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  • MAFIOSFERA | La Calabria a Palermo: la ‘ndrangheta durante le stragi

    MAFIOSFERA | La Calabria a Palermo: la ‘ndrangheta durante le stragi

    Entrare in aula bunker al carcere dell’Ucciardone a Palermo è un’esperienza che induce alla modestia e alla riflessione. La storia scritta in quest’aula, dagli eroi della prima antimafia giudiziaria in Italia, non è solo storia di Cosa nostra siciliana, o storia della mafia italiana. È storia d’Italia. È solenne, la memoria di quest’aula, le parole dette qui dai pubblici ministeri del pool antimafia siciliano durante il maxiprocesso degli anni Ottanta (e dopo), le parole dette dai mafiosi prima e dopo le condanne da dietro le sbarre delle 30 celle, e infine le ore della corte per leggere i verdetti.

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    L’aula bunker dell’Ucciardone (foto Anna Sergi)

    La memoria di quei mesi e quegli anni ha cambiato il paradigma di quello che la mafia siciliana, Cosa nostra, avrebbe rappresentato da quel momento in poi per l’Italia e i metodi dei suoi investigatori e martiri, per il mondo. Ecco perché, entrare in aula bunker è un’esperienza emotivamente carica. L’essere italiani è in parte definito dalla storia di questa aula. Per questo The Global Initiative Against Transnational Organised Crime, GI-TOC, ha voluto organizzare il 9 marzo proprio nell’aula bunker una giornata di riflessione e conferenza insieme al Tribunale di Palermo.

    L’occasione è stata la discussione dei risultati italiani del Global Organized Crime Index, un imponente lavoro di raccolta dati intorno agli attori e alle attività del crimine organizzato che GI-TOC ha effettuato nel 2021 e si appresta ad aggiornare nel 2023, per tutti i paesi del mondo, con un’infografica snella ed efficace che ben si presta ai canoni comunicativi di oggi.

    ‘Ndrangheta e stragi: un pezzo di memoria mancante

    Nel corso di questa giornata si è discusso dell’apparente paradosso italiano: un ‘punteggio’ molto alto assegnato dall’Index per quanto riguarda alcuni attori criminali (la presenza di gruppi mafiosi), alcune attività criminali (principalmente, il mercato della cocaina e la tratta di esseri umani) assieme a un punteggio molto alto assegnato per la ‘resilienza’ italiana a questi fenomeni. Della serie, l’Italia ha sì un problema di criminalità organizzata molto distinto e molto serio, ma ha anche gli strumenti, non solo giuridici ma anche di attivismo sociale, per rispondere a questo problema. La resilienza italiana al crimine organizzato certamente nasce e si consolida in aula bunker, e ‘scoppia’ in seguito al periodo delle stragi.

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    La strage di Via D’Amelio

    Il modo in cui il Global Organized Crime Index vede l’Italia ha certamente molto a che fare con la Calabria e sicuramente con la ‘ndrangheta, coi traffici di cocaina legati ai nostri clan, e con la presenza che le ‘ndrine hanno nel resto del paese. Ma c’è un’altra ragione – per ora non accertata in tutte le sue componenti – per cui la Calabria, e la storia della ‘ndrangheta, è importante per l’analisi dell’Index. E questa ragione riguarda proprio la memoria delle stragi e il ruolo della violenza e dell’arroganza mafiosa in Calabria e la reazione ad esse. Perché, lo sappiamo, seppur solenne e colossale, la memoria nata e mantenuta in quest’aula bunker non è ancora completa. E tra i pezzi mancanti del periodo delle stragi c’è sicuramente la memoria calabrese.

    Slitta la sentenza

    Questa memoria – o meglio la sua correzione – è il cuore del processo ‘Ndrangheta Stragista, che tra il 10 e l’11 marzo, attendeva a Reggio Calabria il verdetto del processo d’appello. Conferme o ribaltamenti delle sentenze di condanna del primo grado e la definizione (giuridica oltre che storica) dell’apporto che la ‘ndrangheta apicale avrebbe dato ai vertici di Cosa nostra nel periodo delle stragi arriveranno il 23 marzo. Tale apporto sarebbe dietro al duplice omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo nel 1994.

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    Antonino Fava e Vincenzo Garofalo

    Il verdetto d’appello va posticipato perché, nonostante si tratti di fatti ormai datati, di oltre 30 anni fa, arrivano ancora novità che integrano la mole dei dati a processo. Proprio mentre si attendeva il verdetto, il procuratore generale Giuseppe Lombardo ha infatti chiesto che venissero acquisiti i contenuti di un’intercettazione rivelata all’interno dell’operazione Hybris, di qualche giorno fa, contro il clan Piromalli a Gioia Tauro. Nell’intercettazione, due affiliati, che non sapevano di essere intercettati, discutono del ruolo dei Piromalli nelle stragi e dell’incontro al club Sayonara a Nicotera Marina in cui nei primi anni ‘90 si sarebbe deciso se la ‘ndrangheta si dovesse o meno unire alla strategia siciliana.

    Un posto di serie B

    Ma cosa c’entra tutto ciò con l’Italia, il global index di GI-TOC e l’aula bunker di Palermo? C’entra perché la ‘ndrangheta come la conosciamo oggi – con alcuni clan che si sono resi leader del narcotraffico, altri clan che si sono distinti per le capacità imprenditoriali, in investimenti pubblici e privati e altri ancora che hanno fatto politica cittadina e regionale, non è stata – per la storia – la mafia delle stragi.

    La ‘ndrangheta non è la ragione per cui l’Italia avrebbe sviluppato anticorpi invidiati in tutto il mondo, giuridici e di associazionismo sociale e civile. La ‘ndrangheta violenta delle faide e dei sequestri non ha scritto la storia d’Italia, anzi, è stata relegata dalla storia d’Italia – proprio per la sua violenza primitiva – ad avere un posto di serie B, accanto alla ‘sorella’ siciliana che di quella violenza ne ha fatto politica e strategia di attacco allo stato. Ma, a prescindere dai risultati processuali, e dalle responsabilità personali ivi confermate o meno, sembra accertato che i collegamenti tra Cosa nostra e ‘ndrangheta ci fossero e ci fossero inter pares – tra persone a pari livello.

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    Giuseppe e Filippo Graviano

    Ecco perché durante la giornata organizzata in aula bunker a Palermo si è discusso della violenza della ‘ndrangheta e delle scelte durante le stragi: perché che si siano accordati o meno, i Graviano e i Piromalli (tra gli altri), per fare le stragi congiuntamente, alcune tra le dinastie storiche della ‘ndrangheta in quegli anni avevano comunque la facoltà di scegliere se farlo o meno, perché gli era riconosciuto e detenevano il potere per farlo. E questo nella storia ufficiale dell’antimafia ancora non c’è.

    Paese che vai, violenza che eserciti

    La scelta di essere stragisti – andata o meno a ‘buon fine’ – ci porta ad affermare che, non per la prima volta, i clan di ‘ndrangheta più stagionati e più importanti usano la violenza strategicamente. E lo fanno perché nonostante l’organizzazione frammentata dei clan del territorio – autonomi per signoria territoriale e attività criminale – i boss dei clan apicali sanno che i contraccolpi dallo Stato e dalla società civile coinvolgono tutti, quando c’è violenza manifesta ed ‘esterna’ all’organizzazione.

    La violenza, per la ‘ndrangheta, si espone in prima linea spesso solo localmente, dove lascia un’eco per anni ma dove storicamente non ha spesso ispirato atti di denuncia durativi da parte della popolazione. Ma quando la violenza di ‘ndrangheta si è fatta più visibile oltre il locale e l’interno – pensiamo alla strage di Duisburg in Germania o all’omicidio Fortugno – le conseguenze sono state pesanti per l’organizzazione tutta, anche se si trattava di una faida tra due gruppi soltanto.

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    L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg

    Inoltre, ricordiamo che la spinta stragista della ‘ndrangheta, diversamente da Cosa nostra, non poteva essere comunque una decisione di ‘tutta’ l’organizzazione, quanto solo di alcuni capi, proprio per la diversa organizzazione delle due mafie. Questo ci conferma che allora come oggi la ‘ndrangheta funziona a compartimenti stagni, dove solo chi deve sapere sa e dove si fanno alleanze strategiche a stretto raggio, con chi serve e con chi è utile senza ‘sprecare’ connessioni. Questo è il modus operandi che si vede nei mercati illeciti, dove la ‘ndrangheta entra ‘piano’ e con alleati misti, dalla cocaina agli appalti, oggi senza il rumore della violenza.

    La storia d’Italia e le scelte della ‘ndrangheta

    Le scelte – o non scelte – di allora ci hanno consegnato la ‘ndrangheta contemporanea. ll Global Index vede l’Italia come estremamente influenzata da gruppi criminali mafiosi – forti in quanto capaci di entrare in vari mercati legali e illegali – ma allo stesso tempo, resiliente perché le stragi (e non solo) hanno reso il paese consapevole del proprio problema mafioso. Questa fotografia del paese è anche, a sorpresa, il risultato della storia della ‘ndrangheta, oltre che quella di Cosa nostra. Quello che i capi della ‘ndrangheta hanno fatto all’epoca delle stragi, o quello che non hanno fatto ma avrebbero potuto fare, la violenza manifesta e quella ‘trattenuta’, hanno definito la storia d’Italia anche senza far parte della ‘narrativa’ principale della nascita dell’antimafia. Proprio come si confà alla ‘ndrangheta nella sua caratteristica più primitiva, l’essere riservata e ‘dimessa’ come l’altro lato della luna.

  • Cutro, non c’è pace per le famiglie delle vittime

    Cutro, non c’è pace per le famiglie delle vittime

    Pare che non ci sia fine alle ingiustizie per le vittime del naufragio di Steccato di Cutro.
    In tanti hanno denunciato gravi carenze istituzionali. Soprattutto riguardo i ritardi nel soccorso in mare (su cui si attende che la Procura faccia presto chiarezza) e l’assenza di risposte per molti giorni sul trasferimento delle salme. Ne è nata una protesta e l’occupazione della strada da parte dei familiari dei naufraghi. La situazione si è sbloccata solo, mercoledì scorso, 8 marzo, dopo che gli stessi hanno manifestato sedendosi in mezzo alla strada.
    A tutto ciò si aggiunge un’altra faccenda assai allarmante. Riguarda il DNA dei familiari delle vittime disperse, ancora in mare.

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    Cutro: niente prelievi del Dna ai familiari

    Più di 60 dei 74 cadaveri – ieri a poche centinaia di metri dalla spiaggia del relitto è stato ritrovato il corpicino di un bimbo di 6 anni, stamattina quello di una bimba – sono stati riconosciuti dai familiari giunti a Crotone, che hanno almeno una salma su cui piangere. Decine di corpi, ancora dispersi tra le onde, rischiano però di restare per sempre negli abissi dell’anonimato sui fondali dello Jonio crotonese.
    Questo perché – è la denuncia del Progetto Mem.Med. Memoria Mediterrneanessuno ha prelevato il DNA dai familiari che attendono e sperano nel ritrovamento dei loro cari se le correnti li restituiranno mai.

    L’istanza alla Procura di Cotrone

    Il 7 marzo, infatti, gli avvocati di Mem.Med. hanno presentato un’istanza alla Procura di Crotone sottoscritta da una decina di familiari delle vittime. Chiedevano che venissero prelevati, il prima possibile, i loro campioni salivari, fondamentali per l’identificazione dopo eventuali nuovi ritrovamenti. Ma dalla Procura, che dovrebbe dare a sua volta disposizioni alla Polizia scientifica, pare non sia arrivata alcuna risposta. «I familiari sono qui adesso a Crotone – avvertono Silvia Di Meo e Yasmine Accardo – e questa operazione necessaria doveva essere già stata fatta. Non si perda altro tempo, perché alcuni di loro sono già ripartiti. Non sappiamo se sarà offerta loro la possibilità di prelevare il DNA in un secondo momento nelle città dove risiedono».

    Un database sulle persone a bordo del caicco

    Le attiviste di Mem.Med si sono precipitate a Crotone, subito dopo la tragedia. Da lunedì, al Palamilone, stanno collaborando a stretto contatto con alcune realtà locali, come l’associazione Sabir. Provano a dare supporto legale a tutti i parenti dei morti di Steccato di Cutro.
    Un lavoro fondamentale perché, prestando ascolto ai superstiti e ai familiari delle vittime sono riuscite a creare un database con la maggior parte dei dati delle persone che erano a bordo della Summer Love. Ogni volta che il mare restituisce un altro corpo, le procedure di identificazioni risultano così meno complesse. Anche ieri erano sulla spiaggia di Steccato di Cutro a confrontarsi con i soccorritori e la Polizia Scientifica al momento del ritrovamento del corpo, ormai esanime, del bambino di 6 anni. 

    La spiaggia di Cutro e le indagini

    Ed è proprio su quel tratto di litorale, dove Mem.Med accompagna spesso i familiari dei defunti e dei dispersi a cercare oggetti dei propri cari, c’è un altro problema serio. Denuncia Accardo: «Quella spiaggia della morte è alla mercé di chiunque, non è stata ancora sequestrata dall’autorità giudiziaria. Si tratta di un luogo sensibile e di vitale importanza. Tutto ciò che giace lì in mezzo alla sabbia appartiene a persone morte e disperse dopo un grave incidente, oggetti e che potrebbero essere anche utili alle indagini in corso». 

     

  • 41 bis, quando il carcere diventa vendetta di Stato

    41 bis, quando il carcere diventa vendetta di Stato

    Preferisco sia Claudio a parlare di sé affinché la terribilità di pene come l’ergastolo ostativo e il 41 bis non siano considerate una forza motrice in grado di annullare l’orientamento al crimine. Si può fare invece qualcosa in più, non in termini di terribilità nonostante un Parlamento a trazione giustizialista. E Claudio è un esempio concreto di “quel qualcosa in più” davvero funzionale a riconsiderare le proprie azioni e cambiare.
    Il regime di cui all’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario è una misura la cui esigenza è incontestabile a mio giudizio. Ma riguarda solo coloro che si ritiene possano dare ordini dal carcere ai propri sottoposti. Quindi, è una misura strettamente necessaria all’interruzione dei rapporti tra figure apicali di associazioni criminali o terroristiche e loro affiliati all’esterno.

    Individualisti e associazioni

    Non ritengo, dunque, inutile questa misura in relazione alle motivazioni che l’hanno concepita. Il problema è che scuote le coscienze per come viene applicata. Si tratta di una vera e propria tortura e indigna oltremodo il fatto che l’abbiano inflitta persino a Cospito, che arriva da dieci anni scontati in AS2, che certamente si è reso responsabile di reati che prevedono pene elevatissime pure in assenza di vittime. Ma non si tratta di reati che prevedono il regime del 41-bis, che non si applica neppure agli associati alle organizzazioni criminali ma solo alle figure apicali, figuriamoci a un anarchico individualista.

    41 bis: legittimo, ma con dei limiti

    Va sottoposto a severa critica sia l’uso smodato e reiterato di questa sanzione sia come essa viene applicata perché è un regime di sostanziale isolamento e di afflizioni che non hanno alcuna logica. La sua messa in pratica ne ha di fatto smentito le intenzioni originarie. Intanto raramente si verifica una revoca di tale misura. La maggior parte dei condannati ne subisce automaticamente la proroga ben oltre il decennio e con il corollario costante di inutili vessazioni. Gravi malati oncologici ormai privi di qualsiasi autonomia e funzioni o persone con patologie psichiatriche irreversibili quali ordini dovrebbero impartire? Che senso ha il limite di un colloquio al mese con i familiari se la conversazione avviene per mezzo di un citofono con un vetro divisorio e tra l’altro tutto registrato? Perché limitare il numero di libri che si possono tenere in cella?

    La Corte europea dei Diritti dell'uomo
    La Corte europea dei Diritti dell’uomo – I Calabresi

    Come fa ad esserci una perdurante attualità criminale di fronte a un tempo così lungo per circa 750 persone? Questo è all’incirca il numero di detenuti al regime di isolamento. È vero che la Corte costituzionale, la Corte europea dei diritti umani e il Comitato europeo per la prevenzione della tortura hanno dichiarato che il 41 bis è legittimo e compatibile con il divieto di trattamenti degradanti o contrari al senso di umanità. Contestualmente, però, vi è sempre stata la sottolineatura sui limiti temporali all’applicazione del 41-bis, invocandone la temporalità, la provvisorietà e la sua revoca. Invece, si verifica sempre una superficiale e irragionevole quanto inutile replica negli anni.

    Isolamento e diritti

    Sono persuasa che andrebbero raccolte testimonianze e studiati i referti medici di persone che hanno vissuto questa condizione per mostrare lo stato di un corpo e di una mente dopo l’esperienza di decenni di isolamento. Le neuroscienze – con l’apporto di altre discipline quali la psicologia, la sociologia, la psichiatria, la medicina legale, le scienze del comportamento e la genetica comportamentale – dovrebbero mostrare le conseguenze di tale trattamento, altro che compatibile se non è applicato per come è scritto sulla carta.

    Il problema è che la società non ha voglia di verità e giustizia. Ormai è troppo incattivita e asservita a una logica eminentemente repressiva della lotta alle mafie e per questo il ministro può girarsi tranquillamente da un’altra parte. Per l’opinione pubblica quanti si siano macchiati di determinati reati non sono più individui, cittadini, persone, esseri umani. E qualsiasi discussione costruttiva, così, diventa complicata se non impossibile. Invece i diritti umani fondamentali vanno riconosciuti a ciascuna persona, anche se si è macchiata di fatti gravissimi.

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    L’Università della Calabria

    Innumerevoli nostri studenti del Pup (Polo universitario penitenziario, ndr) dell’Università della Calabria provengono da più di un decennio di 41-bis e condanne all’ergastolo ostativo. E 35 detenuti attualmente al 41 bis sono iscritti a percorsi di studio universitari in vari Atenei italiani. La carcerazione delle persone ha uno scopo e non può essere vendetta. Non sta scritto da nessuna parte che le persone sottoposte al regime del 41bis debbano essere escluse dall’offerta trattamentale per il reinserimento che spetta a tutte le persone ristrette. Non deve rammaricarsi l’opinione pubblica: nessun contatto o celle aperte o riduzione della vigilanza, niente di più falso.

    Il caso Cospito

    L’illegittimità del provvedimento di applicazione del 41 bis a Cospito è la motivazione alla base della sua protesta. A mio avviso giustamente rifiuta di accettare passivamente una pena così ingiusta. Sia lo Stato che l’Amministrazione penitenziaria sono responsabili delle condizioni di vita e di salute di Alfredo Cospito. Ma lo Stato non può coartare la volontà di Cospito di protrarre sine die il suo sciopero della fame fino alle estreme conseguenze: è un suo diritto lasciarsi morire. Che poi la sua battaglia personale si sia tramutata in una battaglia contro il 41-bis perché stranisce?
    Inoltre, non si possono criminalizzare tutti coloro i quali contestino l’ingiusta applicazione del 41 bis a Cospito magari srotolando striscioni contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo.

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    Uno striscione di protesta contro il trattamento riservato all’anarchico Alfredo Cospito

    Chiunque sia sano di mente non tollera, non accetta e non condivide azioni violente contro cose o persone e neppure chi incita alla violenza. Ma non può neppure accettare la tesi che dall’isolamento nel quale si trova Cospito abbia dato seguito a una trattativa tra anarchici e mafiosi. È stato scritto che Cospito sia d’accordo con ‘ndranghetisti o camorristi. Semplicemente Cospito durante un’ora d’aria ha parlato con le selezionate persone lì collocate, degli argomenti principali di cui si parla in qualsiasi regime e sezione. Doveva stare muto? Non aveva come limitazione di stare pure in silenzio, almeno fino a oggi non è stata escogitata anche questa privazione. Anche noi universitari in carcere parliamo con persone condannate per mafia. Non siamo accondiscendenti con i loro eventuali desiderata e neppure empatizziamo con i mafiosi solo perché dialoghiamo con loro.

    Il cimitero dei vivi e la sentenza Viola

    Le carceri italiane sono ancora cimitero dei vivi per circa mille condannati alla pena inestinguibile, il fine pena mai. Diverse decisioni della Cedu ci dicono che le carceri devono essere umane. Si pensi alla famosa “sentenza Viola”, che aveva condannato l’Italia per trattamento inumano riservato al detenuto Marcello Viola che non poteva collaborare con la giustizia essendosi sempre dichiarato innocente. E poi, successivamente, i diversi ricorsi dell’Italia sempre respinti in sede europea. Con la sentenza Viola, lo Stato di diritto ha superato quella tensione che in nome dell’emergenza nel 1992 ha stravolto principi costituzionali introducendo in una stagione indubbiamente tragica, dopo le uccisioni dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, una legge ritenuta indispensabile in quel momento per contrastare la mafia anche attraverso una risposta legislativa illegittima che portò in quel momento a derogare sul rispetto della Costituzione.

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    Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

    In ogni caso oggi siamo lontanissimi dalla stagione delle stragi mafiose. Se il rispetto dei valori costituzionali dei due magistrati Falcone e Borsellino è nota anche alle generazioni dei più giovani grazie anche al dibattito costante all’interno delle scuole, la misinformazione dei media e persino di alcuni magistrati che attribuiscono la paternità dell’ergastolo ostativo a Falcone e Borsellino, accosta costantemente i loro nomi alle narrazioni repressive della lotta alle mafie quando invece le loro posizioni sono sempre state conformi al dettato costituzionale, in linea con l’idea di un carcere compatibile con la Costituzione.

    Collaborare è importante, ma non sempre si può

    Se non si può escludere che un ergastolano ostativo che non collabori mantenga contatti con i sodalizi criminali dei territori di appartenenza è irragionevole però la presunzione di attualità dei suoi collegamenti con la criminalità organizzata se non collabora. È importante la collaborazione, nessuno lo mette in dubbio. Ma una sana democrazia non può usare la collaborazione come arma di ricatto.

    Vi sono innumerevoli ragioni che inducono un condannato a non collaborare e che, come ribadito dalla Cedu (Viola contro Italia) e dalla Corte costituzionale, possono non essere dettate dalla intenzione di mantenere i rapporti con la criminalità organizzata. Potrebbero, bensì, dipendere dall’esigenza di proteggere la propria famiglia dalle vendette criminali. Oppure i condannati non possono rendere alcuna collaborazione utile perché tutti i nomi e ogni aspetto delle passate vicende criminali sono ormai note alla magistratura magari perché rese da altri coimputati pentiti. O, ancora, il loro apporto criminale nell’ambito del clan è stato marginale, di semplice manovalanza e dunque tale da non conoscere fatti o persone utili alla collaborazione. Se poi consideriamo i casi di coloro che, pur condannati, si professano innocenti, come potrebbero collaborare se non accusando falsamente qualcun altro?

     

    Franca Garreffa
    Sociologa Dispes, Università della Calabria

  • «Io, ergastolano con un dottorato all’Unical»

    «Io, ergastolano con un dottorato all’Unical»

    Il carcere spesso è l’anticamera del cimitero. Per chi è condannato alla pena dell’ergastolo significa essere seppellito vivo. Io sono uno di quelli. Sono entrato in carcere all’età di 19 anni e non sono più uscito. Sono trascorsi 33 anni, ma non mi sono arreso. Perché il carcere può essere anche un luogo di riscatto. La mia esperienza personale mi dice che molto dipende dalla propria volontà e dalle opportunità che ti offre la società, e che lo studio può essere un potente dispositivo di integrazione.

    Oggi vorrei scrivere proprio delle opportunità offerte dalla società, e sotto questo aspetto, di quale terra straordinaria sia la Calabria, nonostante i tanti problemi che ci sono: povertà, criminalità, mancanza di servizi, lavoro etc. di cui nessuno tace l’esistenza. Tuttavia la Calabria è soprattutto altro, se penso alle persone fuori dal comune che “abitano” esercitando una professione nell’ambito di istituzioni e comunità locali calabresi.
    Una storia “altra” rispetto alla “narrazione parziale” che si fa di questa bellissima regione.

    Bisogna conoscere e vedere prima di parlare, giudicare, se proprio si deve giudicare, come insegnava Piero Calamandrei, uno dei padri della Costituzione. Un po’ come accade con chi è in carcere, dove non ci sono “i detenuti” o “i condannati” ma persone, individui con storie diversissime e un passato che non è solo reato, soprattutto persone che nel tempo cambiano. Calabria e carcere in un certo senso subiscono il pregiudizio di chi non sa ma ritiene di sapere, dimenticando la lezione di Socrate.

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    Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso in via D’Amelio

    Vorrei cominciare ringraziando chi mi ha citato in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Accademico del PUP dell’Università della Calabria che ha visto la partecipazione straordinaria della cara Fiammetta Borsellino su invito del rettore, professore Nicola Leone: il professore Raniolo che ho avuto il privilegio di conoscere (anche se da remoto) in occasione della mia presentazione sull’avanzamento della mia ricerca intrapresa nell’ambito del dottorato in “Politica, società e cultura” presso l’Università della Calabria, certamente la più alta forma di condivisione, di inclusione dei detenuti. Il coordinatore del dottorato ha voluto ricordare che ho uno status di dottorando di ricerca, una delle opportunità ed esperienze inclusive più straordinarie nel panorama accademico italiano. “Straordinario” sottolineo, per le vicende che voglio raccontare parlando della Calabria e dei calabresi.

    Sono entrato in carcere con il titolo di licenza media inferiore; ho iniziato a studiare mentre ero in regime di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario. A tale regime fui sottoposto a 21 anni d’età. Anticipo che sia la pesantissima condanna, sia le moltissime restrizioni detentive (e non solo) subite erano a mio parere giustificate nonostante la mia vicenda criminale è da ascriversi a una breve parentesi tardo adolescenziale. I fatti in cui ero rimasto coinvolto erano gravissimi, reati di cui oggi non mi capacito come proprio io sia riuscito a commettere.

    Il passato non si può cambiare ma si può fare qualcosa per riparare e per migliorare il futuro, contribuendo nei modi in cui ci è possibile, anche per non restare imprigionati in quel passato. Questo mi hanno fatto capire le persone a me più vicine, dalla famiglia a quelle che ho avuto la fortuna di incontrare in questo mio “viaggio senza fine” (giudici, avvocati, docenti, operatori penitenziari, volontari), quando hanno inteso che mi ero reso conto del male arrecato e della disperazione provata per l’impossibilità di tornare indietro.carcere-calabria-57-detenuti-in-attesa-laurea-superpasticciere-i-calabresi

    «Indietro non puoi tornare ma puoi ricominciare da dove hai lasciato» – mi dissero i miei familiari, gli unici che potevo vedere per un’ora al mese dietro un vetro. L’abbandono della scuola era stata una scelta che i miei avevano sempre avversato. Da ragazzo avevo fatto mio il detto che «saper fare è meglio che studiare» e così mi ero messo a lavorare nell’attività di famiglia.

    La mia condizione detentiva comportava una serie infinita di limitazioni ma non quella di poter leggere (si potevano detenere al massimo 3 libri, ma sostituibili). Trovai una frase di Aristotele: «Lo studio non ha bisogno d’altro che dell’intelligenza». Fu illuminante, realizzai che avrei potuto riprendere gli studi facendo la felicità dei miei genitori. L’inizio fu durissimo, non c’era nessuno a cui rivolgermi per le materie scientifiche. Ero un autodidatta, incontravo i docenti solo in occasione degli esami di ammissione, del diploma e poi per quelli universitari, sempre da dietro un vetro, fino a quando non mi hanno revocato definitivamente il regime ex art. 41-bis (durato circa 13 anni).

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    L’Università di Perugia

    Quando accadde ero nel carcere di Spoleto e iscritto all’Università di Perugia su “invito” del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP); pensavo alla facoltà di Lettere e Filosofia, «meglio Giurisprudenza» mi disse il mio avvocato dell’epoca, l’indimenticabile professor Fabio Dean: «È una materia umanistica e tecnica che potrà essere utile per aiutare te stesso e gli altri», aggiunse, e con queste parole mi convinse. Con la revoca sopraggiunse il trasferimento al penitenziario di Palmi, in Calabria. Era la prima volta che mettevo piede su questa terra, onestamente ci arrivai con i “pregiudizi” che la fanno conoscere nel mondo. E invece…

    Invece scoprii che la civiltà, l’umanità, l’efficienza (anche in carcere) sono in Calabria.
    La vulgata vuole che il Sud prenda ad esempio il Nord… Forse solo a livello di infrastrutture, perché a livello di umanità, funzionalità ed efficienza le realtà calabresi che ho conosciuto non hanno nulla da imparare da nessuno, anzi possono insegnare ed estendere le loro buone pratiche.
    Dopo un anno, da Palmi fui trasferito a Catanzaro invitato nuovamente dal DAP a iscrivermi all’università più vicina. Dovetti cedere.

    Il mondo accademico è stato molto attento nei miei confronti, i docenti dell’UniPG sempre disponibili, ma gli anni di isolamento mi avevano inibito nei rapporti interpersonali. L’iscrizione all’Università di Catanzaro non cambiò di molto le mie abitudini. I contatti li tenevano gli educatori del carcere (la dottoressa Arianna Mazza e poi il dottor Giuseppe Napoli), efficientissimi anche loro, i quali mi reperivano programmi e testi da studiare. Fissavano la data per gli esami che sostenevo in presenza dei docenti nel carcere di Catanzaro.

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    L’Università Magna Graecia di Catanzaro

    Ebbi modo di conoscere e partecipare ai corsi diretti dal professore Nicola Siciliani de Cumis, un gigante della pedagogia contemporanea, e di incontrare una delle direttrici penitenziarie più capaci che ho avuto modo di conoscere (la dottoressa Angela Paravati), pari solo al direttore del carcere di Spoleto (il dottor Ernesto Padovani) quanto a competenza, capacità organizzative e coraggio nell’assumersi le responsabilità nelle decisioni. Anche qui siamo di fronte allo “straordinario”.

    I contatti con l’UniCZ si intensificarono con la preparazione della tesi di laurea e l’esame finale. Seppi che il mio relatore sarebbe stato il professor Luigi Ventura, già preside del dipartimento di Scienze giuridiche, fuori dal comune anche lui come il suo staff di collaboratori.
    Con lui pensammo a una tesi multidisciplinare tra diritto costituzionale, europeo e penitenziario. Ne uscirà una tesi avanguardista sull’irretroattività dell’interpretazione sfavorevole in materia penitenziaria (in soldoni l’irretroattività dell’interpretazione dell’art. 4-bis OP che aveva creato l’ergastolo “ostativo giurisprudenziale”).

    Una tesi di laurea che vedrà la pubblicazione come Manuale sulla pena dell’ergastolo, e verrà premiata come migliore tesi di laurea dell’anno. Basterà dire che dopo 6 anni la Corte costituzionale (nn. 32/2020 e 17/2021) è arrivata ad affermare i principi ivi espressi come diritto applicabile nel nostro ordinamento, anche se non ancora in relazione all’ergastolo ostativo; per questo probabilmente bisognerà aspettare la Corte di Strasburgo, innanzi alla quale pende un ricorso, già dichiarato ammissibile, se lo accoglierà.

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    Il carcere di Parma

    Questo è il prodotto di una ricerca, uno studio realizzato in Calabria. È bene sottolinearlo.
    Dopo la mia laurea, come tutte le cose belle, la mia permanenza nella vostra straordinaria terra finisce. Vengo trasferito in Emilia Romagna, a Parma, dove in ambito penitenziario trovo ad attendermi il medioevo.
    Il carcere parmense era (oggi è cambiato) veramente indietro rispetto a quelli calabresi di mia conoscenza, solo che questa arretratezza mi permetterà di entrare in contatto con l’università. Con alcuni studenti detenuti, chiediamo di modernizzare culturalmente chi è detenuto e chi ci lavora.

    L’Università di Parma, o meglio una sua docente di punta, la professoressa Vincenza Pellegrino, organizza dei Laboratori di sociologia, e insieme investiamo nella creazione del Polo Universitario Penitenziario (PUP) reclamato dagli studenti detenuti già presenti. Partecipo ai Laboratori con studenti esterni e continuo nei miei studi. Sperimentiamo nuove forme di didattica mista verticale-orizzontale. È lei insieme alla professoressa Franca Garreffa dell’Università della Calabria, anche qui l’aggettivo “straordinarie” è d’obbligo, che mi guidano all’interno di questa nuova e indefinibile avventura del ‘dottorato’.

    Mi incontrano per preparare la mia candidatura e studiare nuove materie che mi aprono a nuovi mondi, nuovi modi di comprendere finanche il diritto, che illuminato da queste nuovi luci sociologiche mostra altre dimensioni, si arricchisce.
    Le professoresse Garreffa e Pellegrino sono le mie tutor del dottorato, insieme alla dottoressa Clizia Cantarelli, tutor del Pup di Parma. Sono loro i miei occhi, le mie orecchie, le mie gambe, le mie braccia: senza di loro non potrei “muovermi”, esisto per interposta persona.

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    Studenti sul ponte Bucci all’Università della Calabria prima della pandemia

    È grazie a loro se posso fare questa esperienza, un sostegno che passa dal reperimento del materiale a quello dei contatti con docenti di altre università e con i membri del Collegio del dottorato dell’UniCal e della CNUPP presieduta dal professore Franco Prina sempre presente alle varie manifestazioni ed eventi che riguardano i Pup in Calabria. L’esperienza del dottorato mi ha regalato, oltre a queste donne eccezionali, anche una “classe”.

    Per la prima volta faccio parte di una “classe”, i miei colleghi dottorandi mi hanno quasi adottato, seppur più piccoli d’età, con la loro disponibilità e facendomi sentire ben accetto. A farmi sentire parte dell’Università della Calabria ci pensano persone come il professore Paolo Jedlowsky, che scoprirò essere uno dei più grandi sociologi contemporanei, capace di rispondere in maniera convincente anche alle mie domande più assurde. È sempre lui a volermi presente (anche se da remoto) all’inaugurazione del nuovo anno del dottorato, per sostanziare quell’uguaglianza nelle opportunità di cui parla la Costituzione. Piccole grandi cose che trasformano il carcere e danno un’altra dimensione di chi è detenuto e di chi detiene.

    Col progetto di dottorato mi trovo a essere, allo stesso tempo, ricercatore e ricercato, immerso nel campo di ricerca che è il mio ambiente, ricercatore che studia sé stesso e i suoi simili, e attraverso sé stesso la società in cui vive. Mi trovo a osservare le interazioni e la produzione di sapere come dispositivi trasformativi individuali e delle “istituzioni totali”, dei “miti”, dei “luoghi comuni”, e svelare quegli “artefatti culturali” che come potenti sovrastrutture impediscono, invece di favorire, i cambiamenti sociali.

    Concludo riflettendo sul fatto che ancora una volta la Calabria, in particolare l’Università di Cosenza, mi ha aperto a una possibilità inimmaginabile per me, per chi è in carcere, realizzando qualcosa che va oltre la prima, la seconda e la Terza missione cui è chiamata l’università, ponendola, probabilmente, tra gli atenei con i programmi più avanzati al mondo devo pensare perché in questo modo realizza per i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, come previsto all’art. 34 della nostra Costituzione.
    La Calabria, appunto, che da Pitagora in poi ha sempre qualcosa da insegnare.

    Claudio Conte

  • Piombo e sangue in Iraq: Calipari, la tragedia eroica di uno 007

    Piombo e sangue in Iraq: Calipari, la tragedia eroica di uno 007

    Nicola Calipari. Un eroico funzionario dello Stato. Oppure la persona giusta nel luogo e momento sbagliati.
    Morto nel compimento del proprio dovere oppure vittima di una tragica fatalità.
    Il calendario scorre e segna, oggi, diciotto anni dalla morte dello 007 originario di Reggio e cosentino adottivo. Ma anche poliziotto cosmopolita, con esperienze all’estero, iniziate nel 1988 in Australia presso la National Crime Authority alla quale fornì la propria collaborazione su un argomento che ogni sbirro calabrese sa a menadito: la ’ndrangheta.
    Ma riavvolgiamo il nastro.

    Il rapimento

    L’Iraq non è una zona sicura. Non lo è, soprattutto, nei primi mesi del 2005, un anno e mezzo dopo la fine della fase principale della Seconda guerra del Golfo, che ha cancellato il regime di Saddam Hussein e destabilizzato il Paese.
    L’Iraq di quegli anni, insicuro per i militari, è addirittura pericolosissimo per i civili.
    Funzionari, volontari o giornalisti.
    Di questa pericolosità fa le spese Giuliana Sgrena, firma storica de Il Manifesto e collaboratrice di Die Zeit.
    La giornalista piemontese, nel febbraio 2005 è a Baghdad, per scrivere dei reportage sulla guerra. Il 7 febbraio 2005 viene rapita vicino alla zona universitaria.
    Poco meno di un mese prima, il 5 gennaio 2005, viene rapita un’altra giornalista: la francese Florence Aubenas, inviata e firma di primo piano di Liberation.

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    La giornalista Giuliana Sgrena

    Terra pericolosa

    Calipari è l’uomo giusto al momento e nel posto sbagliati.
    Lo 007 calabrese si trova in Iraq alle dipendenze del Sismi, il Servizio per le informazioni e la sicurezza militare, di cui fa parte dal 2002, dopo una brillante carriera in Polizia.
    E c’è da dire che opera bene: gestisce alla grande le trattative per la liberazione di Simona Parri e Simona Torretta, due giovani cooperanti italiane. Fa altrettanto bene nei casi di Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio, tre vigilanti italiani, anch’essi sequestrati da sedicenti jihadisti.
    Le cose, invece, vanno meno bene per il vigilante Fabrizio Quattrocchi, rapito il 13 aprile 2004 e ucciso in favore di telecamera il giorno successivo. E per il giornalista e blogger Enzo Baldoni, rapito il 21 agosto 2004 e ucciso presumibilmente cinque giorni dopo.

    A tu per tu con la Jihad

    Per Calipari l’affaire Sgrena è praticamente routine.
    Con una variante: di tutti i rapiti, la giornalista piemontese è la figura più nota. Per lei, infatti, si mobilita una buona parte dell’Italia “che conta”, a partire dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi.
    Non solo: anche una fetta dell’Islam sunnita scende in campo.
    Ma cos’hanno in comune tutti questi rapimenti?

    Un’immagine dell’Iraq post Saddam

    Terroristi farlocchi

    C’è un sospetto pesantissimo: tutte le sigle, più o meno “integraliste”, sarebbero in realtà gruppi criminali comuni.
    Le richieste, dopo i rapimenti, sono praticamente simili: via le truppe italiane. Ma tutto si sarebbe risolto col classico pagamento di un riscatto. Anche, secondo alcune fonti, per la Sgrena. Il problema si complica: come fa un Paese occupante a trattare senza perderci la faccia? Per questo la parola passa ai Servizi segreti.
    E non si sarebbe saputo niente, se Nicola Calipari non ci avesse rimesso la pelle.
    Ma riavvolgiamo ancora il nastro.

    Il supersbirro odiato dalla ’ndrangheta

    Classe ’53, formazione cattolica e laurea in Giurisprudenza, Nicola Calipari entra in Polizia nel 1979, dove fa una carriera fulminante, prima a Genova poi a Cosenza, dov’è capo della Squadra mobile negli anni terribili della guerra di mafia.
    Di lui ha parlato il pentito Dario Notargiacomo, già “notabile” della cosca Perna-Pranno. A suo dire, proprio Franco Perna lo avrebbe voluto morto.
    E forse la trasferta in Australia è dovuta alla necessità di sottrarre Calipari ai killer, che avevano fatto già fuori Sergio Cosmai, il direttore del carcere di Cosenza.
    Tornato in Italia, il superpoliziotto riprende la carriera a Roma, dove scala di nuovo i gradini fino a lambire incarichi governativi. Resta un interrogativo: come mai un poliziotto diventa uno 007 per il Sismi anziché per il Sisde (i Servizi segreti civili)?
    Mistero. O forse no. Forse aveva ragione Federico Umberto d’Amato, l’ex capo dell’Ufficio affari riservati a dire che i militari sono pessimi agenti segreti. Ed ecco che i Calipari prestano aiuto. Anche a prezzo della vita.

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    Federico Umberto d’Amato, l’ex capo dell’Ufficio affari riservati

    L’epilogo

    La sera del 4 marzo 2005 Nicola Calipari è in auto. Siede sul sedile posteriore, vicino a Giuliana Sgrena, appena liberata. Alla guida c’è Andrea Carpani, maggiore dei carabinieri, anche lui in forza al Sismi.
    L’auto è diretta all’aeroporto di Baghdad e, per arrivarci, passa per la Route Irish, dove c’è un check point statunitense.
    L’autista e i due passeggeri non hanno il tempo di capire cosa sta succedendo: prima li abbaglia un potente fascio di luce, poi diventano bersaglio di raffiche di proiettili.
    Sgrena e Carpano restano feriti. A Calipari, che si getta addosso alla giornalista, va peggio: un proiettile lo colpisce alla nuca e muore sul colpo.

    Il mistero della Seconda repubblica

    La morte dello 007 apre un braccio di ferro militar-diplomatico tra Italia e Usa.
    L’inchiesta appura che a sparare le pallottole fatali è Mario Lozano, un mitragliere dei marines, che finisce sotto processo nel suo Paese e in Italia.
    Americani e italiani litigano come possono, cioè nei limiti consentiti dal comune impegno militare che costa tante vite a entrambi.
    Secondo gli americani, l’auto su cui viaggiano Calipari e Sgrena era in eccesso di velocità e non si sarebbe fermata all’alt. Secondo gli italiani, invece, il veicolo viaggiava a velocità contenuta (circa 50 chilometri orari) e, ha aggiunto Sgrena, non ci sarebbe stato alcun check point visibile.

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    Mario Lozano, il marine che uccise Calipari

    Il sospetto atroce

    Tra le due versioni si insinua un sospetto: gli americani non gradiscono la facilità con cui l’Italia paga i riscatti alle sedicenti sigle jihadiste autrici dei rapimenti e dei relativi ricatti.
    E non a caso si è ipotizzato il pagamento di 5 milioni di euro per la liberazione della giornalista.
    La vicenda giudiziaria, iniziata tra mille polemiche e coi riflettori puntati, si è risolta in nulla: gli Usa assolvono Lozano dall’accusa di omicidio, ma l’Italia non può procedere, perché la competenza giudiziaria sulla vicenda, verificatasi in Iraq, è americana.

    Cosa resta dell’eroe

    Il ruolo e l’attività di Nicola Calipari sarebbero dovute restare anonimi, come da tradizione dei Servizi segreti, non solo italiani.
    E invece no: Calipari muore da eroe e, col suo sacrificio, riabilita i Servizi, bersaglio fino ad allora di una letteratura giornalistica a dir poco avversa e spesso a ragione.
    Secondo Giuseppe De Lutiis, uno dei massimi esperti italiani di intelligence, la morte di Calipari segna uno spartiacque. E probabilmente accelera la riforma dei nostri Servizi. Ma questa è un’altra storia.
    Calipari ha lasciato due figli e una vedova, Rosa Villecco Calipari, diventata poi senatrice del Pd, cioè in quell’ambiente postcomunista che, tranne poche eccezioni, aveva preso di mira i Servizi. Anche questa è un’altra storia.

  • Eichmann: la banalità del male agli occhi di un calabrese

    Eichmann: la banalità del male agli occhi di un calabrese

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    «Ero stato felice a Gerusalemme, con la mia povertà, come non mai, perché ero stato libero di osservare la vita in silenzio, senza essere distratto dalla molestia delle faccende quotidiane»
    Gerusalemme, la Terra Promessa, città santa tre volte: per gli ebrei, i cristiani e i musulmani. Città contesa, ricca di contrasti, di contraddizioni, da sempre al centro di accese tensioni e sanguinosi scontri.
    Questa città nel 1961 fu teatro del processo ad Adolf Eichmann.

    Processo a Eichmann: La Cava inviato speciale

    Il celeberrimo ufficiale nazista, pianificatore della soluzione finale, colpevole dello sterminio di milioni di ebrei durante la Seconda guerra mondiale, finì a processo proprio in un centro culturale gerosolimitano trasformato per l’occasione in tribunale; un evento che registrò un grandissimo coinvolgimento dei media mondiali.
    Le udienze – che si svolsero dall’11 aprile al 15 dicembre ’61 e terminarono con la condanna a morte, non eccessivamente scontata alla vigilia– furono seguite da giornalisti provenienti da ogni continente.
    Tra questi anche il grande scrittore calabrese Mario La Cava, inviato speciale del quotidiano lucano Corriere Meridionale.

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    Al centro, Mario La Cava

    Il viaggio in Israele 

    La cronaca di quell’esperienza in cui La Cava «intuisce che l’incontro con la banalità del male lo riguarda direttamente come individuo», in una terra molto più lontana e misteriosa – e quindi seducente – di quanto non possa comunque apparire ancora oggi, ritorna in Viaggio in Israele pubblicato, in ultima edizione, da Edicampus.
    In questo prezioso volume – che gode delle attente curatela e introduzione di Milly Curcio e di un saggio di Luigi Tassoni – lo scrittore nato a Bovalino l’11 settembre 1908 tesse un filo che lega due mondi vicini e lontani, divergenti e convergenti.
    Due realtà unite dal Mediterraneo che sciaborda sulle sponde ioniche della Calabria e su quelle israeliane.

    Una civiltà arcaica in abiti moderni

    Il processo Eichmann, infatti, per l’intellettuale assunse presto le fattezze del fortunoso pretesto per raccontare una civiltà arcaica e nuova al contempo, che lo sorprende per l’affinità col popolo della sua Calabria.
    Una civiltà arcaica e nuova. Questa civiltà sorse soltanto nel 1948 con la costituzione dello Stato di Israele nella partizione a tavolino – osteggiata dagli antisionisti e dagli arabi – dell’antichissima Palestina, deliberata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite.
    Non solo: per La Cava il viaggio in Israele divenne l’indagine silenziosa – parola chiave della sua peregrinazione – di un universo fino ad allora appena fantasticato.

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    Immagine d’epoca di Tel Aviv

    Un calabrese in Israele per il processo Eichmann

    Lo scrittore, già noto e apprezzato in quell’epoca – l’autore de I Caratteri negli ultimi anni Cinquanta aveva dato alle stampe Le memorie del vecchio maresciallo e Mimì Cafiero –, affidò a un anonimo protagonista, suo alter-ego, il racconto di quella esperienza illuminante.
    E, come per ogni viaggio di scoperta che si rispetti, gli inconvenienti – magari inconsciamente cercati – non tardarono. Sulla nave diretta ad Atene (scalo verso la Terra Promessa), il protagonista-autore si imbatté in un tale Toto C., pingue ebreo italiano, sedicente chirurgo esperto di procurati aborti, fuggito dal Bel Paese perché la donna che aveva sposato era oramai irrimediabilmente invecchiata e ingrassata. Non era più attratto da lei e perciò aveva pensato bene di rifarsi una vita nel novello Stato di Israele.

    Il fascino della Terra Santa

    La sosta nella capitale greca si protrasse più del dovuto per l’“oscuro scrittore” e il nuovo conosciuto, sicché, perduta la nave, ripartita dal Pireo senza di loro, si trovarono costretti a raggiungere Israele in aereo. A spese dell’ingenuo La Cava, che atterrò in Terra Santa avendo già speso gran parte del denaro portato con sé. Questo contrattempo segnò il suo intero soggiorno. E non per forza in negativo.

    Lo scrittore si trovò beatamente spaesato in Israele, a contatto con una umanità povera ma non misera, ricevuto con l’ospitalità che tanto gli ricordò la sua regione in case di ebrei e di arabi. Si perse in pranzi pantagruelici, contemplò sinagoghe, biblioteche, kibbutz, porti, spiagge e coltivò stupore e malinconia per ogni cosa: il cielo ingombro di uccelli, le distese di eucalipti, il suggestivo “disordine silvestre” intorno alle città, il brulichio delle stradine, le barbe più belle sulla faccia della terra.
    Narratore-viaggiatore, nello Stato ebraico Mario La Cava indagò con lo sguardo curioso le genti, le loro costumanze e il paesaggio tutt’attorno, nel sacro rispetto di ciò che si percepisce né inferiore, né superiore, ma unicamente diverso da sé. E neppure così tanto.

    Soldati israeliani nella Gerusalemme anni ’60

    Tel Aviv, Petah Tikva, Gerusalemme – in cui ammise di avere trascorso i giorni «più ricchi di intime vibrazioni» della sua intera vita –, Rehovot, Nazareth, Haifa, Beer Sheva, capitale del deserto del Neghev; in questo lungo errare l’intellettuale bovalinese tornò sovente col pensiero alla Calabria, ricordatagli non solo dall’accoglienza e dai volti mediterranei, ma anche dal mare, dai colli e dai monti di quella terra che pareva lo volesse riavvicinare alla patria lontana.

    L’incontro con Adolf Eichmann nel processo

    Mario La Cava partecipò ad alcune delle udienze conclusive dell’epocale contraddittorio riservato a Eichmann, tra le pagine più affascinanti dell’opera originata da quei giorni d’estate del ’61.
    «Mi pareva che soltanto con quell’incontro io sarei penetrato negli abissi del male e attendevo quella prova quasi come una rivelazione, nella quale meglio avessi potuto conoscere me stesso».
    In prima fila, in una atmosfera da teatro, in attesa dell’atto finale della tragedia, La Cava cercò con lo sguardo gli occhi Adolf Eichmann, occhi che «nemmeno per un momento si prestarono ad essere guardati». Il volto affilato dell’ufficiale delle SS, le sue labbra sottili, taglienti, «le labbra di chi non aveva mai sorriso ad alcuno».
    Lo scrittore strabiliò dinanzi alla impressionante sicurezza, al manifesto agio di Eichmann, autentica reincarnazione del Diavolo, in quella situazione drammatica. E scrisse: «Sembrava che non avesse fatto altro che prepararsi nella sua vita a quel tipo di dibattimento».

    Il gelido nazista

    Di fronte alla speciale corte gerosolomitana che gli contestava crimini di guerra, crimini contro l’umanità, nello specifico contro gli ebrei, Eichmann asserì di avere eseguito ordini superiori, fedelissimo a un principio, un ideale, un capo che non esistevano più.
    Agli occhi di La Cava, il criminale nazista apparì interessato esclusivamente a difendere da una parte «il buon nome del popolo tedesco di fronte alla storia» e dall’altra la sua verità suprema, che serbò dentro sé e che non permise a nessuno di scardinare e scoprire, lasciando così non pienamente soddisfatto il popolo di Israele, in cui comunque il narratore non riscontrò alcun furore particolare. Comprese che soltanto il silenzio dei sopravvissuti alle persecuzioni poteva essere «la risposta più confacente» alla sciagura cui la comunità ebraica era andata incontro.

    Una domanda senza risposta

    «Che uomo fu dunque Eichmann?» si domandò Mario La Cava. L’interrogativo rimase irrisolto; la condanna a morte dell’ufficiale, eseguita a Ramla, meno di cinquanta chilometri a nordovest di Gerusalemme, il 31 maggio 1962, mise la parola fine alla parabola di Eichmann fondendo nello stesso tempo l’unica chiave con la quale sarebbe stato possibile aprire il suo forziere di segreti.
    Cos’è Viaggio in Israele?, si domanda invece oggi il lettore. Un saggio? Un romanzo storico? Un reportage?
    Pubblicato per la prima volta nel 1967 da Fazzi, editore di Lucca, e ristampato nel 1985 dall’editore cosentino Brenner – con la speranza di fare ottenere migliore fortuna a quello che lo stesso autore aveva definito uno «strepitoso insuccesso» –, il libro del tentato vis-à-vis di La Cava e Eichmann e dell’avventura israeliana dello scrittore, non è facilmente confinabile dentro un recinto.

    Eichmann in cella in attesa dell’impiccagione

    Una testimonianza importante

    Anche questo interrogativo resta insoluto. Se proprio volessimo arrischiare una definizione, accollandoci tutte le responsabilità del caso, potremmo identificarlo come un diario letterario, che attinge tanto dall’autobiografia quanto dal romanzo.
    Nell’opera, Mario La Cava ci ha fatto dono di una testimonianza originale per comprendere l’inquietudine precedente alla cosiddetta Guerra dei sei giorni – breve ma decisivo conflitto del giugno 1967 che portò Israele a conquistare buona parte dei territori contesi – e che vige tuttora in quell’angolo del pianeta.

    Le contraddizioni di un popolo tollerante e rigido insieme, le prime tensioni sociali, economiche e politiche, la complessità dei rapporti tra ebrei e arabi, paragonati, sotto il punto di vista sentimentale, ancora una volta ai calabresi, costretti a vivere da subordinati per il bene nazionale; aspetti che fanno del diario letterario – ci siamo convinti, sì – di La Cava uno scritto dalla «forte connotazione etica», come afferma Tassoni, da leggere, fedeli alle indicazioni dell’autore, in silenzio, con l’animo lene, spoglio dei pregiudizi e dell’arroganza propri di chi, postero ai fatti che è intento a leggere, crede di avere in mano la verità.

  • MAFIOSFERA| Nirta Dinasty: tanta “rrobba” di famiglia

    MAFIOSFERA| Nirta Dinasty: tanta “rrobba” di famiglia

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    Nessuno, nemmeno i capibastone della ’ndrangheta come Giuseppe Nirta o Pasquale Condello o Paolo De Stefano, è solo un “cattivo”.
    Certo, sono tante le storie di ferocia nella mafia calabrese che toccano i lati disumani di certi soggetti, soprattutto uomini legati una certa generazione di ‘ndrangheta.
    Ma guardare solo alla loro malvagità, e alla loro disumanità non racconta tutta la loro storia. Perché la loro è anche una storia di famiglia.

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    Latitanza finita per “il Supremo”: l’arresto di Pasquale Condello

    La parabola di un boss

    Giuseppe Nirta è morto il 23 febbraio 2023 in carcere a Parma, dove si trovava dal 2016.
    La cronaca racconta che Nirta si sia complimentato con le forze dell’ordine al momento del suo arresto, avvenuto nel 2008 nel suo bunker a San Luca.
    Il boss doveva rispondere della strage di Duisburg, in cui morirono sei appartenenti alla cosca Pelle-Vottari, con cui i Nirta-Strangio erano in faida.
    Inoltre, su Giuseppe Nirta pesava anche l’omicidio di Bruno Pizzata, sempre dovuto alla stessa faida.

    Matrimoni e sangue di ‘ndrangheta

    La faida in questione, si ricorderà, era vecchia di decenni, ma era ripresa in seguito a due omicidi. Quello di Antonio Giorgi ammazzato nel 2005 e quello di Maria Strangio – nuora di Giuseppe Nirta perché moglie di suo figlio Giovanni Luca (il vero obiettivo dell’attacco) – uccisa il giorno di Natale del 2006 in un agguato proprio davanti casa del boss Giuseppe. Giuseppe Nirta era un vecchio capobastone della ‘ndrangheta, un mammasantissima, a cui è legata più di una pagina nera della cronaca calabrese, dai sequestri di persona, alla faida.

    La parola ai Nirta

    Ma nessuno, nemmeno Giuseppe Nirta, ripetiamo, è solo malvagio. Al contrario, una certa complessità accomuna il boss a tutti gli altri uomini della sua famiglia, e di altre famiglie del territorio, con passato e presente di ‘ndrangheta.
    Suo figlio Giovanni Luca, parlando a Fabrizio Caccia sul Corriere della Sera all’indomani della strage di Duisburg dirà:
    «Io sarei ’u boss? La mia casa è blindata? Lo vedete voi, sono qui, niente reti, niente cancelli, io sono solo un bracciante agricolo, coltivo l’orto e sto coi bambini. Da gennaio non esco più di casa perché sono in lutto. (…) A San Luca c’è la faida? Non lo so, mettete un punto interrogativo alla risposta. La faida c’è in tutti i paesi. (…) Ora si dice che la prossima data a rischio qui a San Luca sia il 2 settembre, la festa della Madonna di Polsi. Io ho paura di morire, certo, però mi auguro che non succeda più niente».

    Cesare Casella

    A proposito del sequestro Casella

    I bambini, il lutto, la festa della Madonna della Montagna, a Polsi.
    Riecheggiano in queste frasi le parole di un altro uomo della ‘ndrina Nirta, Antonio, alias ’Ntoni, sorpreso al summit di Montalto del 1969 e all’epoca ritenuto capo-crimine a San Luca (morirà nel 2015, a 96 anni).
    «Ma quale padrino e quale mafioso, io ero e resto un uomo che ha il senso dell’onore, un uomo che ha sempre lavorato per la propria famiglia», dirà a Pantaleone Sergi, come si legge ne La Santa ‘Ndrangheta.
    Erano i mesi del sequestro di Cesare Casella, e della battaglia di sua madre Angela scesa in Aspromonte per smuovere le coscienze e accelerare la liberazione del figlio e che per farlo, menziona proprio i Nirta, che si dice a San Luca, possano tutto.

    La testimonianza di ’Ntoni

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    Le alleanze e le parentele della ‘ndrangheta che conta [da Catino, M., Rocchi, S., & Marzetti, G. V. (2022)]
    Dice ancora ’Ntoni Nirta a Sergi:
    «Mi dispiace, mi creda, per quel ragazzo e per i suoi genitori, mi dispiace pure per la gente di San Luca che viene ingiustamente criminalizzata. Se potessi far qualcosa, come cittadino e come padre, glielo ripeto, lo farei subito. Ma cosa posso fare? Non faccio parte di un mondo “extra”, non sono in grado di intervenire. Come genitore dico: liberatelo, restituitelo alla famiglia. Solo un genitore snaturato agirebbe diversamente. lo sono contrario ai sequestri, alla droga, alla violenza».

    Legami d’acciaio coi matrimoni di ‘ndrangheta

    La famiglia, la paternità, la genitorialità, la gente di San Luca, la Montagna.
    Non è un mistero per nessuno, ormai, il ruolo della famiglia Nirta (e della loro alleanza con gli Strangio) nella ’ndrangheta aspromontana.
    Sono più che noti i vari rami della famiglia (la ’ndrina Maggiore e quella Minore). I suoi uomini si sono distinti per il coinvolgimento ripetuto in una serie di reati: dalla cocaina all’estorsione, dall’associazione mafiosa all’omicidio.
    Ma quello che si tende a dimenticare, non solo in questa storica ’ndrina di San Luca, ma un po’ in tutta la ‘ndrangheta, è proprio la famiglia, l’aspetto famigliare.

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    Giovanni Strangio, la mente del commando che agì a Duisburg

    Rrobba di famiglia

    La paternità, la maternità, i figli, il quotidiano, il lutto, i compleanni, i matrimoni, le feste del paese. Nemmeno Giuseppe o ‘Ntoni Nirta sono sempre e solo malvagi o sempre e solo ’ndranghetisti; sono anche padri, nonni, zii. Coesistono, in queste persone, molti aspetti, negativi e “normali”.
    Non è una provocazione, tanto meno una giustificazione tipica di quelle tecniche di neutralizzazione di cui molti mafiosi si sono serviti negli anni: ricordare che dietro alla ’ndrangheta ci sono le dinamiche familiari è non solo una necessità storica-sociologica, ma anche giudiziaria.

    Il familismo dei capibastone

    Infatti, non è banale ricordare che dietro alla ‘ndrangheta, in particolare quella reggina e aspromontana, ci sono i legami di sangue. Al contrario, questi legami hanno implicazioni molto concrete.
    La “familiness”, l’aspetto familiare che entra negli affari di famiglia, è assolutamente centrale nella ’ndrangheta: chi si sposa, chi ama, chi non ama, chi è gay e non lo dice, chi vorrebbe studiare e non può, chi deve seguire le orme del padre, chi vuole proteggere la madre, chi vuole proteggere i figli, chi muore prima del tempo, e via discorrendo.

    Parenti e affari

    Gli aspetti familiari sono anche business: i valori della famiglia si confondono o influenzano gli affari di famiglia e gli eventi della famiglia, le caratteristiche delle relazioni familiari, assumono diverse forme che diventeranno eventualmente forme di ’ndrangheta.
    Non ci sono famiglie uguali, nemmeno nella l’ndrangheta. Ogni famiglia ha una sua propria “cultura” , che si riflette nell’attività ’ndranghetistica.
    Ciascuna famiglia ha dei meccanismi propri per gestire gli incidenti di percorso. Ha membri che sono più portati al comando in momenti di crisi, o sono più fragili nelle difficoltà.
    Ogni famiglia, anche quella di ‘ndrangheta, dovrà gestire la successione. E non c’è determinismo, soltanto fattori socio-economico-culturali che in Calabria come in Piemonte o in Canada creano mix diversi da individui diversi, nonostante regole comuni e piani di collaborazione criminale.

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    L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg

    Matrimoni strategici

    Una dimostrazione di questa “sinergia” tra aspetti organizzativi e aspetti prettamente familistici sono ad esempio i matrimoni strategici, che storicamente e soprattutto in Aspromonte hanno costituito una delle caratteristiche più conosciute della ’ndrangheta.
    Ma i matrimoni “strategici” non sono un’esclusiva della mafia ma sono tipici di alcune élite (ricordiamo che esistono matrimoni strategici in tutte le famiglie reali e nobili, nonché in dinastie imprenditrici).
    Ricorrere alle alleanze matrimoniali avrebbe avuto, secondo la ricerca, una funzione di amplificazione e di protezione sia degli affari sia della coesione interna del gruppo ’ndranghetista, in alcuni posti più che altri.

    A giuste nozze…

    È famoso, per esempio, il matrimonio del “giorno 19” – tra Elisa Pelle, figlia di Giuseppe Pelle detto Gambazza, e Giuseppe Barbaro, figlio di Pasquale Barbaro ’u Castanu, avvenuto il 19 agosto del 2009 – fondamentale per le indagini durante l’operazione Crimine degli stessi anni. I matrimoni sono una costante nelle stesse dinastie, in Calabria come altrove.
    I Sergi e i Barbaro ad esempio, mantengono storicamente una stretta parentela con altre famiglie aspromontane – come i Romeo e i Perre – anche in Australia.

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    Lo schema di potere dei Barbaro (a cura di Anna Sergi)

    Strumenti di potere

    I legami familiari, i cognomi, sono spesso legami ascrittivi, cioè oggettivi: i parenti non si scelgono, in altre parole.
    Ma questi legami familiari possono essere manipolati e alcune dinastie di ’ndrangheta storiche e tradizionali ne fanno strumento di potere. Nessuno è sempre e solo malvagio, nemmeno un mammasantissima. Anche gli ’ndranghetisti hanno molte facce che coesistono. Quella familiare, in cui si manifestano il carattere personale e i valori (reali o meno che siano) del casato, rivela scelte più ampie e capacità di business.

  • Laureati al 41 bis: quando l’unica libertà è farsi una cultura

    Laureati al 41 bis: quando l’unica libertà è farsi una cultura

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    Ci sono appuntamenti sul calendario che sembrano somigliare al titolo di uno di quei film apocalittici di fantascienza, per esempio “31/12/9999”. Invece questa data che non esiste, è scritta nero su bianco sul documento penitenziario che accompagna la detenzione di F. e indica il termine della sua carcerazione, cioè mai.
    F. sconta la sua pena in un carcere della Sardegna e sarebbe dovuto giungere lunedì 13 febbraio all’Unical per conseguire la laurea Magistrale in Sociologia e Ricerca sociale. Per ragioni che ancora non sono note, però, dalla sua cella non è mai uscito.

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    L’Università della Calabria

    Laurea e dottorato al 41 bis

    Sono i misteri dell’ergastolo ostativo, la forma di pena che esclude il detenuto che si è macchiato di particolari reati dal poter usufruire dei benefici penitenziari come permessi o forme di riduzione della pena stessa. Eppure F. aveva ottenuto un permesso «per necessità» e la sensibilità del magistrato di sorveglianza aveva autorizzato anche la scorta a viaggiare in borghese e senza utilizzare le manette.
    C. invece è rinchiuso in un carcere di massima sicurezza del nord e anche per lui le porte del penitenziario non si apriranno più. Alcuni anni fa C. si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Catanzaro. Poi ha conseguito un dottorato di ricerca presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Unical.

    I due sono studenti del Polo universitario penitenziario e rappresentano gli esempi di come, pure nell’abisso della reclusione più severa, le cose possano cambiare. I mille chiavistelli che separano le loro celle dal mondo di fuori sono rimasti serrati, ma gli orizzonti si sono allargati portando nelle anguste mura del carcere saperi, conoscenze e consapevolezze che prima mancavano.

    Il diritto allo studio per tutti

    «L’esperienza del Polo universitario penitenziario dell’Unical nasce formalmente nel 2018», spiega Franca Garreffa, sociologa del Dipartimento di Scienze politiche e responsabile del Pup. Si tratta di un protocollo d’intesa attraverso cui l’Ateneo e il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria si impegnano a favorire il diritto allo studio delle persone detenute. In realtà le radici del rapporto tra l’Università e i luoghi di pena sono più antiche di almeno un decennio e risalgono a quando nel carcere di Rossano proprio F. e il suo compagno di cella G. espressero a una volontaria il desiderio di seguire gli studi universitari.carcere-calabria-57-detenuti-in-attesa-laurea-superpasticciere-i-calabresi

    L’allora direttore del carcere, Giuseppe Carrà, contattò il sociologo Piero Fantozzi, che al tempo dirigeva il dipartimento di Sociologia e subito si avviò il percorso didattico. In quel cammino venne coinvolta Franca Garreffa, appena laureata con Renate Siebert discutendo una tesi sul carcere. I due detenuti conseguirono la laurea triennale nel giugno del 2015 sostenendo le loro tesi nell’aula dell’ateneo.

    L’unica via di fuga

    Proprio in quel periodo C. che intanto era recluso nel carcere di Catanzaro, chiese di potersi laureare anche lui recandosi in università e al diniego delle autorità decise di protestare iniziando uno sciopero della fame. Sarà a causa di questa protesta che dovrà rassegnarsi a discutere la tesi in carcere e poi al trasferimento al nord. Successivamente, a causa di imperscrutabili percorsi umani, l’estratto della tesi di laurea di C. che aveva come argomento l’ergastolo ostativo apparirà su una rivista il cui direttore era il figlio del giudice che gli aveva comminato proprio quella pena.

    Ma se i libri diventano la sola via di fuga, allora tanto vale continuare a studiare ancora, fino al dottorato di ricerca, il più alto titolo di studio riconosciuto nel nostro Paese, traguardo che C. raggiunge proprio con Franca Garreffa.
    «Ho incontrato C. quando era già al nord – racconta la sociologa del Dispes – e mi sono messa in contatto con lui tramite alcune redattrici della rivista Ristretti orizzonti». Da lì comincia un percorso umano e didattico che ancora è in corso.

    Una laurea al 41 Bis per riscattarsi

    Le storie di F. e C. sono per molti versi drammaticamente simili. Da giovanissimi, entrambi poco più che ventenni, vengono arrestati e accusati di reati molto gravi e per questo condannati all’ergastolo ostativo e al regime del 41 Bis. Viene da domandarsi come si possa consegnare due persone, praticamente ancora ragazzi, a una pena così priva di senso e ampiamente considerata anche incostituzionale. A quell’abisso infernale F. e C. hanno dato uno scopo attraverso lo studio.

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    Una scritta contro il 41-bis in un quartiere popolare

    «Tramite l’impegno universitario F. e C. e tutti i detenuti impegnati nei vari Poli universitari penitenziari non hanno solo riempito di senso il loro tempo, ma hanno cercato un riscatto per se stessi e per le loro famiglie», spiega la professoressa Garreffa, che intanto resta in attesa che a F. venga consentito, come annunciato, di tornare nell’aula di Arcavacata per la sua laurea magistrale. Perché il sapere non fa svanire le sbarre, né apre le serrature, ma rende gli uomini migliori.

     

  • Droga: testa a testa tra Calabria e Sardegna

    Droga: testa a testa tra Calabria e Sardegna

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    Cocaina: è l’ennesimo record di una certa Calabria. Se positivo o meno, dipende dai punti di vista. Le Forze dell’ordine hanno sequestrato, da noi, oltre una tonnellata di polvere bianca ogni 100mila abitanti di età tra i 15 e i 74 anni. In pratica, il 68% del mercato totale italiano. Questi, almeno sono i dati della Dcsa (Direzione centrale servizi antidroga).

    Calabria vs Sardegna: una sfida tossica

    Calabria e Sardegna si tallonano per il primato assoluto nelle varie classifiche nazionali sugli stupefacenti.
    Infatti, la Sardegna è risultata prima per tonnellate di droga sequestrate in un anno e la Calabria seconda. Ma per la cocaina, evidentemente, il porto di Gioia Tauro fa la differenza, quindi le parti si invertono.
    I dati dettagliatissimi emergono dall’ultima relazione al Parlamento (2022) sulle tossicodipendenze, che fotografa un fenomeno in continuo movimento.

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    Il porto di Gioia Tauro

    Cocaina e Calabria: il dossier del Governo

    Il dossier, a cura della Presidenza del Consiglio dei ministri, prende spunto principalmente dal report annuale della Dcsa e ne integra i risultati con altri documenti che coinvolgono i principali Ministeri (interno, giustizia e salute), tutti gli enti locali, l’Istat, l’istituto superiore di sanità, il Cnr e altre organizzazioni.
    È quindi il dossier italiano più completo in materia di droghe.
    La Direzione centrale per i servizi antidroga è l’ufficio nazionale del Viminale attraverso il quale il capo della polizia assicura, in base alle direttive del ministro dell’Interno, il coordinamento dei servizi di polizia per la prevenzione e repressione del traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope.
    È un organo interforze, costituito in maniera paritetica dalla Polizia, dall’Arma dei carabinieri e dalla Guardia di finanza.

    Droghe: tutti i numeri

    Il 34,1% delle quantità di droghe sequestrate è nelle isole, prevalentemente in Sardegna (kg 23.676, pari al 28% del totale).
    Il 26,8% e il 25,6%, invece, circola, rispettivamente al Sud e al Nord del Paese, in particolare in Calabria e Lombardia. Infine, il 13,4% gira nelle regioni centrali, soprattutto in Lazio.
    I quantitativi di stupefacenti sequestrati, corrispondono, in rapporto alla popolazione residente, a oltre 190 kg ogni 100.000 residenti di 15-74 anni, con valori che in Calabria superano i 1.000 kg per 100.000 residenti di pari età e in Sardegna raggiungono quasi i 2.000 kg.
    In Calabria sono 15,7 le tonnellate di droghe sequestrate nell’ultimo anno monitorato, (2021), in Sardegna 23. Segue la Lombardia con 12 e il Lazio con 7.

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    La sede della Dsca

    Cocaina: Calabria superstar

    Se si analizzano solo i dati della cocaina il discorso cambia e la Calabria è prima assoluta.
    Il 68% della polvere bianca sequestrata (circa 13,6 tonnellate) è stata intercettata in Calabria. Ma tutto lascia pensare che le Forze dell’ordine hanno trovato solo una parte della coca che circola, in Calabria come altrove.
    I sequestri di cocaina, effettuati presso le frontiere marittime, si riferiscono agli interventi nelle aree portuali del versante occidentale.
    Dal porto di Gioia Tauro, che incide per il 97,5% (13.364,94 kg), proviene la maggior quantità di cocaina. Seguono quelli di Vado Ligure (Savona) (138,29 kg) e di Livorno (kg 118,53).

    Isole e Sud al top

    Al Sud e nelle Isole sono state intercettate grandi quantità di cocaina. Al Nord, invece, le Forze dell’ordine hanno trovato quantità più contenute, legate prevalentemente al mercato dello spaccio.
    In rapporto alla popolazione, in Italia sono stati sequestrati kg 45,3 di cocaina ogni 100.000 residenti di 15-74 anni, valore che in Calabria raggiunge quasi kg 1.000 ogni 100.000 residenti di pari età. Il dato calabrese è più che evidente, quindi, su 15 tonnellate di droga sequestrate, 13 sono di cocaina.

    Un sequestro di droga

    La cocaina dalla Calabria all’Europa

    Il consumo di coca in Europa cresce costantemente, come ha affermato di recente l’Osservatorio europeo sulla droga.
    Va da sé: quando si parla di cocaina si parla di ‘ndrangheta. Ovviamente e non esistono altri canali di approvvigionamento, a differenza delle altre droghe, se non quelli che passano attraverso la criminalità organizzata, soprattutto calabrese, che ha la capacità di trattare direttamente con i cartelli sudamericani rispetto alle altre organizzazioni. Repressione e prevenzione non bastano mai.

  • MAFIOSFERA| Processi alla ‘ndrangheta? All’estero non si può (o quasi)

    MAFIOSFERA| Processi alla ‘ndrangheta? All’estero non si può (o quasi)

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    Nel novembre del 2022, in Germania, il Tribunale di Costanza ha emesso una sentenza di condanna nei confronti di Salvatore Giorgi (33 anni) di origini calabresi, cameriere in un ristorante di Überlingen, sul Lago di Costanza. Il tribunale, la cui sentenza è divenuta definitiva questa settimana, ha giudicato Giorgi colpevole di traffico di droga e riciclaggio di denaro e lo ha condannato a un totale di tre anni e sei mesi di carcere (poi ridotta in appello a due anni e cinque mesi).

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    Il tribunale di Costanza

    Come hanno ricostruito i giornalisti di MDR, la cosa notevole di questa sentenza è che Giorgi ha subito la condanna anche per aver sostenuto un’organizzazione criminale straniera. Quale? La ‘ndrangheta.

    La prima condanna “ufficiale” per ‘ndrangheta

    Secondo la ricostruzione di MDR, questa è la prima volta che la Germania giudica la ‘ndrangheta in modo ufficiale in un tribunale. Il paragrafo 129 del Codice Penale tedesco – reato di formazione di un’associazione a delinquere – è stato riformato nel 2017 per facilitare il lavoro delle forze dell’ordine. Ma, come riportato sempre da MDR, le condanne sono ancora molto poche.

    Il paragrafo 129 recita, tra le altre cose:

    «Chiunque costituisca un’organizzazione o partecipi in qualità di membro a un’organizzazione i cui obiettivi o attività siano finalizzati alla commissione di reati punibili con una pena detentiva massima di almeno due anni incorre in una pena detentiva non superiore a cinque anni o in una multa. Chiunque sostenga tale organizzazione o recluti membri o sostenitori per tale organizzazione incorre in una pena detentiva per un periodo non superiore a tre anni o in una multa».

    La norma successiva, 129b, precisa che il paragrafo 129 si applica anche a organizzazioni criminali transnazionali e/o straniere.

    Il primato di Giorgi

    Ecco dunque che Salvatore Giorgi, condannato per reati di stupefacenti, risulta anche condannato – sebbene poco cambi per la sentenza in sé – per favoreggiamento della ‘ndrangheta, per aver sostenuto e supportato la mafia calabrese. La ‘ndrangheta è tutt’altro che sconosciuta in Germania anche a livello giudiziario: ricordiamo che nell’ottobre del 2020, in seguito agli arresti incrociati a livello europeo nell’operazione European ‘Ndrangheta Connection, conosciuta anche come Pollino, è iniziato a Düsseldorf in Germania, un processo contro 14 imputati principalmente per traffico di droga in cui si contestano, tra le altre cose, la partecipazione diretta all’associazione calabrese e suo favoreggiamento. Ma questa condanna a Giorgi è arrivata prima, per un procedimento separato, del 2021, in seguito all’operazione Platinum-Dia, sempre tra Italia e Germania, col supporto di Europol e Eurojust.

    Ristoranti, cocaina e omertà

    La sentenza tedesca ricostruisce l’organigramma dell’organizzazione criminale di San Luca a cui appartiene Salvatore Giorgi, e in particolare il clan Boviciani, noto per il particolare interesse nel traffico di cocaina, oltre che per il radicamento in Germania. Ricostruisce MDR come Salvatore Giorgi lavorasse come cameriere a Überlingen in un ristorante situato direttamente sul lungolago turistico. Gli investigatori considerano questo ristorante e altri due a Baden-Baden e a Radolfzell come appartenenti al gruppo.

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    Agenti tedeschi perquisiscono un ristorante

    Giorgi era anche stato il direttore della società che gestiva il ristorante sul lago di Costanza. Il tribunale, dunque, ritiene che Giorgi abbia sostenuto il gruppo criminale di San Luca nella sua attività relativa ai narcotici. L’associazione ‘ndranghetistica di San Luca viene descritta nei ruoli dei suoi membri. Scrivono i giornalisti Margherita Bettoni, Axel Hemmerling e Ludwig Kendzia, per MDR: «Si parla di una cassa comune di circa cinque milioni di euro; si parla del voto di silenzio tipico della mafia, l’omertà». La ‘ndrangheta, e il clan Giorgi che ne fa parte, diventano per il tribunale l’organizzazione criminale straniera sottostante a una serie di altri reati.

    Canada e ‘ndrangheta

    Se questa è la prima volta che la Germania riconosce la ‘ndrangheta come organizzazione criminale straniera ai fini di una condanna penale, non è la prima volta che ciò accade all’estero. E febbraio è il mese fortunato.
    Il 28 febbraio 2019, la Corte Suprema dell’Ontario condannava Giuseppe Ursino (11 anni e mezzo) e Cosmin Dracea (10 anni) per reati di criminalità organizzata, incluso il traffico di stupefacenti. Tra le altre cose, si imputava ai due di aver trafficato cocaina «a beneficio di, sotto la direzione di, o in associazione con, un’organizzazione criminale, vale a dire la ‘Ndrangheta, commettendo così un reato contrario alla sezione 467.12 del Codice penale».

    In questo caso la norma riguarda un “reato commesso per conto di un’organizzazione criminale” e recita, al comma 1:
    «Chiunque commetta un reato perseguibile d’ufficio ai sensi della presente o di qualsiasi altra Legge del Parlamento a beneficio di un’organizzazione criminale, sotto la sua direzione o in associazione con essa, è colpevole di un reato perseguibile d’ufficio e passibile di reclusione per un periodo non superiore a quattordici anni».

    Boss in pensione

    Soprattutto, «In un’azione penale per un reato ai sensi del comma 1, non è necessario che l’accusa dimostri che l’imputato conosceva l’identità delle persone che costituiscono l’organizzazione criminale». Questa sentenza descrive la struttura e le attività della ‘ndrangheta grazie ad informazioni fornite da un ufficiale dei Carabinieri dall’Italia. Si descrivono le operazioni di questa mafia nella sua versione canadese, e soprattutto la Corona ha sostenuto che Giuseppe Ursino non solo era un membro della ‘ndrangheta, ma era un “boss” locale. Ciò si basava in modo significativo su conversazioni registrate con l’agente di polizia. Giuseppe Ursino ha negato in sede di testimonianza di essere un membro della ‘Ndrangheta e tanto meno un “boss”. Nella sua testimonianza ha ammesso di essersi riferito a se stesso come tale, ma ha detto che si stava vantando solo per provocare l’agente di polizia.

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    Giuseppe Ursino

    Ursino, originario di Gioiosa Ionica, emigrò in Canada a 18 anni nel 1971. I familiari lo descrivono davanti alla corte come «un marito, un padre e un nonno di buon cuore, premuroso e gentile». Questo, però, non gli impedirà di essere considerato un membro apicale della ‘ndrangheta. Non aveva precedenti penali ed era stato titolare di un’attività di distribuzione di prodotti alimentari a ristoranti e sale per eventi, ma al 2019 era in pensione da due anni. Invece i giudici non hanno considerato l’altro imputato, Dracea, un membro dell’organizzazione mafiosa nonostante della sua attività avesse comunque beneficiato la ‘ndrangheta anche perché sapeva chi era Ursino e che ruolo aveva.

    ‘Ndrangheta all’estero: sempre e solo calabrese?

    Due paesi, due sentenze, due normative simili ma non uguali, e sicuramente diverse dalla normativa italiana. Rimane chiaro che laddove sembri ormai fattibile riconoscere la ‘ndrangheta all’estero come “organizzazione criminale straniera” – in Germania, come in Canada – l’appartenenza alla ‘ndrangheta come organizzazione radicata altrove non è ancora realtà. La criminalizzazione della ‘ndrangheta come organizzazione criminale tedesca o canadese, per capirci, non è ancora realtà. La ‘ndrangheta a processo all’estero rimane calabrese e all’estero per ora si punisce solo chi commette reati in supporto agli ‘ndranghetisti calabresi.

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    Beni confiscati al clan calabro-canadese Figliomeni di Toronto

    Se questo è un enorme passo avanti – soprattutto in paesi che hanno uno storico problema di mafia italiana sul loro territorio – denota ancora un’alienazione- alterità del problema – vale a dire, un riconoscimento del problema mafioso come ‘altro’, ‘straniero’ rispetto alla realtà locale. La ‘ndrangheta in Canada e in Germania – per quanto concerne queste sentenze soprattutto – rimane una questione di importazione criminale e non – come invece dimostra la ricerca – un fenomeno altamente legato ai contesti locali. Certo, la ‘ndrangheta è calabrese – ma in Canada è anche canadese, con dei connotati locali, e lo stesso in Germania -e non sempre si manifesta solo come criminalità di supporto.

    L’Italia nelle indagini sulla ‘ndrangheta all’estero

    L’alienazione-alterità giuridica del fenomeno porta a delle difficoltà procedurali, soprattutto quando c’è di mezzo la cooperazione internazionale. Per esempio, in Canada, un’indagine su un presunto ‘ndranghetista – Jimmy DeMaria rischia di andare a rotoli. Il governo canadese vuole espellere DeMaria sulla base di registrazioni ottenute da intercettazioni telefoniche condotte dalla polizia italiana, sostenendo che le registrazioni provano la sua associazione alla ‘ndrangheta. Ma l’avvocato di DeMaria sostiene che queste sono state ottenute illegalmente – perché effettuate su territorio canadese dalle autorità italiane.

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    L’arresto di Vincenzo “Jimmy” DeMaria

    Infatti, fornire le prove dell’associazione alla ‘ndrangheta rimane spesso una faccenda ‘delegata’ all’Italia e non sempre riconosciuta all’estero. In alcuni casi questo porta all’incomunicabilità tra i sistemi giuridici: si pensi al caso della Svizzera che, in seguito ad operazione Helvetia portò a processo alcuni individui che si ‘dichiaravano’ ‘ndranghetisti, parlavano di rituali e anche di estorsione. Li hanno assolti perché non basta raccontarsi mafiosi, se non lo si fa in pratica. Costoro in Svizzera non commettevano reati identificabili come ‘crimine organizzato in supporto della ‘ndrangheta’ dunque il loro essere o dichiararsi ‘ndrangheta non serviva a molto, giuridicamente.

    Paese che vai, ‘ndrangheta che trovi

    Questo per concludere: ottimo il passo avanti della Germania e in bocca al lupo al Canada nelle loro lotte contro la ‘ndrangheta -o, meglio, le ‘ndranghete – all’estero. Ma il fenomeno mafioso all’estero non è sempre e solo ‘straniero’; la ‘ndrangheta non è solo quello che in Italia chiamiamo ‘ndrangheta. Bisogna che i sistemi giuridici internazionali introiettino la propria ‘ndrangheta, o mafia che sia, senza soltanto ‘trasferire’ conoscenza e aspettative dall’Italia.

    germania-ndrangheta-estero

    Serve che in altri paesi si capiscano – oltre alle ramificazioni transnazionali – le evoluzioni locali delle mafie, di varia origine. E, soprattutto, i comportamenti mafiosi “migranti” – che saranno parzialmente diversi, e storicamente differenti, in Germania come in Canada. La ricerca già lo fa. In questo senso, ha successo il modello statunitense che ‘legge’ il fenomeno mafioso – siciliano, calabrese, americano, svedese (se esistesse) non importa – come comportamento di “corrupt enterprise” (impresa corrotta) lesivo dell’economia e della politica locale, in seguito a comportamenti penalmente rilevanti per il sistema nazionale. Ma questa è un’altra storia.