Quando i calabresi (e non solo) hanno appreso degli oltre due milioni e mezzo di euro spesi dalla Regione per far pubblicità alla Calabria dentro (e di fronte a) la stazione di Milano Centrale non sono stati pochi a storcere il naso, Tra questi, lo stesso governatore Roberto Occhiuto, che già nei mesi precedenti aveva battibeccato indirettamente con l’assessore al Turismo (oggi senatore) Fausto Orsomarso per altre iniziative promozionali. Troppo calda ancora la figuraccia fatta col mitico corto di Muccino, costato l’ira di Dio tra realizzazione e messa in onda, per permettersi nuovi passi falsi nel campo del marketing territoriale e del turismo.
A volte ritornano
Una soluzione per evitare – o, quantomeno, posticipare – nuovi esborsi monstre dai risultati imprevedibili, però, alla Cittadella la conoscono già. Basta fare come con mamma Rai, che per farsi pagare quanto le spettava dopo aver promosso la Calabria in tv ha dovuto aspettare un’eternità. Risale infatti al 2011 una pratica riemersa dai cassetti e riapparsa in queste ore sul Burc. Cosa c’è scritto? Che i contribuenti calabresi si troveranno a spendere nei prossimi giorni oltre 800mila euro destinati a pubblicizzare il nostro territorio oltre un decennio fa.
Miss Italia a Reggio Calabria, pubblicità per la regione
All’epoca dei fatti a regnare sulla Cittadella è Peppe Scopelliti, ex sindaco di Reggio. Ed è proprio in riva allo Stretto che si terrà la finale di “Miss Italia nel mondo”. La Rai ha 180mila buone ragioni per far svolgere l’evento lì, tante quanto gli euro (Iva esclusa) che la Regione sborserà per la copertura dell’evento e la celebrazione dei luoghi che lo ospiteranno. Ed ecco i vertici di Germaneto e Saxa Rubra stipulare una prima convenzione il 5 agosto 2011. Ne seguirà, quattro mesi dopo, una seconda. La cifra, stavolta, è più alta, il doppio della precedente. Per 360mila euro più Iva la Calabria troverà spazio in alcune trasmissioni della Tv di Stato nel corso del 2012: Uno Mattina, Linea Blu, Sereno Variabile e la Giostra sul Due.
Impegni
Gli italiani vedono la Calabria sulla Rai, ma la Rai non vede un centesimo dalla Calabria. Gli anni passano e in viale Mazzini iniziano a lamentarsi del ritardo. Email e telefonate alla Cittadella si susseguono, le risposte però non sono quelle che ci si aspetterebbe. Soldi, infatti, a Roma non ne arrivano. Dal Bilancio provano a saldare parte del debito con i quattrini impegnati per la promozione turistica illo tempore, ma la somma basterebbe a versare più o meno la metà del dovuto. Del resto del denaro (e dei relativi impegni di spesa) non c’è traccia. Ci si mettono pure di mezzo problemi informatici alla piattaforma dei pagamenti. E così dalle casse regionali finisce per non uscire neanche un centesimo.
La sede della Rai in viale Mazzini a Roma
Il tribunale dà ragione alla Rai
A essere scomparsi, oltre ai soldi che ci si aspettava già impegnati alla luce delle due convenzioni, sono anche quelli del Dipartimento Turismo, a cui toccherebbe gestire la vicenda. A nulla valgono le sollecitazioni dei colleghi che si occupano dei conti regionali. Nonostante la Rai chieda soldi ormai dal 2016, nonostante abbia fornito più volte negli anni ogni documento possibile (a partire dalle fatture), nonostante abbia pregato la Regione di non farsi portare in tribunale per farle sborsare il dovuto, nonostante in tribunale ci sia effettivamente andata e quest’ultimo abbia riconosciuto con un decreto ingiuntivo ormai esecutivo da maggio 2021 che quei soldi la Rai dovrà averli entro i successivi 40 giorni, non succede nulla fino a quest’estate.
Regione Calabria, riecco i soldi per la pubblicità
È il 28 giugno 2022 – qualcuno trova la formula più efficace per svegliare dal torpore anche il più inoperoso dei burocrati: se ci saranno ulteriori aggravi di spesa, a pagare di tasca propria saranno funzionari e dirigenti rimasti immobili fino a quel momento.
Come per magia – ma senza troppa fretta, alle tradizioni non si rinuncia – riparte l’iter. Prima (siamo in autunno) arriva la copertura finanziaria per circa 400mila euro. Poi, con atto del 14 dicembre pubblicato sul Burc di ieri, si ufficializza come debito fuori bilancio da sentenza esecutiva il resto della somma. Che nel frattempo, tra interessi e spese legali è arrivata a poco più di 816mila euro. Se una parte dovrà essere a carico di qualche burocrate regionale è materia da Corte dei Conti. Ma una cosa è certa: se fossimo nei panni della concessionaria che si occupa della Calabria Straordinaria targata Orsomarso nella stazione Centrale, di fronte a precedenti come questo, qualche preoccupazione per il futuro l’avremmo.
Quante difficoltà devono affrontare i disabili e i loro familiari? E in Italia quanti diritti effettivi godono?
Forse proprio la Calabria ha iniziato una piccola rivoluzione che, a partire da alcune situazioni critiche, potrebbe dare il via a una nuova epoca. Certo, la situazione non è rosea, a partire dai progetti individuali. Da noi, infatti esistono ritardi nell’applicazione della legge 328 del 2000. Le previsioni di questa normativa ora sono incluse nei fondi del Pnrr.
La sede regionale del Tar
Tar e disabilità
La magistratura ha dovuto dare la classica “strigliata” al sistema.
Infatti, il Tar di Catanzaro ha dato una risposta a due famiglie annullando le note dei Comuni di Vibo Valentia e di Lamezia Terme.
Un record, in questa materia delicata, grazie al quale i nostri giudici amministrativi tallonano le decisioni pionieristiche di Aosta e Catania.
Nello specifico, parliamo dei genitori di due minori che nel 2019 avevano chiesto ai propri Comuni di adottare i progetti individuali per disabili. Questi progetti devono essere inoltrati dal Comune, in sinergia con l’Azienda sanitaria territoriale, per attingere ai fondi regionali.
Vibo e Lamezia: due realtà nel mirino
Vibo e Lamezia e le rispettive Asp avevano provato a sottrarsi. Ma il Tar di Catanzaro ha deciso altrimenti e ha ordinato a Comuni e Asp di concludere entro 90 giorni il procedimento.
Queste due sentenze, tra le prime in Italia, sono finite in molti siti web specializzati in Sanità o di legali esperti in materia. I giudici hanno stabilito che i diritti dei disabili sono esigibili, quindi devono avere risposta immediata, pena la condanna.
La Calabria sarà pure indietro nella tutela dei disabili, ma forse la magistratura è avanti. E ha qualche potere particolare: ad esempio, quello di nominare commissari ad acta. Insomma, non si scherza più.
Barriera architettonica a Vibo
Io autentico: una onlus in lotta per i disabili
La onlus“Io autentico” di Vibo, in prima linea nella tutela degli autistici, ha fatto il punto sui progetti per disabili. «Abbiamo avviato da tempo un intenso lavoro di sollecitazione e di affiancamento con diversi enti locali e sanitari, oltre che con la Regione. Abbiamo partecipato attivamente alla stesura del piano sociale regionale 2020-2022 della Calabria, Ciò non è tuttavia bastato fino a che il Tar quest’anno non è intervenuto contro Vibo e poi quello di Lamezia».
Disabili: Vibo fila ma l’Asp arranca
Da allora, il Comune di Vibo Valentia, vanta un primato: «È stato il primo in Calabria ad avviare la predisposizione e la realizzazione dei progetti di vita in modo sistematico col coinvolgimento dell’Asp. Finora, nel Vibonese sono attivi sessantatré progetti per disabili».
E c’è di più: «l’Ambito territoriale sanitario di Vibo Valentia (16 Comuni) è quello più attivo. E non va male l’Ats di Spilinga, che comprende altri 17 Comuni. L’Asp di Vibo registra forti ritardi, difficoltà e inadempienze nei confronti del Comune, nonostante un protocollo operativo firmato proprio con l’ente comunale, nella gestione della progettazione, per carenza di professionisti».
L’Asp di Vibo Valentia
Bene Cosenza, male Reggio, peggio Crotone
Nel resto della Calabria, si segnala la provincia di Cosenza, dove sono in corso progetti nei Comuni di Rende, San Giovanni in Fiore, Praia a Mare e Scalea. A Catanzaro, invece, c’è da star certi che la recente sentenza del Tar contro Lamezia velocizzerà i procedimenti.
La situazione resta difficile a Reggio, dove “Io autentico” era intervenuta in audizione lo scorso luglio presso la Commissione pari opportunità del capoluogo per avviare una collaborazione per le numerose istanze pendenti che tuttora, però, restano tali.
Perciò «nei confronti del Comune di Reggio Calabria è pendente un ricorso al Tar contro il silenzio-inadempimento. La provincia di Crotone, purtroppo, non è pervenuta».
Cosa prevede la legge del 2000
La legge n. 328 del 2000 (legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali) prevede che, ai fini della piena integrazione scolastica, lavorativa, sociale e familiare, si predisponga un progetto individuale per ogni soggetto con disabilità psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva. Attraverso i progetti si creano percorsi personalizzati per massimizzare i benefici.
Al riguardo, si legge sul sito web dell’Anffas(Associazione nazionale famiglie di persone con disabilità intellettiva e/o relazionale): «Nello specifico, il Comune deve predisporre, d’intesa con la Asl, un progetto individuale, indicando i vari interventi sanitari, socio-sanitari e socio-assistenziali di necessita per la persona con disabilità, nonché le modalità di una loro interazione».
Un mezzo dell’Anffas
Un diritto blindato
Attraverso tale innovativo approccio si guarda al disabile non più come ad un semplice utente di singoli servizi. Ma lo si considera «una persona con le sue esigenze, i suoi interessi e le sue potenzialità da alimentare e promuovere». Il progetto individuale, infatti, «è un atto di pianificazione che si articola nel tempo e sulla cui base le Istituzioni, la persona, la famiglia e la stessa comunità territoriale possono/devono cercare di creare le condizioni affinché quegli interventi, quei servizi e quelle azioni positive si possano effettivamente compiere».
L’importanza e la centralità della redazione del progetto individuale è oggi ampiamente ribadita dal primo e dal secondo programma biennale d’azione sulla disabilità approvati dal Governo, che ne prevedono la piena attuazione, quale diritto soggettivo perfetto e quindi pienamente esigibile.
Assistenza ai disabili
Questo diritto è ancorato allo stesso percorso di certificazione ed accertamento delle disabilità ed è identificato quale strumento per l’esercizio del diritto alla vita indipendente ed all’inclusione nella comunità per tutte le persone con disabilità. Come previsto, in particolare, dalla convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità)».
La buona scuola
Oggi, la legge 112 del 2016 (disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive di sostegno familiare, nota come legge sul durante e dopo di noi) individua proprio nella redazione del progetto individuale il punto di partenza per l’attivazione dei percorsi previsti dalla stessa.
La redazione del progetto individuale per le persone con disabilità è ulteriormente ripresa anche dalla riforma della “buona scuola” del 2015.
Il progetto individualecomprende vari aspetti. Innanzitutto, il profilo di funzionamento. Poi le cure e la riabilitazione a carico del Servizio sanitario nazionale. Inoltre, include il piano educativoindividualizzato a cura delle scuole. Il Comune fa la sua parte, direttamente o tramite accreditamento, coi servizi alla persona. La strada è lunga ma proprio dalla Calabria è partita l’ennesima battaglia per il pieno riconoscimento di tutti i diritti già previsti dalla normativa per i disabili e per i loro familiari.
Ha sollevato un polverone a Cirò Marina a inizio estate il “caso padel” lanciato da I Calabresi. Tutto è nato da un permesso per costruire rilasciato alla ditta Signor Padel Srls. Il provvedimento era opera dell’Ufficio Tecnico del Comune di Cirò Marina, guidato dal presidente della Provincia di Crotone, Sergio Ferrari.
Galeotto fu il padel a Cirò Marina
Il terreno su cui costruire l’impianto appartiene ad Antonietta Garrubba, socia unica della srls in questione. Il catasto lo qualifica come uliveto con un reddito agrario di 5,86 euro, perciò non edificabile.
Una svista amministrativa da sanare in autotutela? Probabile. Ma la Garrubba è moglie dell’amministratore unico e legale rappresentante dell’impresa, Giuseppe Farao. E suo marito è stato condannato nel processo Stige in primo grado a 13 anni e 6 mesi per associazione mafiosa e trasferimento fraudolento di valori aggravato dall’agire mafioso.
La cattura di Silvio Farao
Inoltre, lo stesso si è visto infliggere alcune pene accessorie: incapacità a contrarre con la pubblica amministrazione per 5 anni, interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’interdizione legale durante l’espiazione della pena. Giuseppe è figlio di Silvio Farao, ritenuto uno dei boss della locale di Cirò, condannato in Stige a 30 anni di reclusione e attualmente detenuto. Padre e figlio, è doveroso aggiungere, sono tuttora sotto appello, quindi le loro condanne non sono definitive.
Una revoca tempestiva
A seguito della notizia de I Calabresi, il sindaco annunciò dopo poche ore (il primo giugno scorso) la revoca del provvedimento firmato il giorno prima dall’allora responsabile dell’ufficio tecnico, l’architetto Raffaele Cavallaro.
In effetti, il 3 giugno uscì un altro provvedimento, sempre a firma di Cavallaro. L’atto comunicava l’avvio della revoca del permesso di costruire “incriminato” e la sospensione di ogni effetto, sia per l’errata destinazione d’uso, sia per acquisire «la prescritta documentazione inerente i requisiti dei soggetti richiedenti, dell’impresa e del progettista».
Il ricorso di Farao
Non si è fatto attendere il ricorso al Tar Calabria di Giuseppe Farao, discusso in udienza pubblica lo scorso novembre. Dinanzi ai giudici amministrativi, Farao ha sostenuto che «l’attività amministrativa (del Comune di Cirò Marina, ndr) sarebbe stata sviata dal clamore mediatico verificatosi, in quanto non sarebbe stata altrimenti necessaria l’acquisizione della documentazione antimafia ai fini del rilascio del permesso di costruire» e che «in ogni caso, l’iter amministrativo seguito sarebbe evidentemente illegittimo, essendo stati contestuali la comunicazione dell’avvio del procedimento, la sospensione degli effetti del titolo edilizio e il suo annullamento». Al contrario, il Comune di Cirò Marina ha rivendicato la correttezza della revoca a firma di Cavallaro.
Risultato: Comune condannato (in persona del sindaco in carica) alla rifusione delle spese legali a Farao, pari a 4mila euro più oneri.
Condanna per il Comune di Cirò Marina
Secondo il Tar Calabria (sentenza 2222 dello scorso 7 dicembre, presidente Giovanni Iannini), «il Comune di Cirò Marina non avrebbe dovuto revocare sic et simpliciter il permesso di costruire in ragione della mancata acquisizione della comunicazione antimafia; piuttosto, avrebbe dovuto acquisire tale documentazione, provvedendo solo all’esito e in base alle risultanze di questa» e che «in ogni caso, la concentrazione in un solo giorno della comunicazione di avvio del procedimento, della sospensione cautelare degli effetti del provvedimento e la revoca del titolo costituiscono, come già sottolineato in sede cautelare, violazione del corretto sviluppo del procedimento amministrativo, da cui deriva l’illegittimità del provvedimento impugnato».
Sbaglia ma non paga?
Insomma, secondo il tribunale, il funzionario del Comune ha “toppato” sia nel concedere il permesso di costruire a Farao, sia nel revocarlo.
Lo stesso 3 giugno scorso, giorno del dietrofront con la Signor Padel Srls, il sindaco Ferrari aveva tolto a Cavallaro la titolarità della posizione organizzativa dell’Area urbanistica per «particolari inadempienze amministrative», pur mantenendolo nell’incarico di istruttore. Un incarico fiduciario, espressamente revocabile «per risultati inadeguati», come rilevato anche dall’ex deputato Francesco Sapiain una formale interrogazione parlamentare al Ministero dell’Interno sul caso padel.
Raffaele Cavallaro
Lo stesso Cavallaro, benché privato della posizione organizzativa (e, quindi, del potere di firma), è rimasto nel medesimo ufficio con le medesime incombenze. Né risulta aperto un procedimento disciplinare a suo carico.
Una vittoria di Pirro per Farao
Quella di Giuseppe Farao potrebbe essere, però, una vittoria di Pirro. La necessità della certificazione antimafia non è infatti il frutto improvviso del “clamore mediatico”.
Su questo rilevante punto, il Tar cita un precedente del Consiglio di Stato. E rileva che «il permesso di costruire di cui si tratta non è meramente riconnesso al godimento di un terreno di cui la società ricorrente abbia disponibilità, ma – evidentemente – legato all’esercizio di un’attività imprenditoriale relativa al gioco del padel».
La sede del Tar a Catanzaro
Allora, «la fattispecie ricade nell’ambito di applicazione della normativa antimafia che, ad ampio spettro, esige che l’attività economica sia espletata con il corredo della documentazione antimafiache, ove mancante, impone la paralisi dell’attività medesima e la rimozione dei suoi effetti».
In soldoni: la revoca è stata un gran pasticcio, ma la certificazione antimafia serviva prima e serve ancora adesso. Qualora non fosse rilasciata, il Comune di Cirò Marina dovrà fare una nuova revoca.
Cirò Marina, una famiglia in Comune
A Cirò Marina nel frattempo a tenere banco è un altro argomento. Niente a che vedere con i tribunali stavolta, ma c’entra sempre il municipio. È lì dentro, infatti, che si registra il rapido avanzamento di carriera di una dipendente comunale, Maria Natalina Ferrari, sorella del sindaco.
Con decreto 1 del 28 gennaio 2022, da dipendente di categoria C è diventata responsabile dell’Area servizi alla persona con relativa posizione organizzativa per una indennità di 8.246,11 euro. L’ha nominata il vicesindaco Pietro Francesco Mercuri, benché privo di delega al personale.
Né risulta dal decreto che Mercuri avesse avuto una delega dal sindaco per questo provvedimento. Insomma, sembrerebbe un altro pasticcio amministrativo. Che, però, non finisce qui.
Pietro Mercuri con Giorgia Meloni
La supersorella di Ferrari…
Con la determinazione n. 378 del 27 giugno scorso, il responsabile dell’Area Affari generali Giuseppe Fuscaldo ha indetto una selezione per una procedura comparativa per la progressione verticale di una unità di Categoria D, posizione economica D1, riservata al personale interno di Cirò Marina per il profilo di Istruttore direttivo. Una sola candidata ha partecipato alla selezione, come si evince dall’ulteriore determina di Fuscaldo n. 683 dello scorso 20 settembre. Indovinate chi? La sorella del sindaco Ferrari, Maria Natalina, contrattualizzata nel nuovo ruolo dal primo di ottobre.
Il sindaco Ferrari e sua sorella
Il presidente della Commissione valutatrice era Nicola Middonno, segretario generale della Provincia di Crotone (guidata, ricordiamo, da Sergio Ferrari). I componenti erano Giulio Cipriotti, nominato il 3 giugno 2022 responsabile dell’Area urbanistica dal sindaco al posto di Cavallaro, e Nicodemo Tavernese, vicesegretario comunale e cognato del consigliere comunale di Cirò Marina, Giuseppe Russo (ha sposato la sorella di Tavernese), che a sua volta è zio del sindaco per via materna.
… e la nipote del vicesindaco
C’è chi fa rilevare, ancora, che tra i vincitori del concorso per agente di Polizia locale di Cirò Marina (graduatoria finale approvata con determinazione n. 848 del 14 novembre scorso) vi sia anche Morena Pizino, la nipote del vicesindaco Pietro Mercuri.
Insomma, tra pasticci e promozioni il Comune di Cirò Marina torna a far parlare di sé. In paese e non solo.
Nella prima settimana di dicembre, due eventi ci raccontano le ‘ndranghete d’Europa. Al plurale, le ‘ndranghete, perché se non si guardano tutti gli aspetti di questo fenomeno criminale (e sociale) e ci si accontenta della conclamata ‘ndrangheta unitaria – versione da processo necessaria quanto incompleta in realtà – non se ne capisce l’evoluzione. In Europa, in questi primi giorni di dicembre, c’è una storia sulla ‘ndrangheta austriaca impegnata (parrebbe) nel riciclaggio di denaro e una storia sulla ‘ndrangheta imprenditrice della cocaina coinvolta con una rete di importazione tra le più influenti degli ultimi anni. Che differenza e che rapporto c’è tra queste ‘ndranghete? E soprattutto, che ruolo hanno queste ‘ndranghete nei più ampi mercati (criminali) europei?
I clan e il made in Italy: l’ultimo caso in Austria
Andiamo con ordine. Entrambi gli eventi appaiono sui giornali il 6 dicembre. Quel martedì, di mattina, i giornali austriaci riportano un imponente raid antimafia nei dintorni di Linz, Leonding e Gallneukirchen, nell’Alta Austria. Centoventi agenti tra la polizia federale (BKA) e la polizia locale, hanno perquisito 14 locali, tra cui appartamenti, pizzerie, uffici, concessionarie d’auto. Non ci sono arresti, ma al centro dell’indagine è un ristoratore italiano, calabrese di Tropea, già noto alle forze dell’ordine, e di interesse della procura antimafia di Catanzaro che ha richiesto assistenza giudiziaria per questo caso.
Non è la prima volta, e non sarà l’ultima, che si avanza l’ipotesi d’indagine che dietro al Made in Italy ci sia un interesse dei clan di riciclare soldi all’estero. Anzi, si potrebbe dire che sembra proprio uno dei marchi di fabbrica della ‘ndrangheta – e di altre mafie – quella di utilizzare ristoranti, pizzerie, gelaterie italiane all’estero a fini di riciclaggio. Tali attività commerciali sono di poco impatto sociale e culturale – ci si aspetta che ci siano all’estero ristoranti italiani – e sono anche di poco impatto economico, con ricavi spesso nella media e/o nella norma che non destano dubbi nelle autorità locali.
Irpimedia, per esempio, aveva raccontato nel 2021 di come, in Lussemburgo, imprenditori della ristorazione originari di Siderno, nel Reggino, si fossero stanziati in una comunità locale ad alto tasso di migrazione dalla Calabria, soprattutto della zona di Mammola, sfruttando e inquinando la migrazione sana dei nostri conterranei. Anzi, ben conosciuti sono gli esempi di estorsione proprio ai danni della comunità italiana all’estero: ricordiamo il caso di operazione Stige, in cui ristoratori italiani in Germania si vedevano imporre vini dalla Calabria per “rispettare” patti estorsivi col clan giù a casa e mantenere rapporti non belligeranti.
Alla luce del sole
Quale ‘ndrangheta è questa qui? È una ‘ndrangheta principalmente “raccontata” come capace di agire ‘in segreto’ e passare inosservata, a metà tra organizzazione di tipo spionistico e organizzazione eversiva. In realtà, contrariamente alla narrazione, i soggetti che vengono legati alla ‘ndrangheta – spesso solo emissari – come il ristoratore austriaco, se ciò verrà confermato – sembrano essere particolarmente a proprio agio nell’agire alla luce del sole, abbandonando il segreto, all’interno di quelle che sono le opportunità, spesso legali, dei luoghi di destinazione per aprire locali, attività commerciali e anche sfruttare gli stereotipi che spesso accompagnano gli italiani all’estero e le comunità ospitanti: l’italiano si fida meno dell’italiano che del tedesco, il tedesco si fida di più dell’italiano che del greco, l’austriaco valorizza l’intraprendenza dell’italiano ma non si fida di nessuno (questi solo a livello esemplificativo).
È una ‘ndrangheta che manda via il denaro dall’Italia, come farebbe qualunque soggetto, mafioso o meno, che non vuole perdere i propri soldi, per raccontarsi sempre la stessa storia: me li sono guadagnati (anche se illegalmente), e ne voglio prima o poi poter disporre. Per utilizzare questi capitali, spesso, si vuole immaginarne un loro riutilizzo semi-legale, come se tale riutilizzo semi-legale potesse giustificare l’origine illegale anche moralmente. E qui poi si vede la volontà di investire in ciò che più ci è ‘familiare’, quasi stereotipato: il cibo, l’Italianità all’estero, le Porsche o le case.
Raffaele Imperiale, il narcotrafficante pentito
Ma torniamo al 6 dicembre 2022. Sempre quello stesso martedì, in serata, La Repubblica dà la notizia che Raffaele Imperiale si è pentito a Napoli. Imperiale, per anni ricercato dalle polizie di mezzo mondo e finalmente arrestato a Dubai nell’agosto del 2021, è stato un narcotrafficante di riferimento per network criminali italiani, irlandesi, olandesi e ovviamente latinoamericani. La storia di Imperiale è rocambolesca, al punto da includere il rinvenimento di due quadri di Van Gogh rubati ad Amsterdam nel 2002 nella sua casa di Castellammare di Stabia nel 2016.
I due Van Gogh trovati in casa di Imperiale
Riduttivamente, si racconta di Imperiale come un camorrista che ha fatto strada a livello internazionale nel mercato della cocaina. Sono noti i suoi rapporti col clan napoletano Amato-Pagano, consolidatisi in occasione della guerra di mafia degli Scissionisti di Secondigliano dal clan di Lauro a Scampia. In quella faida Imperiale si sarebbe non solo schierato con gli Amato-Pagano, ma a detta dei pentiti ne sarebbe diventato un affiliato a tutti gli effetti. Ma la storia di Imperiale non è una storia (solo) di camorra.
Il super cartello della cocaina
È una storia di un network internazionale che secondo la DEA (Drug Enforcement Administration) statunitense avrebbe per anni rifornito di cocaina mezza Europa grazie a varie ‘teste’ tra cui, oltre a Imperiale, figurano Ridouan Taghi – membro di spicco della criminalità di origine marocchina in Olanda (la cosiddetta Moccro-Mafia, anche se di mafia non ha proprio nulla…) arrestato nel 2019, e Daniel Kinahan, irlandese e capo del clan che reca il suo nome, su cui il Dipartimento di Stato degli USA ha stanziato una ricompensa per informazioni che portino alla sua cattura di addirittura 5 milioni di dollari.
Il “super cartello” della cocaina, come lo chiama(va) la DEA e in seguito Europol, non era però uno e trino. Nonostante i tre nomi di spicco, moltissimi gli attori – clienti e partner – che alimentavano sia la reputazione sia la capacità di questi network intrecciati di intensificare i traffici dello stupefacente più lucrativo al mondo. Tra questi, anche uomini di ‘ndrangheta.
I rapporti con la ‘ndrangheta
Grazie a un intenso coordinamento di polizia da parte di Europol sulla decriptazione di chat sulle piattaforme Encrochat e SkyECC, si sono potuti tracciare i collegamenti tra i vari ‘nodi’ dei network criminali in questione. Imperiale aveva rapporti intensi con i Morabito-Palamara-Bruzzaniti, ‘ndrina egemone nel locale di Africo (RC) e con il clan Mammoliti, di San Luca. Giuseppe Mammoliti acquistava cocaina da Imperiale e il suo gruppo la trasportava e distribuiva nel sud e centro Italia, spesso con carichi in arrivo in Belgio o Olanda o a Milano attraverso altri corrieri di Imperiale anche connessi con il clan nella sua propaggine lombarda.
Bartolo Bruzzaniti, detto Sonny, nato a Locri ma iscritto all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) in Costa d’Avorio e domiciliato a Invorio (Novara), si metteva a disposizione di Imperiale per il recupero della cocaina importata via mare dal Sud America e in arrivo in vari porti europei tra cui Gioia Tauro, grazie all’aiuto di Jolly, un funzionario doganale, e di una squadra ben rodata nel porto della Piana.
Il porto di Gioia Tauro
Quale ‘ndrangheta è questa qui? È una ‘ndrangheta opportunista, disinvolta, che utilizza il proprio nome (cognome) quando serve, se serve, ma con poca attenzione all’onore, o al potere di sovranità mafiosa più largamente intesa.
È interessante uno scambio in chat tra Bruzzaniti e un suo interlocutore a Gioia Tauro, in cui Sonny spiega di dover mantenere un basso profilo in Calabria «Se sapevano i miei quantitativi mi impazzivano compà… Sanno che lavoro ma non sanno niente… Compare se i miei parenti sapeva che numeri faccio al mese mi dovevo dare latitante ahahahaha compà».
I compari non devono sapere
È chiaro che entrare in contatto con Imperiale e il suo network è stata una svolta per Bruzzaniti: il contatto con Imperiale ha reso possibile – a lui e non necessariamente a tutto il suo gruppo di ‘ndrangheta – importare e rivendere ulteriori quantità di stupefacente, più di altri conterranei. C’è invidia da parte di altre organizzazioni criminali mafiose sul territorio, conferma l’interlocutore di Sonny: «Si compare qua da noi nn posso parlare con nessuno se sentono questi numeri a 24 ore siamo bruciati…Che qua se la contano per invidia… Altro che Sud America… Sanno che invece di 3 scaricatori ne ho mandato 6 per trasportare le borse… Chi ai (sic)dovere lo sa quanto e il lavoro… abbiamo fatto una bella selezione».
Questa ‘ndrangheta ha evidentemente il know-how per partecipare ai grandi traffici, che però sono gestiti da Imperiale e dai suoi contatti in Europa. È Imperiale che comunica coi fornitori e comunica l’arrivo dello stupefacente. È Imperiale ad avere il controllo e la supervisione; Bruzzaniti coordina e rivende. L’uno non potrebbe funzionare senza l’altro, ma il livello a cui opera Imperiale è di gran lunga più ad ampio raggio di quello di Bruzzaniti.
Paese che vai, ‘ndrangheta che trovi
Questa ‘ndrangheta che si occupa di traffici di cocaina in giro per l’Europa è una ‘ndrangheta che guarda in faccia solo se stessa, vive in un eterno presente, cerca di evitare i conflitti sul territorio, perché col territorio non vuole necessariamente condividere tutto di sé. Vuole sedere al tavolo, meglio se internazionale, con chi, come Raffaele Imperiale, può attivare circuiti, aprire porte e garantire guadagni grazie a una fitta rete di contatti transfrontalieri. Il traffico di cocaina in Europa è concorrenziale e caratterizzato da una concentrazione di mercato: pochi attori emergono come nodi del network, e tutti gli altri cercano di legarsi a tali nodi. Bisogna essere capaci di stare al gioco, escludere i concorrenti (anche di famiglia) e soprattutto essere pronti ai cambiamenti repentini.
Questa ‘ndrangheta della cocaina con Imperiale, e quella dei ristoranti in Austria per noi, Italiani, con cultura (giuridica) antimafiosa, è sempre la stessa ‘ndrangheta, calabrese, e collegata – quando serve – per ragioni di gestione di potere ‘reale’ sul territorio, e di potere politico, per la resilienza dell’organizzazione e del brand. Ma a livello criminale e in Europa si tratta di ‘ndrangheta diverse, che sebbene intenzionate a più livelli a fare e mantenere profitti illeciti, danno vita a fenomeni criminali diversi, spesso scollegati e soprattutto dipendenti più dal luogo di ‘destinazione’ e dagli attori con cui ci si interfaccia, che dalla reputazione criminale di casa propria.
Uno dei casati storici della ‘ndrangheta reggina. Di quelli capaci di sedersi al tavolo con l’élite della criminalità organizzata calabrese, per dirimere controversie, per determinare strategie della ‘ndrangheta unitaria. La cosca Bellocco di Rosarno non ha mai perso, però, la propria vena imprenditoriale, con la capacità di colonizzare territori diversi, allacciando alleanze con altre consorterie criminali. Alternando, inoltre, il volto “pulito” degli affari, con quello più violento dell’intimidazione tipicamente mafiosa. Una cosca capace di rigenerarsi, anche grazie alle nuove leve, succedute ai boss più anziani.
Gli affari della cosca Bellocco
Un quadro che emerge in tutta la sua completezza con gli arresti che hanno sconquassato non solo il territorio calabrese, ma anche quello lombardo e laziale. Un’operazione congiunta, tra la Dda di Reggio Calabria, che ha curato la sponda dell’inchiesta denominata “Blu notte” e quella di Brescia, la cui indagine è denominata “Ritorno”. Complessivamente 65 soggetti arrestati – 47 in carcere, 16 agli arresti domiciliari e 2 sottoposti all’obbligo di dimora – ritenuti responsabili – in particolare – di associazione di tipo mafioso, concorso esterno in associazione mafiosa, porto e detenzione di armi comuni e da guerra, estorsioni, usura e danneggiamenti aggravati dalle finalità mafiose, riciclaggio e autoriciclaggio, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti.
Un settore di importanza strategica è risultato essere quello della spartizione dei proventi relativi allo sfruttamento delle risorse boschive. Stando a quanto sostenuto dagli inquirenti, i contratti per lo sfruttamento delle risorse montane venivano stabiliti proprio dal vertice della cosca Bellocco: «I contratti delle montagne o si fanno in questa casa o se li fanno a Laureana, siccome io sono delegato pure da quell’altri si fanno in questa casa». A pronunciare queste parole nel novembre 2019 è Francesco Benito Palaia, 49 anni, considerato uno degli uomini di fiducia di suo cognato, il boss Umberto Bellocco detto “Chiacchiera”, 39enne e nuovo capo del clan.
La successione
Gli accertamenti, infatti, avrebbero delineato i nuovi equilibri della cosca Bellocco e le proiezioni di questa cosca di ‘ndrangheta nel Nord Italia. Come le cosche più importanti, infatti, negli anni anche la famiglia Bellocco ha subito l’offensiva dello Stato. Ma ha saputo rimanere in piedi, retta sulle spalle dell’anziano patriarca Umberto Bellocco, classe 1937, deceduto alcuni mesi fa. Uomo dal carisma criminale indiscusso, cui viene persino ricondotta la nascita della Sacra Corona Unita pugliese – fatta risalire alla notte di Natale del 1981 all’interno del carcere di Bari.
Umberto Bellocco, patriarca dell’omonima cosca, morto di recente
Alla morte del boss, allora, la diretta prosecuzione del comando sarebbe finita al nipote omonimo, classe 1983. Un’ascesa naturale non frenata nemmeno dalla detenzione in carcere. Come documentato dagli accertamenti svolti dai carabinieri, Bellocco poteva godere, dietro le sbarre, di telefoni cellulari, grazie al supporto di altri detenuti e dei familiari di questi, per lo più semiliberi e/o ammessi ai colloqui.
Ancora una volta, da una maxi-inchiesta contro la ‘ndrangheta, emerge il ruolo crescente rivestito dalle donne. In questo caso, spicca la figura di Maria Serafina Nocera, 69enne madre del nuovo boss Umberto Bellocco. Sarebbe stata lei a tenere la chiave della “cassa comune” cui il clan attingeva. Un “tesoretto” che serviva per il sostentamento dei detenuti e per l’attuazione del programma criminale del figlio.
I brindisi per le nuove cariche
Il giovane Umberto Bellocco ha ereditato il potere da suo nonno
Anche dal carcere, Bellocco avrebbe potuto supervisionare le nuove cariche, deciso i nuovi assetti, arginato le frizioni. L’inchiesta coordinata dal pm antimafia Francesco Ponzetta ha documentato anche il brindisi con il quale un anziano della consorteria, davanti ai nuovi adepti ed agli alti ranghi della cosca, ha voluto esaltare quel momento di vita associativa pronunciando la frase: «È cadda… è fridda… e cala comu nenti, a saluti nostra e di novi componenti».
Moltissimi sono i summit di mafia che l’inchiesta sarebbe riuscita a ricostruire. Alcuni necessari all’attuazione del programma criminale della cosca, che generalmente avvenivano all’interno dell’abitazione della sorella di Umberto Bellocco, e quelli, ben più complessi, organizzati nelle aziende agrumicole di Rosarno, dove si regolavano le controversie con gli altri esponenti della ‘ndrangheta.
Ai summit era solito prendere parte, in diretta, anche il boss detenuto dal carcere, che con la propria presenza, “partecipata” a distanza, era naturalmente portato ad irretire le iniziative dei convenuti.
«Rosarno è nostro e deve essere per sempre nostro… sennò non è di nessuno»
Come detto, la famiglia Bellocco, da sempre, appartiene al gotha della ‘ndrangheta, dividendosi il controllo su Rosarno e San Ferdinando con l’altra potentissima cosca dei Pesce ed estendendo la propria influenza anche sul porto di Gioia Tauro, dove, comunque, un ruolo primario lo hanno da sempre i clan gioiesi Piromalli e Molè.
Diverse, negli anni, le inchieste che hanno colpito la cosca. A cominciare da quella “Tallone d’Achille”, con la coraggiosa denuncia dell’imprenditore Gaetano Saffioti, passando poi per le inchieste “Nasca” e “Timpano”. E, ancora, l’inchiesta “Pettirosso” curata dall’allora pm antimafia Roberto Di Palma, che ha permesso di ricostruire tutto il circuito criminale che ha favorito per anni la latitanza di Gregorio e Giuseppe Bellocco, esponenti di vertice della cosca rosarnese considerati fra i trenta ricercati più pericolosi d’Italia. In un’indagine di qualche tempo fa, proprio l’anziano patriarca Umberto Bellocco dirà: «Rosarno è nostro e deve essere per sempre nostro… sennò non è di nessuno».
I Bellocco al Nord
Già le inchieste degli scorsi anni “Vento del Nord”, “Blue call” e “Sant’Anna” avevano certificato la presenza e lo strapotere del clan su territori lontani dalla nativa Rosarno. L’Emilia Romagna, in particolare, era diventata una terra di conquista florida, dove poter far proliferare gli affari.
La sponda bresciana dell’inchiesta avrebbe invece confermato la presenza attiva dei Bellocco in Lombardia. Non solo nella provincia di Brescia, ma anche in quella di Bergamo. Anche su quei territori, senza mai perdere il contatto con la casa madre calabrese, i Bellocco avrebbero infiltrato la fiorente economia legale di quei luoghi.
Nell’operazione sono stati individuati «i terminali calabresi (stanziali a Rosarno) della struttura criminale lombarda i quali concorrevano nella gestione delle molteplici attività economiche di interesse del sodalizio realizzate prevalentemente tramite un imprenditore» attivo tra Brescia e Bergamo nei settori edile e immobiliare.
Il traffico internazionale di stupefacenti
Da tempo, peraltro, gli inquirenti, hanno messo nel mirino il ruolo crescente del clan nel traffico internazionale di stupefacenti. Il 18 giugno 2019 si conclude l’operazione “Balboa” della Guardia di Finanza di Reggio Calabria che arresta cinque persone. Lavoravano per conto della cosca Bellocco per l’importazione dal Sud America di eroina da far arrivare nel porto di Gioia Tauro. Pochi mesi dopo, a novembre, sono invece ben 45 gli arresti nell’ambito dell’inchiesta “Magma”, anche in questo caso con l’accusa di narcotraffico internazionale.
Quelle indagini già cristallizzavano l’importanza criminale della cosca in provincia di Roma. Ma sono gli arresti delle ultime ore a sancire ulteriormente i rapporti illeciti con quei territori. Uno dei dati di maggior interesse investigativo emerge con l’alleanza tra la cosca di Rosarno e il potente clan degli Spada, egemone a Ostia e sul litorale romano. Gli Spada sono emersi negli anni come clan violento e capace di esercitare un controllo oppressivo sulle attività economiche del Lazio, anche in combutta con l’altra nota famiglia Casamonica. Negli scorsi mesi, peraltro, la famiglia Spada è stata riconosciuta da alcune sentenze come organizzazione mafiosa.
Anzio vista dall’alto
Un’alleanza, soprattutto per quanto concerne il traffico di cocaina, che sarebbe nata proprio dietro le sbarre. In particolare, l’accordo stretto tra gli esponenti dei due clan, oltre a scandire le gerarchie criminali all’interno del penitenziario, ha riguardato i traffici di cocaina effettuati dalla Calabria verso il litorale romano e la risoluzione di situazioni conflittuali tra gli Spada e alcuni calabresi titolari di attività commerciali nelle aree urbane di Ostia ed Anzio.
Gioacchino Bonarrigo ad Amsterdam
«La verità fra’, la verità! Oggi io sono stato invitato ad un tavolo, eravamo diciassette persone, tutti… la ‘Ndrangheta!», dice in un’intercettazione uno degli indagati. Le cimici dei carabinieri hanno anche captato il tentativo di vendita di una consistente partita di cocaina da parte del clan Bellocco in favore di narcotrafficanti di Ostia esponenti degli Spada.
Per conto dei calabresi, a condurre le trattative con il clan romano sarebbe stato Gioacchino Bonarrigo, di 38 anni, che risulta tra le persone coinvolte nel blitz. Soggetto storicamente inserito non solo nella ‘ndrangheta, ma anche nel narcotraffico. Arrestato nel 2017 da latitante ad Amsterdam. Bonarrigo si sarebbe recato più volte a Ostia per incontrare esponenti degli Spada che voleva rifornire con la droga importata dall’estero.
La legge è uguale per tutti. Per alcuni è più uguale che per gli altri. È il paradosso che vive la città di Reggio Calabria. In trappola. Sospesa, proprio come la maggior parte dei suoi principali esponenti politici. In un momento cruciale, in cui servirebbero guide stabili, ma, soprattutto, una visione anche per la gestione dei fondi del PNRR.
E, invece, l’amministrazione comunale galleggia, naviga a vista. E si rende protagonista di scelte quantomeno discutibili, costituendosi parte civile in alcuni processi contro gli amministratori e non in altri.
I presunti brogli elettorali
È accaduto appena pochi giorni fa anche nell’udienza preliminare che vede imputato il consigliere comunale e capogruppo del Partito Democratico a Palazzo San Giorgio, Antonino Castorina, accusato dalla Procura di presunti brogli elettorali nel corso delle elezioni del settembre 2020. In quell’occasione, nel raggiro che avrebbe architettato Castorina, risulterebbe anche il voto di un centinaio di anziani che in realtà non si erano mai recati al seggio. Persino persone decedute, secondo l’impostazione accusatoria sostenuta dai pm coordinati dal procuratore Giovanni Bombardieri.
Antonino Castorina
Uomo forte del Pd, Castorina, con rapporti intensi anche con il partito romano. È considerato «promotore, organizzatore e capo indiscusso» di un’associazione per delinquere finalizzata a «commettere più delitti in materia elettorale» finalizzati ad ottenere l’elezione in consiglio dello stesso Castorina. Tra gli imputati c’è pure l’ex presidente del Consiglio comunale Demetrio Delfino (oggi assessore comunale), accusato, assieme al segretario dell’ufficio elettorale Antonio Covani, di abuso d’ufficio in relazione all’autonomina di Castorina a componente della commissione elettorale.
Il caso Miramare
La costituzione come parte civile di Palazzo San Giorgio contro chi avrebbe truccato le consultazioni appare il minimo sindacale. Allo stesso tempo rappresenta un paradosso politico e amministrativo il fatto che l’Ente non si sia costituito parte civile (come avrebbe dovuto fare altrettanto doverosamente) anche contro il suo sindaco, Giuseppe Falcomatà, anch’egli del Partito Democratico, condannato appena poche settimane fa anche in appello nell’ambito del cosiddetto “Caso Miramare”.
Anche i giudici di secondo grado, infatti, hanno riconosciuto la colpevolezza di Falcomatà e della sua ex Giunta per l’affidamento di una parte dell’ex albergo Miramare, immobile di pregio della città, alla semisconosciuta associazione Il sottoscala, dell’amico imprenditore Paolo Zagarella.
Giuseppe Falcomatà
In quel processo, scatenando le ire delle opposizioni, Palazzo San Giorgio non è stato così solerte come avvenuto nel processo contro Castorina. E oggi quella scelta stride ancora di più dopo la condanna in appello che ha fatto ripartire la sospensione nei confronti di Falcomatà, lasciando, nuovamente, in sella il facente funzioni Paolo Brunetti, nominato vicesindaco in fretta e furia poche ore prima della condanna di primo grado.
Nei giorni successivi, la macchina propagandistica di Falcomatà ha lanciato la crociata contro laLegge Severino, un tempo sostenuta dal Pd. Dall’Ufficio Stampa della Città Metropolitana sono partite diverse mail con l’adesione di svariati sindaci dell’hinterland reggino, che chiedono l’abrogazione della legge che impone la sospensione in caso di condanne, anche non definitive. Qualcuno si è poi anche smarcato da tale manovra.
Reggio in ostaggio, la protesta
Per il medesimo caso, è stata invece assolta in appello l’ex assessore Angela Marcianò, unica a scegliere il rito abbreviato e grande accusatrice di Falcomatà.
In città, quindi, è caos politico, con un’amministrazione che pare alla deriva, senza una rotta chiara su quasi alcun aspetto. Dalle opere, fino agli eventi e alle luminarie di Natale.
Reggio in ostaggio, un momento della protesta a corso Garibaldi
Il malcontento cresce e appena pochi giorni fa corso Garibaldi, strada principale della città, è stato teatro di un corteo che ha avuto una riuscita che forse neanche gli stessi organizzatori si aspettavano. Ad animare la protesta, che chiedeva le dimissioni in blocco della maggioranza, il centrodestra. Ma per le strade del centro si sono ritrovati in circa 500, molti dei quali senza una tessera di partito. Segno evidente di uno scollamento che gli ultimi eventi hanno sancito tra la cittadinanza e la sua classe dirigente.
La corsa alla poltrona
Il vuoto politico è percepito dai cittadini. Ma è percepito anche da chi vuole tentare di formarsi o riformarsi un ruolo amministrativo. E così, negli ultimi giorni, fioccano le (auto)candidature, tra uomini nuovi (o presunti tali) ed esponenti che le istituzioni le hanno già animate. Con risultati altalenanti.
Tra questi, l’imprenditore Pino Falduto, assai noto in città e già componente della maggioranza che sosteneva Italo Falcomatà negli anni ’90. Si propone ora (con un non meglio identificato dream team) come panacea dei mali di Reggio, per la sua resurrezione.
A volte ritornano: Eduardo Lamberti Castronuovo
Il suo annuncio segue di pochissimi giorni l’auto-candidatura del medico ed editore Eduardo Lamberti Castronuovo, già candidato nel 2007 e sconfitto malamente da Peppe Scopelliti. Nella sua carriera politica ha svolto anche il ruolo di assessore provinciale. E il suo nome compare (pur senza mai essere stato indagato) nelle conversazioni di Paolo Romeo, considerato un’eminenza grigia della masso-‘ndrangheta, che lo indicava (millantando o no, non è dato sapere) come suo uomo.
Insomma, la girandola è iniziata. E Reggio Calabria guarda tutto ciò proprio come un ostaggio guarda quella piccola luce che filtra da dietro la porta della propria cella. Senza capire di cosa si tratti realmente.
Giustizia lumaca, pirata della strada, incidente e lesioni gravissime (e in parte permanenti), sofferenza, sacrifici, coraggio, perseveranza. Poi il lieto fine, seppur in enorme ritardo. Un giovane calabrese ha impiegato oltre vent’anni per avere il risarcimento che gli spettava. Ora, finalmente, la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro che ha chiuso la fase di merito del contenzioso civile: oltre 500mila euro il risarcimento per lui e oltre 80mila quello per sua madre. Tutti per un terribile incidente stradale di cui era rimasto vittima per colpa di un pirata della strada nel lontano 2002.
Un caso da record perfino per l’Italia
A volte la giustizia è veramente lenta, specialmente quella civile. Secondo i dati Cepej del Consiglio d’Europa, nel 2019, quella italiana è stata la più lenta di tutti gli altri Paesi membri. L’andamento migliora, ma resta sempre ancora, mediamente, al di fuori della “legge Pinto”, sulla eccessiva lungaggine dei processi in Italia e per cui si può chiedere un risarcimento allo Stato. Quando si parla di processi civili, infatti, i dati riportano una durata media complessiva dell’intero giudizio pari a 2.655 giorni (più o meno sette anni e tre mesi). Non a caso la riforma della Giustizia in Italia è quasi sempre al centro del dibattito politico. Ma il caso di questo ragazzo di San Gregorio d’Ippona, nel Vibonese, batte tutti i record purtroppo.
Il pirata della strada scappa via
Il giovane nel 2002 si trovava a bordo del suo scooter, era spensierato come solo a 20 anni si può essere, e stava per rientrare a casa in una calda sera d’agosto. All’improvviso lo colpiva un’autovettura non identificata che stava procedendo, in fase di sorpasso, nello stesso senso di marcia a velocità sostenuta. Come emerge dalla sentenza pubblicata dalla Corte d’Appello di Catanzaro il 30 novembre scorso, il suddetto veicolo nell’impegnare una curva a sinistra ha slittato. travolgendo lo scooter.
Il violento impatto ha sbalzato dalla sella il giovane. facendolo cadere addirittura in un dirupo sottostante in località Carreri, sulla SS 182. Dopo i primi soccorsi da parte di alcuni automobilisti e di un pastore del luogo, il ragazzo è stato trasportato in auto al Pronto soccorso dell’ospedale di Vibo Valentia. Poi lo hanno trasferito d’urgenza nel reparto di neurologia dell’ospedale Annunziata di Cosenza. Lì i medici gli hanno diagnosticato una «tetraplegia c3 e c4 ed insufficienza respiratoria da trauma midollare».
Odissea tra ospedale e tribunali
Per tali lesioni il ragazzo è rimasto in ospedale 560 giorni di fila. Della macchina che lo aveva travolto, però, nessuna traccia. Chi guidava quell’auto è scappato via senza prestargli soccorso ed è tuttora ignoto. E qui all’odissea ospedaliera del ragazzo e sua madre si è aggiunta un’altra infinita battaglia contro la Giustizia, terminata solo nei giorni scorsi dopo oltre 20 anni.
Il tribunale di Vibo in primo grado rigetta il ricorso contro il Fondo per le vittime della strada, a cui aveva richiesto il risarcimento per i danni subiti non conoscendo il nome di chi lo aveva investito stravolgendogli la vita. Era il 2019, la causa era iniziata nel 2012. Oltre al danno, la beffa. Ma il ragazzo, la madre e l’avvocato Francesco Damiano Muzzopappa non si sono arresi. E hanno proposto appello avverso quella sentenza, ritenendola assurda. Finalmente lo spiraglio di luce, per quanto tardivo, è arrivato nei giorni scorsi. Lapidari i giudici di secondo grado, Ferriero, Raschellà e Scalera. Si legge infatti in sentenza: «Il Tribunale di primo grado muove da premesse erronee e perviene a conclusioni altrettanto erronee».
Il pirata della strada è sparito? Paga il Fondo
Altri tre anni di udienze, perizie mediche e tecniche, testimonianze. Infine, le parole tanto attese: «La Corte d’Appello condanna l’assicurazione del Fondo di garanzia per le vittime della strada a pagare al ragazzo la somma totale di 530mila euro a titolo di danno biologico permanente e di 27mila euro a titolo di invalidità temporanea oltre interessi legali; condanna l’assicurazione al pagamento nei confronti della madre del ragazzo a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale della somma di 81mila euro oltre interessi». I giudici di secondo grado hanno anche condannato l’assicurazione al doppio delle spese legali e di giudizio, per circa 50mila euro.
Meglio tardi che mai, ma è una magra consolazione.
La criminalizzazione degli sbarchi e della solidarietà ha un effetto collaterale molto pericoloso: offre una opportunità di lucro a gruppi oltremare che sulla disperazione dei rifugiati ci ha messo su un intero business. Pagano tra i 6.000 e i 12.000 dollari americani, più o meno la stessa cifra in euro, per imbarcarsi dalla Turchia verso l’Italia. Sono cittadini iracheni, iraniani, afghani, siriani. Il problema non è soltanto trovare i soldi, tanti, per imbarcarsi, ma affidarsi al mare su velieri, natanti, imbarcazioni più o meno solide non importa, guidate da chi si compra la loro afflizione a caro prezzo.
Ne arrivano 40 un giorno, 115 un altro, 650 un altro, ogni settimana, ogni mese. Senza tregua, sulle coste della Calabria, a Crotone come a Roccella Ionica. In aumento nel 2022 (non solo in Calabria, ma anche in Puglia, in Sicilia, e nel resto d’Europa), decine di migliaia di derelitti pagano cifre da capogiro per viaggi della speranza che non hanno forse più.
Palazzo del Viminale, sede del Ministero dell’Interno
I porti di accoglienza sono tutti uguali visti dal mare, ma alcuni sono più uguali degli altri: sono più vicini, più adatti allo sbarco. Spetta al Ministero dell’Interno accordare lo sbarco, su richiesta dell’imbarcazione e in base ai trattati internazionali sull’individuazione del porto sicuro scelto anche in base alle esigenze operative dell’accoglienza. Dovunque avvenga lo sbarco, avviene comunque indisturbato da altre ingerenze criminali. Nonostante le cifre, nonostante la stabilità del mercato, nonostante si arrivi in terra di mafia, non sembra esserci spazio per nessun altro, in quelle che sono reti transnazionali di sfruttamento dell’immigrazione clandestina.
Migranti in casa della ‘ndrangheta
Sembra difficile da credere che in certe zone della Calabria, dove ci sono clan di ‘ndrangheta molto attivi, si muova un mercato illegale così lucrativo in cui di ‘ndrangheta non c’è ombra. Eppure «allo stato non sono emersi legami tra trafficanti di esseri umani e esponenti di criminalità organizzata di tipo mafioso; questo è quanto emerge dalle indagini arrivate a dibattimento finora», osserva la dottoressa Sara Amerio. Sostituto procuratore della Repubblica presso la Procura Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, Amerio si occupa, tra l’altro, di indagini in materia di traffico di migranti e di tratta di esseri umani.
Mediterraneo: la rotta orientale e quella centrale
In certi quartieri di Istanbul, lo si sa se si chiede nel giro, è possibile prendere contatti con un’organizzazione criminale che può portare chi paga in Europa, principalmente in Grecia e in Italia, ma a seconda del network, anche via Albania Ci si trova a Istanbul come luogo di partenza, ma il viaggio inizia molto prima, i mediatori sono in Iran, Iraq, e dove altro serve. Questi individui sono iraniani e curdi, ma anche russofoni, provenienti da Russia, Ucraina, Turkmenistan, Uzbekistan. Network a volte diversi da quelli della gente che poi partirà, ma facilmente riconoscibili nel loro presentarsi come società di servizi.
Una barca a vela carica di migranti intercettata dalla Guardia di Finanza al largo delle coste calabresi
Si curano della logistica, dei bed and breakfast per aspettare il giorno della partenza, si prendono passaporti e cellulari dei ‘clienti’ per evitare problemi. I mezzi di navigazione sulla rotta mediterranea orientale sono solitamente in buone condizioni, a motore o a vela, per la cui conduzione sono indispensabili delle competenze. Gli scafisti sono addestrati e sono parte dell’organizzazione criminale. Si viaggia spesso sottocoperta e di solito bisogna portarsi del cibo a parte.
Diversa invece è la rotta mediterranea centrale, dalla Tunisia per esempio, che trasporta dall’Africa al sud Italia/Europa. Costa meno, a volte 3000-5000 euro, ma si rischia di non arrivare mai: la navigazione è molto precaria, i natanti non sono pensati per quelle acque. Ma in fondo i trafficanti, nella loro accertata disumanità, non assicurano l’arrivo da vivi: «Se ci sono problemi buttateli in mare», dicevano i presunti trafficanti nelle intercettazioni dell’indagine siciliana Mare Aperto.
Via dalla Calabria
Reti transnazionali, fitte ed articolate, nell’ambito delle quali ciascun componente è deputato a compiti specifici: reclutamento dei migranti da trasferire; organizzazione del loro viaggio in Turchia; reperimento delle imbarcazioni e dei conducenti; addestramento di quest’ultimi; gestione delle finanze del viaggio; acquisto delle imbarcazioni; pagamento degli scafisti e così via. Una volta arrivati a Roccella Jonica o a Crotone o direttamente sulle spiagge di Brancaleone o di Isola Capo Rizzuto – dove molto spesso non intervengono nemmeno le ONG di soccorso – chi sbarca viene intercettato dalle autorità, schedato e spedito via; pochi rimangono in Calabria, pochi vogliono rimanerci, molti vanno verso il nord, Italia ed Europa.
Ombre che dal mare si frangono sulle spiagge per poi tornare ad essere ombre sul territorio. Il porto di sbarco non può essere deciso a priori; quindi, fare pronostici su dove si arriverà non è possibile. All’arrivo – in Calabria, come altrove – il network criminale ha spesso concluso il suo operato. Anche quando ci sono soggetti legati alla rete criminale sul territorio italiano, di solito delle stesse nazionalità dei trafficanti, costoro sono di passaggio o di supporto alla logistica futura.
Traffico di migranti: non c’è spazio per la ‘ndrangheta
Ecco, quindi, perché non c’è spazio per la ‘ndrangheta. Non appena tocca il territorio, il mercato del traffico di migranti chiude le porte. All’arrivo può poi attivarsi un altro tipo di mercato: alcune organizzazioni di trafficanti continueranno ad offrire – tramite cellule italiane – ulteriori servizi fintanto che i migranti possano raggiungere i luoghi di destinazione. Ma i soldi – tanti – rimangono all’estero, la logistica è gestita dall’estero; i contatti tra cellule straniere ed eventuali cellule italiane dell’organizzazione è pure gestita dall’estero; e i traffici via mare, si sa, non si controllano soprattutto quando la destinazione è incerta.
Non c’è spazio per i clan mafiosi del territorio perché questo mercato non riguarda il territorio. Non c’è spazio per le ‘ndrine nemmeno qualora volessero offrire servizi, perché non ci sono servizi da offrire avendo questi network criminali il controllo dei vari nodi a monte. E non c’è spazio nemmeno per la protezione mafiosa, quella tassa di signoria territoriale che a volte qualche clan può imporre agli stranieri che vogliono attivarsi sulla propria zona, dal momento che il luogo di sbarco non solo è imprevedibile (rimane appunto una decisione ministeriale su richiesta dell’imbarcazione), ma anche qualora fosse prevedibile, non offre margini di manovra estorsiva (non esiste cioè alcuna “protezione” possibile una volta avvenuto lo sbarco).
Affari paralleli
Indagini tra i distretti di Reggio e Catanzaro hanno confermato alcuni interessi mafiosi sulle cooperative impiegate nel soccorso in mare, e sulle strutture di ricezione così come anche sotto forma di caporalato di quei migranti soccorsi che rimangono sul territorio. Li, il giro di denaro e l’ingerenza sul territorio attirano i clan su mercati illeciti non direttamente legati allo sbarco e ai traffici di migranti, ma a essi collegati.
La bottega dell’acqua calda nella nuova tendopoli di San Ferdinando
Ma prendiamo ad esempio operazione Ikaros, a Crotone, nel 2021 diretta dal sostituto procuratore Alessandro Rho. Anche in questo caso, che non riguarda gli sbarchi ma riguarda una manipolazione del sistema di ricezione dei richiedenti asilo, nonostante il lucro sull’immigrazione clandestina partisse da residenti nel crotonese (italiani e stranieri), la ‘ndrangheta non si trova. Anzi, il network in questione prescinde totalmente dal territorio e appare completamente smaterializzato. Si legge nell’ordinanza di custodia cautelare: «ciascuno dei sodali secondo le proprie competenze conferisce la propria opera» per partecipare a «un gruppo che per quanto operante in un ambito più vasto nel quale assume di riconoscersi« eventualmente ha una forma «a rete», senza capi e senza gerarchie.
Il mercato dell’asilo politico
Avvocati, pubblici ufficiali, mediatori culturali, così come di due appartenenti alla Polizia e in servizio nella Questura di Crotone (uno dei due poi assolto perché estraneo al sistema, anche se pareva conoscerlo), facevano parte di due sodalizi criminali che procuravano documenti falsi attestanti residenze fittizie e false assunzioni di soggetti per lo più di nazionalità curdo irachena. I “clienti” dall’Iraq (identificati grazie a mediatori) pagavano oltre mille euro (in media) per tale documentazione al fine di attivare una procedura di richiesta di asilo politico a Crotone e a Catanzaro. Una volta convocati dalle questure, costoro arrivavano in Italia con visto turistico e areo di linea per l’udienza, per poi ottenere il nuovo status di residenza.
Richiedenti asilo politico manifestano in strada
Era facile “fingersi” rifugiati appena sbarcati, pernottare qualche giorno a Crotone, vista la presenza sul territorio di strutture come il CARA Sant’Anna che quotidianamente ospita centinaia di richiedenti asilo. Ma la scelta di Crotone è legata a ragioni che hanno a che fare più con le note carenze delle istituzioni locali che con la capacità criminale dei soggetti coinvolti. In Ikaros, l’assenza di controlli da una parte, e la presenza di una struttura fluida e reticolare dall’altra che prescindeva da qualsiasi ‘touch down’ sul territorio, ha fatto si che l’attività illegale non richiedesse quella protezione territoriale solitamente necessaria ai sodalizi criminali, e che di solito è offerta dalle mafie.
Soldi all’estero e contatti da evitare: è il mercato, bellezza
Anche qui poi, i soldi stanno all’estero, meglio che stiano all’estero. Si legge nell’ordinanza l’appello di uno dei sodali “in Italia Western Union no!”. Inoltre, da non dimenticare la generale riluttanza dei gruppi mafiosi nostrani a ‘collaborare’ seppur per fini illeciti con le forze dell’ordine e la comprensibile riluttanza di “professionisti della legalità” e colletti bianchi a entrare in combutta con gruppi mafiosi che normalmente portano con sé un rischio maggiore di essere indagati dalle procure antimafia (oltre che dalle procure ordinarie). In questo caso, comunque, più che nei traffici per mare, viene da chiedersi se l’assenza della ‘ndrangheta sia voluta, consapevole, o banalmente il risultato del funzionamento del mercato che, ancora una volta, è sospeso – e non ancorato – sul territorio.
Troppi riflettori sui migranti per la ‘ndrangheta
Il traffico di migranti e in generale i mercati illeciti a esso collegati, sfruttano il territorio ma quasi mai lo ‘scelgono’; così anche la ‘ndrangheta potrebbe avere varie ragioni per non ‘scegliere’ questo mercato o quantomeno per accettare pacificamente di esserne esclusa. L’immigrazione clandestina e la manipolazione del sistema di ricezione sono temi molto politicizzati. Ad ogni crisi attirano politici, giornalisti, magistrati e osservatori da mezzo mondo sulle coste e nei porti del Sud. Temi così caldi rischiano di esporre i mafiosi a ulteriore scrutinio, soprattutto in Calabria, dove già l’attenzione alla ‘ndrangheta è molto alta.
Una parte dei 300 migranti sbarcati nei mesi scorsi a Roccella in attesa sulla banchina del porto
Lungi dall’essere una questione di onorabilità (rimane moralmente difficile giustificare le barbarie di questi traffici e mercati in nome di lucro), come qualcuno potrebbe pensare, il traffico di migranti, anche quando si proietta in Calabria, rimane centrato altrove, faccenda di altri, per altri gruppi criminali. E che tutto questo ci ricordi una lezione fondamentale. Nemmeno la ‘ndrangheta, la mafia più ricca e potente d’Italia (e non solo) sa, può o vuole entrare in alcuni mercati non di sua competenza; nemmeno la ‘ndrangheta può controllare tutti i mercati illeciti sul proprio territorio.
«La vita carceraria fa vedere le persone e le cose come sono in realtà. Per questo ci si trasforma in pietra», scriveva Oscar Wilde. Vale per i detenuti, certamente. Ma vale anche per chi, a vario titolo, svolge un ruolo nell’amministrazione penitenziaria. E ciò che, negli ultimi mesi, è emerso e sta emergendo sugli istituti penitenziari di Reggio Calabria è a dir poco inquietante.
La ‘ndrangheta dietro le sbarre del carcere di Reggio
Due le strutture del capoluogo dello Stretto. La prima è lo storico edificio di San Pietro, che oggi ospita i detenuti di alta sicurezza e coloro i quali stanno scontando la propria pena definitiva. Negli anni, quel carcere che costeggia il torrente Calopinace ha ospitato i boss più importanti della ‘ndrangheta.
Lì viene anche ucciso Pasquale Libri, figlio naturale del superboss don Mico Libri. È il 19 settembre del 1988, quando viene freddato con un colpo di fucile di precisione all’interno del carcere di Reggio Calabria.
I sicari si appostano sul terrazzo di uno stabile in costruzione, sito tra via Carcere Nuovo e vico Furnari, in un luogo che si affaccia sul cortile della sezione “Cellulare” dell’istituto penitenziario di San Pietro. La vittima viene raggiunta in pieno viso, esattamente all’altezza della narice sinistra, da un proiettile, non appena discesi i gradini d’ingresso al cortile esterno.
Pasquale “Il Supremo” Condello tra due carabinieri
Le indagini riconducono immediatamente la causale dell’omicidio alla guerra di mafia all’epoca in corso tra le cosche reggine. Autore del delitto, su ordine di Pasquale Condello, il “Supremo”, sarebbe stato Giuseppe Lombardo (poi divenuto collaboratore di giustizia), detto “Cavallino” per l’attitudine sinistra di inseguire e finire le proprie vittime.
Il caso Saladino: morire in infermeria a 29 anni
Di più recente costruzione la casa circondariale di Arghillà, che sorge nel quartiere degradato a nord della città. Ospita una popolazione molto più ampia di detenuti, essendo destinata a quelli di media sicurezza. E lì, in quelle celle – forni in estate e freezer in inverno – che muore il giovane Antonio Saladino, ristretto in custodia cautelare. È il 18 marzo 2018.
Antonio Saladino, morto a 29 anni nel carcere di Reggio Calabria
Un decesso, ancora oggi, avvolto nel mistero. Saladino, stando alle testimonianze rese dai compagni di cella, accusava già da parecchi giorni malessere e disturbi fisici culminati in un tragico epilogo: la morte del detenuto, a soli 29 anni, nell’infermeria del carcere.
A distanza di quasi quattro anni da quella vicenda, l’inchiesta non ha ancora chiarito alcunché. L’ultimo passaggio, a settembre scorso, quando il Gip ha rigettato la seconda richiesta di archiviazione da parte della Procura della Repubblica, disponendo ulteriori accertamenti.
L’ex direttrice e i presunti favori ai detenuti
È invece attualmente a processo l’ex direttrice delle due carceri, Maria Carmela Longo, coinvolta in un’inchiesta per presunti favori ai detenuti. L’arresto per lei è a arrivato nell’estate 2020 con l’accusa di concorso esterno con la ‘ndrangheta. Questo perché l’allora direttrice avrebbe favorito anche esponenti di spicco delle cosche reggine. In questo modo «concorreva – è scritto nel capo di imputazione – al mantenimento ed al rafforzamento delle associazioni a delinquere di tipo ‘ndranghetistico».
Per i pm, all’interno del carcere di Reggio Calabria c’era «una sistematica violazione delle norme dell’ordinamento penitenziario e delle circolari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria».
Maria Carmela Longo, la direttrice dei penitenziari reggini sotto accusa
Tra i detenuti che sarebbero stati favoriti dall’ex direttrice del carcere anche l’avvocato Paolo Romeo, ex parlamentare condannato poi nel processo “Gotha”. Ma anche affiliati alle famiglie mafiose reggine e della provincia come Cosimo Alvaro, Maurizio Cortese, Michele Crudo, Domenico Bellocco, Giovanni Battista Cacciola e altri.
Nel blitz, furono coinvolti anche alcuni agenti penitenziari, poi scagionati successivamente. Nel processo, insieme all’ex direttrice, solo il medico del carcere di San Pietro.
I pestaggi in carcere a Reggio
Ma il vero bubbone, circa le condotte che si sarebbero perpetrate dietro le mura carcerarie, è scoppiato appena pochi giorni fa, con l’arresto di alcune guardie penitenziarie, tra cui il comandante del Corpo presso la casa circondariale, per il presunto pestaggio di un detenuto napoletano, avvenuto proprio nel giorno della visita in città dell’allora ministro della Giustizia, Marta Cartabia.
L’ex ministro Marta Cartabia
Gli agenti coinvolti rispondono, a vario titolo, di tortura e lesioni personali aggravate, ma anche di falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atto pubblico, falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atto pubblico per induzione, omissione d’atti d’ufficio, calunnia e tentata concussione. Arresti arrivati a quasi un anno dall’accaduto. I fatti risalgono infatti al 22 gennaio 2022, quando gli agenti avrebbero sedato con immane violenza la protesta del detenuto che non voleva far rientro nella propria cella.
E così, senza alcuna determinazione del direttore del carcere, avrebbero condotto l’uomo in una cella di isolamento, dove sarebbe scattato il pestaggio, unito a violenze psicologiche di vario tipo. L’uomo sarebbe stato colpito con i manganelli in dotazione di reparto, ma anche con dei pugni, facendolo spogliare e lasciandolo semi nudo per oltre due ore nella cella ove era stato condotto.
Il sistema di omertà
Luogo chiuso ermeticamente, il carcere. Come ovvio, verrebbe da dire. Ma la chiusura, in taluni casi, rischia di sfiorare e superare il livello dell’omertà. Impalpabile, fin qui, il contributo fornito dalla politica, anche quella maggiormente attenta alle dinamiche carcerarie, come l’ala radicale. Inconsistente l’apporto dei vari garanti, regionale e locale. Difficile, quasi impossibile, ottenere informazioni il più possibile vicine alla realtà su quello che accade in quei luoghi, che si reggono su sottili equilibri.
Equilibri tra detenuti, evidentemente. Ma anche tra personale sanitario e, ovviamente, polizia penitenziaria. Un turbine incontrollato e incontrollabile di notizie e di rumors, in cui la fuoriuscita o meno di qualche notizia somiglia assai spesso a un tentativo di colpire la “banda” rivale. Per coprire il presunto pestaggio, ed evitare conseguenze per una eventuale denuncia da parte del detenuto, il Comandante del Reparto, avrebbe poi redatto una serie di atti (relazione di servizio, comunicazione di notizie di reato ed informative al Direttore del carcere).
Nessuno ha invece scalfito minimamente il muro del silenzio. Solo le denunce dei familiari del detenuto, infatti, unite all’osservazione delle telecamere, hanno potuto aprire uno squarcio di luce (ancora tutto da dipanare totalmente) su quanto accade in quei luoghi. Gli stessi che, stando a quanto ci insegna la Costituzione, dovrebbero essere deputati alla rieducazione dei detenuti. Dove, invece tutto si mostra come è in realtà. E come scriveva Oscar Wilde, si diventa pietra.
Sono passati più di trent’anni da quando, il 27 marzo 1992, è stata approvata la legge che ha vietato l’utilizzo e la produzione di manufatti contenenti amianto. Nel frattempo, però, chi ha lavorato per decenni a stretto contatto con l’eternit spesso ha sviluppato malattie di tipo tumorale. E la bonifica e lo smaltimento del pericoloso materiale in Calabria sono ancora in grave ritardo.
Una sentenza importante per un’intera categoria
A volte, come nel caso che stiamo per raccontare, si è rimosso l’amianto senza le dovute protezioni. Ogni sentenza racconta sempre una storia, questa va oltre il singolo caso perché riguarda una intera categoria di lavoratori.
Per 28 anni di fila, infatti, un uomo aveva lavorato in Ferrovie della Calabria, tutti i giorni, dal lunedì al venerdì e dalle 7 della mattina fino alle 5 del pomeriggio. Poi nel 2008 si era dovuto dimettere perché il mesotelioma pleurico che lo affliggeva non gli consentiva più di fare sforzi. La neoplasia, purtroppo, circa 7 anni dopo non gli concedeva più altro tempo. E l’ex operaio delle Ferrovie della Calabria veniva a mancare, dopo molti ricoveri e cure, nonché un delicato intervento chirurgico presso il Mariano Santo di Cosenza.
Amianto e tumori: la denuncia dei familiari dopo la morte
L’uomo aveva già ricevuto in vita dall’Inail l’indennizzo per malattia professionale dovuta all’esposizione all’amianto. Gli eredi, la moglie e i 3 figli, un paio d’anni dopo la sua morte hanno poi deciso insieme agli avvocati Runco e Coschignano di fare causa a Ferrovie della Calabria per il risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali. Ritenevano, infatti, che la causa del tumore fosse la lunga e continuata esposizione all’amianto sul luogo di lavoro.
Il giudice: Ferrovie della Calabria deve pagare
Silvana Domenica Ferrentino, giudice del Tribunale di Cosenza, il 2 dicembre scorso ha depositato le motivazioni della sentenza. E, accogliendo il loro ricorso, ha quantificato in 170mila euro i soldi che Ferrovie della Calabria dovrà pagare a tutti e 4 gli eredi per il danno biologico, più 163mila euro ciascuno per danno da perdita parentale. In totale sono circa 820mila euro, più interessi e spese legali. Il nesso causale emerso in aula tra la presenza di amianto sul luogo di lavoro e il tumore ai polmoni ha sancito la responsabilità (al 55%) di Ferrovie della Calabria nel decesso dell’ex operaio cosentino
L’ingresso del tribunale di Cosenza
Nelle varie udienze del procedimento civile sono stati acquisiti numerosi documenti e sentiti alcuni testimoni. Ma, soprattutto, è stata disposta una perizia medica che è servita a stabilire il nesso diretto tra la presenza d’amianto sul luogo di lavoro dell’ex operaio e il tumore ai polmoni che lo ha poi ucciso.
Nessuna protezione né visite specialistiche
Queste, ad esempio, le parole di uno dei testimoni in aula che la sentenza riporta: «Noi operai lavoravamo solo con la tuta da lavoro ma non abbiamo mai usato mascherine e guanti… Preciso che non avevamo dispositivi di protezione e non eravamo informati sui rischi». Non risulterebbero poi visite mediche specialistiche effettuate dall’azienda sui propri lavoratori al fine di verificarne lo stato di salute. Eppure l’operaio morto riceveva spesso l’incarico di tagliare lastre di amianto, come la stessa sentenza dimostra.
Quindi: presenza di amianto, solo visite generiche, nessun dispositivo di sicurezza. Infine, le dichiarazioni del medico incaricato dal Tribunale: «Ove il soggetto fosse stato effettivamente esposto all’amianto, può certamente riconoscersi un nesso di causa tra l’insorgenza del mesotelioma e le mansioni svolte dal lavoratore».
Amianto e tumori: una decisione storica
Gli elementi per condannare Ferrovie della Calabria, dunque, c’erano tutti, stando alla sentenza di primo grado. A differenza del processo penale che deve provare la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, in quello civile vige la regola detta del “più probabile che non”: ossia che sul medesimo fatto vi siano un’ipotesi positiva ed una complementare ipotesi negativa, sicché, tra queste due ipotesi alternative, il giudice deve scegliere quella che, in base alle prove disponibili, ha un grado di conferma logica superiore all’altra.
In questo caso Ferrovie della Calabria (e i suoi comportamenti legati alla presenza di amianto in alcuni luoghi lavorativi) è stata riconosciuta colpevole al 55%, altrimenti la somma liquidata in condanna sarebbe stata più alta. Il giudice, infine, decurtando quello che l’Inail aveva già versato al defunto, ha stabilito le altre somme che hanno formato il risarcimento totale per tutti i danni subiti e da liquidare in favore degli eredi.
Queste le decisioni nel primo grado di giudizio, che comunque sono esecutive, in uno dei primi processi a Cosenza arrivati a sentenza per risarcimento danni da amianto e legati a Ferrovie della Calabria.
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