti intrecciati in reti familiari e d’affari, come rivelato anche in Australia proprio nelle operazioni Bungadore 1 e 2 e da altre indagini, ad esempio, in occasione della scomparsa (e presunto omicidio) dell’attivista e politico Donald MacKay, nel 1977, a Griffith, commissionato – disse una Royal Inquiry del tempo – dai clan Sergi-Barbaro-Trimboli. Anche in quel caso non si arrivò a un processo penale.

    Winchester, ‘ndrangheta nella pista calabrese?

    C’è comunque una pistola abbastanza fumante, quanto meno come pista investigativa, in tutta questa storia. Riguarda un’altra indagine, l’Operazione Seville, un’operazione congiunta dell’AFP di Canberra e della polizia del Nuovo Galles del Sud, all’inizio degli anni ’80 sulla produzione di canapa indiana all’interno della comunità italiana. Nei file di Seville – che ho visionato nel 2017 quando ho espresso un parere da esperta per la difesa di David Eastman nell’ultima parte del processo che poi lo avrebbe assolto – c’è un documento redatto dai Carabinieri, in Calabria, il 25 gennaio 1989, sei mesi prima dell’omicidio Winchester. Due individui, B. Musitano e G. Ielasi, dice il documento, sarebbero partiti dall’Italia, da Platì, per commettere l’omicidio di un poliziotto, dicono le autorità italiane. I Carabinieri avevano inviato queste informazioni all’AFP dicendo che l’atto sarebbe stato compiuto per “riscattare l’onore della famiglia”.

    I carabinieri avevano inviato un documento alle autorità australiane

    Le autorità italiane avevano avvertito

    Le autorità italiane avevano dunque avvertito che «B. Musitano è noto per le sue associazioni di ‘ndranghita [sic]» ed era considerato una «persona pericolosa a causa del suo background familiare». Inoltre, era un abile maneggiatore di armi. Il 12 giugno 1989, un mese prima dell’omicidio, le autorità italiane inviarono ulteriori informazioni, informando che Musitano era stato mandato in Australia per uccidere il vicecommissario Winchester e che erano stati presi accordi per farlo rimanere in Australia e sposare una residente australiana. Ulteriori dettagli fanno poi riflettere. I carabinieri dicono che Musitano fosse già stato in Australia in passato, nel 1985, per pagare quel «capo della polizia» (che sarebbe Winchester) corrotto, e per garantire, grazie a lui, il passaggio della droga. Musitano dovette poi tornare in Italia ma, quando Winchester apparentemente non accettò la tangente, Musitano tornò per ucciderlo.

    Tutto ciò fu incluso nell’Operazione Peat del 1989 che era sottotitolata “Sospetti di coinvolgimento della criminalità organizzata calabrese nell’omicidio del vicecommissario Colin Stanley Winchester”. Sembra ovvio chiedersi, come è possibile che queste informazioni non abbiano ribaltato all’epoca l’intero caso, se non altro per introdurre un ragionevole dubbio nel processo contro Eastman?

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    Domenic Perre (foto Adelaidenow.com.au), condannato 28 anni dopo l’Nca bombing

    Musitano e Ielasi

    Operazione Peat si concluse e all’epoca l’AFP dichiarò di non aver trovato «alcuna prova concreta a sostegno delle informazioni ricevute» anche se «le informazioni di Musitano/Ielasi sono state l’indicazione più promettente fino ad oggi che l’omicidio sia stato organizzato ed eseguito da elementi della criminalità organizzata calabrese». Qualche riscontro emerse però in seguito: Musitano aveva parenti a Melbourne – nella famiglia Barbaro – e ad Adelaide – nella famiglia Perre; fu arrestato nel 1993 per produzione di stupefacenti nell’HIdden Valley, in un’organizzazione criminale di matrice ‘ndranghetista guidata da Domenic Perre (e la storia di Perre e un’altra delle storie significative australiane). Ielasi, l’altro uomo citato dalle autorità italiane, rimase invece a Melbourne.

    Troppi ragionevoli dubbi

    Ad oggi i dubbi sono tanti. Ci sono dubbi sul fatto che Winchester fosse o meno corrotto; ci sono dubbi che Verduci, il suo informatore, fosse effettivamente affidabile per Winchester; ci sono i processi falliti di Bungadore 1 e 2; ci sono i documenti dalla Calabria; e c’è, infine, oggi, ma non c’era forse ieri, la consapevolezza che in quegli anni quei clan e in quella zona dell’Australia erano effettivamente all’apice del proprio potere, criminale, sociale, economico ma anche e soprattutto politico.

    Al netto dei dubbi c’è forse una certezza: dopo 34 anni, l’omicidio di uno dei poliziotti più titolati e più senior d’Australia al suo tempo, vicecommissario della polizia federale, non dovrebbe poter rimanere insoluto, che ci sia di mezzo la ‘ndrangheta o meno.

  • MAFIOSFERA | Coca, stragi e prestigio: gli “arcani” dei Piromalli

    MAFIOSFERA | Coca, stragi e prestigio: gli “arcani” dei Piromalli

    I Piromalli, il narcotraffico e non solo. È il 2 novembre 2020: 800 panetti di cocaina, per un peso totale di circa 932 kg vengono sequestrati e recuperati sul container reefer MSCU7430870, proveniente da Coronel (Cile) e diretto a Napoli, con scalo intermedio a Rodman (Panama).
    Due settimane dopo, il 17 novembre 2020, un altro sequestro recupera 38 imballi per un peso totale di circa 720 kg di cocaina sul container siglato MSDU9014828. La merce, stavolta, proviene da Guayaquil (Ecuador). Siamo a Gioia Tauro e questi sequestri di quasi due tonnellate di cocaina fanno male ai clan.

    Un sequestro in Brasile

    Il 26 novembre del 2020 le autorità sequestrano 298 kg in 270 panetti di cocaina al porto di Santos, in Brasile.
    La spedizione sarebbe passata da Gioia Tauro, e poi sarebbe finita in Israele. Lo stupefacente era nel mezzo di un carico di carta.
    Tuttavia, grazie a un’analisi basata su criteri oggettivi di rischio, il contenitore in cui era nascosta la cocaina è finito nei controlli. E questo a dispetto dei risultati del Rapporto globale sulla cocaina di metà marzo 2023 dell’Unodc (United Nations Office on Drugs and Crime), per cui le confische di cocaina nel 2020 in Brasile erano in calo.
    Anche questo sequestro fa male ai clan. Specie a Gioia Tauro.

    Finanzieri in azione a Gioia Tauro

    Chiacchiere tra trafficanti dei Piromalli

    Lo sanno bene i fratelli Domenico e Cosimo R., che aspettavano quei panetti di coca al porto della Piana, tra l’altro in periodi di restrizioni dovute al Covid. «Ieri sera ci è caduto il lavoro dei trecento», ha detto uno di loro all’indomani del sequestro a Santos.
    «L’hanno trovata di sotto», dice uno. «L’hanno trovata?», incalza l’altro. «Mhm …in Brasile», conferma. «Non mi fare … (imprecazione)… mille e trecento, io me n’ero dimenticato, e tu ora me li hai messi di nuovo in testa …», conclude l’interlocutore. Parlano di quei chili di droga già sequestrati nello stesso mese.

    Altro sequestro dal Brasile

    I due fratelli non si danno per vinti. Già qualche giorno dopo parlano di un nuovo carico, partito il 29 novembre con la MSC Adelaide dal Brasile. Aspettano 216 kg di cocaina («Ieri sera sono partiti altri duecento»).
    Ma anche stavolta, il 18 dicembre successivo, lo stupefacente finisce sotto sequestro a Gioia Tauro.
    Il 17 dicembre, Domenico e Cosimo R. ricevono una visita da San Luca e insieme commentano l’arrivo, proprio in quelle ore, della MSC Adelaide al porto, controllabile da Marine Traffic, un sito semi-aperto dove è possibile seguire le navi e gli scali portuali di tutto il mondo. Hanno paura che anche questo carico venga sequestrato e che, ovviamente, questo provochi dei problemi con altri compratori, che crederanno al sequestro «solo quando esce sui giornali».

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    Un indagato in manette durante l’operazione Hybris

    Hybris racconta i Piromalli

    Queste tonnellate di cocaina non arrivano a Gioia Tauro grazie a un’efficace serie di interventi delle forze dell’ordine.
    I dettagli dei fallimenti di Domenico e Cosimo R. sono immortalati nell’operazione Hybris. Quest’operazione ha fatto scattare le manette a metà marzo 2023 a vari soggetti gravitanti attorno ai clan di Gioia Tauro. In particolare, Piromalli e Molé (Domenico e Cosimo, infatti, sono considerati parte del clan Piromalli). Oltre che dell’importazione di cocaina, i due fratelli dovranno rispondere di vendita di vari chili di cannabis, detenzione di armi, estorsioni, danneggiamenti e intimidazioni.

    Non solo coca: anche l’erba conta

    I problemi con la cocaina, tra l’altro, non bastano: si mescolano a quelli legati allo smercio di cannabis;
    Domenico B., che fa affari con i due fratelli per la cannabis, si lamenta infatti della scarsa qualità dell’erba e dello scarso profitto tra ottobre e novembre dovuto a «brutte figure» con chi di cannabis invece se ne intende.
    Ci sono problemi di capitali investiti e non recuperabili. Tuttavia i costi della cannabis – si ragiona su 1.300 euro per kilo, a seconda della qualità del prodotto – non sono quelli della cocaina, che invece va a 35-37 mila euro al kilo.

    Coca e cannabis: l’oro vegetale dei clan

    La leadership dei Piromalli

    Gioia Tauro è un centro nevralgico del crimine organizzato, mafioso e non, grazie all’esistenza e operosità del porto e alla versatilità del clan Piromalli, il gruppo più forte, alleato con i Molé in diversi momenti storici e per varie attività. L’insuccesso e la difficoltà sono la normalità del crimine.
    Invece, la capacità di risolvere i problemi e mantenere la reputazione è una specialità dei Piromalli. Non a caso nell’operazione Hybris vi sono affiliati e simpatizzanti dei Piromalli e Molé imputati di una serie di condotte illecite che restituiscono la fotografia di una realtà mafiosa poliedrica e stratificata, nonostante i problemi.

    Una criminalità piena di “hybris”

    Si legge infatti nell’ordinanza di Hybris:
    «Ciò che si ricava è l’immagine di un aggregato criminale che, seppur provato dalle vicende interne legate alla mancanza di un capo carismatico accettato da tutti i propri componenti, mantiene intatta la propria “hybris”, ovvero la propria tracotanza criminale e, in un periodo di depressione economica e sociale, determinato dalla restrizione connesse all’emergenza sanitaria derivante dalla pandemia da covid-19 che caratterizzano l’interno arco temporale investigato, trova nuovo linfa ripiegandosi in attività delinquenziali “classiche”, quali le estorsioni ai commercianti e ai piccoli imprenditori agricoli della zona di stretta competenza territoriale (coincidente con il territorio del Comune di Gioia Tauro), il traffico di armi e di stupefacenti».

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    Pino Piromalli, alias “Facciazza” tra i carabinieri

    Il ritorno di Pino “Facciazza” Piromalli

    Dall’operazione Hybris arriva un’intercettazione bomba ammessa al processo ’ndrangheta stragista, che conferma il ruolo che i Piromalli avrebbero avuto nella strategia stragista di Cosa Nostra negli anni 90.
    Pino Piromalli (Facciazza) scarcerato nel maggio 2021, quindi nel pieno degli eventi descritti in questa indagine, sarebbe stato l’artefice dell’accordo con i siciliani, avallando le stragi di stato.
    Il suo rientro a Gioia Tauro dopo anni di detenzione è il perno di tutto ciò che accade in questi anni nel sottobosco mafioso della città della Piana. Senza il capo meccanico, come lo definirà uno dei reggenti del clan, Girolamo Piromalli, alias Mommino, c’è anarchia, c’è confusione, e si rischia che la gente non sappia stare al suo posto. Senza il capo legittimo, riconosciuto da tutti, il caos degli insuccessi è più difficile da superare.

    Un’immagine simbolo della strage di Capaci

    La ’ndrangheta? Tutta questione di prestigio

    Come si collegano dunque le attività delinquenziali classiche – l’estorsione, il traffico d’armi e di stupefacenti – con il ruolo storico della dinastia mafiosa gioitana per eccellenza?
    È tutta una questione di riconoscimento sociale e di reputazione, nonché di amplificazione del potere mafioso-criminale.
    La scarcerazione di colui che per successione dinastica guida il clan è questione di reputazione. Il clan deve avere un suo capo “storico”, dal cognome e dalla storia pesante, anche se questo capo non dovesse decidere di tutte le attività criminali dei vari segmenti della ’ndrina e della “locale”.
    Ma c’è di più: la perdita dei carichi di stupefacente non è solo un fatto negativo: è un vero e proprio smacco per i clan.

    Una macchina economica

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    Don Mommo Piromalli, storico leader del clan

    Non riuscire, per ragioni indipendenti dalla propria volontà, a portare a casa tonnellate di cocaina è certamente un danno economico. Ma la capacità di organizzare importazioni ogni due settimane – mettendo quindi in allerta le forze dell’ordine e il porto- aiuta il riconoscimento sociale del gruppo che cura l’importazione.
    Si sa che sono loro a importare: lo sanno gli altri clan, lo sanno i “capi”. I soldi del traffico di cocaina – tanti – girano e le perdite si ammortizzano grazie anche ad altre attività criminali che confluiscono nelle “bacinelle”.
    Ciò accade perché i Piromalli non sono un clan come gli altri. Sono una dinastia mafiosa della prima ora, che ha partecipato alla formazione della ’ndrangheta contemporanea, come nessun’altra famiglia.

    Contro i Piromalli la repressione non basta

    Appurato che il capo legittimo è fuori, che l’ordine si può ristabilire e che le alleanze sono sotto controllo, perdere denaro in fondo non è un problema. Beninteso: fintanto che reputazione e riconoscimento sociale restano.
    Pertanto, continuino pure le forze dell’ordine a fare un eccellente lavoro di interruzione delle attività criminali a Gioia Tauro.
    Ma non ci si scordi neppure un momento che il potere di questo casato sta nella caratura criminale dei capi storici. E che essa amplifica ogni attività degli affiliati. Interrompere questo circolo vizioso richiede molto di più che semplici repressioni.

  • MAFIOSFERA | La Calabria a Palermo: la ‘ndrangheta durante le stragi

    MAFIOSFERA | La Calabria a Palermo: la ‘ndrangheta durante le stragi

    Entrare in aula bunker al carcere dell’Ucciardone a Palermo è un’esperienza che induce alla modestia e alla riflessione. La storia scritta in quest’aula, dagli eroi della prima antimafia giudiziaria in Italia, non è solo storia di Cosa nostra siciliana, o storia della mafia italiana. È storia d’Italia. È solenne, la memoria di quest’aula, le parole dette qui dai pubblici ministeri del pool antimafia siciliano durante il maxiprocesso degli anni Ottanta (e dopo), le parole dette dai mafiosi prima e dopo le condanne da dietro le sbarre delle 30 celle, e infine le ore della corte per leggere i verdetti.

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    L’aula bunker dell’Ucciardone (foto Anna Sergi)

    La memoria di quei mesi e quegli anni ha cambiato il paradigma di quello che la mafia siciliana, Cosa nostra, avrebbe rappresentato da quel momento in poi per l’Italia e i metodi dei suoi investigatori e martiri, per il mondo. Ecco perché, entrare in aula bunker è un’esperienza emotivamente carica. L’essere italiani è in parte definito dalla storia di questa aula. Per questo The Global Initiative Against Transnational Organised Crime, GI-TOC, ha voluto organizzare il 9 marzo proprio nell’aula bunker una giornata di riflessione e conferenza insieme al Tribunale di Palermo.

    L’occasione è stata la discussione dei risultati italiani del Global Organized Crime Index, un imponente lavoro di raccolta dati intorno agli attori e alle attività del crimine organizzato che GI-TOC ha effettuato nel 2021 e si appresta ad aggiornare nel 2023, per tutti i paesi del mondo, con un’infografica snella ed efficace che ben si presta ai canoni comunicativi di oggi.

    ‘Ndrangheta e stragi: un pezzo di memoria mancante

    Nel corso di questa giornata si è discusso dell’apparente paradosso italiano: un ‘punteggio’ molto alto assegnato dall’Index per quanto riguarda alcuni attori criminali (la presenza di gruppi mafiosi), alcune attività criminali (principalmente, il mercato della cocaina e la tratta di esseri umani) assieme a un punteggio molto alto assegnato per la ‘resilienza’ italiana a questi fenomeni. Della serie, l’Italia ha sì un problema di criminalità organizzata molto distinto e molto serio, ma ha anche gli strumenti, non solo giuridici ma anche di attivismo sociale, per rispondere a questo problema. La resilienza italiana al crimine organizzato certamente nasce e si consolida in aula bunker, e ‘scoppia’ in seguito al periodo delle stragi.

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    La strage di Via D’Amelio

    Il modo in cui il Global Organized Crime Index vede l’Italia ha certamente molto a che fare con la Calabria e sicuramente con la ‘ndrangheta, coi traffici di cocaina legati ai nostri clan, e con la presenza che le ‘ndrine hanno nel resto del paese. Ma c’è un’altra ragione – per ora non accertata in tutte le sue componenti – per cui la Calabria, e la storia della ‘ndrangheta, è importante per l’analisi dell’Index. E questa ragione riguarda proprio la memoria delle stragi e il ruolo della violenza e dell’arroganza mafiosa in Calabria e la reazione ad esse. Perché, lo sappiamo, seppur solenne e colossale, la memoria nata e mantenuta in quest’aula bunker non è ancora completa. E tra i pezzi mancanti del periodo delle stragi c’è sicuramente la memoria calabrese.

    Slitta la sentenza

    Questa memoria – o meglio la sua correzione – è il cuore del processo ‘Ndrangheta Stragista, che tra il 10 e l’11 marzo, attendeva a Reggio Calabria il verdetto del processo d’appello. Conferme o ribaltamenti delle sentenze di condanna del primo grado e la definizione (giuridica oltre che storica) dell’apporto che la ‘ndrangheta apicale avrebbe dato ai vertici di Cosa nostra nel periodo delle stragi arriveranno il 23 marzo. Tale apporto sarebbe dietro al duplice omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo nel 1994.

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    Antonino Fava e Vincenzo Garofalo

    Il verdetto d’appello va posticipato perché, nonostante si tratti di fatti ormai datati, di oltre 30 anni fa, arrivano ancora novità che integrano la mole dei dati a processo. Proprio mentre si attendeva il verdetto, il procuratore generale Giuseppe Lombardo ha infatti chiesto che venissero acquisiti i contenuti di un’intercettazione rivelata all’interno dell’operazione Hybris, di qualche giorno fa, contro il clan Piromalli a Gioia Tauro. Nell’intercettazione, due affiliati, che non sapevano di essere intercettati, discutono del ruolo dei Piromalli nelle stragi e dell’incontro al club Sayonara a Nicotera Marina in cui nei primi anni ‘90 si sarebbe deciso se la ‘ndrangheta si dovesse o meno unire alla strategia siciliana.

    Un posto di serie B

    Ma cosa c’entra tutto ciò con l’Italia, il global index di GI-TOC e l’aula bunker di Palermo? C’entra perché la ‘ndrangheta come la conosciamo oggi – con alcuni clan che si sono resi leader del narcotraffico, altri clan che si sono distinti per le capacità imprenditoriali, in investimenti pubblici e privati e altri ancora che hanno fatto politica cittadina e regionale, non è stata – per la storia – la mafia delle stragi.

    La ‘ndrangheta non è la ragione per cui l’Italia avrebbe sviluppato anticorpi invidiati in tutto il mondo, giuridici e di associazionismo sociale e civile. La ‘ndrangheta violenta delle faide e dei sequestri non ha scritto la storia d’Italia, anzi, è stata relegata dalla storia d’Italia – proprio per la sua violenza primitiva – ad avere un posto di serie B, accanto alla ‘sorella’ siciliana che di quella violenza ne ha fatto politica e strategia di attacco allo stato. Ma, a prescindere dai risultati processuali, e dalle responsabilità personali ivi confermate o meno, sembra accertato che i collegamenti tra Cosa nostra e ‘ndrangheta ci fossero e ci fossero inter pares – tra persone a pari livello.

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    Giuseppe e Filippo Graviano

    Ecco perché durante la giornata organizzata in aula bunker a Palermo si è discusso della violenza della ‘ndrangheta e delle scelte durante le stragi: perché che si siano accordati o meno, i Graviano e i Piromalli (tra gli altri), per fare le stragi congiuntamente, alcune tra le dinastie storiche della ‘ndrangheta in quegli anni avevano comunque la facoltà di scegliere se farlo o meno, perché gli era riconosciuto e detenevano il potere per farlo. E questo nella storia ufficiale dell’antimafia ancora non c’è.

    Paese che vai, violenza che eserciti

    La scelta di essere stragisti – andata o meno a ‘buon fine’ – ci porta ad affermare che, non per la prima volta, i clan di ‘ndrangheta più stagionati e più importanti usano la violenza strategicamente. E lo fanno perché nonostante l’organizzazione frammentata dei clan del territorio – autonomi per signoria territoriale e attività criminale – i boss dei clan apicali sanno che i contraccolpi dallo Stato e dalla società civile coinvolgono tutti, quando c’è violenza manifesta ed ‘esterna’ all’organizzazione.

    La violenza, per la ‘ndrangheta, si espone in prima linea spesso solo localmente, dove lascia un’eco per anni ma dove storicamente non ha spesso ispirato atti di denuncia durativi da parte della popolazione. Ma quando la violenza di ‘ndrangheta si è fatta più visibile oltre il locale e l’interno – pensiamo alla strage di Duisburg in Germania o all’omicidio Fortugno – le conseguenze sono state pesanti per l’organizzazione tutta, anche se si trattava di una faida tra due gruppi soltanto.

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    L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg

    Inoltre, ricordiamo che la spinta stragista della ‘ndrangheta, diversamente da Cosa nostra, non poteva essere comunque una decisione di ‘tutta’ l’organizzazione, quanto solo di alcuni capi, proprio per la diversa organizzazione delle due mafie. Questo ci conferma che allora come oggi la ‘ndrangheta funziona a compartimenti stagni, dove solo chi deve sapere sa e dove si fanno alleanze strategiche a stretto raggio, con chi serve e con chi è utile senza ‘sprecare’ connessioni. Questo è il modus operandi che si vede nei mercati illeciti, dove la ‘ndrangheta entra ‘piano’ e con alleati misti, dalla cocaina agli appalti, oggi senza il rumore della violenza.

    La storia d’Italia e le scelte della ‘ndrangheta

    Le scelte – o non scelte – di allora ci hanno consegnato la ‘ndrangheta contemporanea. ll Global Index vede l’Italia come estremamente influenzata da gruppi criminali mafiosi – forti in quanto capaci di entrare in vari mercati legali e illegali – ma allo stesso tempo, resiliente perché le stragi (e non solo) hanno reso il paese consapevole del proprio problema mafioso. Questa fotografia del paese è anche, a sorpresa, il risultato della storia della ‘ndrangheta, oltre che quella di Cosa nostra. Quello che i capi della ‘ndrangheta hanno fatto all’epoca delle stragi, o quello che non hanno fatto ma avrebbero potuto fare, la violenza manifesta e quella ‘trattenuta’, hanno definito la storia d’Italia anche senza far parte della ‘narrativa’ principale della nascita dell’antimafia. Proprio come si confà alla ‘ndrangheta nella sua caratteristica più primitiva, l’essere riservata e ‘dimessa’ come l’altro lato della luna.

  • MAFIOSFERA| Nirta Dinasty: tanta “rrobba” di famiglia

    MAFIOSFERA| Nirta Dinasty: tanta “rrobba” di famiglia

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    Nessuno, nemmeno i capibastone della ’ndrangheta come Giuseppe Nirta o Pasquale Condello o Paolo De Stefano, è solo un “cattivo”.
    Certo, sono tante le storie di ferocia nella mafia calabrese che toccano i lati disumani di certi soggetti, soprattutto uomini legati una certa generazione di ‘ndrangheta.
    Ma guardare solo alla loro malvagità, e alla loro disumanità non racconta tutta la loro storia. Perché la loro è anche una storia di famiglia.

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    Latitanza finita per “il Supremo”: l’arresto di Pasquale Condello

    La parabola di un boss

    Giuseppe Nirta è morto il 23 febbraio 2023 in carcere a Parma, dove si trovava dal 2016.
    La cronaca racconta che Nirta si sia complimentato con le forze dell’ordine al momento del suo arresto, avvenuto nel 2008 nel suo bunker a San Luca.
    Il boss doveva rispondere della strage di Duisburg, in cui morirono sei appartenenti alla cosca Pelle-Vottari, con cui i Nirta-Strangio erano in faida.
    Inoltre, su Giuseppe Nirta pesava anche l’omicidio di Bruno Pizzata, sempre dovuto alla stessa faida.

    Matrimoni e sangue di ‘ndrangheta

    La faida in questione, si ricorderà, era vecchia di decenni, ma era ripresa in seguito a due omicidi. Quello di Antonio Giorgi ammazzato nel 2005 e quello di Maria Strangio – nuora di Giuseppe Nirta perché moglie di suo figlio Giovanni Luca (il vero obiettivo dell’attacco) – uccisa il giorno di Natale del 2006 in un agguato proprio davanti casa del boss Giuseppe. Giuseppe Nirta era un vecchio capobastone della ‘ndrangheta, un mammasantissima, a cui è legata più di una pagina nera della cronaca calabrese, dai sequestri di persona, alla faida.

    La parola ai Nirta

    Ma nessuno, nemmeno Giuseppe Nirta, ripetiamo, è solo malvagio. Al contrario, una certa complessità accomuna il boss a tutti gli altri uomini della sua famiglia, e di altre famiglie del territorio, con passato e presente di ‘ndrangheta.
    Suo figlio Giovanni Luca, parlando a Fabrizio Caccia sul Corriere della Sera all’indomani della strage di Duisburg dirà:
    «Io sarei ’u boss? La mia casa è blindata? Lo vedete voi, sono qui, niente reti, niente cancelli, io sono solo un bracciante agricolo, coltivo l’orto e sto coi bambini. Da gennaio non esco più di casa perché sono in lutto. (…) A San Luca c’è la faida? Non lo so, mettete un punto interrogativo alla risposta. La faida c’è in tutti i paesi. (…) Ora si dice che la prossima data a rischio qui a San Luca sia il 2 settembre, la festa della Madonna di Polsi. Io ho paura di morire, certo, però mi auguro che non succeda più niente».

    Cesare Casella

    A proposito del sequestro Casella

    I bambini, il lutto, la festa della Madonna della Montagna, a Polsi.
    Riecheggiano in queste frasi le parole di un altro uomo della ‘ndrina Nirta, Antonio, alias ’Ntoni, sorpreso al summit di Montalto del 1969 e all’epoca ritenuto capo-crimine a San Luca (morirà nel 2015, a 96 anni).
    «Ma quale padrino e quale mafioso, io ero e resto un uomo che ha il senso dell’onore, un uomo che ha sempre lavorato per la propria famiglia», dirà a Pantaleone Sergi, come si legge ne La Santa ‘Ndrangheta.
    Erano i mesi del sequestro di Cesare Casella, e della battaglia di sua madre Angela scesa in Aspromonte per smuovere le coscienze e accelerare la liberazione del figlio e che per farlo, menziona proprio i Nirta, che si dice a San Luca, possano tutto.

    La testimonianza di ’Ntoni

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    Le alleanze e le parentele della ‘ndrangheta che conta [da Catino, M., Rocchi, S., & Marzetti, G. V. (2022)]
    Dice ancora ’Ntoni Nirta a Sergi:
    «Mi dispiace, mi creda, per quel ragazzo e per i suoi genitori, mi dispiace pure per la gente di San Luca che viene ingiustamente criminalizzata. Se potessi far qualcosa, come cittadino e come padre, glielo ripeto, lo farei subito. Ma cosa posso fare? Non faccio parte di un mondo “extra”, non sono in grado di intervenire. Come genitore dico: liberatelo, restituitelo alla famiglia. Solo un genitore snaturato agirebbe diversamente. lo sono contrario ai sequestri, alla droga, alla violenza».

    Legami d’acciaio coi matrimoni di ‘ndrangheta

    La famiglia, la paternità, la genitorialità, la gente di San Luca, la Montagna.
    Non è un mistero per nessuno, ormai, il ruolo della famiglia Nirta (e della loro alleanza con gli Strangio) nella ’ndrangheta aspromontana.
    Sono più che noti i vari rami della famiglia (la ’ndrina Maggiore e quella Minore). I suoi uomini si sono distinti per il coinvolgimento ripetuto in una serie di reati: dalla cocaina all’estorsione, dall’associazione mafiosa all’omicidio.
    Ma quello che si tende a dimenticare, non solo in questa storica ’ndrina di San Luca, ma un po’ in tutta la ‘ndrangheta, è proprio la famiglia, l’aspetto famigliare.

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    Giovanni Strangio, la mente del commando che agì a Duisburg

    Rrobba di famiglia

    La paternità, la maternità, i figli, il quotidiano, il lutto, i compleanni, i matrimoni, le feste del paese. Nemmeno Giuseppe o ‘Ntoni Nirta sono sempre e solo malvagi o sempre e solo ’ndranghetisti; sono anche padri, nonni, zii. Coesistono, in queste persone, molti aspetti, negativi e “normali”.
    Non è una provocazione, tanto meno una giustificazione tipica di quelle tecniche di neutralizzazione di cui molti mafiosi si sono serviti negli anni: ricordare che dietro alla ’ndrangheta ci sono le dinamiche familiari è non solo una necessità storica-sociologica, ma anche giudiziaria.

    Il familismo dei capibastone

    Infatti, non è banale ricordare che dietro alla ‘ndrangheta, in particolare quella reggina e aspromontana, ci sono i legami di sangue. Al contrario, questi legami hanno implicazioni molto concrete.
    La “familiness”, l’aspetto familiare che entra negli affari di famiglia, è assolutamente centrale nella ’ndrangheta: chi si sposa, chi ama, chi non ama, chi è gay e non lo dice, chi vorrebbe studiare e non può, chi deve seguire le orme del padre, chi vuole proteggere la madre, chi vuole proteggere i figli, chi muore prima del tempo, e via discorrendo.

    Parenti e affari

    Gli aspetti familiari sono anche business: i valori della famiglia si confondono o influenzano gli affari di famiglia e gli eventi della famiglia, le caratteristiche delle relazioni familiari, assumono diverse forme che diventeranno eventualmente forme di ’ndrangheta.
    Non ci sono famiglie uguali, nemmeno nella l’ndrangheta. Ogni famiglia ha una sua propria “cultura” , che si riflette nell’attività ’ndranghetistica.
    Ciascuna famiglia ha dei meccanismi propri per gestire gli incidenti di percorso. Ha membri che sono più portati al comando in momenti di crisi, o sono più fragili nelle difficoltà.
    Ogni famiglia, anche quella di ‘ndrangheta, dovrà gestire la successione. E non c’è determinismo, soltanto fattori socio-economico-culturali che in Calabria come in Piemonte o in Canada creano mix diversi da individui diversi, nonostante regole comuni e piani di collaborazione criminale.

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    L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg

    Matrimoni strategici

    Una dimostrazione di questa “sinergia” tra aspetti organizzativi e aspetti prettamente familistici sono ad esempio i matrimoni strategici, che storicamente e soprattutto in Aspromonte hanno costituito una delle caratteristiche più conosciute della ’ndrangheta.
    Ma i matrimoni “strategici” non sono un’esclusiva della mafia ma sono tipici di alcune élite (ricordiamo che esistono matrimoni strategici in tutte le famiglie reali e nobili, nonché in dinastie imprenditrici).
    Ricorrere alle alleanze matrimoniali avrebbe avuto, secondo la ricerca, una funzione di amplificazione e di protezione sia degli affari sia della coesione interna del gruppo ’ndranghetista, in alcuni posti più che altri.

    A giuste nozze…

    È famoso, per esempio, il matrimonio del “giorno 19” – tra Elisa Pelle, figlia di Giuseppe Pelle detto Gambazza, e Giuseppe Barbaro, figlio di Pasquale Barbaro ’u Castanu, avvenuto il 19 agosto del 2009 – fondamentale per le indagini durante l’operazione Crimine degli stessi anni. I matrimoni sono una costante nelle stesse dinastie, in Calabria come altrove.
    I Sergi e i Barbaro ad esempio, mantengono storicamente una stretta parentela con altre famiglie aspromontane – come i Romeo e i Perre – anche in Australia.

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    Lo schema di potere dei Barbaro (a cura di Anna Sergi)

    Strumenti di potere

    I legami familiari, i cognomi, sono spesso legami ascrittivi, cioè oggettivi: i parenti non si scelgono, in altre parole.
    Ma questi legami familiari possono essere manipolati e alcune dinastie di ’ndrangheta storiche e tradizionali ne fanno strumento di potere. Nessuno è sempre e solo malvagio, nemmeno un mammasantissima. Anche gli ’ndranghetisti hanno molte facce che coesistono. Quella familiare, in cui si manifestano il carattere personale e i valori (reali o meno che siano) del casato, rivela scelte più ampie e capacità di business.