Si dice spesso che la ‘ndrangheta non abbia confini. Ma di fondo, qualche confine chiaramente ce l’ha, o meglio ancora, le viene imposto. Si tratta molto spesso di confini anche abbastanza prevedibili, in realtà, se i diretti interessati – gli affiliati in questo caso – fossero tutti persone dotate di senso pratico, arguzia, acume e soprattutto mancassero di deliri di onnipotenza. Un viaggio, una vacanza dall’Australia all’Indonesia quando si è nell’elenco dei latitanti ricercati in mezzo mondo, infatti, non rientra tra le attività che uno ‘ndranghetista dovrebbe intraprendere.
‘Ndrangheta e I-Can: 3 anni, 42 latitanti in arresto
Le autorità locali – con il supporto dell’Unità I-Can – Interpol Cooperation Against ‘Ndrangheta e dell’esperto per la sicurezza italiana a Canberra hanno arrestato Antonio Strangio, 32 anni, all’aeroporto di Bali, in Indonesia, mentre sbarcava da un volo proveniente dall’Australia. è stato arrestato. La notizia è dell’8 febbraio. «Con Strangio», rende noto la direzione centrale della Polizia Criminale, «sono 42 i latitanti arrestati in tutto il mondo in poco meno di tre anni dall’avvio del progetto I-Can, che sta raccogliendo i risultati di un lavoro volto a far crescere nelle forze di polizia di 13 Paesi la consapevolezza della pericolosità globale dalla ‘ndrangheta».
Antonio Strangio dopo l’arresto a Bali
Antonio Strangio è affiliato del clan omonimo – alias Janchi (i bianchi) – di San Luca, feudo aspromontano in provincia di Reggio Calabria che non ha tristemente bisogno di introduzioni quando si parla di mafia. La famiglia mafiosa in questione è balzata agli onori della cronaca, tra le altre cose, per una faida durata decenni e culminata con la strage di Duisburg, in Germania, nel 2007. Strangio era ricercato per produzione e traffico di sostanze stupefacenti con l’aggravante del metodo mafioso in seguito all’operazione Eclissi 2 nel 2015, tra San Luca e San Ferdinando, contro esponenti del clan Bellocco della Piana.
Latitante ma non troppo
In fuga dal 2016, Strangio in realtà latitava poco. Era infatti in Australia, pare principalmente ad Adelaide, in quanto cittadino australiano naturalizzato. La Red Notice di Interpol – l’avviso di cattura internazionale per i soggetti ricercati in tutto il mondo – non lo toccava in Australia, in quanto il paese non agisce per una segnalazione di Interpol e quindi non procede all’arresto di un proprio cittadino ai fini dell’estradizione. Ma le autorità lo seguivano, lo guardavano, lo tracciavano.
La domanda vera, dopo l’arresto, non può che essere: cosa ha fatto in questi anni Strangio ad Adelaide o, in generale, in Australia? E richiede il solito abbozzo di risposta difficilissima da contestualizzare e molto facile da manipolare per giustizialisti dallo sguardo miope: aveva famiglia in Australia, legami di sangue e legami di territorio. Ma il caso di questo Strangio non è né il primo né l’ultimo del suo genere.
Antonio Strangio: un nome, due latitanti
Un altro Antonio Strangio, alias U Meccanico o TT, praticamente della stessa famiglia, finì in manette nel 2017 a Moers, vicino a Duisburg, in Germania. All’epoca aveva 38 anni, lo arrestarono esattamente nel quinto anniversario dall’inizio della sua latitanza. In questo caso, a raggiungere questo Strangio fu un mandato di arresto europeo. Cosa ci faceva TT nell’area di Duisburg? Risultava chiaramente alle autorità italiane che altri esponenti della stessa famiglia fossero residenti lì e la strage di Ferragosto del 2007 ne era ovviamente prova indiretta. Quindi, aveva famiglia anche lui.
In più, c’era l’operazione Extra Fines 2 – Cleandro del 2019, a Caltanissetta, incentrata tra le altre cose sulle attività del clan Rinzivillo di Cosa nostra. In Germania, emergeva – mi ricordano fonti tedesche – che il presunto referente del clan Rinzivillo a Colonia, Ivano Martorana, fosse dedito a reperire e trafficare stupefacente e che a tale scopo era in contatto con altri soggetti, tra i quali proprio Antonio Strangio, TT. Dunque, sembrerebbe che lo Strangio di Germania facesse ancora quello per cui era ricercato e fu arrestato: traffico e importazione di stupefacenti.
Antonio “U meccanico” Strangio
Infatti, U Meccanico fu coinvolto anche nell’operazione European ‘Ndrangheta Connection, altrimenti conosciuta come Operazione Pollino, nel 2018. C’era anche lui tra i 90 individui in arresto per un traffico internazionale di stupefacenti tra Belgio, Paesi Bassi, Germania, Italia, Colombia e Brasile. L’operazione coinvolse affiliati clan di San Luca e di Locri, come i Pelle-Vottari, i Romeo alias Stacchi, i Cua-Ietto, gli Ursino e appunto i Nirta-Strangio (nonché esponenti della criminalità turca). Oltre a diverse tonnellate di cocaina e alla scoperta di azioni di riciclaggio, l’operazione rivelò anche l’uso di attività di ristorazione – segno di presenza stabile sul territorio – in supporto alla logistica del narcotraffico.
‘Ndrangheta, latitanti e famiglia
Oltre al nome, questi Strangio hanno in comune la latitanza all’estero e la protezione che deriva dal nascondersi “in famiglia”. Perché se c’è una cosa che è cambiata, con i processi di globalizzazione e con l’amplificazione dell’interconnettività che questi processi hanno attivato per le esistenti comunità di immigrati in giro per il mondo, è proprio la famiglia.
Se un tempo poteva apparire dispersa, dislocata in vari luoghi di migrazione, è oggi famiglia integrata, interconnessa. Ci si telefona o video-telefona, ci si visita, ci si collega coi parenti all’estero per motivi di studio, lavoro, esperienza, vacanza. Vale per moltissimi emigrati (o immigrati) e vale anche per le dinastie criminali di ‘ndrangheta. Forse anche di più per alcune dinastie criminali di ‘ndrangheta come gli Strangio, che della famiglia hanno fatto un business, rendendola la chiave del loro successo criminale, quanto della loro reputazione. Nel bene (per loro) e nel male (per noi).
Succede dunque che al 2023 – ma anche prima a dir la verità, ché la globalizzazione e i suoi processi non sono certo roba così recente – la famiglia amplificata e interconnessa sia la normalità. Idem per una serie di altre ‘prassi’: la doppia lingua, la doppia cittadinanza, due passaporti, ad esempio. Quindi non sorprende che in paesi di migrazione stabile dalla Calabria, come la Germania e l’Australia (ma anche ovviamente gli Stati Uniti, il Canada, la Svizzera, il Belgio…) sia proprio all’interno di alcune famiglie (dinastie criminali, appunto) che si innestano servizi e attività in supporto al crimine organizzato, laddove questo sia organizzato proprio a dimensione familiare.
‘Ndrangheta e latitanti: i casi Vottari, Crisafi e Greco
Simili a quello di Antonio Strangio, l’ultimo della dinastia sanlucota arrestato a Bali qualche giorno fa, furono altri arresti di suoi ‘vicini di casa’. Anzi, di case al plurale: Calabria e Australia). Le manette scattarono a Fiumicino per Antonio Vottari nel 2016, anch’egli di San Luca, latitante e nascosto in Australia dalla “famiglia” ad Adelaide. Stessa sorte e stesso aeroporto per Bruno Crisafi, anche lui sanlucota, in arrivo dall’Australia nel 2017. Clan Pelle-Nirta-Giorgi, alias Cicero, risiedeva da anni – e faceva il pizzaiolo – a Perth. Entrambi, Vottari e Crisafi, legati al narcotraffico con altri pezzi di famiglia tra Germania (e Olanda, Belgio e Nord Europa) e Calabria, tra l’altro.
Edgardo Greco
Può sembrare, quello di Crisafi, un primo «ciak, si gira!» del film appena andato in scena con l’arresto di Edgardo Greco in Francia. Altro latitante calabrese del Cosentino (la sua appartenenza alla ‘ndrangheta andrebbe problematizzata, proprio per il suo ruolo – killer – e i gruppi a cui si legava, più gangsteristici che ‘ndranghetisti, tra l’altro), Greco faceva lo chef. C’è differenza, però, tra chi scappa e si nasconde all’estero per mimetizzarsi e nascondersi – «Il modo migliore per nascondere qualcosa è di metterlo in piena vista», in fondo già scriveva Edgar Allan Poe – e chi scappa all’estero come estensione della propria protezione familiare, facendo in fondo ciò che farebbe anche a casa propria.
Dinastie criminali stabili
L’arresto di Antonio Strangio a Bali – e la sua permanenza in Australia – come quelle di Vottari e di Crisafi prima di lui o dell’omonimo TT in Germania – ci confermano anche stavolta una cosa: la forza della ‘ndrangheta – quella “doc” – è legata anche alla presenza stabile di dinastie criminali internazionalizzate che possono offrire servizi in giro per il mondo. Ad altri ‘ndranghetisti o anche ad amici o ai colleghi degli ‘ndranghetisti, si veda Edgardo Greco.
L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg
I clan di San Luca (e non sono i soli), nello specifico, “hanno famiglia” sia ad Adelaide che a Perth, in Australia, tanto quanto ne hanno a Duisburg o a Erfurt, in Germania. Questo permette loro non solo di avere protezione – nel senso di ‘nascondiglio’ durante la latitanza – ma anche e soprattutto di stabilirsi in Australia qualora decidano di farlo, come fossero a casa. Alcuni lavorando, come Crisafi il pizzaiolo. Altri studiando, come Vottari, che aveva un visto da studente per iniziare un corso a un’università di Melbourne. Spesso, ancora, dedicandosi al narcotraffico comunque, come lo Strangio di Germania.
Cognomi che pesano
Sempre attività di famiglia. Questo non significa assolutamente che tutte le famiglie con tali cognomi o con legami a tali cognomi all’estero siano ‘omertose’ o famiglie di ‘ndrangheta. Esattamente come questo non sarebbe il caso nemmeno a San Luca. Le stesse variabili, di intento quanto di contesto, operano anche all’estero nelle famiglie migranti. Ma all’estero sono molto più difficili da districare e comprendere.
Al di là del panico mediatico che si scatena ogni qual volta la ‘ndrangheta si scopre all’estero, in realtà c’è davvero poco da sorprendersi. Quando della ‘ndrangheta si comprendono i tratti caratterizzanti, tra cui il funzionamento delle dinastie internazionali all’interno di processi più complessi e spesso ‘banali’ nel senso di ‘ricorrenti’ della migrazione che la ‘ndrangheta sfrutta e macchia (come fa in Calabria con interi paesi e dinastie), appare chiaro che questa risorsa diventi preziosa.
Se come diceva George Bernard Shaw «una famiglia felice non è che un anticipo del paradiso», probabilmente una famiglia di ‘ndrangheta “felice”, o quanto meno assestata, non è che un anticipo dell’inferno o del purgatorio. Soprattutto per chi, ricordiamolo, con certi soggetti condivide legami di famiglia e magari non vorrebbe.
Dodici persone dovranno comparire davanti al giudice per le indagini preliminari di Firenze il prossimo 4 aprile. L’accusa, a vario livello e titolo, è di aver interrato rifiuti tossici provenienti dalle concerie del Pisano in alcune strade provinciali della Toscana. In particolare, nella Sp 429 che è di fatto stata ribattezzata “la strada dei fuochi” nel processo Calatruria.
Dei dodici sono nove quelli nati in Calabria: Domenico Vitale; Bruno Vitale; Nicola Chiefari; Ambrogio Chiefari; Antonio Chiefari; Nicola Verdiglione; Pasquale Barillaro; Rocco Bombardiere; Francesco Lerose. Gli altri tre sono Graziano Cantini (nato a Vicchio), Luca Capoccia (nato a Bagno a Ripoli) e Massimo Melucci (nato a Caserta).
Politici e ‘ndrine nel mirino della Dda
La Dda di Firenze ha chiuso le indagini, sempre a novembre scorso, e chiesto il rinvio a giudizio anche per altre 26 persone nel processo originario denominato Keu, dal nome del materiale di risulta delle concerie. I due procedimenti fanno parte di una maxi inchiesta unica, iniziata nel 2019 e terminata nel 2021 con arresti e denunce per politici, imprenditori, amministratori e referenti dei clan calabresi di ‘ndrangheta, in particolare Gallace e Grande Aracri.
Uno striscione di protesta dopo la scoperta dello smaltimento illecito dei rifiuti delle concerie
Calatruria: i conciatori e i calabresi
Alcune ditte di movimento terra, in mano ai calabresi, avevano ottenuto – secondo l’accusa – il mandato da alcune concerie toscane di smaltire i loro rifiuti, tossici e pericolosi, ma per risparmiare invece di seguire il normale iter si era deciso di sotterrarli, dopo averli trasformati in materiale per l’asfalto. Per gli inquirenti a organizzare il pactum sceleris sarebbero stati i conciatori, in accordo con alcuni politici e amministratori toscani, e grazie ad alcune ditte complici dei calabresi.
Le presunte minacce e l’azienda “amica”
I dodici del processo Calatruria dovranno difendersi, a vario titolo, dalle accuse di associazione per delinquere, illecita concorrenza ed estorsione aggravate dal metodo mafioso, corruzione, detenzione e spaccio di stupefacenti.
Il filone d’inchiesta che coordinano il pm Eligio Paolini e il giudice Luca Tescaroli (il magistrato che sta indagando sulle stragi di mafia del ’93 e sui mandanti esterni) riguarda la presunta estromissione di un imprenditore dai lavori di movimento terra nel cantiere del lotto V della strada provinciale toscana 429. Soggetti vicini alla cosca Gallace e ai “fratelli” Grande Aracri avrebbero minacciato l’uomo per far subentrare un’azienda “amica” dei clan.
Luca Tescaroli
Calatruria, cromo e arsenico
Successivamente, sempre secondo la Dda, i rifiuti sono finiti nell’asfalto di alcune strade provinciali della Toscana. A quel punto la Dda ha chiesto ad Arpat (l’Agenzia regionale per l’ambiente della Toscana) di mettere in sicurezza i siti coinvolti nell’inchiesta per poi stabilire cosa fosse successo all’ambiente. Ma non si tratta di una situazione definitiva perché potrebbero manifestarsi mutamenti nel medio e lungo periodo. Mutamenti che potrebbero essere determinati anche da carenze di manutenzione del manto stradale o da altri elementi.
Per questo il dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa sta conducendo uno studio proprio su incarico di Arpat e Regione Toscana. Il problema sono le sostanze che vengono fuori dal Keu, in particolare cromo esavalente e arsenico, che sono tra i principali materiali di scarto di chi lavora il cuoio. Dopo la messa in sicurezza nei giorni scorsi sono partite anche le bonifiche delle strade toscane coinvolte.
Un’immagine dell’inchiesta toscana
La strada dei fuochi
Nei giorni scorsi sono partite le bonifiche delle strade mentre la messa in sicurezza di emergenza era stata effettuata già lo scorso anno nei tratti dove la Dda ha ritenuto potesse essere presente materiale di risulta contenente Keu. E si parla di centinaia di tonnellate. Il tratto di strada “incriminato” è lungo circa 300 metri, ma bisogna capire bene dove sia finito il Keu: sotto l’asfalto, inglobato nel cemento armato o anche in altri punti?
La Regione Toscana è già all’opera ma sarà lo studio scientifico dell’Università di Pisa i cui risultati dovrebbero arrivare a inizio estate prossima a fare luce sul tipo di inquinanti eventualmente presenti.
L’attuale composizione del Consiglio della Regione Calabria ha ormai vita breve, dopo la pronuncia della magistratura sul caso Talerico vs Fedele. Il primo – così come un’altra esclusa, Silvia parente – contestava l’eleggibilità della seconda, la cui candidatura era arrivata mentre ricopriva il ruolo di direttrice generale della Provincia di Catanzaro. I giudici del tribunale ordinario del capoluogo gli avevano già dato ragione in primo grado. E oggi la Corte d’Appello, a cui Fedele si era rivolta, ha confermato quella decisione: «Sono ineleggibili a consigliere regionale i titolari di organi individuali ed i componenti di organi collegiali che esercitano poteri di controllo istituzionale anche sull’amministrazione della Provincia».
Uno di troppo
A questo punto Talerico dovrà solo notificare la vittoria in tribunale al presidente dell’aula Fortugno, Filippo Mancuso. Poi, tramite la giunta elettorale, toccherà a quest’ultimo procedere alla surroga della uscente Fedele con l’avvocato catanzarese. Che, dal canto suo, ha già messo in chiaro le cose: di entrare in Regione da consigliere di Forza Italia non ci pensa nemmeno, sebbene illo tempore fosse candidato proprio in una lista berlusconiana. Scarso feeling con il coordinatore regionale del partito Giuseppe Mangialavori, ha tenuto a chiarire non appena conquistata l’agognata poltrona.
Occhiuto e Mangialavori in campagna elettorale
Non c’è due senza tre
Non sarà il problema principale per Roberto Occhiuto, ma è pur sempre un forzista ufficiale in meno in squadra. E sebbene il neo eletto abbia confessato a LaCNews24 l’intenzione di confrontarsi col governatore e Mancuso per comprendere quali possano essere i suoi «spazi di agibilità politica», il futuro di Talarico non pare tinto di azzurro. Il suo colore, più probabilmente, sarà il blue navy scelto da Carlo Calenda e Matteo Renzi per il loro Terzo Polo. In Regione, d’altra parte, un gruppo che fa riferimento proprio a Calenda è già nato di recente e può contare su Giuseppe Graziano e Francesco De Nisi. E siccome non c’è due senza tre, con l’addio di Fedele e l’arrivo di Talerico potrebbe presto ampliarsi.
il consigliere regionale Giuseppe Graziano (foto Alfonso Bombini/ICalabresi)
Fedele vs Talerico: le ripercussioni oltre la Regione Calabria
Anche a Palazzo De Nobili l’uscita di scena di Valeria Fedele – almeno fino all’eventuale contrordine della Cassazione, cui si rivolgerà nel tentativo estremo di riprendersi la poltrona a Reggio – non passerà inosservata. Il neo consigliere regionale – che dopo averlo sfidato alle amministrative ora sostiene Nicola Fiorita e i suoi, usciti vincitori dalle urne – ora avrà un peso politico molto maggiore. Ed è difficile escludere folgorazioni sulla via di Talerico tra qualche collega in aula. Una maggioranza nella maggioranza che farà piacere a Calenda, a Fiorita e Occhiuto chissà.
«In Emilia Romagnale mafie sono figlie adottive». Così, appena pochi giorni, fa, il procuratore generale di Bologna, Lucia Musti, definiva la presenza della criminalità organizzata in quella regione. Terra di affari l’Emilia Romagna. Ma anche terra di omicidi e di faide.
La statua di Peppone a Brescello (RE)
Nicolino Grande Aracri: da Cutro all’Emilia Romagna
Se oggi si può parlare di presenza della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, molte delle responsabilità sono in capo a Nicolino Grande Aracri. Il boss venuto da Cutro, in quei luoghi, avrebbe ricreato nell’economia, ma anche nella politica, le medesime dinamiche della casa madre. Lo chiamano “Il Professore” o “Mano di gomma”.
Quando, nel gennaio 2015, i carabinieri lo arrestano, nel corso di una perquisizione domiciliare rinvengono anche una spada simbolo dei Cavalieri di Malta. È la maxi-inchiesta “Aemilia” a mostrare e dimostrare, in tutta la sua ampiezza, la capacità della ‘ndrangheta non solo di penetrare tutti i territori, ma anche di entrare in stanze apparentemente inaccessibili. Da Cutro, paese in provincia di Crotone, Grande Aracri infatti avrebbe costruito un impero in Emilia Romagna, ma si sarebbe mosso in ambienti impensabili, se non si considera la ‘ndrangheta come l’organizzazione criminale più potente d’Italia e tra le più potenti in Europa e al mondo.
Una guardia svizzera in Vaticano
Le ingerenze di Grande Aracri, infatti, sono da registrare negli ambienti massonici, ma anche in Vaticano e fino alla Corte di Cassazione. Un’inchiesta mastodontica, quella che svela gli affari della ‘ndrangheta crotonese in Emilia Romagna, con cui gli inquirenti scoprono lucrose operazioni finanziarie e bancarie che alcuni soggetti avrebbero messo in atto per conto di Grande Aracri, ponendosi come intermediari tra questi e altri soggetti estranei all’associazione al fine di consentire l’avvicinamento a settori istituzionali anche per il tramite di ordini massonici e cavalierati.
Ancora una volta la ‘ndrangheta si mostra per quella che è: non solo una banda armata, ma un’organizzazione che ha come proprio principale scopo quello di tessere relazioni sociali e istituzionali al fine di arricchirsi e condizionare i territori su cui opera.
Grande Aracri e la massoneria
Nicolino Grande Aracri in un’immagine di qualche anno fa
Come emerge dalle intercettazioni agli atti dell’inchiesta “Kyterion”, Nicolino Grande Aracri sarebbe stato molto ben inserito in ambienti massonici, ottenendo anche l’investitura a “Cavaliere”. È lo stesso boss originario di Cutro a confermarlo in una conversazione captata: «Io ho avuto la fortuna di capire certe cose…sia dei Templari…sia dei Cavalieri Crociati…di Malta…la Massoneria di Genova…». Sono gli stessi soggetti intercettati nell’inchiesta a dar peso al legame tra massoneria e criminalità organizzata: «E lì ci sono proprio sia ad alti livelli istituzionali e sia ad alti livelli di ‘ndrangheta pure».
Il meccanismo è quello che nasce con la “Santa”. Grazie alla massoneria, alcuni soggetti, pur se non affiliati alla ‘ndrangheta, sono in grado di assicurare al sodalizio entrature nelle sedi istituzionali più disparate come quelle della Chiesa e della magistratura, per garantire – è scritto negli atti processuali – “pressioni e capacità di intervento circa le vicende processuali degli affiliati”.
Le amicizie romane di Grande Aracri
Grande Aracri avrebbe cercato di aggiustare un processo a Roma per far annullare la decisione del Tribunale del Riesame di Catanzaro che aveva confermato l’arresto del cognato. Quella sentenza fu effettivamente annullata con rinvio dalla Cassazione, ma gli inquirenti non riusciranno ad accertare il coinvolgimento di un magistrato.
Sempre per aiutare il cognato, Nicolino Grande Aracri avrebbe speso (senza successo, tuttavia) anche le proprie amicizie in Vaticano. L’obiettivo è spostare il parente detenuto dal carcere di Sulmona a quello di Siano, a Catanzaro, in modo tale che fosse più vicino ai familiari: la provincia crotonese, infatti, non dista molti chilometri dal capoluogo di regione. Tramite un’amica giornalista, Grande Aracri prova a intervenire in Vaticano.
Il carcere di Siano
La donna, infatti, è in stretto contatto con un monsignore, nunzio apostolico e, nel 1995, “cappellano di sua Santità”. Un prelato che sarebbe capace di smuovere cardinali e non solo. «Il nostro piccolo Giovanni tra una settimana starà vicino casa sua», dice la donna dopo l’incontro, avvenuto in Vaticano. Il monsignore manda anche i saluti alla moglie del detenuto: «Ha detto che è stata generosa e splendida. Gli ha lasciato 500 euro che lui ha preso volentieri per i suoi poveri».
In Emilia Romagna si spara
Non solo affari. Anche sangue. E a fiumi. Nonostante il negazionismo della classe dirigente, in Emilia Romagna la ‘ndrangheta è presente e influente almeno dagli anni ’80. Ma è negli anni ’90 che l’Emilia Romagna si trasforma, sostanzialmente, nella provincia di Crotone. Non solo per la presenza delle cosche che, secondo quanto riferito dai collaboratori di giustizia, sarebbe organizzata in cerchi, con un ruolo predominante da parte di Nicolino Sarcone. Ma anche perché, nei primi anni ’90, in Emilia Romagna si spara. Proprio come se ci si trovasse nell’entroterra calabrese.
Nicolino Sarcone
È il 1992 quando vengono uccisi Nicola Vasapollo e Giuseppe “Pino” Ruggiero. Non a Cutro. Il primo (a settembre) a Pieve Modolena. Il secondo (a ottobre) a Brescello. Proprio sui luoghi di don Camillo e Peppone.
E i mandanti sarebbero proprio due tra i boss più carismatici della ‘ndrangheta in Emilia Romagna: Nicolino Grande Aracri e Nicolino Sarcone, che delle cosche di Cutro sarebbe l’avamposto a Reggio Emilia.
Per Grande Aracri la svolta arriva con la carcerazione di Antonio e Raffaele Dragone, i boss crotonesi a cui era inizialmente legato. La scissione con il clan Dragone comincia a maturare proprio in quegli anni fino a sfociare in una vera e propria faida che raggiunge il culmine quando, nel 1999, viene assassinato a Cutro Raffaele Dragone, figlio dell’anziano capobastone. Seguirà una lunga scia di sangue. Tra il 1999 e il 2004 in provincia di Reggio Emilia cadono uccise dodici persone. Eppure, dovranno passare diversi lustri, con l’inchiesta “Aemilia” prima, curata dal pm Beatrice Ronchi, e con l’inchiesta “Grimilde” poi, per poter parlare, con voci negazioniste più blande, di ‘ndrangheta in Emilia Romagna.
L’auto di Antonio Dragone dopo l’agguato mortale
Il 19 luglio 2018 la Corte d’assise d’appello di Catanzaro ha condannato Nicolino Grande Aracri ed il fratello Ernesto, entrambi all’ergastolo. Sentenza divenuta definitiva nel giugno del 2019, per l’omicidio del vecchio capobastone di Cutro, Antonio Dragone, avvenuto nel 2004 nelle campagne del Crotonese, del quale Nicolino Grande Aracri era stato il braccio destro.
Gli affari di Nicola Femia
Nicolino Grande Aracri e Nicolino Sarcone sono forse i due boss maggiormente carismatici della ‘ndrangheta in Emilia Romagna. Ma non gli unici.
Un nome importante è quello di Nicola Femia. Per anni fa girare diversi soldi in quei luoghi, poi lo arrestano e diventa collaboratore di giustizia.
Femia, da ex uomo forte della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, decide di collaborare dopo essere stato pesantemente condannato in primo grado per i propri affari illeciti al nord, fatti soprattutto di gioco d’azzardo. L’impero delle slot machine, soprattutto.
Nicola Femia
Femia ricorda gli anni calabresi e racconta del ruolo avuto da poliziotti, 007 e mediatori nella stagione dei sequestri che ha terrorizzato l’Italia. I protagonisti hanno tanti nomi. Molti, soprattutto se di rango istituzionale, occulti. Altri noti. Come quello del boss Vincenzo Mazzaferro, di cui Femia si definisce “uomo riservato”.
Questo ruolo, gli avrebbe consentito di conoscere la trattativa che le Istituzioni avrebbero imbastito con la ‘ndrangheta, in particolare per la liberazione di Roberta Ghidini, sequestrata il 15 novembre 1991 a Centenaro di Lonato, in provincia di Brescia, e liberata in Calabria dopo 29 giorni.
Roberta Ghidini e sua madre si abbracciano in lacrime poco dopo la liberazione della ragazza
Un sequestro per il quale è stato condannato il boss Vittorio Jerinò: quella liberazione sarebbe costata 500 milioni di lire, in una valigetta che avrebbe fatto il giro della Locride tra le mani proprio di Mazzaferro, appositamente fatto uscire dal carcere di Regina Coeli – in base all’oscuro “accordo” – per assolvere tale ruolo. Una delle stagioni più oscure della storia d’Italia, di cui, al momento, si conoscono solo pochi flash, come quelli, inquietanti, spiegati da Femia: «I Servizi ci mangiavano con i sequestri. Se arrivavano cinque miliardi, due miliardi se li prendevano i servizi».
Il finto pentimento di Nicolino Grande Aracri
Anche i protagonisti della ‘ndrangheta emiliana si muovono sempre in ambienti torbidi e occulti. E, stando a quanto sostenuto dagli inquirenti, utilizzano anche i metodi più subdoli della ‘ndrangheta d’élite. Nell’aprile 2021, infatti, è dirompente la notizia del pentimento di Grande Aracri. In tanti sperano che la ‘ndrangheta possa aver trovato il suo Tommaso Buscetta. Un boss di altissimo rango in grado di aprire le porte più inaccessibili sulla struttura della ‘ndrangheta unitaria, ma anche sui suoi riferimenti istituzionali.
Il procuratore Nicola Gratteri
L’illusione durerà solo pochi mesi. La collaborazione di Grande Aracri viene gestita dalla Dda di Catanzaro, retta da Nicola Gratteri, che impiegherà pochi mesi per bollare come inattendibile la scelta e fantasiose le rivelazioni di Grande Aracri e a smascherare la manovra, rispedendolo al 41bis.
Una manovra per incolpare qualche nemico storico, per sminuire i suoi crimini, ma, soprattutto, per salvare la famiglia. La moglie e la figlia, soprattutto. In una relazione depositata, i pm antimafia parleranno anche del “sospetto peraltro che l’intento collaborativo celasse un vero e proprio disegno criminoso”.
Cosa può imparare da noi italiani – e calabresi in particolare – la Colombia?
Parliamo di un Paese che ha (e ha avuto) gruppi criminali armati, alcuni anche ideologicamente orientati: ricordate le Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia) e il negoziato di pace del 2016?.
Non solo: la Colombia rimane ad oggi il primo produttore al mondo di cocaina, sfruttata e gestita da gruppi criminali organizzati più o meno territorialmente radicati.
Calabria e Colombia: ridurre la violenza
Presto fatto. La prima domanda emersa nella conferenza internazionale organizzata da Fundación Ideas Para La Paz, Global Initiative Against Transnational Organized Crimee Konrad Adenaur Stiftung (enti che si occupano di consulenza e ricerca su strategia internazionale e sicurezza), è: come si riduce la violenza della criminalità organizzata?
Questa, nella loro prospettiva internazionale, diventa la domanda posta anche a me: come ha fatto l’Italia a ridurre la violenza mafiosa? E cosa può insegnare la Calabria con la mafia più importante d’Italia?
Esercito e polizia colombiani in un’operazione interforze
Due giorni su Calabria e Colombia
Le risposte sono difficili. Vi si sono impegnati, per due giorni, il presidente del Congresso colombiano Roy Barreras, il capo della Procura generale del Paese (la Fiscalia) Francisco Barbosa, l’ex capo della Polizia nazionale ed ex vicepresidente colombiano, Oscar Naranjo, insieme a Sergio Jaramillo, ex viceministro della Difesa ed ex Alto Commissario per la pace (per capirci, l’incaricato della gestione dei negoziati con le Farc fino all’agosto 2016).
A loro si sono uniti accademici nazionali e internazionali (come chi scrive), giornalisti da tutto il Sudamerica, analisti ed esperti del territorio.
Il tutto è terminato in una cena-discussione con il ministro della Giustizia, il Viceministro della difesa, e il capo dell’Unità investigazioni della Polizia colombina.
Un momento del convegno di Bogotà
Faide, sequestri e stragi
La violenza mafiosa, e della criminalità organizzata in generale, non è una caratteristica dell’Italia odierna, ma è parte di tutta la nostra storia.
Oltre le stragi di Cosa Nostra, tutte le mafie hanno prodotto in diversi periodi livelli di violenza molto elevati.
Nella guerra di ’ndrangheta tra il 1985 al 1991 a Reggio Calabria, i morti accertati furono poco più di 600, ma le stime oscillano tra i 500 e i 1000.
La ’ndrangheta, infatti, ha costruito la sua reputazione sulla violenza.
Ne sono esempi le faide per il controllo del territorio che hanno decimato intere famiglie (ad esempio quelle di Siderno, 1987-1991, tra i Costa e i Commisso, in cui vinsero questi ultimi), o che addirittura si sono manifestate all’estero (la strage di Duisburg del Ferragosto del 2007, segmento della guerra di San Luca tra i Nirta-Strangio e i Pelle-Vottari iniziata nel 1991).
E ne sono altri esempi gli oltre 200 sequestri di persona in Aspromonte tra gli anni ’70 e i primi ’90, alcuni caratterizzati da inaudita bestialità.
La violenza sistemica della ‘ndrangheta ha sicuramente lasciato un’eco nella popolazione che è parte del fenomeno mafioso calabrese e della sua reputazione.
L’esterno del locale in cui si è consumata la Strage di Duisburg
Tre lezioni dall’Italia
Cosa può insegnare l’Italia alla Colombia? Tre cose principalmente:
Una risposta dello stato molto forte, con un arsenale antimafia fatto di normative dirette (repressive) e indirette (di prevenzione) che contengono un messaggio primario: la violenza non conviene.
Una capacità delle organizzazioni criminali (non ideologiche né insurrezionaliste) di trovare altri mezzi per risolvere i propri problemi (tra cui il coordinamento, l’alleanza e soprattutto la corruzione).
L’accettazione di un livello di violenza “tollerabile” e la definizione (negoziazione interna) della soglia di tollerabilità. La violenza mafiosa non è sparita, ma il suo allarme sociale si: dà allarme quella violenza oltre un certo soglia, o in mercati “anomali” (sorprenderebbe violenza nelle attività semi-lecite delle mafie, ma non nel mercato della droga).
Scorcio di piazza Bolivar a Bogotà
Tre lezioni calabresi
Altre cose le può insegnare proprio la Calabria.
Innanzitutto, il decentramento della violenza nel crimine organizzato moderno: non c’è una testa pensante nella ’ndrangheta che commissiona o modula la violenza. Questo da una parte è un un vantaggio, dall’altra porta anche a reazioni molto diverse a seconda di luoghi e tempi in cui questa violenza si manifesta.
Si è anche parlato di quella violenza che per alcuni violenza non è, ma che tuttavia è pronunciata in certi posti della Calabria: l’estorsione ambientale. Questa si configura quando il clan è abbastanza potente da non avere più necessità di fare richieste palesi, con le relative minacce. Ormai basta il sussurro e l’allusione.
Per ritenere estinta o ridotta qualsiasi violenza la vera differenza la fanno le vittime, non i carnefici. Laddove si riuscisse, come in Italia e Calabria, a ridurre il rapporto di violenza tra le organizzazioni criminali e le loro comunità, la vittimizzazione diventerebbe più subdola quanto più l’organizzazione rimanesse economicamente e socialmente potente, come la ‘ndrangheta in alcune parti del nostro territorio.
Paz Total: il sogno di Gustavo Petro
Questa domanda sulla riduzione della violenza deriva dalla proposta ambiziosa, forse troppo, del nuovo presidente della Colombia, Gustavo Petro.
Petro, ex guerrigliero del gruppo M-19, è stato eletto nel giugno 2022 con una piattaforma politica incentrata sulla promessa della Paz Total, la pace totale.
Questa pace, secondo Petro e i suoi ministri, si può raggiungere negoziando con l’ultimo gruppo di guerriglia rimasto, l’Eln (Ejército de liberación nacional), come si è fatto con le Farc, ma anche con oltre altri 20 gruppi “ad alto impatto”, solo criminali, coinvolti nel mercato di cocaina, marijuana e altre attività illecite di criminalità organizzata.
Gustavo Petro, il presidente della Colombia
Tregua delle armi e legalizzazione
Aprire i negoziati di pace – strumenti di solito legati ai conflitti internazionali – alla criminalità organizzata, che non è in conflitto con lo Stato colombiano ma è spesso violenta al suo interno, crea cortocircuiti concettuali e pratici.
Già: cosa si offre a questi gruppi? Come si permette ad essi un incentivo a collaborare? In che modo si riduce la loro violenza? E si può impedire che “morto un gruppo se ne faccia un altro”?
Quesiti molto politici (e metodologici) per la paz total immaginata da Petro. Ma Petro non vuole fermarsi qui: il suo esecutivo ipotizza anche una depenalizzazione della cocaina e della marijuana, che sono tra i business illegali più lucrativi del Paese, e non solo.
La decriminalizzazione della cocaina, unita a un tentativo di pacificazione del crimine organizzato, avrebbe effetti rivoluzionari – positivi e negativi – sul mercato globale dei narcotici. Cioè sul settore più redditizio dell’economia criminale.
Guerriglieri di Eln
La ’ndrangheta senza Colombia
E qui arriva la seconda domanda sottoposta alla prospettiva internazionale, e soprattutto relativa alla ‘ndrangheta.
Eccola: cosa succederebbe a quegli importatori più attivi sul mercato internazionale della cocaina – cioè alcuni gruppi di ’ndrangheta – se si arrivasse, anche parzialmente, alla paz total in Colombia con qualche cartello?
Meglio ancora: cosa accadrebbe alla ’ndrangheta e ai suoi traffici se si sconvolgesse – coi negoziati e la decriminalizzazione – il mercato colombiano?
Broker ’ndrine e narcos tra Calabria e Colombia
Le risposte non sono semplici: siamo nel regno delle ipotesi.
Come detto nella puntata precedente di questo viaggio, i rapporti tra ’ndrine storiche e cartelli storici del narcotraffico in Colombia sono consolidati e intergenerazionali, intra-cartello (a monte e a valle), e basati su contratti a rinnovo automatico. La cocaina arriva dalla Colombia in Calabria grazie a broker specializzati con rapporti solidi in entrambi i territori. Dunque, è possibile immaginare che tali broker si muoveranno per restaurare l’“ordine”, a dispetto delle politiche di “pace” e decriminalizzazione.
Un carico di cocaina sequestrato
Liberalizzare? Impossibile, in Calabria e Colombia
È improbabile che si arrivi a una liberalizzazione delle droghe a livello internazionale. Perciò il mercato delle importazioni rimarrà inalterato, seppur con iniziali possibili difficoltà di procacciamento della merce.
Infatti, la cocaina è un bene a domanda “rigida” (vale a dire che non solo non esistono beni simili sul mercato, ma a domanda pressoché fissa) perci l’offerta rimarrà quanto meno costante.
Bolivia e Perù: gli astri nascenti della coca
Quindi se la situazione diventasse più complessa in Colombia, anche temporaneamente, la Bolivia (dove la coca è anche spesso più pura) e soprattutto il Perù (dove i gruppi criminali hanno uno stile imprenditoriale) potrebbero sostituirla nella produzione e nell’approvvigionamento. Per farla breve, ai nostri ’ndranghetisti servirà rimanere flessibili, comprendere il sistema locale e offrire soldi e risorse anche all’estero per risolvere problemi.
I partecipanti al convegno internazionale di Bogotà
La lezione colombiana
Dalla Colombia, però, abbiamo da imparare anche noi.
A sentire l’insistenza con cui si parla di pace, inclusa quella dal crimine organizzato, è interessante riflettere sugli strumenti collettivi per ottenerla. Tra questi, la ricerca della verità, la riconciliazione tra vittime e carnefici, la memoria.
Senza memoria (del dolore, delle armi, della violenza, dei traumi collettivi) non si può avere riconciliazione e non si può tentare la pace.
Questo, forse, dovrebbe essere uno spunto di lavoro per la nostra classe dirigente, che si scorda come intere fette della popolazione, soprattutto del Sud (per esempio alcune comunità Aspromontane), debbano ancora comprendere e affrontare le ferite della violenza che fu, con memoria storica, verità e per riconciliarsi con l’eco della violenza attuale.
Ma questa è un’altra storia.
Era partito dalle cucine nella sua Cosenza, Edgardo Greco, e nella cucina di una pizzeria di Saint-Étiennelo hanno trovato, 17 anni dopo che si era persa l’ultima traccia di lui. Da ex cuoco, d’altra parte, il latitante aveva scelto un coltello per farsi un nome nella mala bruzia in gioventù, quando in galera tentò di trafiggere il boss Franco Pino durante l’ora d’aria. Tentativo fallito, ma sufficiente a far ribattezzare “killer delle carceri” uno la cui specialità erano fino a quel momento le rapine.
A Cosenza in quegli anni c’è la guerra tra clan ed Edgardo Greco ha già scelto di schierarsi con quello Perna-Pranno, proprio per un pestaggio che uomini dei Pino-Sena hanno rifilato a lui e suo fratello Riccardo. Ma è per un altro delitto, duplice e riuscito, e un ulteriore tentato omicidio che l’antimafia lo inseguiva ormai dal 2006. Nel primo caso, in qualche modo, c’entra ancora il cibo.
Edgardo Greco, i fratelli Bartolomeo e Mosciaro
L’esecuzione arriva, infatti, il 5 gennaio del 1991 dentrouna pescheria cosentina riconducibile ai Pranno. I fratelli Stefano e Pino Bartolomeo bramano maggiore autonomia criminale, un tentativo di secessione da soffocare nel sangue. Li attirano lì con l’inganno poi li uccidono a suon di botte, percuotendoli a sprangate. I corpi? Irreperibili ancora oggi. Pochi mesi dopo, il 21 luglio, Greco tenterà di eliminare anche Emiliano Mosciaro. La morte dei Bartolomeo gli costerà una condanna all’ergastolo, tanto’è che proprio a seguito di essa, su Greco pendeva un mandato di cattura internazionale dal 2014.
Latitante per 17 anni
Greco nel tempo era stato collaboratore di giustizia, per poi fare marcia indietro e darsi alla macchia quando – era il 2006 – la legge gli aveva presentato il conto per quei delitti di quindici anni prima. Un fantasma per 17 anni, Edgardo Greco, ma gli inquirenti non hanno mai smesso di dargli la caccia.
Sembra che per un periodo abbia vissuto in Germania, senza disdegnare però qualche saltuaria capatina dalle parti di casa. Poi lo hanno cercato in Spagna, Andalusia, nel 2008. Ma quando la polizia si è presentata per acciuffarlo ha trovato suo fratello Riccardo e non lui.
Oggi i carabinieri, insieme a personale delle unità catturandi (Fast) italiana e francese e dell’Unità I-Can dello Scip del Ministero dell’Interno, invece hanno fatto centro. Seppure sotto falso nome, quel pizzaiolo a Saint-Étienne era proprio Edgardo Greco.
«Tenemos muchos otros problemas!», «abbiamo molti altri problemi», mi sorride un agente della Fiscalia General de la Nación, l’ufficio del procuratore nazionale della Colombia, quando iniziamo a parlare della ‘ndrangheta in America Latina. Della serie: sicuramente la ‘ndrangheta è un problema, per l’Italia, l’Europa, il mondo intero, ma di guai legati alla criminalità (organizzata, violenta, strutturata), in Colombia, ce ne sono molti altri.
I-Can: quattordici polizie contro la ‘ndrangheta
La mattinata è iniziata presto: riunione alle 8.30 alla sede della Direzione per le indagini criminali della Polizia di Stato Colombiana, dove anche Interpol ha i suoi uffici. La Colombia fa parte del progetto I-Can (Interpol cooperation against the ‘ndrangheta), fondato e finanziato dal Dipartimento di pubblica sicurezza in Italia, guidato dalla Polizia di Stato. A quest’iniziativa aderiscono altri dodici Paesi, europei e non. La parola chiave di I-Can è cooperazione: cioè condivisione dei dati più veloce, coordinamento delle azioni di contrasto più fluido, e sicuramente un’armonizzazione della conoscenza sul fenomeno ’ndranghetista. Contenuto, accesso e azione.
La sede dell’Interpol in Colombia
La ‘ndrangheta? In Colombia è diversa
È la prima volta che parlo di ’ndrangheta formalmente con autorità di un Paese sudamericano. Ora che sono qui – soprattutto dopo il commento dell’agente della Fiscalia – mi ricordo come mai c’è voluto più tempo per venire in questo territorio e non, per esempio, in Canada o negli Usa. La ’ndrangheta qui è altra cosa rispetto ad alcuni Paesi europei e del globalizzato Nord (allargato anche all’Australia, per ragioni economiche e sociali).
Già dall’inizio di questa riunione – organizzata dalla sottoscritta a fini esplorativi e di ricerca (e dunque senza contenuti protetti e confidenziali), presenziata da unità scelte di Interpol, Fiscalia, e altri membri delle forze dell’ordine – si inizia parlare di chi è chi, nella ’ndrangheta contemporanea, e soprattutto di chi non è chi. La ’ndrangheta, qui in Colombia è un’organizzazione per lo più astratta di cui si conosce poco la struttura – e poco serve conoscerla ai colombiani – la quale ogni tanto si presenta con individui di origine italiana che si muovono in un mercato degli stupefacenti largo e complesso. La criminalità calabrese partecipa da anni a questo mercato, i cui protagonisti assoluti sono però tutti del luogo.
Salvatore Mancuso: dalle Auc al narcotraffico
Una persona su cui si è tanto detto negli anni, per esempio, è Salvatore Mancuso. Salvatore Mancuso Gómez – nato a Monteria, in Colombia, e di origini familiari di Sapri, è stato uno dei principali leader dell’Auc – Autodefensas unidas de Colombia.
L’Auc è stata un’organizzazione paramilitare, dedita al narcotraffico, insurrezionista di estrema destra che durante il conflitto armato interno in Colombia ha combattuto contro Farc, Eln e Epl, altri gruppi di guerriglia organizzata.
L’Auc smobilitò nel 2006 dopo aver goduto del supporto di vari pezzi dell’élite colombiana. Dalle sue ceneri sono nati altri gruppi criminali: ad esempio il famigerato Clan del Golfo, altrimenti detto degli Urabeños, uno dei principali cartelli della cocaina del Paese. Almeno fino a qualche anno fa.
Salvatore Mancuso Gómez, ex leader delle Auc e re della droga
Il re della droga
Questo Mancuso, è bene chiarirlo, non c’entra niente con i Mancuso del Vibonese, protagonisti negli ultimi mesi e anni di svariati processi istruiti dalla Procura antimafia di Catanzaro. L’omonimia però, non mancano di notare i miei interlocutori, è stata spesso notata e ha portato a una serie di fraintendimenti su chi è chi, e chi non è chi.
Salvatore Mancuso non è certo uno ’ndranghetista, sebbene tra i suoi clienti ci siano stati anche i clan calabresi, quelli delle origini, come rivelato da ultimo da un’inchiesta giornalistica di InsightCrime.
Giorgio Sale, il mediatore di Mancuso
Mancuso ai tempi dell’Auc era a capo di un’organizzazione che controllava un vasto territorio dove si produceva la coca. «Ma veda, professoressa, c’è spesso qualche grado di separazione tra i broker della produzione e gli acquirenti».
Detto altrimenti: Mancuso aveva altri che lavoravano per lui e che gli portarono, negli anni ’90, i clienti calabresi.
Tra questi c’era Giorgio Sale, un imprenditore del Molise, morto nel 2015, semi-sconosciuto in Italia (dove poi verrà condannato per narcotraffico), che in Colombia però aveva ristoranti, bar, proprietà immobiliari, utilizzati per riciclaggio di denaro, legati a Mancuso.
Il ritratto di Pablo Escobar in un mercatino di Bogotà
Calabresi e paramilitari: il rapporto perverso
Questa storia già la si sa – è la storia d’inizio del legame tra alcuni clan calabresi e i gruppi paramilitari (e poi criminali) colombiani. Il legame esiste ancora oggi, nonostante l’arresto (e nel 2020 la scarcerazione) di Mancuso, e lo smantellamento dell’Auc e della rete di interessi di Sale.
Infatti, al tavolo della riunione gli sguardi scorrono complici quando si fa il nome del prossimo uomo “di interesse”, che prima lavorava con Sale portando gli acquirenti calabresi – e non calabresi qualunque, ma i platioti – fino a Mancuso: Roberto Pannunzi.
Pannunzi, L’Escobar della ‘ndrangheta in Colombia
Romano ma di famiglia originaria di Siderno, Pannunzi è definito un po’ da tutti il Pablo Escobar della ‘ndrangheta, di cui è il broker più influente di tutti i tempi. Ai suoi reiterati arresti (l’ultimo nel 2013 a Bogotà) hanno lavorato la Procura di Reggio Calabria, la Guardia di finanza, la Dea americana, la Polizia colombiana.
Roberto Pannunzi
Pannunzi non fa ovviamente affari solo con Mancuso: i suoi rapporti con i cartelli colombiani sono radicati e segnano un salto di qualità di una parte della ’ndrangheta nel mercato della cocaina: mandare i propri emissari, direttamente, in Sudamerica, per negoziare meglio con i produttori.
Come si farà ancora con Rocco Morabito, in Uruguay (ma di fatto coordinava la negoziazione dei prezzi e delle provvigioni di coca per conto di clan ‘ndranghetisti per tutta l’America Latina).
Oltre a Pannunzi e in tempi più recenti a Morabito, si fanno i nomi di altri broker italiani, come Enrico Muzzolini, friulano, attivo più o meno negli anni di Pannunzi e in contatto anch’egli con alcuni esponenti dell’ex Auc.
Il mercato maledetto
È passata solo una mezz’ora di questa riunione mattutina a Bogotà e stiamo ancora parlando di storia. Non della ’ndrangheta, ma del mercato della cocaina in Colombia, al cuore del conflitto armato e al centro delle negoziazioni per la pace che il governo colombiano ha attivato (e in parte raggiunto con alcuni gruppi) negli ultimi anni.
I nomi degli ’ndranghetisti che compravano da Pannunzi fino a 10 anni fa, non li conoscono o non li ricordano. Ma in fondo poco conta che fossero i Barbaro-Papalia oppure i Nirta con i loro traffici dalla Spagna, oppure i Commisso per i loro traffici dagli Stati Uniti: «Tenemos muchos otros problemas!», appunto.
Poliziotti colombiani in azione
Però l’interesse per la mafia nostrana c’è eccome: anche se i tempi sono cambiati da Pannunzi in poi, ogni tanto compare ancora qualcuno che porta contatti coi calabresi.
«Se qui le cose sono cambiate, saranno cambiate anche li in Calabria, no?». Questa domanda è l’argomento di un’altra parte della nostra conversazione.
Ad esempio, mi chiedono, se ricordo l’arresto nel febbraio 2021 di Jaime Eduardo Cano Sucerquia, alias J, che fungeva da link con la Colombia per la mafia calabrese.
Strani traffici a Livorno
C’entravano il porto di Livorno e 63 chili di cocaina. Nel 2021, a Livorno, in alcune indagini sul narcotraffico – ad esempio l’operazione Molo 3 – si parlava di un certo Henry, in Colombia, a cui alcuni clan del Catanzarese e del Vibonese si rivolgevano per l’approvvigionamento dello stupefacente.
Sempre nel 2021, l’operazione Geppo aveva invece raccontato di un certo Leonardo Ferro, alias Cojak, che si era recato da Reggio Calabria a Medellin nel 2017 per trattare gli affari direttamente lì, grazie anche all’aiuto di un soggetto di origini colombiane, ma nato nel Regno Unito: “Alex” Henriquez. Insomma, al pari di J, altri broker condividevano quella rotta su Livorno, e soprattutto, abbiamo concluso, il modus operandi è diverso anche in Calabria.
Dario Antonio Úsuga, alias Otoniel
Atomizzati i cartelli – «A Medellin ora ci sono 12 gruppi, invece di un cartello” – e arrestato qualche grande leader – Dario Antonio Úsuga, alias Otoniel, a capo degli Urabeños, che lascia una situazione complessa nel suo gruppo – adesso serve saper fare affari con tutti, perché ci sono più affari da fare. E questo lo sanno anche i calabresi.
Una mafia senza nomi
La riunione continua, ma appare chiaro che la ‘ndrangheta a questo tavolo non ha nomi e cognomi. È un’organizzazione “piatta” di cui contano poco i connotati specifici.
La si conosce, la ‘ndrangheta perché offre dei servizi, ma ne compra di più – primo fra tutti la cocaina – e, diversamente da altre strutture, ha una ramificazione internazionale che permette di “cadere in piedi”.
‘Ndrangheta in Colombia? Solo compratori potenti
Non si parla di riti, di doti, né di capi-mafia e uomini d’onore. Qui – nel Paese che ha il triste primato di esportatore di cocaina verso il ricco Nord del mondo e la ricca Europa – la ’ndrangheta è un gruppo di acquirenti stranieri che, a monte come a valle, ha il potere di influenzare il narcotraffico.
Cosa dobbiamo sapere, chiedono, della struttura della ’ndrangheta? E cosa dobbiamo sapere noi, chiedo io, dell’attuale situazione colombiana? Lo chiariremo nella prossima puntata.
Reggio Calabria e la sua provincia sono riconosciute, unanimemente, come le capitali “politiche” e “amministrative” delle ‘ndrine. Milano è invece la capitale economica della ‘ndrangheta. Il capoluogo lombardo e il suo hinterland, da sempre, sono terra di conquista per le cosche. E nulla conta la convinzione del profondo Nord di avere gli anticorpi per resistere al contagio del crimine organizzato su quei territori.
Milano, l’altra capitale della ‘ndrangheta
È proprio a Milano e dintorni che la ‘ndrangheta muove le masse di denaro più cospicue. E, come spesso accade, tra i primi a capire che quello è il canale giusto ci sono i De Stefano. Ossia la cosca che maggiormente ha modernizzato la ‘ndrangheta, facendola passare da una condizione agro-pastorale a una holding del crimine.
La presenza capillare della ‘ndrangheta a Milano è ormai anche riconosciuta da sentenze definitive, quali quelle arrivate con le due maxi-inchieste “Crimine” e “Infinito”. Entrambe testimonieranno la fitta comunicazione, sempre attiva, sempre costante, tra chi opera al Nord e la “casa madre” calabrese. Partirà, per esempio, proprio dalla Calabria la decisione di “posare” Carmelo Novella, detto Nunzio, boss scissionista. Voleva fare le cose in grande, ma la sua voglia di indipendenza verrà soffocata sul nascere e nel sangue.
Gli affari nella “Milano da bere”
Già a partire dagli anni ’80, i De Stefano, insieme a Franco Coco Trovato, investono ingenti capitali nel Nord Italia, in particolare nel capoluogo meneghino. A Milano spartiscono il traffico degli stupefacenti con altre cosche della ‘ndrangheta e con i clan della camorra e della mafia. Nel 1990, Coco Trovato ingaggia per circa 6 mesi una sanguinosa faida con i Batti, camorristi, che decidevano di mettersi in proprio e contrattare direttamente la compravendita di eroina con i turchi. Il pretesto per scatenare la guerra era un diverbio tra Franco Coco Trovato e Salvatore Batti durante un incontro nell’appartamento dove Pepè Flachi si nascondeva durante la sua latitanza.
Pepè Flachi
Negli anni ’90, dunque, la ‘ndrangheta capitalizza quello che ha costruito a partire dagli anni ’70. La forza della ‘ndrangheta sta anche nell’essere riuscita a colonizzare Milano e il ricco Nord, entrando con maggior forza nel traffico di stupefacenti e vedendo accrescere il proprio potere nel contesto delinquenziale anche a livello nazionale. Secondo alcune fonti, nel 1980Giuseppe Piromalli entra a far parte della “commissione interprovinciale” di Cosa Nostrain rappresentanza di tutte le famiglie calabresi. Ruolo centrale quello rivestito, ancora una volta, dalla famiglia De Stefano, che riuscirà a comprendere prima di tutti l’importanza di colonizzare luoghi come la Lombardia, attraverso famiglie ad essa collegate.
De Stefano a Milano: la ‘ndrangheta mette su famiglia
Uno dei figli di don Paolino De Stefano, Carmine, dopo l’uccisione del padre si trasferisce per alcuni mesi, unitamente al fratello Giuseppe ed alla madre, nella residenza francese dei De Stefano e, precisamente, nella villa “Tacita Georgia” di Cap d’Antibes. Nel capoluogo meneghino, poi, la cosca De Stefano mette radici. E famiglia. Carmine De Stefano, infatti, diventa genero di Franco Coco Trovato, considerato uno degli esponenti più importanti della ‘ndrangheta in Lombardia.
L’arresto di Paolo De Stefano a Cap d’Antibes
Quello, infatti, è un territorio fondamentale e assai fluido: personaggi come Coco Trovato, ma anche Pepè Flachi, i fratelli Papalia, il gruppo Sergi-Morabito, i fratelli Ferraro danno vita a fusioni, creano nuovi schieramenti, stringono nuove alleanze e mutano fronte.
Basta la parola
L’attività delle cosche sul territorio si svolge soprattutto nella commissione dei reati di estorsione, traffico di stupefacenti e di armi, di rapine, furti e truffe, nonché di fabbricazione e spaccio di banconote false. Ma i clan mettono le mani anche sui locali della “Milano da bere” e non solo: discoteche e night club anche nel Comasco e nel Varesotto.
Spesso non sono necessari atti di violenza per riscuotere le tangenti. Ormai la situazione si era stabilizzata nel senso che i titolari degli esercizi pubblici taglieggiati erano in condizioni di sottoposizione e di impossibilità di reagire, che rendono palese l’efficacia minatoria dell’associazione indipendentemente dall’effettivo ricorso alla violenza, di cui bastava solo la prospettazione, anche implicita.
Franco Coco Trovato, uno dei signori della ‘ndrangheta a Milano
Uno dei gruppi più importanti nasce nel 1986 dalla fusione di due sodalizi distinti, quello dei Flachi e quello dei Coco Trovato. La “Milano da bere” necessita di droga. E la ‘ndrangheta gliela fornisce. Emblematico quanto dichiara in collaboratore di giustizia: «[…] In Comasina si smerciavano due chili di eroina ogni settimana, in Bruzzano altrettanti, alle “baracche” 7 kg ogni mese, ne smerciavano circa due al mese. Quindi alla fine del mese, si trattava di uno smercio di almeno 25 kg circa di eroina… Questo almeno dall’82 all’86 con incrementi progressivi… per la cocaina confermo quello che ho detto, e cioè che dai palermitani riuscivamo ad avere al massimo due kg al mese, quando loro l’avevano. Tanta ne smerciavamo. Naturalmente, i quantitativi che io ho prima indicato sono da riferire alla sostanza intesa come “pura” che, da me tagliata, si raddoppiava almeno».
Franco Coco Trovato
Gli esordi di Franco Trovato (chiamato Franco Coco fino al 1991, anno in cui è intervenuto un riconoscimento di paternità), notoriamente caratterizzati dall’esecuzione di gravi rapine, sono stati narrati dal collaboratore Antonio Zagari nell’interrogatorio reso al Pubblico Ministero di Milano l’11 novembre 1992.
Dalle rapine e i sequestri al traffico di stupefacenti
«Ho conosciuto Franco Coco … nel 1969 o 70. Io, all’epoca, ero giovanissimo ed avevo circa 15/16 anni. […] Ricordo che, trasferitosi al nord, entrò subito a far parte di un gruppo di persone dedito alla consumazione di rapine; di questo gruppo mio padre era il “basista” nella provincia di Varese e ne facevano parte varie persone, tra cui alcune molto importanti nella ‘ndrangheta… su un livello inferiore vi erano membri della ‘ndrangheta più giovani, quali Franco Coco (originario di Marcedusa e trasferitosi nel lecchese)», racconta Zangari.
«Tutti costoro erano pacificamente e con certezza assoluta appartenenti alla ‘ndrangheta e come tali frequentanti la casa di mio padre… Rividi fuori dal carcere il Coco nell’82 e ’83… a questo punto era assolutamente noto tra di noi che il Coco aveva abbandonato le vecchie attività di rapine e di sequestri di persone e si era dato al traffico di stupefacenti che controllava e dirigeva nella zona di Lecco», prosegue.
Un locale ufficiale nel lecchese
La rapida ascesa di Coco Trovato nel panorama della criminalità organizzata di matrice calabrese trova riscontro nei racconti di tutti i collaboratori di rilievo. Anche Saverio Morabito ha riferito che Coco si era rapidamente radicato nella zona di Lecco, intrattenendo rapporti di buon vicinato con altre cosche (egli per esempio, al pari di Flachi e Schettini, si recava a Corsico per intrattenere pubbliche relazioni con la famiglia Sergi e con lo stesso Morabito).
Un panorama di Lecco, sul lago di Como
D’altra parte, grazie ai rapporti sempre più stretti instaurati con la famiglia De Stefano di Reggio Calabria, e dopo alcuni insuccessi, Coco era riuscito ad ottenere il riconoscimento ufficiale dell’esistenza di un “locale” della ‘ndrangheta nel lecchese, struttura della quale era ovviamente il capo riconosciuto.
Vacanze, Jaguar e colletti bianchi
Racconta ancora Zagari: «Rammento anche che De Stefano, durante la comune carcerazione a Lecco, offrì ai figli di Coco un soggiorno gratuito a Reggio Calabria per le ferie dell’estate dell’83. Anche noi Zagari, come avevo detto, eravamo all’epoca molto legati al Coco tanto che, sempre nell’83, quando si sposò la sorella del Coco, su richiesta di quest’ultimo formulatami in carcere, io dissi a mio fratello Andrea e a mio cugino Sergi Franco di mettere a disposizione della sorella di Coco, per il matrimonio, una Jaguar nera adatta per le cerimonie, che servì agli spostamenti della sposa».
Personaggio da Romanzo Criminale, Franco Coco Trovato assurge ben presto a soggetto di estrema rilevanza nell’ambito criminale della Lombardia. Anche perché, come da ampia tradizione della ‘ndrangheta, può contare su una serie ampia di “colletti bianchi”, piegati alle esigenze dei clan. Tra questi, l’avvocato Franco Mandalari (coinvolto in indagini proprio in Lombardia), che secondo alcune fonti giudiziarie poteva ungere gli ingranaggi giusti per ottenere benefici nelle sentenze, qualora gli uomini di Coco Trovato fossero stati arrestati.
‘Ndrangheta a Milano: l’unione fa la forza
L’alleanza tra Pepè Flachi e Franco Coco Trovato, dalla quale nacque l’organizzazione unitaria, fu definitivamente sancita durante l’estate del 1986. Flachi aveva liquidato la sua vecchia società, ed era rimasto con pochi uomini di elevato livello al proprio fianco. Coco, d’altra parte, estendeva sul milanese, per via dell’alleanza, il dominio già esercitato nella zona nord occidentale della Lombardia. E la comune appartenenza dei due uomini alla ‘ndrangheta, che certamente aveva favorito i rapporti tra i due gruppi anche in anni precedenti, aveva di fatto contribuito, dopo uno sviluppo graduale delle relazioni, alla creazione di un’unica struttura delinquenziale retta da un patto di “società”.
Un altro collaboratore di giustizia, Emilio Bandiera, per anni uomo inserito nella ‘ndrangheta milanese, specifica: «Furono fatti, naturalmente, vari discorsi ed alla fine fu deciso che i due gruppi si mettevano insieme: i proventi del traffico di stupefacenti e di altre attività delittuose (tra cui estorsioni) sarebbero stati divisi al 50%, mentre Coco e Flachi avrebbero unito le forze mettendo insieme le rispettive bande e i propri fornitori di stupefacenti e i clienti».
«Da quel momento – prosegue Bandiera – presero a controllare un vasto territorio comprendente la Comasina, le baracche di via Novate, Bruzzano e tutto il territorio di Lecco e di parte della Brianza (controllato da Franco Coco). La società determinò subito un vero e proprio salto di qualità nella misura dei profitti che da parte loro si conseguivano. Non esito ad affermare che i due sono proprietari di un patrimonio immobiliare e liquido che è valutabile in decine di miliardi».
Ci sono anche gli Arena-Colacchio
Così, il gruppo Flachi-Coco Trovato diviene una validissima articolazione milanese sia del gruppo reggino dei De Stefano-Tegano, sia degli Arena-Colacchio di Isola Capo Rizzuto. Le attività criminali, esercitate dal clan, spaziavano dai delitti contro il patrimonio (in specie estorsione, usura, furti, ricettazioni), a quelli relativi a traffici di stupefacenti, di armi, omicidi di appartenenti ad organizzazioni avversarie per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o il controllo di attività economiche.
In particolare mettono le mani su ristoranti, bar, pizzerie, esercizi commerciali operanti nel campo dell’abbigliamento, dell’arredamento, del movimento terra, distributori di benzina ed autolavaggi, palestre, società finanziarie ed immobiliari, imprese di costruzione e/o di gestione immobili, imprese di demolizione auto e commercio rottami, imprese di trasporto. Tutto, riportano gli atti, per acquisire la proprietà di beni immobili (edifici, appartamenti, terreni etc.) e di beni mobili di valore, e per procurare profitti ingiusti (anche derivanti dal controllo e dalla gestione di bische clandestine) a sé o ai propri familiari.
I rapporti con la mafia siciliana e le stragi
La Lombardia, da sempre, è una sorta di camera di compensazione. Lì le consorterie criminali dei vari territori d’Italia si incontrano e si spartiscono gli affari. Quasi sempre in maniera piuttosto lineare e senza bisogno di spargimento di sangue.
Sul punto riferisce, tra gli altri, il collaboratore Franco Pino, uomo forte della ‘ndrangheta del Cosentino in contatto con i Piromalli, i Mancuso, i Pesce, ma anche con i casati del capoluogo reggino, e quindi i De Stefano, i Tegano, i Condello e i Fontana. Pino ricorda traffici di armi con la Sicilia e in particolare un carico di kalashnikov proveniente da Palermo arrivato a Cosenza.
Il boss, poi pentito, Franco Pino
Pino racconta anche dell’ormai celeberrima riunione di Nicotera, dove Cosa Nostra, in quel periodo impegnata nella sua strategia stragista, avrebbe chiesto il coinvolgimento della ‘ndrangheta. In quell’occasione Coco Trovato e Pesce illustrano una proposta portata dai Brusca per conto di Totò Riina.
I siciliani avevano già iniziato a commettere le stragi. E dicevano di volere un appoggio sull’attività stragista da parte della ‘ndrangheta, anche perché le eventuali conseguenze negative della legislazione sarebbero ricadute sulla criminalità calabrese.
Il racconto di Franco Pino
«In particolare chiedevano se noi fossimo disposti a commettere, da parte di chi ne aveva la maggiore possibilità, attentati ad obiettivi istituzionali, non per forza rivolti ad uccidere un numero indeterminato di persone ma certamente finalizzati a far capire che si trattava di attentati veri, in modo da procurare più terrore possibile e più danni possibile, ed eventualmente anche vittime; ad esempio obiettivi idonei potevano essere caserme o piccole stazioni dei Carabinieri site nei paesi, o simili. La contropartita consisteva, come fu detto espressamente, nel cercare di ottenere vantaggi dallo Stato, come una sorta di trattativa», afferma Pino.
‘Ndrangheta a Milano: Paolo Martino e gli anni 2000
Ruolo importante, nel Milanese, quello svolto dai De Stefano. Non solo attraverso Coco Trovato. Un nome di grande peso è quello di Paolo Martino, cugino dei De Stefano. Martino viene indicato dai collaboratori di giustizia come uomo forte già negli anni ’90 con riferimento alle riunioni tenute per prendere le decisioni sulla strategia stragista. Negli anni 2000, invece, Martino torna prepotentemente alla ribalta sotto altra veste. Sarebbe lui, infatti, il contatto tra la Giunta Comunale di Reggio Calabria, del sindaco Giuseppe Scopelliti, e l’impresario dei vip, Lele Mora. Il Comune del sindaco Scopelliti, infatti, spenderà oltre 100mila euro per la realizzazione della “Notte Bianca” in riva allo Stretto.
L’ex presidente della Regione, sindaco di Reggio Calabria e commissario alla Sanità, Giuseppe Scopelliti
All’impresario delle star, Scopelliti sarebbe arrivato infatti tramite quel Paolo Martino, legato da rapporti di parentela alla potentissima cosca De Stefano e della quale sarebbe la diretta proiezione in Lombardia. Così lo definiscono gli investigatori nelle carte d’indagine che lo conducono in carcere per i propri rapporti con il clan Flachi: «Martino è uno di quei personaggi che ha ampiamente superato la fase della delinquenza “nera” perpassare al livello della mafia imprenditoriale, con contatti ad alto livello economico e politico».
Scrive il Ros: «Non vi è dubbio che Martino Paolo, rispetto alla normalità dei soggetti attenzionati e gravitanti nell’ambito dell’organizzazione mafiosa, rappresenti un livello qualitativo decisamente più elevato. Nato nel rione Archi del capoluogo calabrese, roccaforte destefaniana, è cugino del noto capomafia De Stefano Paolo e si è inserito, all’interno della cosca, con l’autorevolezza e la forza del mafioso di rango. Le sue vicende criminali, iniziate negli anni Settanta, lo hanno progressivamente qualificato come elemento di vertice di quell’aggregato mafioso».
Il boss, il sindaco e il manager dei vip
Oggi ultrasessantente, Martino comincia a sparare da minorenne e già a partire dai primi anni ’80 inizia a collezionare condanne su condanne, per associazione mafiosa e per droga, passando anche diversi periodi in latitanza. Sarà lui stesso a dichiarare al Gip di Milano, Giuseppe Gennari, il quale firma la maggior parte delle ordinanze contro la ‘ndrangheta in Lombardia, di aver messo in contatto Mora e Scopelliti: «Arriviamo lì e ci sediamo in ufficio. Io dico: “Lele, oltre a essere sindaco di Reggio Calabria è un amico mio. Però la cosa importante è che ti sto portando una persona che ti porta lavoro, cerca di fare qualche cosa interessante insieme”».
Lele Mora
Al Gip Gennari, Martino racconterà inoltre di conoscere un po’ tutti i membri della famiglia Scopelliti: oltre a Giuseppe il politico, anche Consolato (detto Tino) e un altro fratello, anch’egli impegnato in politica, a Como. «Perché sono una persona perbene», dice. Affermazioni che, tuttavia, non hanno mai portato ad alcun coinvolgimento penale delle persone menzionate da Martino.
Valle e Lampada: al servizio della cosca Condello
Non ci sono solo i De Stefano, tuttavia. Anche la cosca Condello, soprattutto nei primi anni 2000, avrebbe avuto i propri importanti avamposti milanesi. In particolare nei membri delle famiglie Valle e Lampada. Secondo gli accertamenti svolti dal Ros, «i fratelli Lampada (Giulio e Francesco, ndr) rappresentano quelle tipiche figure criminali che si innestano pienamente nel substrato mafioso, compiti e ruoli connessi alla gestione del patrimonio economico del cartello mafioso investigato, riconducibile a Condello Pasquale». Non una cosca indipendente, dunque, ma una propaggine del più famoso clan Condello.
Franco Morelli ed Enzo Giglio
Negli anni in cui gli uomini del Ros redigono l’informativa, i Lampada sono ancora degli “illustri sconosciuti”. Che, però, svolgerebbero già il ruolo di teste di ponte del “Supremo” in Lombardia «con il compito di reinvestire nell’economia pulita, gli enormi profitti illeciti». Lì a Milano, i Valle-Lampada avrebbero avuto relazioni privilegiate con diversi esponenti politici, tra cui l’allora consigliere regionale Franco Morelli. Ma anche con i magistrati Enzo Giglio e Giancarlo Giusti. Anche i rapporti con il mondo della politica, sarebbero, secondo il Ros, indicativi del legame, strettissimo, tra i Lampada e i Condello. Dati, quelli raccolti dai Carabinieri che darebbero la misura di «quanto fosse forte l’esistenza di un intreccio di affari criminali – economici tra gli appartenenti alla famiglia Lampada e lo stesso mondo politico calabrese, asserviti alle esigenze ed all’ottenimento di “favori” personali, comunque, riconducibili alla consorteria di Pasquale Condello».
Pasquale “Il Supremo” Condello tra due carabinieri
I macellai e il Supremo
I Lampada, dunque, anche attraverso il business delle slot machine, sarebbero riusciti, in poco tempo, a costruire un impero partendo praticamente da zero: quando vanno via da Reggio Calabria, infatti, sono proprietari solo di una macelleria nel rione Archi. A Milano, invece, avrebbero conquistato fette enormi di mercato nei settori più svariati: «Si tratterebbe e non potrebbe essere diversamente, di patrimonio riconducibile alla cosca Condello, reinvestito nella città di Milano dai suoi sodali. E qui emerge tutta la forza e la potenza della cosca indagata, capace di mimetizzare l’immenso capitale acquisito illecitamente, mediante nuove e più efficienti forme di riciclaggio e di reinvestimento dello stesso, sempre più tendente ad un’unificazione del mercato legale e di quello illegale».
‘Ndrangheta a Milano: i Piromalli
Ma, come nei più classici cliché dei “corsi e ricorsi storici” di Giovambattista Vico, si parte dai Piromalli di Gioia Tauro, per ritornare, infine, proprio al grande casato di ‘ndrangheta. Una delle grandi inchieste degli ultimi anni, denominata “Provvidenza”, certificherà la presenza, ancora importante, ancora pervasiva dei Piromalli negli affari milanesi.
Giuseppe “Pino Facciazza” Piromalli
Elemento centrale, Antonio Piromalli, figlio di Pino Piromalli, detto “Facciazza”. Proprio per volere del padre, Antonio Piromalli si era trasferito a Milano, nel tentativo di abbassare l’attenzione su di lui, non solo da parte delle forze dell’ordine, ma anche delle altre famiglie mafiose. Pino Piromalli “Facciazza”, classe 1945, aveva infatti investito il figlio di pieni poteri, sebbene l’uomo avesse continuato a reggere le fila della cosca, prima dal 41bis dopo la condanna definitiva nel processo “Cent’anni di storia”, e poi da uomo libero, con la scarcerazione avvenuta nel 2014.
«Hanno amici dappertutto»
Lo storico casato gioiese, peraltro, muoveva ingenti somme di denaro con l’esportazione di prodotti ortofrutticoli verso i mercati del nord Italia, controllando alcune aziende inserite nel mercato ortofrutticolo milanese, a cui assicurava, per il tramite di un consorzio con sede nella Piana di Gioia Tauro, la fornitura dei prodotti, garantendo, con le note tecniche di intimidazione, prezzi di acquisto concorrenziali e il buon esito delle operazioni commerciali
Per il pentito Furfaro, inchieste, arresti e decessi non hanno incrinato la leadership della cosca di Gioia Tauro: «Oggi i Piromalli sono la famiglia militarmente più forte d’Italia. Hanno “amici ” dappertutto. Questo tanto a Gioia Tauro quanto fuori. La Lombardia è nelle loro mani, ogni questione relativa ad appalti e quant’altro viene ripartita tra le famiglie più importanti. È quindi inevitabile che abbiano un peso specifico anche lì. Si diceva fosse Antonio Piromalli, classe 1972, occulto gestore del mercato ortofrutticolo a Milano e che questi avesse significativi interessi anche in questo settore; Gioacchino Piromalli andava spesso a Milano. Credo che lì avesse uno studio in comune con altro avvocato».
Riassunto delle puntate precedenti: Matteo Messina Denaro viene arrestato il 16 gennaio 2023 dopo latitanza trentennale. Nel frastuono mediatico, si è rinvigorito lo spettro massonico, ossia l’evocazione di un potere occulto, nutrito di mentalità mafiosa, che avrebbe coperto il boss impedendone la cattura. Tesi accattivante, non fosse per la vaghezza di queste affermazioni.
Troppo spesso una presenza massonica viene richiamata senza curarsi delle evidenze storiche e sociologiche (per non parlare della rilevanza penale) di quel fenomeno – esistente, seppur dai confini labili – che è la borghesia mafiosa. Tale si definisce quella classe sociale connotata da pratiche illecite sistematiche, alimentate dal contatto ravvicinato tra mafie e “potere” (istituzionale o politico). Nonostante le ambiguità, rimane valida la domanda: che tipo di protezioni ha avuto Matteo Messina Denaro, e soprattutto, quanto c’entra la massoneria?
Massondrangheta e apericene
I termini massomafia e massondrangheta dovrebbero cadere in disuso. Parole assimilabili a ristopizzerie, gastropub, o apericene: espressioni lessicali che fondono due cose diverse, preservandone l’identità doppia. Per pigrizia linguistica, non si trovano espressioni più appropriate e articolate. Si uniscono due concetti singolarizzati all’estremo – tutti fenomeni plurali, compositi, stratificati – come massoneria e mafia o ‘ndrangheta (fino a che non esca una massocamorra, o peggio una massosacracoronaunita…). Poi li si semplifica fino all’osso sublimandone la natura in un concetto sdoppiato, indefinito, inutilizzabile a livello di analisi.
La massoneria è un fenomeno storico, sociale e organizzativo, contraddistinto da fumose aspirazioni di elevazione personale e sociale. La mafia e la ‘ndrangheta sono organizzazioni criminali, da contestualizzare storicamente e sociologicamente. Di fatto, le condotte di mafiosi e massoni vanno attribuite a specifiche persone e sottogruppi, con un impatto differenziato a seconda della funzione esercitata.
Massoni deviati e mafiosi
Il ruolo sociale con cui si arriva alla massoneria spesso detta la motivazione per entrarvi: opportunità di affari, per molti; volontà di seguire un percorso d’illuminazione spirituale, per alcuni; opportunità di incontrare persone di analoga estrazione sociale e accrescere il proprio prestigio, per altri. Il comportamento qui conta più che lo status. Del resto, lo status di “massone” – a differenza, in certi casi, di quello del “mafioso” – non è affatto indipendente. Nessuno è “professionalmente” soltanto massone (a parte forse i vertici delle principali obbedienze). Esistono il medico-massone, l’avvocato-massone, il politico-massone, e via discorrendo.
Si possono individuare quattro formule di interazione in cui la figura di un massone deviato, cioè un massone che non segue la vera ‘chiamata’ della massoneria – all’interno di logge irregolari, spurie, coperte, segrete, o interamente devianti – interferisce nel rapporto tra mafie e potere. Le abbiamo individuate e analizzate in una ricerca sviluppata assieme al professor Alberto Vannucci.
P2 e Iside 2: comandano i venerabili
Prima formula: il massone (formalmente in regola o meno con gli statuti della sua obbedienza, ma comunque deviato) è promotore di condotte illecite in un network in cui egli stesso fa da garante agli scambi tra attori di varia estrazione, inclusi i mafiosi e i politici/funzionari. Questo è il caso della P2 di Licio Gelli – ragno in mezzo alla sua ragnatela, o meglio burattinaio, come lui stesso si autodefinì – nella vicenda che ha irreversibilmente modificato la narrazione sulla natura della massoneria contemporanea in Italia, ridotta nell’immaginario collettivo a sede occulta di affari illeciti e maneggi loschi affidati alle potenti mani di insospettabili.
Licio Gelli, è stato il capo della P2
È anche il caso, sempre negli anni ’80, della loggia Iside 2 di Trapani (che faceva capo al Centro studi Scontrino) – unico processo penale in cui si è applicata con successo la legge Anselmi(approvata dopo lo scandalo P2) contro l’interferenza nella vita pubblica delle società segrete. Il maestro venerabile della loggia Iside 2, il docente Giovanni Grimaudo, imitando Licio Gelli, pilotava le attività illecite di un reticolo di affiliati composto da “colletti bianchi”, ma anche da alcuni esponenti di Cosa nostra: tutti portavano in dote opportunità, entrature, risorse.
Grimaudo, come Gelli, offriva servizi di “protezione”, risolvendo i problemi che affliggevano i fratelli nei loro rapporti con l’apparato pubblico. Sia nella P2 che in Iside 2 ai massoni era reso pressoché impossibile incontrarsi e accordarsi tra di loro: tutto doveva passare per l’intermediazione dei maestri venerabili, realizzando così una piena personalizzazione in capo a un solo soggetto dell’attività massonica deviata.
Rinascita-Scott, la quasi massondrangheta
Seconda formula: il massone (deviato) è parte di un network di vari soggetti, coinvolti in attività e scambi informali, illeciti, o criminali, inclusi i mafiosi e i politici/funzionari, senza che nessuno abbia un ruolo dominante. Qui il massone deviato opera all’interno di una cerchia in cui gli scambi di favori, gli illeciti e gli abusi coinvolgono congiuntamente una pluralità di attori. Sono le frequentazioni tra avvocati, medici, politici e imprenditori, oltre che con mafiosi o ‘ndranghetisti, più che lo status di massone, a facilitare la loro proficua interazione. Lo status di massone può amplificare la devianza, all’interno di una camera di compensazione tra contropartite.
Nicola Gratteri durante il maxi processo Rinascita-Scott
È questo il caso presentato nel maxiprocesso Rinascita-Scott– non concluso– quando si fa riferimento ad avvocati presunti massoni coinvolti in pratiche di corruzione e presunti reati di concorso esterno in associazione mafiosa.
È anche il caso dell’operazione Geenna, in Valle D’Aosta: un massone (presunto/irregolare) avrebbe tentato di coordinarsi con ‘ndranghetisti locali per convincerli a entrare in una nuova loggia utile a canalizzare consenso elettorale; alcuni degli ‘invitati’ si sentono tra loro per valutare questa opportunità e rinunciano, ma stringono altri accordi sottobanco.
La paramassoneria e la mafia defilata
Terza formula: il massone (deviato) è figura marginale in un network dominato da ‘potenti’ (in ruoli politici e istituzionali) che regolano autonomamente attività illecite, con la sporadica inclusione dei mafiosi. Nell’Operazione Artemisia (2019) a Trapani, o meglio a Castelvetrano (paese di Matteo Messina Denaro) un ex assessore regionale siciliano avrebbe dato vita a un’entità para-massonica, in parte sovrapposta ad una loggia ufficiale, della quale il vero maestro venerabile ignorava l’esistenza. Il gruppo operava a prescindere dalle direttive della loggia regolare, permettendo ai suoi membri ‘coperti’ di aiutarsi a vicenda, a spese dei massoni regolari, in caso di necessità. A queste intese nell’ombra partecipavano altri soggetti, spesso neppure massoni, che influenzavano assunzioni e carriere negli enti pubblici.
Matteo Messina Denaro nella sua foto più celebre
In un simile contesto la capacità di accordarsi ‘privatamente’ può tenere ai margini la mafia, giacché i mafiosi “portano problemi”. Un massone siciliano coinvolto in Artemisia racconta che il maestro venerabile della loggia aveva preferito cambiare obbedienza, dalla Gran Loggia d’Italia al Grande Oriente, per ragioni di opportunità, ossia “il tentativo dei massoni della Gran Loggia d’Italia di Agrigento di far entrare nella loggia di Castelvetrano personaggi vicini a Cosa nostra”. I mafiosi, dunque, e solo alcuni – persino qualcuno come Matteo Messina Denaro – possono restare defilati, clienti o amici di un gruppo di potenti “colletti bianchi” in grado di “governare” autonomamente i propri patti segreti senza ricorrere ai mafiosi. L’ex consigliere regionale dichiarerà di conoscere Messina Denaro fin dall’adolescenza, e di avere avuto il suo appoggio in ambito politico-elettorale, non massonico.
Massondrangheta: la Santa e Porta Pia
Quarta formula: il massone (deviato) è mafioso egli stesso o pienamente coinvolto in una struttura mafiosa che ha tratti (para/pseudo) massonici, essendosi appropriato del capitale simbolico (e relazionale) della massoneria. È quanto emerge a Reggio Calabria dagli ultimi processi Gotha, ‘Ndrangheta Stragista, Meta e altri più datati come Olimpia, trent’anni fa. In questo contesto alcuni massoni (deviati) vengono “plasmati” nella loro nuovo identità dalla ‘ndrangheta, facendo emergere col tempo un sistema di potere integrato, in cui solo i clan hanno mantenuto la loro identità criminale, mentre si è diluito fino a perdersi del tutto il senso di fratellanza a una “obbedienza massonica”. Non ci sono più politici che supportano i clan, o viceversa, bensì politici legati a doppio filo all’associazione tra vari clan dominanti in quel territorio.
Bruciare santini e immagini sacre fa parte dei rituali di affiliazione alla ‘ndrangheta
Quest’associazione – a un dato momento chiamata Santa o Società di Santa – agiva/agisce come una setta segreta, una sezione riservata (invisibile, per gli inquirenti) che si eleva al di sopra della ‘ndrangheta dedita allo sgarro (la criminalità comune). Il santista era allo stesso tempo massone e ‘ndranghetista: perché ciò potesse accadere, si operò negli anni ‘60-‘70, un cambiamento radicale all’interno dell’élite dell’Onorata Società, ammettendo anche “esterni”, non ndranghetisti. Non più intermediazione massonica tra “mondi” (criminali e dei colletti bianchi) autonomi e separati, ma integrazione tra ruoli, all’interno di un’infrastruttura organizzativa, con un capitale simbolico e relazionale comune, che è terza – né massoneria, né mafia, ma con attributi di entrambe – cesellata da rituali massonici prestati alla ‘ndrangheta.
Dirà il collaboratore Cosimo Virgiglio: «Dopo il 1995, abbiamo descritto il rapporto con questa criminalità, con la ‘ndrangheta, come un “varco” e nel nostro linguaggio, nel nostro gruppo riservato, si parlava di “Porta Pia”, in riferimento alla “breccia di Porta Pia”… Diverso il discorso per gli ‘ndranghetisti, per i quali questa apertura era chiamata Santa». È il caso più eclatante di rapporto integrato tra massoneria deviata e ‘ndrangheta, in cui entrambe le organizzazioni sembrano cambiare pelle nel perseguire le finalità degli affiliati, al punto da dar vita a una nuova entità che conserva alcuni attributi delle sue matrici, ma non gli scopi originari.
La vera anomalia italiana
Che in Italia vi siano state molteplici occasioni di incontro tra mafiosi, politici, imprenditori e professionisti – che erano/sono anche massoni per scelta o per occasione – non implica che dalle loro relazioni nascoste sia germogliato il seme di un’integrazione, o che si siano alterate identità e finalità. La compresenza di fenomeni diversi non significa che siano correlati, né che tra essi esista un nesso causa-effetto.
Se cercassimo quanto più si approssima all’ambiguo concetto di massomafia, solo la quarta formula potrebbe esservi – con cautela – assimilata. Le altre realtà, in misura maggiore o minore, raccontano di sovrapposizioni e intrecci strumentali, talvolta solo occasionali, legati a personaggi e contesti specifici.
Ma da queste formule si ricava uno spunto importante: mafiosi e massoni deviati si trovano spesso in posizioni subalterne o paritarie rispetto a politici, funzionari e figure istituzionali o professionali coinvolti in scambi illeciti o favoritismi a sfondo criminale. Ciò è particolarmente evidente nella seconda e terza formula: la vera anomalia italiana è l’ampiezza delle sfere di informalità, illegalità e corruzione che coinvolgono i “potenti”. E la loro attività criminale si nutre di segretezza, simboli, riconoscimenti, frequentazioni, ostentazioni di onnipotenza, aspettative di impunità. Mafia e massoneria (deviata) sono interlocutori e sedi ideali per propiziare i crimini dei potenti, la cui complessità richiede però nuovi concetti e strumenti di analisi per essere compresa.
(in collaborazione con Alberto Vannucci, professore di Scienze politiche, Università di Pisa)
Enzo Lo Giudice, paolano doc scomparso nel 2014, fu l’avvocato di Bettino Craxi ai tempi di Tangentopoli.
Infatti, era diventato noto, soprattutto negli ultimi anni, per la sua difesa a spada tratta nelle aule del Tribunale di Milano del leader del Garofano.
Eppure Lo Giudice non fu solo il difensore del segretario del Psi.
Lo Giudice marxista e rivoluzionario
Nel 1968, l’avvocato fu tra i fondatori della rivistaServire il Popolo e dell’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti). Quest’ultima era una formazione extraparlamentare piccola e combattiva, molto critica nei confronti de Pci. E vi militò, come padre fondatore, anche Aldo Brandirali, diventato in seguito esponente di spicco di Comunione e Liberazione.
Enzo Lo Giudice, così lo racconta Stefano Ferrante nel suo libro La Cina non era vicina, era un organizzatore di rivolte dei contadini calabresi e dei senza casa.
Ma riavvolgiamo il nastro. Sin da giovanissimo Enzo Lo Giudice coltivò la passione per la politica.
Figlio di ferroviere, aderì al Psi. Militò nella corrente di sinistra di Lelio Basso. Già collaboratore de La parola socialista, il periodico di Pietro Mancini, Lo Giudice passò nel Psiup. «Era un periodo – disse una volta – in cui rinnegavamo la linea revisionista di tipo elettorale che aveva corrotto il Pci dopo la svolta di Salerno di Togliatti nel 1944».
Avvocato e scrittore
Arrestato nel 1971 durante un comizio, Enzo Lo Giudice si alternò tra l’avvocatura (fu tra i difensori nel processo napoletano ai militanti dei Nuclei armati proletari), e la scrittura. Pubblicò il romanzo Donna del Sud e i saggi Sud e Rivoluzione, La questione cattolica, Processo penale e politica, Il diritto dell’ingiustizia, La democrazia impossibile o dell’utopia. Nel 1978 difese anche l’anarchico calabrese Lello Valitutti, testimone della morte di Giuseppe Pinelli ai tempi della strage di Piazza Fontana a Milano. Valitutti era finito in carcere perché accusato di appartenere al gruppo estremistico insurrezionale Azione rivoluzionaria.
L’anarchico Lello Valitutti
In ricordo di Bettino
Tra i promotori della Fondazione Craxi, Lo Giudice ha raccolto nel libroLe urne e le toghe (2002) alcuni contributi del segretario del Psi sui temi della giustizia e del ruolo della magistratura in Italia.
Sull’argomento il nostro era ferratissimo: proprio Craxi gli aveva affidato le difese più ardue da tutte le accuse del pool di Mani pulite, in particolare quelle di Antonio di Pietro.
Quello tra Lo Giudice e Craxi fu un incontro di storie diverse: il rivoluzionario e il riformista si trovarono uniti in una battaglia impossibile a garanzia della libertà politica, in una Italia che voleva sostituire il giustizialismo alla giustizia.
Veleno su Tangentopoli
Da qui il giudizio tranchant di Lo Giudice su Tangentopoli, ribadito nel 2003 in una intervista a Critica sociale.
«Craxi – ha dichiarato l’avvocato – è stato giudicato colpevole in un processo senza contraddittorio sulla base di semi-prove precostituite fuori dal dibattimento, nel quale l’imputato è stato privato del principale diritto di difesa, quello di interrogare e fare interrogare i suoi accusatori».
Un processo “rosso” a Craxi
Più dura l’accusa politica: «La linea della sinistra è stata traslata nella giurisdizione che ha avuto come programma “la questione morale”, in forza della quale i giudici sono diventati sacerdoti ordinati dal popolo alla grande missione. Craxi era “un delinquente matricolato” e doveva essere condannato comunque».
Per questo suo impegno più “politico” che “legale”, Craxi volle manifestargli in una notte di dialoghi ad Hammamet tutta la sua amicizia: «Lei non riesce a darmi del tu – gli disse una volta – eppure io finalmente ho trovato un amico. Che io lo sia per lei, già lo so».
Bettino Craxi ad Hammamet
A tu per tu col leader in disgrazia
In alcuni scritti, in parte inediti, Lo Giudice parla del suo rapporto intimo e allo stesso tempo rispettoso col segretario del Psi. Soprattutto dei lunghi dialoghi intercorsi nel residence-prigione della Tunisia.
In particolare, sono illuminanti le parole sul “dispiacere” che Craxi provava in “esilio” a causa della diaspora in atto nel partito.
Nei tanti momenti di sconforto, il pensiero che forse lo assillava di più era quello di non aver potuto compiere il “miracolo” dell’unità socialista – anche con il Pci che avrebbe dovuto “socialdemocratizzarsi” – per ricollocare l’antica famiglia della sinistra riformista nell’ambito della grande tradizione socialista italiana ed europea.
La rivoluzione abortita dalle toghe
«In una delle conversazioni notturne ad Hammamet – scrive Lo Giudice – Bettino Craxi mi confidò il suo cruccio: la falsa rivoluzione dei magistrati aveva interrotto l’impegno principale del suo lavoro politico, l’impresa storica della riunificazione di tutti i socialisti nel grande partito riformista, strumento di modernizzazione del paese». La prospettiva craxiana «era l’allargamento dello spazio in cui collocare la forza autonoma socialista che si liberava dalle regole rigide dell’economia capitalistica e dal massimalismo e dal dogmatismo della sinistra radicale».
I pubblici ministeri Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo insieme al procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli
L’utopia umanitaria di Bettino
Ancora: «Craxi era convinto che i grandi interessi generali del popolo lavoratore avrebbero alla fine sostenuto il primato degli ideali socialisti. Il sistema della libertà e la carta dei diritti umani avrebbero potuto battere il fronte degli opportunismi politici». Queste riflessioni trovavano riscontro nell’analisi a posteriori di Lo Giudice in uno dei suo scritti: «Il nostro paese soffre per il basso livello culturale della lotta politica, dalla quale provengono odi, risse e veleni».
Perciò «nella confusione incestuosa di destra e sinistra si va aprendo uno spazio dove ha diritto di vivere l’autonomia socialista, unica alternativa valida, sia come teoria che come pratica politiche».
L’alternativa socialista secondo Lo Giudice
L’alternativa socialista, conclude l’avvocato, «ha un suo programma risolutivo di questa tenaglia economica che è grave perché non riduce ma amplia il divario ricchezza-povertà. Serve, dunque un soggetto politico che conti, capace di raccogliere l’esigenza del partito già manifesta e quella ancora potenziale ma che si avverte in ogni angolo del paese».
Malato da tempo Enzo Lo Giudice si è spento a Paola. La sua città lo ha onorato dell’intitolazione di uno spazio antistante il Tribunale.
Resta tuttavia ancora non “comprensibile” il motivo della celebrazione dei suoi funerali al Convento di San Francesco, per un ateo convinto come lui, che aveva sempre manifestato ostilità nei suoi scritti nei confronti della religione e dell’operato della Chiesa.
Alessandro Pagliaro
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