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  • Una generazione cancellata dalla Calabria

    Una generazione cancellata dalla Calabria

    La piccola borghesia da cui provengo, che è quella che Brunori Sas ha ben descritto in una sua canzone, è la borghesia che non ce l’ha fatta. Non è riuscita a fare il salto di qualità che le aveva promesso la falsa ideologia di uno sviluppo infrangibile verso le praterie dell’abbaglio capitalista. È quella che ha edificato in centro, sì, ma appena fuori dal centro che conta. La borghesia che continua a fare della Calabria il regno dei “vorrei, ma non posso”, tradita ed orfana di certe velleità che ha comunque riversato, di generazione in generazione, sui figli come un imprinting.

    Quale Eldorado?

    La generazione di quelli come me, educati a questo inganno, è cresciuta nel velleitarismo di essere attesa dall’Eldorado vagheggiato dai propri genitori. Ma quell’Eldorado lo avremmo dovuto cercare ovunque tranne che in Calabria. Perché qui, dove oggi sono tornato, niente c’era e niente ci sarebbe stato.
    Avremmo dovuto emigrare al Nord in sella a destrieri di risentimento e disprezzo. Tutti figli di quel senso di vergogna ereditato e interiorizzato da genitori che si sono arresi – se non accomodati – al processo di abdicazione delle proprie radici e di quella cultura contadina da cui tutti proveniamo. Qualcosa che il Boom economico degli anni Sessanta era chiamato a spazzare via.

    Radici nella plastica

    Un abbraccio mortale a pattern culturali, antropologici e sociali estranei che, in enclavi come Cardeto, o Pentedattilo o Roccaforte del Greco, avevano condotto alla sistematica sostituzione del rame e della terracotta con la plastica. Una nuova deificazione del benessere legato a un modernismo che solleticava i più sordidi istinti di invidia sociale. L’erba – o la plastica – del vicino era sempre più verde e sarebbe toccata anche a noi. Così mi ha raccontato un mastro zampognaro aspromontano descrivendo lo spasimo di sua madre verso i nuovi utensili sfoggiati dalla vicina modernista.

    Paesi e radici chiusi come reliquie nei musei

    Identità in estinzione

    Rame e terracotta, però, non erano simboli di un passato straccione da dimenticare. Erano elementi distintivi del nostro genoma di popolo che lentamente – e manco troppo – venivano relegati in teche da museo etnografico, col loro numero di serie da esemplare in estinzione. Fin quando turismo esperienziale e marketing territoriale li avevano elevati allo status di “marcatori identitari”, una sorta di olio crismale con cui consacrare miracolose strategie di sviluppo territoriale. Più supposte che reali, tanto per rimanere in tema di quote WWF.

    C’è una generazione, con competenze sofisticate, che ha lasciato la Calabria

    Calabria: una generazione non c’è più

    Eradicazioni, perdite, sostituzioni culturali unite a fenomeni come la carenza di lavoro, l’ineducazione alla sua cultura, deficit infrastrutturali tramutatisi in mutilazioni di competitività, narrazioni ideologizzate e criminalizzanti hanno provocato la perdita della mia generazione.
    Invece di origini e radici, ci hanno trasmesso un senso di colpa e arrendevolezza già appartenuto ai  nostri genitori: per loro si è manifestato con la violenza dello stigma; per noi si è annacquato nel grottesco, se non nel folkloristico, da ritrovare una o due volte l’anno. Il tempo dedicato al ritorno del fuorisede da su.

    Trenta e quarantenni in Calabria non ci sono più e, se ci sono, si tratta di appartenenti a due categorie: quelli che non sono potuti partire e i romantici che hanno fatto della vocazione al riscatto della propria terra una missione impossibile. Una vocazione al martirio.

    Eterna nostalgia e mezze verità

    Un fenomeno speculare a quello verificatosi nella Calabria greca, con esiti ancora più disastrosi, quando gli anziani, apostrofati come stupidi, parpatuli e paddhechi, di fronte al tramonto del greco di Calabria come lingua veicolare, decisero di smettere di parlarlo per dare una nuova chance di vita ai propri figli, che non sarebbero così stati condannati a un destino da caprari.

    Il biennio di insegnamento al liceo classico della mia città mi ha reso evidente questo sradicamento poi trasmesso alle generazioni successive. Davanti a me c’erano ragazzi privi di memoria e coscienza storica. Poco o nulla conoscevano del passato del proprio popolo o territorio, convinti anche loro di essere capitati per errore in una terra di mezzo che presto avrebbero abbandonato per sempre.
    Una terra da dimenticare, senza opportunità, per cui non vale la pena di combattere, ma per la quale tenere vivo un senso di eterna nostalgia, straziati tra il dover andare e l’eco del bisogno di tornare.
    In tutto questo nessuno si è reso conto che le mezze verità a furia di raccontarle, sostituiscono le vere verità.

  • Il lavoro senza festa

    Il lavoro senza festa

    Il primo giorno di maggio, per secoli, è stata la festa in cui si celebrava la bella stagione, il Calendimaggio. Il Primo Maggio come lo conosciamo noi nasce insieme ai partiti che difendono i lavoratori. A fine ‘800, con l’Internazionale Socialista, di ispirazione marxista, si decide di dedicare un giorno alla rivendicazione universale delle 8 ore. Incredibile ma vero, l’intuizione arriva dall’America, che a inizio ‘900 era tra le patrie del movimento operaio, avendo un grande ruolo in tema di Diritti del lavoro e sindacalismo. Spunto propositivo, il triste epilogo di una grande manifestazione iniziata a Chicago proprio il 1° maggio del 1886. La manifestazione vide un’adesione incredibile tanto da meritare di essere ripetuta fino ai giorni nostri.

    La Festa dei lavoratori nasce dunque in relazione alla richiesta di tutele crescenti in capo ai poveri, quella classe operaia che ha ispirato battaglie sociali e conseguito diritti civili che ci è dato di fruire ad Aeternum, o quasi. In tempi non sospetti mi domandavo perché i protagonisti di quella festa fossero solo persone umili: mi incuriosiva intimamente il fatto che, a essere considerati lavoratori non fossero pure quelli che facevano un lavoro non manuale, quelli con la cravatta li chiamavo! A casa non mi si aizzava contro I padroni, provando piuttosto a ridimensionare la mia critica sociale prematura. Crescendo però, mi sono interessata sempre più alle questioni di matrice sociale, forse proprio perché non mi bastavano le risposte a domande pur lecite, questioni che credo vadano conosciute quanto più dall’interno, approfondite, a livello dottrinale e teorico e, all’occorrenza, denunciate in quanto non accettabili.

    Una festa ritualizzata che rischia di perdere senso

    Aldilà delle celebrazioni infatti, temo ci sia ben poco da esser contenti. Al pari di molte date emblematiche ahinoi, la Festa dei Lavoratori è stata ridotta a formalità pacchiana, se non ipocrita, tant’è che, di anno in anno, sono sempre più convinta del messaggio subliminale insito in quel “Primo maggio su coraggio …” di tozziana memoria, che mi restituisce insospettabile stima nel cantautore torinese! Quest’anno, per l’occasione, nelle parole della presidente del Consiglio possiamo scorgere, con uno slancio di ottimismo e poca critica, un anelito speranzoso: la situazione ci sovviene come ottimale, con un’occupazione senza precedenti che pure non risolve i problemi di chi non arriva a fine mese.

    Checché ne dica Giorgia Meloni la situazione nostrana a livello lavorativo è avvilente. Gli anni che viviamo hanno visto il susseguirsi di prassi e norme tese a svuotare qualsivoglia conquista pregressa in tema di diritto del lavoro: ad oggi il lavoro duro lo continuano a fare quelli che hanno meno tutele e i figli della classe lavoratrice faticano a posizionarsi in ruoli più elevati rispetto a quelli di chi, con grandi sacrifici, ha permesso loro di studiare per elevarsi a condizioni meno disagianti.

    Una manifestazione in occasione del Primo maggio

    Il lavoro sempre più povero

    Oggi lo so, come so che è difficile spiegare a una creatura di una decina d’anni che probabilmente sarà sfruttata! Come si fa a consegnargli l’ipotesi di dover sbattersi il doppio per guadagnare la metà di quelli che la dirigeranno al netto di competenze inferiori alle sue in ambiti che potremmo definire “sensibili” se non li avessimo svelati a noi stessi come “sommersi”? Oltre al danno c’è da considerare la beffa, nella misura in cui, a favorire lo sfruttamento, sono proprio quelli che sarebbero preposti all’advocacy dei lavoratori, primi tra tutti i settori che, proponendosi di supportare le categorie fragili, sfruttano e debilitano le risorse umane a propria disposizione, quale è l’ambito sociale.

    Ho sempre lavorato per organizzazioni non-profit, nessuna di destra, vedendomi riconoscere pochi diritti, economici e fiscali, misurando quanta poca tutela sia riservata al mio settore in questo Paese. Vero è che la destra al potere sta palesando la disaffezione ai non benestanti nel modo peggiore, andando a braccetto coi potenti che, ritenendo di comprare tutto, svendono chiunque non sia funzionale ad una capitalizzazione bieca.

    Le responsabilità della sinistra

    Nella medesima ottica critico le sinistre che lasciano che sia, divenendo complici delle destre quando si tratta di prendere decisioni impopolari. Nonostante la fisionomia sovranista, europea e non, abbia i tratti delle destre al potere, infatti, l’agire politico della controparte, non ha alcun tratto distintivo che favorisca una qualche indulgenza da parte mia, e mi riferisco alle leggi contro gli immigrati, alle tasse non proporzionali al reddito, alle battaglie civili sposate a voce bassa, in un piglio che volendo accontentare tutti, scontenta i più fragili. Per questo, “Odio gli indifferenti” oggi lo interpreto nel significato meno scontato, in riferimento non solo alla complicità, ma anche alla non differenziazione.

    L’egemonia dell’omologazione

    L’omologazione della classe dirigente, come l’omologazione degli individui, è il morbo contemporaneo di matrice capitalistica. L’odierna uguaglianza interclassista non è una conquista, ma un regalo del potere totalizzante dell’edonismo merceologico che le sinistre non hanno scongiurato allineandosi, nel dire e nel fare, a quelli che però, si riservano di additare come fascisti, come si trattasse di una sorta di innatismo che li assolve, perché mai potrà interessarli, un po’ nella falsariga della questioni che si chiamavano “di classe”.

    Pasolini lo denunciava parlando “un potere ancora senza volto”, falsamente tollerante, ma impositivo. “Un nuovo potere ancora non rappresentato da nessuno”, scriveva nel 1974, che palesa la mutazione completa (all’epoca in corso) della classe dominante che tende a omologare, attaccando ogni minoranza in un anelito di standardizzazione funzionale alla gestione della collettività silente. Questo nuovo potere genera e sviluppa nella società del capitale, una forma totalizzante, fascista, che consegue l’omologazione più repressiva. Pasolini parla poi dei codici culturali e addita la sovrapposizione dei comportamentiin capo a schieramenti, ufficialmente, contrapposti. Perché è pericolosa questo allineamento? Perché tende ad escludere ogni differenza, espellendo dal sistema chi non assomiglia allo standard funzionale all’esercizio del potere.

    Oggi che conosciamo il volto di quel potere, perché non corriamo alle contromisure? Perché imbambolati da piccole, false conquiste che ci illudono convenga stare buoni aspettando il miracolo ad personam! Si perché, nel frattempo, ci siamo lasciati convincere che è tutto un magna magna, che non conviene sposare alcuna causa che, prima o poi, si rivelerà ispirata ad un qualche interesse particolare: questo è il danno che ha fatto chi doveva tutelare i lavoratori per mandato, alias, favorire il radicarsi dell’idea che quelli che fanno politica sono tutti uguali e che, a questo punto, convenga votare chi è più spregiudicato e fottipopolo!

    La sinistra ha responsabilità nel non aver c contrastato il precariato

    Lo sfruttamento “bipartisan”

    Lo sfruttamento dei lavoratori in capo ad organizzazione di sinistra, non è forse la forma peggiore di fascismo? L’approccio patriarcale, il mobbing, l’abuso non sono appannaggio della destra: in cosa si distinguono i cittadini e le organizzazioni di destra da quelli di sinistra in questo buffo Paese? Non certo nelle tutele in capo ai lavoratori! Vogliamo ancora credere ad una superiorità di qualche tipo di uno schieramento che si rivolge (solo) ufficialmente alle classi popolari, o riteniamo sia giunto il momento di guardarci in faccia?

    A sfruttare i moti migratori sono state le organizzazioni di sinistra, a propinare i cosiddetti CO.CO.CO. CO.CO.PRO. e altre forme contrattuali ufficialmente illegittime, ma ancora in essere chez nous, sono organizzazioni di sinistra che hanno la gestione pressoché totale del settore: denunciare vuol dire non essere complici, ma viene considerato tradimento, esattamente come avveniva tra camerati, come vogliamo regolarci? Io ritengo non si possa più rimandare quel cambiamento che chiamano Rivoluzione e credo che a promuoverlo debba essere la mia generazione, terra di mezzo di troppi paradigmi subiti e poche conquiste conseguite, come le donne, che guideranno il cambiamento.

    Giovani e precariato

    Le principali frange sociali cui guardare alla ricerca di alleanze necessarie sono le Seconde Generazioni e i Precari, equivalente contemporaneo di Studenti e Operai. La Borghesia tende a ridurre tutto a se stessa, per questo le viene consegnata la gestione del potere. I gruppi sociali che identifico come portatori di cambiamento migliorativo, di contro, sono sfaccettati, accomunati solo dalla necessità di tutele che nessuno non interessato in prima persona gli consegnerà mai.

    La festa del lavoro nel titolo dell’Unità di molti anni fa

    In attesa di una nuova sinistra   

    Che le nuove alleanze siano vocate ad una parità di condizioni che ispiri la comune emancipazione. E che la nuova rappresentanza condivida i tratti, sociali e civici, delle minoranze che sono state sempre e solo funzionali alla propaganda di destra come di sinistra. Che la nuova sinistra si riappropri di valori sviliti, ma fondanti, decidendosi a concedere l’accesso alla rappresentanza, anche alla classe dei lavoratori, non gli attuali sindacalisti che oltre alla causa si sono venduti anche il cervello!

    E il Primo Maggio 2025 sia l’ultimo a vederci scontenti, figlie di un Dio minore, artefici del proprio riscatto, erroneamente delegato, per noia o per rassegnazione, alla classe politica più cialtrona e machista di sempre!

    Manuela Vena
    Presidente Associazione Culturale Fidem
    Membro del tavolo  di aggiornamento sul Piano d’Azione Nazionale
    su donne,
    pace e sicurezza