Tag: giustizia

  • Festival del diritto: tiktoker e Montesquieu a colpi di codice

    Festival del diritto: tiktoker e Montesquieu a colpi di codice

    «Non è un Festival sulla legalità astratta, ma un evento letterario e culturale calato nel mondo in cui viviamo: quest’anno ci occupiamo di democrazia». Inizia così la conversazione con Antonio Salvati, magistrato napoletano e palmese adottato, alle 8.30 del venerdì mattina seguente alla conferenza stampa di presentazione del X Festival Nazionale di Diritto e Letteratura della Città di Palmi (20-22 aprile 2023).

    CLICCA QUI PER SCARICARE IL PROGRAMMA DEL FESTIVAL

    Siamo al tribunale di Reggio: ho redistribuito i miei impegni per riuscire a vederlo. «Sono contento che siamo riusciti a incontrarci. Mi ha colpito, nella nostra chiacchierata telefonica, che lei abbia insistito per vederci. Oggi si fa prima con lo scambio di comunicati stampa?».

    festival-diritto-letteratura-palmi-tiktoker-sfidano-montesquieu
    Il tiktoker Usso96
    Sarà anche vero – ribatto -, ma è la conseguenza del depauperamento della professione. Se per tirar su uno stipendio decente bisogna scrivere duecento pezzi al mese, capirà che la forchetta tempo/approfondimento si assottiglia fino quasi a sparire. Peccato perché il giornalismo è una delle gambe della democrazia.

    «Pensi, quest’anno, per il nostro decennale, all’aula Scopelliti del Tribunale di Palmi processeremo i social network! Intendiamoci: si tratta di un processo atecnico, fittizio, di uno spunto di riflessione, per approfondire il legame tra forma di governo, contesto socio-economico e innovazione tecnologica. Il pubblico Ministero sarà Dario Vergassola, la difesa verrà rappresentata dal tiktoker Usso96 e il giudice sarò io. Partiamo dal presupposto che la globalizzazione abbia innescato due processi: il rafforzamento del potere esecutivo e il crollo dei corpi intermedi mentre noi siamo stati parcellzzati. Tutto deve essere veloce e ad immediata portata di mano».

    Mi torna: ogni cambio di paradigma porta crolli e nuove regole di organizzazione. Sono i temi che tratto a scuola con i miei studenti: il digitale, le piazze virtuali, i tribunali del popolo versione social network, l’epoca del click, i processi mediatici sommari, l’individualizzazione, la partecipazione.

    «Quando nel 2015 chiesi al professor D’Alessandro dell’Alta Scuola di Giustizia Penale di Milano se credesse che portare un festival sugli studi di Diritto e Letteratura fuori dalle aule universitarie e verso il mondo della scuola fosse un punto di debolezza, mi risposte che no, che anzi rappresentava la forza dell’iniziativa. Eravamo alla seconda edizione e l’idea che con i ragazzi si dovesse lavorare attraverso le dimensioni di semplicità e curiosità è stata vincente. Avvicinare la scuola al mondo del diritto è più facile attraverso la letteratura».

    In che senso?

    «Cerchiamo di mostrare come il diritto non sia semplicemente appannaggio delle aule di un tribunale, ma riguardi la convivenza di tutti noi. La letteratura e la finzione sono i nostri attrezzi del mestiere. Lavorando con attori, scrittori, tiktoker, come quest’anno, svestiamo le toga e cerchiamo di avvicinarci alla generazione Z. Non mi ritrovo nell’assunto di Montesquieu che i magistrati siano la bocca della legge».

    festival-diritto-letteratura-palmi-tiktoker-sfidano-montesquieu
    Piero Calamandrei
    Però la magistratura è percepita come una delle caste di questo Paese. La voce del popolo pensa che siate intoccabili, per restare nel solco di un dibattito allargato sulla democrazia.

    «Sicuramente c’è qualcuno che vorrebbe far proprio questo modello. Io la penso diversamente. Prenda l’esempio del periculum in mora, il possibile danno in cui potrebbe incorrere il diritto soggettivo: la valutazione su questo periculum non si può fare se non si resta essere umano, con la propria esperienza di vita: cosa che nessuna intelligenza artificiale o algoritmo potrà mai fare. Per Calamandrei, prima di giudicare, un magistrato avrebbe dovuto sperimentare quindici giorni di carcere. In altre parole, per fare bene il suo lavoro, un giudice ha necessità di un gap esperienziale che gli permetta di operare coerentemente con il contesto, consapevole di essere persona tra persone. L’idea di smettere di essere persona per diventare un asettico braccio della legge non mi rappresenta».

    festival-diritto-letteratura-palmi-tiktoker-sfidano-montesquieu
    Lo scrittore portoghese Josè Saramago
    Ecco, non c’è democrazia senza rappresentanza e non c’è rappresentanza senza partecipazione. Un po’ ovunque, per lo meno in Europa, i dati sull’affluenza raccontano di una disaffezione. Chi elegge è una minoranza della maggioranza. E più in generale la partecipazione alla vita pubblica si affievolisce…

    «Jose Saramago in Saggio sulla lucidità racconta di un Paese in cui ad un tratto votano scheda bianca, con le conseguenze che ne derivano. É un esempio di cosa è e come si muove il Festival: contattiamo le scuole, chiediamo di aderire. Diamo il tema, Consigliamo di leggere il testo di riferimento che scegliamo per parlarne assieme. Tutto si tiene. Allargando il discorso questo modello, che è un po una metodologia, mira a fare uscire il diritto fuori dai suoi tecnicismi per divulgarlo, calandolo nella realtà di tutti noi. Il Festival è stato in alcune circostanze evento di formazione nazionale della Scuola Superiore della Magistratura, proprio perché il modo in cui affronta le tematiche che tratta contribuisce all’abbattimento dei bias cognitivi, ossia di quelle forme di pre-giudizio da cui un magistrato può essere influenzato, ma che occorre scongiurare per evitare prima stereotipi e poi errori. In seguito quello che era nato come strumento di formazione per giuristi si è trasformato ed è stato allargato alla scuola».

    Nella prima parte de I tweet di Cicerone, l’autore affronta un tema cruciale per il nostro mondo, i cambiamenti causati dal passaggio dall’oralità alla scrittura. E mostra come, in ogni grande passaggio, le categorie degli apocalittici e degli integrati siano sempre esistite. Cosa possiamo fare noi, la generazione-cerniera, per dare ordine nel passaggio dall’analogico al digitale?

    «Innanzitutto dire ai ragazzi che va tutto bene, andando noi, che abbiamo le spalle più robuste, verso di loro. Spiegando che certi tempi vanno affrontati. Bisogna uscire da questa tendenza accademica, che è molto italiana, e spingere sulla divulgazione. Ce lo ha insegnato Piero Angela: c’è modo e modo di affrontare le cose e modo e modo di narrarle. L’efficacia comunicativa è scandita dal come: per affrontare con il pubblico riflessioni apparentemente pesanti su temi come il cambio di paradigma, la democrazia 4.0, la partecipazione, i valori, gli stereotipi bisogna trovare la chiave giusta».

    Piero Angela, volto noto della tv italiana per tanti anni
    É contento dei risultati raggiunti?

    «Molto contento. Ritengo il Festival di diritto e letteratura di Palmi un formidabile strumento di umanizzazione e divulgazione e le posso assicurare che siamo sicuri di una cosa: il Festival lo faremo sempre, con qualsiasi budget, sia con zero fondi, sia con risorse più importanti. Se lo avessimo presentato come un’iniziativa sulla legalità in Calabria, sicuramente avremmo avuto maggiore risonanza, ma non è quello che volevamo».

    A proposito di stereotipi… la Calabria?

    «Le dico una cosa: girando l’Italia vedo negli occhi la delusione di qualcuno quando dico che che in Calabria faccio una vita normale. Spesso si è convinti che per fare questo lavoro in Calabria si debba girare con l’elmetto. Paragonando lo stereotipo calabrese con quello napoletano, ho la sensazione che il secondo assuma venature di leggerezza, mentre per il primo sembra manchi un piano B. Eppure sono convinto che la Calabria ce la farà. Ma deve smettere di raccontarsi attraverso gli stereotipi che le hanno cucito addosso. Perché questa terra, con il suo radicamento a certi valori, può essere laboratorio di modernità al di fuori dell’omologazione».

    É fiducioso?

    «Si. Il giorno migliore della nostra vita è domani. La aspetto al Festival».

  • Caso Marlane: un’altra sentenza ristabilisce la verità

    Caso Marlane: un’altra sentenza ristabilisce la verità

    La vicenda Marlane continua a far notizia. Dopo le assoluzioni importanti del primo processo penale, e in attesa degli esiti definitivi del secondo ancora in corso, la giustizia civile dà le prime risposte alle vittime e ai loro familiari.
    I giudici della Corte d’Appello di Catanzaro stanno ribaltando le sentenze di primo grado relative ad alcuni ricorsi dei congiunti di persone nel frattempo decedute per i tumori contratti mentre lavoravano nello stabilimento di Praia a Mare.

    Marlane: verità per un’altra vittima

    La più recente di queste decisioni (ma negli ultimi 12 mesi si contano sulle dita di una mano le sentenze sul caso Marlane) riguarda il marito di una delle 120 persone che si sono ammalate di cancro per essere venute a contatto con materiali tossici di varia natura (ad esempio cromo esavalente e arsenico).
    L’uomo nel 2009 aveva presentato una richiesta di indennizzo all’Inail come previsto dalla normativa nel caso di infortunio sul lavoro o malattia professionale.
    Per i giudici del Tribunale di Paola questa richiesta era prescritta perché proposta oltre il termine. Infatti, i magistrati avevano ritenuto che il termine di tre anni si dovesse calcolare dal 1999, quando i medici avevano diagnosticato alla donna un carcinoma mammario. Già allora, secondo i giudici di primo grado, la lavoratrice era in grado di sapere che la sua malattia derivasse dal lavoro svolto presso Marlane.

    Il Tribunale di Paola

    La norma

    È il caso di approfondire un po’, a partire dalla normativa. L’articolo 112 del dpr 1124 del 1965 (il testo unico che regola gli indennizzi) stabilisce che l’azione per ottenere il riconoscimento della malattia professionale si prescrive in tre anni dal giorno della manifestazione della malattia stessa. Tuttavia, le successive pronunce della Cassazione hanno chiarito altrimenti e in modo inequivocabile il momento in cui deve scattare il countdown di tale prescrizione.

    Marlane: il processo a Paola

    La dinamica di questa vicenda è piuttosto singolare. Il marito della lavoratrice, infatti, aveva fatto ricorso al Tribunale di Paola contro l’Inail, che aveva negato l’indennizzo all’operaia, nel frattempo deceduta.
    Come già detto, i magistrati di primo grado non erano entrati nel merito, ma si erano limitati a rigettare il ricorso perché tardivo e presentato oltre i termini di prescrizione (che secondo loro scadevano nel 2001).
    Al riguardo, è illuminante un passaggio della sentenza: «Era stato lo stesso ricorrente ad assimilare la condizione lavorativa della defunta moglie a quella di un suo collega, il quale aveva contratto, anche lui come altri 120 lavoratori del medesimo stabilimento industriale, una patologia neoplastica che, in sede giudiziale, a seguito della denuncia da questi presentata nel 1999, era stata riconosciuta di origine professionale. Sicché, secondo il tribunale, quando gli era stata diagnosticata la malattia tumorale, il ricorrente non poteva non essere consapevole quanto meno della potenziale genesi lavorativa della malattia. È pertanto inverosimile che abbia appreso solo nel 2008 della vicenda giudiziale del suddetto collega per poi presentare la domanda all’Inail il 5 novembre del 2009».

    La Corte d’Appello di Catanzaro

    L’appello

    Il vedovo appella la sentenza di Paola del 2012. Allo scopo, sostiene che sua moglie (poi defunta) era venuta a conoscenza solo nel 2008 del fatto che l’Inail aveva riconosciuto al suo collega la dipendenza del carcinoma dalle sostanze tossiche presenti dello stabilimento. Prima, invece, non aveva informazioni che lo rendessero capace di identificare l’origine professionale della sua malattia.
    I giudici di Catanzaro gli hanno dato ragione. Cosa che d’altronde hanno già fatto gli scorsi mesi per altri casi simili. sempre legati alla Marlane.

    Marlane: la sentenza di Catanzaro

    Ecco il passaggio chiave della sentenza con cui la Corte d’Appello ha dato ragione al vedovo: «La decisione impugnata va riformata perché il collegio non condivide il giudizio espresso dal tribunale in ordine alla sufficienza, ai fini dell’esordio della prescrizione, della teorica conoscibilità che l’odierno appellante poteva avere dell’origine professionale della malattia diagnosticata alla signora nel 1999».
    Questa sentenza si basa su una pronuncia della Cassazione del 2018. La Suprema Corte, a sua volta, aveva applicato un’indicazione della Corte Costituzionale, secondo la quale la prescrizione può ritenersi verificata quando la consapevolezza della malattia, la sua origine professionale e il suo grado invalidante, «siano desumibili da eventi obiettivi esterni alla persona dell’assicurato, che debbono costituire oggetto di specifico accertamento da parte del giudice di merito».marlane-corte-appello.ordina-risarcite-vittime

    Il risultato

    L’aspetto materiale e privato di questa vittoria, non è trascurabile. Infatti, il coniuge (e vincitore in giudizio) otterrà il 50% della retribuzione effettiva annua della defunta moglie, più gli arretrati, gli interessi e la rivalutazione a partire dal 2009.
    Più un assegno funerario di 10mila euro circa.
    Certo, non basta a restituire una persona amata. Tuttavia, la sentenza ha un altro merito, forse superiore: è un contributo in più alla verità. Quella processuale, si capisce.

    Punto e a capo

    I giudici d’Appello hanno fatto chiarezza per l’ennesima volta sugli esiti tragici e di lungo periodo della vicenda Marlane.
    Tutto questo mentre il secondo processo penale entra nel vivo.
    Quest’ultima sentenza è un ulteriore tassello di verità storica che entra nelle carte processuali. Resta lecita una domanda: quando potrà calare davvero il sipario sull’affaire Marlane?

  • Asp alla sbarra: di nuovo in aula il “Sistema Cosenza”

    Asp alla sbarra: di nuovo in aula il “Sistema Cosenza”

    Bilanci falsificati e assunzioni clientelari all’Asp di Cosenza, riparte il processo. L’esistenza di un presunto “sistema” di corruttele nell’azienda sanitaria ha portato dirigenti, funzionari e commissari della sanità calabrese al banco degli imputati. Ad accendere i riflettori sulle presunte anomalie amministrative sono state le centinaia di segnalazioni (su delibere, determine, contenziosi, atti ingiuntivi, soccombenze, fatturazioni ai privati) partite dal collegio sindacale.

    L’organo di controllo dal 2015 al novembre 2018 era composto da: Sergio Tempo in rappresentanza della Regione Calabria; Santo Calabretta (Ministero dell’Economia e delle Finanze); Sergio De Marco (Ministero della Salute); Nicola Mastrota, responsabile Ufficio Bilancio dell’Asp Cosenza. Tempo, unico dei membri del collegio a non essere confermato nel suo incarico dalla Regione Calabria allora guidata da Mario Oliverio, in qualità di presidente aveva puntualmente trasmesso i verbali con relativi rilievi sulle problematiche contabili alla Regione, al Mef, al Ministero della Salute e alla direzione dell’Asp di Cosenza. Venne però ignorato.

    regione-calabria
    La cittadella regionale di Germaneto

    Asp Cosenza, i verbali del collegio dei revisori

    I revisori del collegio sindacale dell’Asp di Cosenza, nei loro rilievi, mostravano preoccupazione per i 575 milioni di euro di debiti (su un valore della produzione di 1 miliardo e 200 milioni di euro) con crediti per almeno 80 milioni di euro che non erano stati cancellati per «evitare un più consistente risultato economico negativo».
    Voci (falsamente) in attivo che nel 2016 lievitano fino a diventare 94 milioni di euro. Nel bocciare il bilancio 2015 il collegio sindacale allertò gli organi competenti che all’Asp di Cosenza «la perdita sistemica degli ultimi bilanci di esercizio, – si legge nelle conclusioni della relazione del 29 maggio 2017 – denota squilibri strutturali del bilancio, in grado di provocare nel tempo il dissesto finanziario, se l’Ente non sarà in grado di adottare le misure necessarie».

    Mesi dopo il collegio, nel verbale n. 5 del 20 aprile 2018 rileva la persistenza al 31/12/2015 dello squilibrio finanziario, già rilevato nell’esercizio 2014, «in contrasto con una sana e ordinata gestione, situazione del tutto inconciliabile rispetto agli obiettivi di rientro programmati dal piano sanitario regionale».
    L’allarme con le dimostrazioni «dell’esistenza di una crisi irreversibile di liquidità» è ribadito nella Relazione al Bilancio Consuntivo del 2016 sul quale esprime parere contrario all’approvazione.

    Allo stesso modo, rilevando al 31 dicembre 2017 gli stessi squilibri finanziari del passato, il collegio sindacale sollecita approfondimenti «al fine di scongiurare il rischio della duplicazione di pagamenti e/o pagamenti non dovuti». E denuncia come l’Asp di Cosenza non sia in grado «di identificare con certezza la matrice sulla cui base i pagamenti vengono liquidati». Un’incertezza che «espone la stessa al rischio di remunerare più di una volta lo stesso importo per il medesimo pagamento». E si ripercuote ancora oggi, inevitabilmente, sulle capacità di garantire ai cittadini prestazioni sanitarie adeguate.

    Indagati dirigenti di Regione Calabria e Asp Cosenza

    Nessuno però sembrò accorgersi di quanto stesse succedendo ai piani alti dell’Asp di Cosenza, «perché non erano state scaricate le mail» (è la tesi difensiva di uno degli imputati). Poi, però, gli approfondimenti investigativi della Guardia di Finanza coordinata dalla Procura di Cosenza diedero uno scossone. Il 5 febbraio 2021 sei tra dirigenti e funzionari dell’Asp bruzia e della Regione Calabria si videro applicare la misura del divieto di dimora (3 in Calabria e 3 a Cosenza). Nove, invece, gli avvisi di fissazione dell’interrogatorio a seguito del quale il gip Manuela Gallo decise di interdire dai pubblici uffici 7 indagati per un anno e altri due per sei mesi.

    Al termine delle indagini, nel novembre 2021, gli iscritti nel registro degli indagati furono 18. Le accuse a vario titolo per loro erano: abuso d’ufficio, falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici e falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici. Per 15 è arrivato il rinvio a giudizio nel processo ancora in corso presso il Tribunale di Cosenza. La prossima udienza si terrà il 14 aprile.

    tribunale-cosenza
    L’ingresso del tribunale di Cosenza

    Tra gli imputati, con il trascorrere del tempo, qualcuno è andato in pensione. Altri continuano a lavorare tra l’Asp di Cosenza e la Regione Calabria, ricoprendo ruoli simili a quelli che li hanno condotti alla sbarra.
    In teoria, non si potrebbe agire diversamente. I dirigenti sotto processo possono solo essere cambiati di ruolo, ma non rimossi. Altrimenti, in caso di assoluzione, spetterebbe loro un risarcimento.

    Le assunzioni anomale all’Asp di Cosenza

    Fidanzate privilegiate. Le relazioni sentimentali intrattenute, secondo la Procura di Cosenza, avrebbero favorito due donne assunte a tempo indeterminato negli uffici dell’Asp con la qualifica di dirigente. Si tratta di Giovanna Borromeo e Cesira Ariani. La prima è la compagna dell’ingegnere dell’Asp di Cosenza Gennaro Sosto. La Procura aveva richiesto anche per lui la sospensione dai pubblici uffici. Il gip ha rifiutato e Sosto, in seguito, è risultato estraneo ai fatti oggetto d’inchiesta. Borromeo fu prelevata dalla graduatoria di Catanzaro e nominata dirigente amministrativo all’Asp di Cosenza.

    Ariani invece era la dolce metà dell’allora dirigente generale Raffaele Mauro. Questi avrebbe indotto la commissione esaminatrice, da lui stesso costituita, a  conferirle l’incarico di responsabile dell’UOS Risk Management e governo clinico su proposta di Remigio Magnelli (direttore delle Risorse Umane dell’Asp di Cosenza) e previa verifica da parte di Fabiola Rizzuto quale responsabile del procedimento. Il tutto, però, «individuando criteri di selezione indebitamente discriminatori».

    Alle loro discusse nomine si aggiunge quella di Maria Marano, che pur non essendo laureata in Medicina ha ricoperto l’incarico di responsabile dell’unità Ausili e Protesi. Un ruolo che le ha consentito di firmare (e far firmare) anche gli impegni di spesa e il rilascio delle autorizzazioni per la fornitura di pannoloni, cateteri, traverse, materassi antidecubito, letti ortopedici, ecc..

    I bilanci falsificati all’Asp di Cosenza

    Sui bilanci 2015–2016–2017 dell’Asp di Cosenza, secondo la Procura, il “Sistema” si sarebbe attivato per attestare «falsamente fatti dei quali l’atto era destinato a provare la verità». Tra questi appaiono gli accantonamenti nel fondo rischi e la situazione di cassa rilevabile dalla sezione Disponibilità liquide dello Stato patrimoniale.
    In più, per garantirsi l’impunità, gli imputati avrebbero alterato (o fatto alterare) alcune voci di bilancio. Avrebbero utilizzato una serie di giroconti eseguiti al solo scopo di alleggerire artatamente la voragine delle perdite. E trucchetti, se confermati, ai limiti del puerile: 7 milioni di euro in rosso trasformati in “denaro disponibile” cancellando il simbolo meno davanti alla cifra.

    falso-in-bilancio-asp-cosenza

    Il nodo dei bilanci dell’Asp di Cosenza

    Intanto la mancata approvazione dei bilanci consuntivi relativi agli anni 2018, 2019, 2020 e 2021 pesa come un macigno sulla contabilità dell’Asp di Cosenza. Che è quella più vasta della Calabria, quindi influenza la rendicontazione finanziaria della sanità dell’intera regione. Un concetto, questo, cristallizzato anche nelle intercettazioni captate durante le indagini: in una conversazione tra indagati gli inquirenti registrano la frase «se sballa Cosenza, sballa tutto», quasi i due presagissero un’apocalisse contabile.

    Dal canto suo, il nuovo commissario Antonio Graziano, in sella da maggio 2022, lo scorso settembre ha affermato di aver stornato debiti fittizi e crediti fasulli riuscendo così ad approvare il bilancio di previsione 2023, con tanto di avanzo di gestione.
    I conti però non tornano ai revisori. L’attuale collegio sindacale nel verbale ricco di omissis del 21 dicembre 2022 «in riferimento al Bilancio di Previsione anno 2023, esprime parere non favorevole, per come già evidenziato per i precedenti bilanci dal precedente Collegio».

    antonio-graziano-asp-cosenza
    Il nuovo commissario dell’Asp di Cosenza, Antonio Graziano

    I revisori, nel verbale, ricordano che «l’Azienda risulta sprovvista dei Bilanci relativi agli esercizi 2018/2019/2020/2021». E che «l’adozione dei predetti Bilanci è inscindibilmente propedeutica e collegata alla sistemazione e/o rimodulazione di importanti poste di bilancio, in particolare quelle debitorie». Ergo, hanno bocciato il documento contabile «non ritenendo le previsioni attendibili, congrue e coerenti col Piano di attività 2023, con i finanziamenti regionali nonché con le direttive impartite dalle autorità regionali e centrali».

    Gli imputati del Sistema Cosenza

    Nel frattempo il commissario Graziano continua a rimpinguare l’Asp procedendo con le 450 assunzioni annunciate. Ironia della sorte, a firmare bilanci e assunzioni sono, in parte, gli stessi imputati del Sistema Cosenza. Nei loro confronti, riferendosi in particolare a Remigio Magnelli, Fabiola Rizzuto e Maria Marano, il commissario Graziano nutre estrema fiducia: «Sono validissimi professionisti che lavorano, se ci sarà una sentenza ne prenderemo atto. Siamo garantisti. Collaborano con l’Asp di Cosenza, non hanno ricevuto promozioni, sono nello staff, non abbiamo altre risorse».

    Degli indagati che operano ancora nell’Asp bruzia solo le posizioni di Elio Pasquale Bozzo (direttore del distretto sanitario Cosenza–Savuto) e Alfonso Luzzi (collaboratore amministrativo professionale del settore Risorse Umane del distretto di Rossano) sono state archiviate. L’unico per il quale, invece, non è stata accolta la richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pm Mariangela Farro è l’ex commissario ad acta della Sanità calabrese, il generale Saverio Cotticelli.

    cotticelli
    Il generale Cotticelli
    • Raffaele Mauro

      Nato a Cosenza, classe 1954. Medico specializzato in Medicina Legale e Psichiatria, direttore generale dell’Asp di Cosenza negli anni 2016 -2017 -2018, nonché nei primi mesi del 2019. Attualmente a processo con l’accusa di abuso d’ufficio per la vicenda che riguarda i falsi precari dell’Asp di Cosenza assunti pochi giorni prima delle elezioni regionali del 2014 che ha portato al rinvio a giudizio di 142 indagati.

      Posizione attuale: Raffaele Mauro è in pensione dall’aprile 2019. Attualmente lavora in qualità di libero professionista in Lombardia, come psichiatra, in strutture ospedaliere attraverso le cooperative. Come ex direttore generale dell’Asp di Cosenza, non potrebbe, infatti, per legge operare per almeno tre anni nelle strutture accreditate con la stessa azienda sanitaria.

    • Luigi Bruno

      Nato a Cosenza, classe 1961. Laureato in Economia e Commercio con master in Management dei servizi sanitari. È stato direttore del personale e Responsabile Dirigente dei Rapporti Istituzionali del Centro di Riabilitazione socio/sanitaria Fondazione “Istituto Papa Giovanni XXIII” di Serra d’Aiello fino al 2006 quando la clinica lager fu oggetto di un blitz della Guardia di Finanza che svelò le condizioni inumane nelle quali versavano gli ospiti a fronte di circa 100 milioni di euro scomparsi nel nulla.
      Direttore amministrativo dell’Asp di Cosenza negli anni 2016 -2017 -2018.

      Posizione attuale: Oggi Luigi Bruno lavora a Cirò Marina in una casa di cura privata.

    • Francesco Giudiceandrea

      Nato a Rossano, classe 1963. Medico specializzato in Medicina Legale, cugino dell’ex consigliere regionale Giuseppe Giudiceandrea, è stato direttore sanitario dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza negli anni 2016-2017-2018.

      Posizione attuale: Dal 2018 Francesco Giudiceandrea è tornato a lavorare nella Medicina Legale ed è attualmente dirigente medico della struttura dipartimentale Medicina Legale ex ASL 3 Rossano.

    • Maria Marano

      Nata a San Gallo, in Svizzera, classe 1963. Ha conseguito il diploma di laurea in Giurisprudenza nel 1992 e dal gennaio 1994 lavora come collaboratore amministrativo all’Asp di Cosenza.

      Posizione attuale: Oggi, Maria Marano è responsabile amministrativo referente per il distretto Jonio Nord, responsabile dell’ufficio Risorse Umane di Trebisacce e lavora nella direzione generale dell’Asp di Cosenza in via Alimena. «È nel mio staff», afferma il commissario straordinario Antonio Graziano. «Si occupa – spiega – di problematiche legate al personale, alle procedure di affidamento di gare, fa il lavoro che ha sempre fatto, ma non fa più Ausili e Protesi».

    • Giovanni Francesco Lauricella

      Nato a Palermo, classe 1953. Direttore dell’U.O.C. Affari legali e contenzioso pro-tempore dell’Asp di Cosenza in carica fino all’agosto 2020. Avvocato noto alle cronache per l’inchiesta sulle “Parcelle d’oro” dell’Asp di Cosenza, nell’ambito della quale è stato assolto. Le indagini – dalle quali emersero oltre 400 incarichi esterni (in tre anni circa 800mila euro) affidati dall’Asp di Cosenza all’avvocato Nicola Gaetano, assolto in Appello – coinvolsero anche Andrea Gentile, figlio dell’ex senatore e sottosegretario Antonio Gentile nonché ex parlamentare in quota Forza Italia insediatosi alla Camera dopo le dimissioni di Roberto Occhiuto per incompatibilità con il ruolo di presidente della Regione Calabria.

      Posizione attuale: Dal settembre 2020 è in pensione.

    • Antonio Scalzo

      Nato a Cosenza, classe 1962. Dermatologo, specializzato anche in Medicina Legale, è stato direttore sanitario dell’Asp di Cosenza dal 2005 al 2010. Per anni direttore dell’Unità Operativa Semplice Dipartimentale Medicina Legale successivamente nominato direttore facente funzioni dell’UOC Cure primarie dei distretti Valle Crati e Cosenza. Dal 1993 al 2010 ha fatto parte e presieduto le commissioni per l’invalidità dell’Asp di Cosenza.

      Posizione attuale: Oggi è in pensione. Antonio Scalzo possiede il 95% della società Autismo Domani che gestisce nell’ex convento Ecce Homo di Dipignano di proprietà del Comune la “Casa di riposo San Pio” in subconcessione dalla società Villa San Pio della moglie Antonella Lorè. Quest’ultima nell’ottobre 2021 quando la struttura fu attenzionata per la morte di un anziano ospite caduto da una finestra sporse denuncia affermando che la firma sul contratto di affidamento fosse artefatta.

    • Carmela Cortese

      Nata a Castrovillari, classe 1956. Medico, specializzata in Medicina del Lavoro, Igiene e Sanità pubblica. Per circa 20 anni ha ricoperto la carica di direttrice del Servizio di Prevenzione, Igiene e Sicurezza degli Ambienti di Lavoro del Pollino – Ionio ed è stata direttrice del dipartimento Prevenzione e Igiene pubblica dell’Asp di Cosenza.

      Posizione attuale: Dal 2020 è in pensione. Appare nella lista dei medici consulenti tecnici d’ufficio del Tribunale di Castrovillari, ma senza alcun incarico attivo.

    • Remigio Magnelli

      Nato a San Pietro in Guarano, classe 1959. Laureato in Scienze economiche e sociali con master in Diritto del Lavoro e Pubblica Amministrazione. Torna ad essere direttore dell’Unità Operativa Complessa Gestione Risorse Umane dell’Asp di Cosenza a partire dal 2013 dopo aver ricoperto l’incarico negli anni precedenti. A causa di atti firmati nel 2008 in qualità di dirigente dell’UOC Risorse Umane dell’Asp di Cosenza ha subito una condanna a un anno di reclusione diventata definitiva nel 2019 per falso in atto pubblico. La vicenda riguardava l’assunzione all’Asp di Cosenza di Michele Fazzolari. Quest’ultimo ebbe l’incarico di stabilizzare circa 430 precari dell’azienda sanitaria bruzia, tra i quali anche se stesso, operazione dalla quale scaturì un’inchiesta della Procura di Cosenza che coinvolse anche Antonio Scalzo.

      Posizione attuale: Oggi è direttore del dipartimento amministrativo e direttore Affari Generali dell’Asp di Cosenza, nonché referente del commissario straordinario Graziano. Quest’ultimo lo definisce «una persona in gamba, un valido professionista, sta lavorando correttamente».

    • Fabiola Rizzuto

      Nata a Cosenza, classe 1961. Avvocato, dirigente amministrativo dell’Asp di Cosenza. Dal 2005 è stata responsabile dell’Unità Operativa Semplice Gestione Giuridica del Personale.

      Posizione attuale: Oggi è responsabile dell’area giuridico economica della Gestione Valorizzazione Sviluppo Formazione Risorse Umane del distretto Cosenza-Savuto. Di fatto sembrerebbe le sia stato affidato il ruolo del coimputato Remigio Magnelli e ricopra attualmente la carica di facente funzioni della UOC Gestione Risorse Umane. Il commissario straordinario dell’Asp di Cosenza Antonio Graziano afferma: «Fa il suo lavoro, con dignità ed onore».

    • Aurora De Ciancio

      Nata a Montalto Uffugo, classe 1955. Laureata in Scienze Politiche. Direttore dell’UOC Gestione Risorse Economiche Finanziarie dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza dal 2013. Ha ricoperto anche la carica di commissario Asp Cosenza per un breve periodo. Di recente la Procura di Cosenza, nell’ambito di un’altra inchiesta che riguarda i doppi pagamenti di fatture in favore di privati convenzionati con il sistema sanitario regionale, ne ha chiesto il rinvio a giudizio insieme al noto imprenditore cosentino Francesco Dodaro e alla moglie Valeria Greco per un credito da circa 450mila euro ritenuto fittizio vantato dalla Medical Analisi Cliniche di Cosenza.

      Posizione attuale: Da luglio 2022 è in pensione.

    • Nicola Mastrota

      Nato a Mormanno, classe 1975. Laureato in Economia Aziendale e Scienze Politiche. Responsabile dell’Unità Operativa Semplice Bilancio e programmazione economica dell’ASP di Cosenza. Si è occupato: del Piano triennale della prevenzione della corruzione e della trasparenza 2019 – 2021; di documenti e allegati del bilancio consuntivo; dei dati relativi alle entrate e alla spesa dei bilanci consuntivi; di documenti e allegati del bilancio preventivo.

      Posizione attuale: È ancora in servizio all’Asp di Cosenza quale collaboratore amministrativo professionale, presta servizio in un ufficio amministrativo di Trebisacce.

    • Bruno Zito

      Nato a Catanzaro, classe 1964. Zito è un manager che è stato dirigente generale del dipartimento Organizzazione Risorse Umane della Regione Calabria e direttore generale reggente del dipartimento Salute della Regione. La prima nomina al dipartimento Tutela Salute arriva nel 2013 su proposta dell’allora assessore al Personale, Domenico Tallini. Per quest’ultimo la magistratura ha di recente richiesto la condanna a 7 anni e 8 mesi di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa nell’ambito del processo Farmabusiness.

      Coinvolto nel caso Lo Presti (responsabile del Dipartimento Tutela Salute e del Servizio di Emergenza della Regione Calabria arrestato con l’accusa di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente), viene assolto perché il fatto non sussiste, dopo essere stato accusato di falso ideologico e abuso d’ufficio.
      Riporta invece una condanna della Corte dei Conti, per danno erariale, per aver autovalutato le proprie performance nel 2011 e nel 2013 attribuendosi punteggi altissimi. Grazie ad essi aveva conseguito la massima indennità di risultato incassando indebitamente oltre 30mila euro.

      Posizione attuale: Bruno Zito è oggi dirigente del settore 5 della Regione Calabria: Fitosanitario, Caccia, Pesca, Feamp (Fondo europeo per la politica marittima, la pesca e l’acquacoltura), Punti di entrata Porto di Gioia Tauro e Corigliano.
      Il settore che dirige è articolato in 5 unità operative: Affari generali e Gestione del personale, Fitosanitario e vivaismo, Patrimonio ittico e Pesca, Patrimonio Faunistico e Caccia, Porto di Gioia Tauro.

    • Vincenzo Ferrari

      Nato a Catanzaro, classe 1974. Commercialista e Revisore Contabile, dirigente della Regione Calabria dal 2008. Ha ricoperto tale incarico al dipartimento Tutela della Salute e Politiche sanitarie, settore area Economico – Finanziaria, servizio “Gestione FSR, Tavoli di monitoraggio”; al settore Programmazione Economica, servizio “Controllo dei Bilanci e delle aziende del SSR”.
      In forze al dipartimento Tutela Salute della Regione Calabria è stato inoltre dirigente dei settori “Gestione FSR, Bilanci aziendali, Contabilità”; “Controllo di Gestione, Monitoraggio Flussi Economici, Patrimonio, Beni e Servizi”.
      Inoltre nel dipartimento Organizzazione, Risorse Umane e Controlli della Regione Calabria è stato dirigente del settore Provveditorato Economato, Bollettino Ufficiale, Polizia Urbana.

      Le sue principali mansioni e responsabilità riguardavano: la gestione del Fondo Sanitario Regionale, controllo delle movimentazioni dei relativi capitoli di bilancio e verifica della copertura finanziaria della spesa sanitaria; trasferimento mensile delle risorse finanziarie alle aziende del SSR; verifica e controllo dei documenti contabili (bilanci preventivi e consuntivi) delle Aziende Sanitarie ed Ospedaliere; analisi sul controllo dei Collegi Sindacali; monitoraggio e controllo degli acquisti di Beni e Servizi effettuati dalle Aziende del SSR; valutazione dei fabbisogni di acquisto e determinazione delle tipologie di beni e servizi da sottoporre a gara centralizzata tramite la Stazione Unica Appaltante regionale; gestione del patrimonio immobiliare disponibile delle Aziende del Servizio sanitario regionale.

      Posizione attuale: La Giunta regionale all’unanimità, con deliberazione n. 507 della seduta del 22 novembre 2021, ha assegnato Vincenzo Ferrari al dipartimento Presidenza della Regione Calabria.

    • Massimo Scura

      Nato a Gallarate (VA), classe 1944. Ingegnere con master in Formazione per direttori generali e Managerialità integrata, ex direttore generale delle aziende sanitarie di Siena e di Livorno è stato commissario per il Piano di rientro dal debito sanitario della Calabria dal 2015 al 2018. Sindaco del Comune di Alfedena, in provincia dell’Aquila, quando è stato nominato commissario alla sanità calabrese, all’età di 71 anni, era già in pensione e sostituì il generale della Guardia di Finanza Luciano Pezzi.

      Posizione attuale: In pensione.

    • Antonio Belcastro

      Nato a Cotronei, classe 1959. Laureato in Scienze Economiche e Sociali. Ex direttore generale del Dipartimento Salute della Regione Calabria, è stato dirigente regionale responsabile dell’emergenza Covid in Calabria.
      Negli anni ha ricoperto la carica di direttore generale, direttore amministrativo e commissario straordinario dell’Azienda Ospedaliera Mater Domini di Catanzaro, di direttore amministrativo dell’Azienda Ospedaliera Pugliese – Ciaccio di Catanzaro, di direttore generale e direttore amministrativo dall’Azienda Ospedaliera di Cosenza.

      Nel corso della propria carriera ha insegnato Amministrazione dei Servizi socio-sanitari; Organizzazione e Programmazione sanitaria; Ordinamento Amministrativo e attività della Pubblica Amministrazione; Finanziamento dei sistemi sanitari all’Università Magna Graecia di Catanzaro e Programmazione e controllo delle Aziende Ospedaliere all’Università della Calabria.

      Posizione attuale: Oggi è alle dipendenze dell’Azienda Ospedaliera Pugliese – Ciaccio di Catanzaro, ma in aspettativa fino al 28 febbraio.

    Maria Teresa Improta

  • Cesare Battisti e quel perdono mai chiesto

    Cesare Battisti e quel perdono mai chiesto

    Cesare Battisti, 69 anni, ex terrorista protagonista degli anni di piombo, condannato all’ergastolo per quattro omicidi ed altri gravi reati, catturato in Bolivia nel 2019 dopo una latitanza durata ben 37 anni, si è fatto risentire nei giorni scorsi. Aveva chiesto del vino da consumare in cella, negato. Poi alcuni agenti della polizia penitenziaria nel carcere di Parma, dove è detenuto, si sarebbero resi responsabili del «danneggiamento di alcuni suoi oggetti personali, tra cui il computer», il tutto «nel disegno di un’accanita persecuzione» nei suoi confronti: così reclama le sue ragioni il detenuto “politico” – definizione alla quale non rinuncia – Cesare Battisti: «Aggredito da agenti in carcere, hanno rotto il mio pc».

    Cesare Battisti e il perdono agli ex terroristi

    Il computer è diventato per lui una compagnia inseparabile. Battisti scrive, fa lo scrittore, mestiere appreso nella lunga latitanza trascorsa da fuggiasco; identità multiple e vita sotto copertura per decenni in giro per il mondo. «Un trauma» per lui che considera il computer «strumento di lavoro come scrittore ed editor di Artisti dentro», una rivista che documenta le attività dei detenuti impegnati in attività artistiche e creative nei luoghi detenzione. Ma il PC in carcere per Battisti è diventato anche «l’unico mezzo per mantenere un equilibrio psichico in circostanze tanto avverse». Responsabilità e fatti ai danni di un detenuto in un carcere della Repubblica che se accertate andrebbero sanzionate.

    marco-pannella-cesare-battisti
    Marco Pannella manifesta per la liberalizzazione delle droghe leggere, 6 ottobre 1979

    “Nessuno tocchi Caino”, come ci ha insegnato Marco Pannella, precetto sacrosanto di una giustizia giusta. In questi giorni il nome e il profilo di Battisti è tornato in ballo non solo per questo episodio. Si riparla di perdono agli ex terroristi. La storia, si dice da più parti, deve poter chiudere definitivamente i conti con un gruppetto di reduci della lotta armata, ormai vecchi, malati e male in arnese, anche se molti di loro circolano comunque liberi altrove e godono dello stato di rifugiati politici – certuni niente affatto pentiti – in Francia e in altri paesi che hanno offerto loro rifugio. Non è il caso di Cesare Battisti. Ormai assicurato dalla giustizia italiana alla sua pena, lunga e definitiva.

    Un ragazzo di Calabria

    Ma se per ipotesi Battisti dovesse ritornare in libertà e uscire per qualche motivo dalla galera, potrebbe benissimo passare un giorno o l’altro da queste parti, in Calabria, magari per scriverci sopra una delle sue storie noir. Potrebbero invitarlo a trascorrere qualche giorno di relax diplomatico sulle belle spiagge dello Ionio. Magari a Sant’Andrea Apostolo sullo Ionio, un comunello in provincia di Catanzaro che oggi conta non più di 2.161 abitanti.

    Un posto che a parte il mare e le spiagge, gli ulivi e gli aranci piantati sulle colline di creta divorate del vento di scirocco, non ha altro da dichiarare al mondo oltre al fatto che dal 1931, quando faceva quasi 6.000 abitanti, ha visto sparire due terzi della sua popolazione nella diaspora infinita dell’emigrazione che ancora oggi continua a svuotare i paesi della Calabria. Oggi ci sono “androeolesi” emigrati sparsi in tutti i continenti e ai quattro angoli del mondo.

    Forse Cesare Battisti a questo punto si chiederebbe il perché di quest’invito improvvido in un posto così strambo e fuori mano. Che pure di tempo ne è passato tanto. Ma il paesello di Sant’Andrea Apostolo dello Ionio qualcosa a che fare con l’ex rivoluzionario (non proprio una sagoma di eroe della rivoluzione à la Che Guevara) ce l’ha. Una piccola cosa, un’emozione da poco nell’economia generale della Storia.

    Qui era nato un ragazzo di Calabria, uno di quelli che per stare al mondo un giorno prendono il treno e vanno via da paesi sfiniti e inariditi come Sant’Andrea per andare a cercarsi “fortuna” dove se ne trova. Il lavoro, quello che tocca in sorte a chi emigra e ne trova uno, quello che è, qui di chiama ancora così, è “la fortuna”.

    Andrea Campagna e i poliziotti di Pasolini

    Di quel ragazzo partito come tanti altri dal suo paese, oggi resta solo qualche foto sorridente, i baffi e l’espressione impettita. Una di quelle foto sta al cimitero, e ingiallisce al sole sopra la lapide della sua tomba. Si chiamava Andrea Campagna, emigrò a Milano con la famiglia, trovò un lavoro, e per sua sfortuna diventò poliziotto. Uno di quei ragazzi figli degli emigrati poveri del Sud ai quali Pier Paolo Pasolini dedicò la poesia che lo scrittore, dispiacendo molto a certa sinistra radicale, pubblico su L’Espresso il 16 giugno del 1968.

    andrea-campagna-cesare-battisti
    Andrea Campagna

    Tra quei versi asciutti Pasolini dichiarava la sua distanza antropologica e sentimentale dalla rivolta degli studenti, rappresentanti della borghesia. Quella per lui non era una vera rivoluzione, non aveva a che fare con la vita dei poveri, con i figli della classe operaia e contadina. I poliziotti invece, quei ragazzini in divisa che parlavano un dialetto sporco, coscritti per fame, rappresentavano invece la classe operaia, quella che all’epoca manifestava contro la borghesia.

    Una rivolta di facciata

    Quelle erano manifestazioni alle quali anche gli studenti contestatori, diceva Pasolini, quasi tutti figli della borghesia urbana partecipavano sì, ma come figuranti. Per Pasolini la rivoluzione degli studenti era una rivolta di facciata, era falsa, ipocrita. Non era quella la vera rivoluzione che avrebbe realmente cambiato la società italiana: «Siete in ritardo, figli. E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati». Pasolini era già allora controcorrente, una voce dissonante in un periodo storico che sfociò poi apertamente in tensioni e violenze terroristiche, negli anni di piombo. Anche quel suo breve scritto, come il resto della sua vita e delle sue opere, fece scandalo. Ebbe effetti spiazzanti e creò talmente tanto scalpore da trascinare controcorrente l’attenzione critica del mondo culturale italiano di sinistra sui movimenti politici di quella fase storica.

    valle-giulia-1968
    1968, gli scontri a Valle Giulia

    «Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. Quanto a me, conosco assai bene il loro modo di esser stati bambini e ragazzi, le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, a causa della miseria, che non dà autorità». È questo il gruppo di versi di quella poesia di Pasolini, che da allora è rimasto nella storia, di cui si continuò e si continuerà a parlare ancora per molti anni.

    Con le labbra, non con il cuore

    Poi successe che una mattina del 1979, la faccia di Andrea Campagna, ragazzo calabrese figlio di paese e di emigranti a Milano, partito al mondo come poliziotto, finì con una foto formato tessera sulle prime pagine dei giornali. Andrea era stato ucciso “in azione” da Cesare Battisti, a quel tempo militante dei PAC e oggi rubricato nella ricca biografia di Wikipedia come “ex terrorista e scrittore italiano”. Uno che, già, approfittando dell’omonimia fa ombra alla memoria di quell’altro Cesare Battisti, il patriota trentino che con ben altra fine fu eroe dell’indipendenza italiana.

    Tra gli amici di gioventù di Andrea Campagna, originario anch’egli del paese di Sant’Andrea Apostolo dello Ionio, c’è Salvatore Mongiardo, da cui ho raccolto il racconto di questa storia. Nel 2009 Mongiardo, emigrato anche lui a Milano, torna a Sant’Andrea e incontra Antonietta, la madre di Andrea Campagna. «Fu più forte di me, e mi misi a parlare di Andrea, della sua uccisione, di come lei, la madre, lo venne a sapere».

    Il perdono con le labbra, non con il cuore

    «Antonietta ricordava con estrema lucidità quel giorno terribile, e concluse: “Dicono che bisogna perdonare, ma io potrei dirlo solo con le labbra, ma non con il cuore, con il cuore no, mai”, e alzò ripetutamente la testa per sottolineare il diniego. Quando torno al cimitero del paese, rivedo la tomba e quella foto di Andrea e penso che il mondo va male perché governato da quelli che affamano i miseri e proteggono pure i delinquenti. Un mondo così, prima finisce meglio è», conclude amaro Salvatore Mongiardo, oggi uomo di successo, filantropo e filosofo pacifista ispirato dal pensiero pitagorico. Un punto di vista sul mondo che uno che sparava e uccideva per la Rivoluzione comunista come Battisti magari farebbe ancora in tempo ad apprezzare.

    sant-andrea-apostolo-dello-ionio-1609089461170
    Sant’Andrea Apostolo dello Jonio (CZ)

    Caro Battisti se mai verrà un giorno da uomo libero a Sant’Andrea, in Calabria, stia certo che nessuno le rimprovererà nulla o le torcerà un capello. Potrà camminare tranquillo per le strade del paesino ionico spogliato dall’emigrazione. Magari le offriranno anche un bicchiere di vino di quelle campagne. E poi potrà andare a dare uno sguardo al piccolo cimitero del paese. Lì c’è la misera tomba di questo Andrea ammazzato da lei, Cesare Battisti, a 25 anni. Poi magari potrebbe passare anche da casa di sua madre, che se fosse viva, davanti a lei alzerà ancora una volta la testa, e ancora una volta, finché le resterà fiato, le chiederà perché, «perché, cosa ti aveva fatto mio figlio?», e le dirà ancora che per lei, dopo quello che le ha fatto, «perdonare è mai!».

    Cinque colpi alle spalle

    Altri lo hanno fatto, legittimamente, per dare pace e darsene, per chiudere finalmente quel capitolo della storia. Chi è morto però resta per sempre dalla parte dei vinti, dei sopraffatti dalla storia. Il perdono è un diritto, un dono, appunto, mai un dovere. Chissà che incontro sarebbe quello tra lei e quella vecchia donna che non ha mai sciolto il lutto del figlio morto ammazzato per le ragioni dei padroni e per una rivoluzione, la sua Battisti, che non c’è mai stata. Tra i vinti di questa terra disertata resta lui, Andrea, tornato qui da morto, ragazzo di Calabria che si era fatto poliziotto a Milano, ammazzato con 5 colpi di revolver dietro le spalle, a 25 anni.

    Andrea-Campagna-parco

    L’agente Campagna, ricordano freddamente le cronache fu «ucciso al termine del suo turno di servizio, intorno alle 14 del 19 aprile 1979, in un agguato teso in via Modica, alla Barona», periferia operaia di Milano. Freddato «di fronte al portone dell’abitazione della sua fidanzata». Ad attenderlo c’era «un gruppo terroristico». A capeggiarlo era proprio Cesare Battisti, che eseguì personalmente la sentenza di morte.

    Campagna «fu raggiunto e colpito alle spalle, mentre si accingeva ad entrare in auto, da cinque colpi di rivoltella» che la stampa riferì essere quelli «di una 357 Magnum calibro 38 corazzato». La successiva rivendicazione dell’omicidio fu siglata dai Proletari Armati per il Comunismo (PAC), di cui Battisti era esponente di punta. Nella rivendicazione si parlò di Campagna come “torturatore di proletari”. In realtà il giovane agente calabrese svolgeva mansioni da autista presso la Digos di Milano.

    Fantasmi

    In questa storia dalla parte dei vinti, dei senza storia, resta lui Andrea Campagna. La stessa parte di quei padri e di quelle madri povere e diseredate di una Calabria contadina ormai estinta, costretta ma ancora dolente. La madre di Andrea, figura tragica piegata dal crepacuore, lei che sembra intravista, con intorno il suo piccolo mondo di affetti violato dalla sofferenza che si sconta da vivi, era già dentro quei versi di Pasolini del 1968: «la madre incallita come un facchino, o tenera, per qualche malattia, come un uccellino; i tanti fratelli, la casupola tra gli orti con la salvia rossa, in terreni altrui, lottizzati».

    Chissà, magari trovasse un giorno un modo, con la voglia e il coraggio di venire fin quaggiù ad affrontare, lei, Battisti, gli occhi o il fantasma di quella donna, madre di una vittima povera, dimenticata e senza giustizia. Andrea Campagna, uno che non ha avuto la sua stessa fortuna, Battisti, questo è certo. Ci provi. Magari anche solo col pensiero, anche da dove si trova adesso, in quella cella del carcere di Parma dove sconta i suoi ergastoli. Lei che è uno scrittore. Provi a scrivere una storia così. Per venire a vedere tra le pagine, fin qui, di persona, lei, Battisti, che oggi non è libero, ma è famoso e scrive noir di successo come Travestito da uomo, pubblicato da Gallimard, che ha amici influenti nel bel mondo come Bernard-Henri Lévy, Fred Vargas, Pennac e Carla Bruni.

    Un perdono che non conta più

    Provi a immaginare che faccia ha la vecchia mamma calabrese di Andrea Campagna, il ragazzo di Sant’Andrea Apostolo dello Ionio, emigrato per fare il poliziotto (un mestiere da “servo di quello Stato”, che da “comunista armato” lei voleva sovvertire, e ai cui codici e leggi adesso si appella a sua personale tutela), per morire un giorno ammazzato da lei. Tu Battisti, come quegli altri, «eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, amici».
    Furono pallottole e non fiori per Andrea, e gli occhi di quella madre continuano a piangerlo, per sempre. Quegli occhi velati da un dolore che non passa, le ricorderebbero Battisti che si vive o si muore sempre per un sì o per un no. E quel no per Andrea lo ha detto lei.

    Lei, Battisti, credo, se la vedrebbe ogni giorno davanti agli occhi, quella vecchia madre, mentre alza la testa per negargli il perdono (che lei neanche le ha mai chiesto); con il cuore che diceva no per il poco di tempo che le restava da vivere, e quel no era tutto quello le restava da dire. E così anche dopo. Finché il silenzio non si porterà nel buio del tempo anche quel suo ultimo, inutile e irrimediato diniego di madre. Un perdono che tanto ormai, se pure ci fosse, non conta più niente.

  • Furto di due mezzi del Comune di Polistena, arrestati in tre

    Furto di due mezzi del Comune di Polistena, arrestati in tre

    Questa mattina, alle prime luci dell’alba, i Carabinieri della Compagnia di Taurianova, hanno arrestato tre soggetti, già noti alle forze dell’ordine, in esecuzione di un’ordinanza di misura cautelare emessa dal Tribunale di Palmi. L’accusa per loro è di furto e ricettazione di due camion per la raccolta dei rifiuti del Comune di Polistena, rubati nella notte del 20 agosto scorso.

    Il furto a Polistena

    A coordinare l’indagine sono stati il procuratore della Repubblica di Palmi, Emanuele Crescenti, e il sostituto procuratore Federico Moleti. Il loro impegno e quello dei militari coinvolti ha permesso di dare un nome a due dei presunti protagonisti del furto. Questi, dopo aver rotto i lucchetti del cancello principale del centro raccolta rifiuti comunale di Polistena, si erano impossessati di un furgone e una motrice con la gru e cassone scarrabile, utilizzati per il trasporto e lo smaltimento dei rifiuti. A causa del furto per diversi giorni era andato in tilt il servizio di nettezza urbana di Polistena. E l’amministrazione comunale aveva dovuto farsi carico, nell’immediatezza, delle spese previste per rimettere le cose a posto.

    Il terzo uomo: un mezzo nell’autocarrozzeria

    Ora è arrivata anche l’identificazione di un terzo soggetto, anche lui destinatario di una misura cautelare. Nel corso dell’attività di accertamento, nel novembre scorso i militari dell’Arma avevano ritrovato uno dei mezzi che erano stati rubati al Comune di Polistena all’interno dell’autocarrozzeria di cui era gestore. Nei confronti dell’uomo, che all’arrivo dei carabinieri aveva negato di conoscere la provenienza del furgone, l’ipotesi del reato è, dunque, quella di ricettazione.
    Il provvedimento emesso dal GIP di Palmi ha disposto per i tre soggetti la misura cautelare degli arresti domiciliari aggravata dal divieto di comunicazione con persone non conviventi.
    Trattandosi di provvedimento in fase di indagini preliminari, rimangono salve le successive determinazioni in fase dibattimentale.

  • MAFIOSFERA | L’ombra della ‘ndrangheta sull’omicidio Winchester?

    MAFIOSFERA | L’ombra della ‘ndrangheta sull’omicidio Winchester?

    Il 22 marzo 2023, in Australia, sul canale commerciale Channel 9, è andato in onda The Hit, un episodio del programma Under Investigation, che in stile talk-show si occupa di riconsiderare, riaprire e discutere le prove su casi criminali controversi, finiti male o non ancora del tutto finiti.

    Chi ha ucciso il superpoliziotto Winchester?

    The Hit, anche disponibile su YouTube, si pone due domande chiare: chi ha ucciso Colin Winchester, Assistant Commissioner della Polizia Federale Australiana (AFP), il 10 gennaio del 1989? E un’altra domanda che fa rabbrividire: e se la mafia l’avesse fatta franca nell’omicidio di un poliziotto d’alto rango? Siccome siamo in Australia, ed era il 1989, mafia significa Honoured Society, l’Onorata Società, quindi la ‘ndrangheta.

    Riaprite questo caso

    A questo talk-show per Under Investigation ho partecipato da remoto, come accademica esperta di ‘ndrangheta: ma ero affiancata da persone che il caso Winchester lo conoscono molto bene: Terry O’Donnell, uno degli avvocati di David Eastman, colui che per anni è stato considerato il colpevole dell’omicidio, poi scarcerato con tante scuse; Jim Slade, un ex capo dell’intelligence nel Queensland vicino alle indagini, e un altro avvocato, Geoffrey Watson, coinvolto nel caso in vari momenti per assicurarne l’integrità. L’obiettivo – guidato primariamente da Watson, non è solo raccontare il caso, ma chiedere ufficialmente che si apra un’inchiesta pubblica sull’omicidio Winchester che, ad oggi, risulta non solo impunito, ma praticamente “chiuso”.

    winchester-ndrangheta-piste-poco-battute-cold-case
    Per la polizia federale australiana non ci sono prove del legame tra l’omicidio Winchester e la ‘ndrangheta

    La Polizia federale australiana: non ci sono prove

    La AFP ha infatti dichiarato nel luglio 2022, in seguito a una serie di articoli che ripercorrevano alcuni degli indizi della cosiddetta pista mafiosa nel caso:  «L’AFP non ha riaperto i fascicoli precedentemente chiusi sull’assassinio di Winchester. Non ci sono prove che suggeriscano che la criminalità organizzata italiana sia responsabile della morte di uno dei nostri, il vicecommissario Colin Winchester. I nostri pensieri sono sempre rivolti alla famiglia Winchester».
    Nello stesso documento si legge: «L’AFP vuole essere chiara: non c’è alcun esame, rapporto o intelligence recente dell’AFP che suggerisca che la mafia sia responsabile dell’omicidio dell’ex vicecommissario Winchester. Non c’è alcuna indagine aperta su questa vicenda. Non è in corso di revisione».

    Winchester, ‘ndrangheta e Rapporto Martin

    Il caso Winchester è piuttosto complicato dopo decenni di tira e molla giudiziari. Un funzionario pubblico, David Eastman, fu condannato per l’omicidio nel 1995, ma 20 anni dopo, nel 2014, a seguito di una Commissione d’Inchiesta (“Rapporto Martin”), un tribunale ha ordinato un nuovo processo e ha riaperto il caso. Il rapporto disse che altre piste investigative non erano state esplorate a fondo; alcune cose erano state attivamente insabbiate. C’erano, tra queste, anche alcune “piste calabresi”. Il 22 novembre 2018, la giuria del nuovo processo dichiarò Eastman non colpevole dell’omicidio. Eastman, che aveva intanto scontato 19 anni di detenzione, ottenne un risarcimento di 7 milioni di dollari australiani nell’ottobre 2019: il caso collassò per problemi legati all’ammissione delle prove, e soprattutto perché ai tempi dell’indagine le forze di polizia avevano avuto una cosiddetta tunnel vision e non avevano adeguatamente escluso altre piste investigative.

    Piantagione di cannabis

    I calabresi coinvolti nella produzione di droga

    Il Rapporto Martin aveva descritto come Winchester fosse percepito come un poliziotto corrotto da alcune famiglie di origine calabrese coinvolte nella produzione di droga. Si tratta di famiglie della zona della Riverina Valley, in particolare legate ai clan di Platì stabilitisi a Griffith, nel Nuovo Galles del Sud. Questi clan hanno fatto la storia della mafia italiana in Australia, in quanto coinvolti in altri eventi “misteriosi” della storia australiana, indirettamente o direttamente. Tali clan, disse l’inchiesta, avrebbero ritenuto che Winchester – corrotto – avesse fallito nel proteggerli, come aveva invece promesso di fare – lasciandoli quindi esposti al controllo della polizia. Erano gli anni delle operazioni Bungadore 1 e 2, condotte da Winchester quando era ancora nella polizia a Canberra, prima della promozione a vice-commissario, sulle piantagioni di cannabis nella Riverina Valley, a firma Sergi-Barbaro-Trimboli.

    Ammazzato prima del processo 

    Winchester fu ucciso due settimane prima dall’inizio dei processi per Bungadore, contro alcuni calabresi ‘ndranghetisti. Giuseppe Verduci, che era l’informatore primario di Winchester – colui che forse faceva il doppio gioco tra i clan e la polizia – si rifiutò di testimoniare a processo per paura, e il processo di fatto finì in un nulla di fatto.

    La pista di mafia, però, fu eliminata quasi subito dalla polizia federale che gestiva l’indagine. Un misto tra difficoltà investigative e possibili insabbiamenti. Non tutti all’epoca si trovarono d’accordo con l’abbandono della pista mafiosa. Per esempio, si legge in una dichiarazione dell’Australian Bureau of Criminal Intelligence del dicembre 1990: «L’omicidio del vicecommissario Winchester, avvenuto il 10 gennaio 1989, è stato commesso da, o per conto di, un gruppo organizzato di italiani, residenti a Griffith e Canberra per proteggere i beni e la libertà delle persone coinvolte nella produzione e commercializzazione su larga scala della canapa indiana in Australia».

    winchester-ndrangheta-piste-poco-battute-cold-case
    L’omicidio di Winchester raccontato nel giornale australiano “The Canberra Times”

    I soliti sospetti

    Dello stesso avviso si era in Italia, dove l’omicidio viene infatti annoverato tra i reati di ‘ndrangheta. I dati del rapporto Martin sulla pista calabrese citano i soliti sospetti: membri della famiglia Barbaro-Sergi a Griffith e Melbourne; noti esponenti della criminalità organizzata italo-calabrese con cognomi importanti – Pelle, Nirta, Tizzoni – tutti affiliati a clan mafiosi estremamente noti in Calabria nel locale di Platì, tutti intrecciati in reti familiari e d’affari, come rivelato anche in Australia proprio nelle operazioni Bungadore 1 e 2 e da altre indagini, ad esempio, in occasione della scomparsa (e presunto omicidio) dell’attivista e politico Donald MacKay, nel 1977, a Griffith, commissionato – disse una Royal Inquiry del tempo – dai clan Sergi-Barbaro-Trimboli. Anche in quel caso non si arrivò a un processo penale.

    Winchester, ‘ndrangheta nella pista calabrese?

    C’è comunque una pistola abbastanza fumante, quanto meno come pista investigativa, in tutta questa storia. Riguarda un’altra indagine, l’Operazione Seville, un’operazione congiunta dell’AFP di Canberra e della polizia del Nuovo Galles del Sud, all’inizio degli anni ’80 sulla produzione di canapa indiana all’interno della comunità italiana. Nei file di Seville – che ho visionato nel 2017 quando ho espresso un parere da esperta per la difesa di David Eastman nell’ultima parte del processo che poi lo avrebbe assolto – c’è un documento redatto dai Carabinieri, in Calabria, il 25 gennaio 1989, sei mesi prima dell’omicidio Winchester. Due individui, B. Musitano e G. Ielasi, dice il documento, sarebbero partiti dall’Italia, da Platì, per commettere l’omicidio di un poliziotto, dicono le autorità italiane. I Carabinieri avevano inviato queste informazioni all’AFP dicendo che l’atto sarebbe stato compiuto per “riscattare l’onore della famiglia”.

    I carabinieri avevano inviato un documento alle autorità australiane

    Le autorità italiane avevano avvertito

    Le autorità italiane avevano dunque avvertito che «B. Musitano è noto per le sue associazioni di ‘ndranghita [sic]» ed era considerato una «persona pericolosa a causa del suo background familiare». Inoltre, era un abile maneggiatore di armi. Il 12 giugno 1989, un mese prima dell’omicidio, le autorità italiane inviarono ulteriori informazioni, informando che Musitano era stato mandato in Australia per uccidere il vicecommissario Winchester e che erano stati presi accordi per farlo rimanere in Australia e sposare una residente australiana. Ulteriori dettagli fanno poi riflettere. I carabinieri dicono che Musitano fosse già stato in Australia in passato, nel 1985, per pagare quel «capo della polizia» (che sarebbe Winchester) corrotto, e per garantire, grazie a lui, il passaggio della droga. Musitano dovette poi tornare in Italia ma, quando Winchester apparentemente non accettò la tangente, Musitano tornò per ucciderlo.

    Tutto ciò fu incluso nell’Operazione Peat del 1989 che era sottotitolata “Sospetti di coinvolgimento della criminalità organizzata calabrese nell’omicidio del vicecommissario Colin Stanley Winchester”. Sembra ovvio chiedersi, come è possibile che queste informazioni non abbiano ribaltato all’epoca l’intero caso, se non altro per introdurre un ragionevole dubbio nel processo contro Eastman?

    winchester-ndrangheta-piste-poco-battute-cold-case
    Domenic Perre (foto Adelaidenow.com.au), condannato 28 anni dopo l’Nca bombing

    Musitano e Ielasi

    Operazione Peat si concluse e all’epoca l’AFP dichiarò di non aver trovato «alcuna prova concreta a sostegno delle informazioni ricevute» anche se «le informazioni di Musitano/Ielasi sono state l’indicazione più promettente fino ad oggi che l’omicidio sia stato organizzato ed eseguito da elementi della criminalità organizzata calabrese». Qualche riscontro emerse però in seguito: Musitano aveva parenti a Melbourne – nella famiglia Barbaro – e ad Adelaide – nella famiglia Perre; fu arrestato nel 1993 per produzione di stupefacenti nell’HIdden Valley, in un’organizzazione criminale di matrice ‘ndranghetista guidata da Domenic Perre (e la storia di Perre e un’altra delle storie significative australiane). Ielasi, l’altro uomo citato dalle autorità italiane, rimase invece a Melbourne.

    Troppi ragionevoli dubbi

    Ad oggi i dubbi sono tanti. Ci sono dubbi sul fatto che Winchester fosse o meno corrotto; ci sono dubbi che Verduci, il suo informatore, fosse effettivamente affidabile per Winchester; ci sono i processi falliti di Bungadore 1 e 2; ci sono i documenti dalla Calabria; e c’è, infine, oggi, ma non c’era forse ieri, la consapevolezza che in quegli anni quei clan e in quella zona dell’Australia erano effettivamente all’apice del proprio potere, criminale, sociale, economico ma anche e soprattutto politico.

    Al netto dei dubbi c’è forse una certezza: dopo 34 anni, l’omicidio di uno dei poliziotti più titolati e più senior d’Australia al suo tempo, vicecommissario della polizia federale, non dovrebbe poter rimanere insoluto, che ci sia di mezzo la ‘ndrangheta o meno.

  • ‘Ndrangheta stragista: ergastolo a Graviano e Filippone

    ‘Ndrangheta stragista: ergastolo a Graviano e Filippone

    Un accordo tra Cosa Nostra e ‘ndrangheta, per colpire lo Stato, per destabilizzare il Paese. La sentenza di secondo grado del processo “Ndrangheta stragista” riscrive la storia d’Italia.  La Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria (Bruno Muscolo presidente, a latere, Giuliana Campagna) ha infatti confermato gli ergastoli già emessi in primo grado nei confronti del boss di Cosa Nostra, Giuseppe Graviano, e dell’uomo forte della ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, Rocco Santo Filippone, nell’ambito del procedimento “Ndrangheta stragista”. I due sono stati condannati anche in secondo grado quali mandanti del duplice omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, fatto avvenuto nei pressi di Scilla il 18 gennaio del 1994.

    'ndrangheta-stragista-confermato-ergastolo-graviano-filippone
    Il pubblico ministero, Giuseppe Lombardo

    Una notte della Repubblica

    I giudici di secondo grado, quindi, hanno avvalorato l’impianto accusatorio portato avanti dal pm Giuseppe Lombardo (applicato anche nel procedimento d’appello) circa l’esistenza di un accordo tra le due principali organizzazioni criminali del nostro Paese nella strategia stragista che doveva cambiare gli equilibri d’Italia, in una fase di passaggi tra la Prima la Seconda Repubblica, dopo l’annus horribilis, il 1992, con l’uccisione dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nelle stragi di Capaci e via D’Amelio.

    Il piano di Totò Riina

    L’inchiesta, mastodontica, ha ricostruito il ruolo delle principali cosche della ‘ndrangheta, i Piromalli e i De Stefano, che, attraverso alcuni summit (il più famoso dei quali, a Nicotera Marina), avrebbero aderito al piano eversivo voluto da Totò Riina, in quel momento capo indiscusso della mafia siciliana. Infatti, nel complessivo attendismo della ‘ndrangheta, dove molte famiglie e molte cosche, abituate ad una pacifica e fruttuosa convivenza con lo Stato, erano restie ad azioni eclatanti, le famiglie più potenti invece, quelle che ruotano intorno ai Piromalli/Molè ed ai De Stefano-Tegano-Libri – che, non a caso avevano, ad un tempo, i più profondi legami con Cosa Nostra e con la massoneria deviata di Licio Gelli – si muovono nell’ombra, all’insaputa del resto della consorteria.

    ndrangheta-stragista-confermato-ergastolo-graviano-filippone
    Totò Riina dietro le sbarre

    Una sentenza di secondo grado che, quindi, inserisce questi fatti in un disegno complessivo, quando, invece, per anni, gli attentati ai militari dell’Arma erano stati inquadrati come episodi sganciati da contesti più grandi. Per gli assalti ai Carabinieri, infatti, vengono utilizzati due giovanissimi criminali, Consolato Villani e Giuseppe Calabrò, certamente fedeli, efficienti e spregiudicati, ma non immediatamente riconducibili alle famiglie di ‘ndrangheta che erano alle spalle dell’azione. L’ennesimo, geniale, depistaggio della ‘ndrangheta.

    Franco Pino e gli altri collaboratori di giustizia

    Una inchiesta che si basa, soprattutto sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, tra cui quelle di Franco Pino, del 2018. Frasi commentate da due soggetti vicini alla famiglia Piromalli in una intercettazione che ha rappresentato il colpo di scena finale nel procedimento di secondo grado. In quelle captazioni del 2021, divenute pubbliche solo in queste ultime settimane, si faceva infatti riferimento al volere dei vertici della cosca di Gioia Tauro di insanguinare anche la Calabria. Apparentemente con azioni scollegate (proprio come gli attentati ai carabinieri) ma, di fatto, inserite in un medesimo e inquietante disegno criminale.

    «Il colpo di grazia allo Stato»

    Collaboratori di giustizia, tanto calabresi, quanto, soprattutto, siciliani. Come Gaspare Spatuzza, per anni braccio destro del boss Graviano. La voce di Spatuzza postula dunque l’esistenza di una intesa fra Cosa Nostra ed i calabresi che avevano disposto, ordinato ed organizzato gli assalti ai carabinieri avvenuti fra il dicembre 1993 ed il febbraio 1994 nel reggino. In questo contesto la frase di Graviano «… bisognava agire per dare il colpo di grazia allo Stato e che i calabresi già si erano mossi…» pronunciata per fare comprendere a Spatuzza (cioè a colui che più di ogni altro aveva collaborato con lui, coordinando e svolgendo materialmente le attività criminali connesse alla esecuzione delle stragi continentali) che non si poteva più indugiare oltre e che si doveva procedere e colpire ancora.

    ndrangheta-stragista-confermato-ergastolo-graviano-filippone
    Il collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza

    Da Moro a Berlusconi

    I lunghi, lunghissimi, dibattimenti di primo e secondo grado hanno allargato quasi all’infinito il raggio d’azione, coinvolgendo nella narrazione dei collaboratori figure influenti della politica italiana: da Bettino Craxi a Silvio Berlusconi. Ma il procedimento ha attraversato decenni di storia italiana e locale: dal ruolo che la ‘ndrangheta avrebbe potuto avere nel sequestro del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, alla carriera politica di Giuseppe Scopelliti, ex governatore calabrese, che spiccò il volo dopo l’attentato a Palazzo San Giorgio del 2004, fasullo secondo l’impostazione accusatoria.

    Crimine, servizi segreti e massoneria

    Il quadro inquietante nella commistione tra organizzazioni criminali, politica, massoneria, viene completato dal ruolo rivestito dai servizi segreti. Impegnati per decenni in attività volte ad assicurare la permanenza del paese nel blocco occidentale, prevenendo ed impedendo infiltrazioni del blocco avverso, venuto meno, per l’appunto, la controparte, sentivano di avere perso la loro missione e con essa gli enormi spazi di manovra – talora illegali –  che la stessa gli garantiva. Così come per Cosa Nostra il procedere del maxi processo verso le condanne definitive era stato il preoccupante annuncio dell’inizio di un declino inarrestabile, così, per alcuni settori di tali apparati, lo smantellamento di Gladio (autunno 1990) era stato il segnale di un intollerabile ridimensionamento del proprio potere.

    Insomma, le mafie e le schegge infedeli di apparati statali sembrerebbero accomunati, in quegli anni, ad uno stesso destino: i nuovi equilibri geo-politici stavano mutando i meccanismi di un sistema in cui erano prosperate. La loro sopravvivenza era quindi legata alla necessità di impedire che quei cambiamenti travolgessero quel sistema: entrambe avrebbero concorso per il mantenimento dello status quo. La strategia stragista doveva proprio permettere di individuare i nuovi referenti politici, in grado di portare avanti i piani granitici elaborati ed eseguiti nel corso della Prima Repubblica. Perché più le cose cambiano, più restano le stesse.

  • Tavernise: una querela a cinque stelle al cantante populista

    Tavernise: una querela a cinque stelle al cantante populista

    C’è sempre uno più puro che ti epura: stavolta non lo dice Pietro Nenni e non si riferisce agli ultrà sinistra vintage.
    Si applica, più prosaicamente, al Movimento 5Stelle e, in questo caso, a Davide Tavernise, capogruppo pentastellato in Consiglio regionale.
    Tavernise, per farla breve, ha querelato il trentenne Michele Amantea per diffamazione. E fin qui la storia non fa notizia. Le cose cambiano se ci mettiamo di mezzo una canzone carica di satira e vernacolo, entrambi al vetriolo.

    Tavernise vs Amantea: le note della discordia

    Querelante e querelato hanno dei tratti comuni: sono coetanei e di Mirto Crosia. Dopodiché le similitudini si fermano.
    Tavernise è rimasto in Calabria e ha fatto una carriera politica lampo (in perfetto stile grillino), Amantea vive e lavora a Milano da anni, dove si dedica anche alla sua grande passione: la musica.
    Al riguardo, gli addetti ai lavori lo conoscono come No Sfondo & Volp Fox, il nome d’arte con cui produce le sue canzoni, piene di rabbia e di denuncia, appena stemperate dall’ironia.
    L’ultimo brano di No Sfondo, Chiné (cioè “Chi è?”), è finito nel mirino di Tavernise, che si è identificato nei versi e ha reagito con le carte bollate.

    tavernise-querela-no-sfondo-artista-calabrese-vive-milano
    Michele Amantea, in arte No Sfondo & Volp Fox

    Sfida tra populisti

    Che ha detto, anzi cantato, di tanto grave No Sfondo da meritare una querela?
    Nelle rime di Chiné, in effetti, ci sono affermazioni piuttosto dure. Eccone una: «’u vi chi ara fine/sei un disonesto/hai censurato gli ultimi/e con me fai lo stesso».
    Oppure: «Il primo gesto/per il bene collettivo/è stato di comprarti/un macchinone suggestivo».
    Il tutto rappato su un motivo ska, che culmina in un coretto strafottente: «Chiné, chiné/stu consigliere regionale chiné». E via discorrendo.
    Nulla di più e nulla di meno di quel che normalmente ci si rinfaccia nei comizi delle campagne elettorali, che nei nostri paesi sono aspre e pittoresche in egual misura.
    Ma, soprattutto, nulla di diverso dalle accuse che fino a non troppo tempo fa erano il carburante della comunicazione grillina. Accuse che ora vengono spesso rivolte agli ex seguaci di Grillo.

    Ma è davvero Tavernise?

    Classe’91 e laurea in Lettere all’Unical, Tavernise proviene da una lunga gavetta nel M5S più “tradizionale”: per capirci, quello dei Vaffa Day e delle denunce online e non solo.
    Difficile dire se il target di No Sfondo sia proprio il capogruppo pentastellato. E, soprattutto, se sia solo lui: in questi versi ognuno può identificare il politico che vuole.
    Ma questo lo decideranno i giudici, a cui eventualmente toccherà pronunciarsi anche sulla diffamazione, finora solo presunta.

    Chi di populismo ferisce…

    Chiné è uscita a inizio 2023, Amantea ha ricevuto di recente la notifica di querela, depositata lo scorso undici gennaio.
    In attesa degli esiti giudiziari (si spera favorevoli al cantautore, per puro garantismo), resta una considerazione: Tavernise si è arrabbiato perché convinto di aver ricevuto accuse tipicamente grilline.
    Chi di populismo ferisce, di populismo muore, insomma.
    E che dire ai due protagonisti di questa vicenda curiosa, cantautore e politico, se non: canta che ti passa?

  • MAFIOSFERA | Coca, stragi e prestigio: gli “arcani” dei Piromalli

    MAFIOSFERA | Coca, stragi e prestigio: gli “arcani” dei Piromalli

    I Piromalli, il narcotraffico e non solo. È il 2 novembre 2020: 800 panetti di cocaina, per un peso totale di circa 932 kg vengono sequestrati e recuperati sul container reefer MSCU7430870, proveniente da Coronel (Cile) e diretto a Napoli, con scalo intermedio a Rodman (Panama).
    Due settimane dopo, il 17 novembre 2020, un altro sequestro recupera 38 imballi per un peso totale di circa 720 kg di cocaina sul container siglato MSDU9014828. La merce, stavolta, proviene da Guayaquil (Ecuador). Siamo a Gioia Tauro e questi sequestri di quasi due tonnellate di cocaina fanno male ai clan.

    Un sequestro in Brasile

    Il 26 novembre del 2020 le autorità sequestrano 298 kg in 270 panetti di cocaina al porto di Santos, in Brasile.
    La spedizione sarebbe passata da Gioia Tauro, e poi sarebbe finita in Israele. Lo stupefacente era nel mezzo di un carico di carta.
    Tuttavia, grazie a un’analisi basata su criteri oggettivi di rischio, il contenitore in cui era nascosta la cocaina è finito nei controlli. E questo a dispetto dei risultati del Rapporto globale sulla cocaina di metà marzo 2023 dell’Unodc (United Nations Office on Drugs and Crime), per cui le confische di cocaina nel 2020 in Brasile erano in calo.
    Anche questo sequestro fa male ai clan. Specie a Gioia Tauro.

    Finanzieri in azione a Gioia Tauro

    Chiacchiere tra trafficanti dei Piromalli

    Lo sanno bene i fratelli Domenico e Cosimo R., che aspettavano quei panetti di coca al porto della Piana, tra l’altro in periodi di restrizioni dovute al Covid. «Ieri sera ci è caduto il lavoro dei trecento», ha detto uno di loro all’indomani del sequestro a Santos.
    «L’hanno trovata di sotto», dice uno. «L’hanno trovata?», incalza l’altro. «Mhm …in Brasile», conferma. «Non mi fare … (imprecazione)… mille e trecento, io me n’ero dimenticato, e tu ora me li hai messi di nuovo in testa …», conclude l’interlocutore. Parlano di quei chili di droga già sequestrati nello stesso mese.

    Altro sequestro dal Brasile

    I due fratelli non si danno per vinti. Già qualche giorno dopo parlano di un nuovo carico, partito il 29 novembre con la MSC Adelaide dal Brasile. Aspettano 216 kg di cocaina («Ieri sera sono partiti altri duecento»).
    Ma anche stavolta, il 18 dicembre successivo, lo stupefacente finisce sotto sequestro a Gioia Tauro.
    Il 17 dicembre, Domenico e Cosimo R. ricevono una visita da San Luca e insieme commentano l’arrivo, proprio in quelle ore, della MSC Adelaide al porto, controllabile da Marine Traffic, un sito semi-aperto dove è possibile seguire le navi e gli scali portuali di tutto il mondo. Hanno paura che anche questo carico venga sequestrato e che, ovviamente, questo provochi dei problemi con altri compratori, che crederanno al sequestro «solo quando esce sui giornali».

    piromalli-tutti-segreti-potere-dinastia-ndrangheta
    Un indagato in manette durante l’operazione Hybris

    Hybris racconta i Piromalli

    Queste tonnellate di cocaina non arrivano a Gioia Tauro grazie a un’efficace serie di interventi delle forze dell’ordine.
    I dettagli dei fallimenti di Domenico e Cosimo R. sono immortalati nell’operazione Hybris. Quest’operazione ha fatto scattare le manette a metà marzo 2023 a vari soggetti gravitanti attorno ai clan di Gioia Tauro. In particolare, Piromalli e Molé (Domenico e Cosimo, infatti, sono considerati parte del clan Piromalli). Oltre che dell’importazione di cocaina, i due fratelli dovranno rispondere di vendita di vari chili di cannabis, detenzione di armi, estorsioni, danneggiamenti e intimidazioni.

    Non solo coca: anche l’erba conta

    I problemi con la cocaina, tra l’altro, non bastano: si mescolano a quelli legati allo smercio di cannabis;
    Domenico B., che fa affari con i due fratelli per la cannabis, si lamenta infatti della scarsa qualità dell’erba e dello scarso profitto tra ottobre e novembre dovuto a «brutte figure» con chi di cannabis invece se ne intende.
    Ci sono problemi di capitali investiti e non recuperabili. Tuttavia i costi della cannabis – si ragiona su 1.300 euro per kilo, a seconda della qualità del prodotto – non sono quelli della cocaina, che invece va a 35-37 mila euro al kilo.

    Coca e cannabis: l’oro vegetale dei clan

    La leadership dei Piromalli

    Gioia Tauro è un centro nevralgico del crimine organizzato, mafioso e non, grazie all’esistenza e operosità del porto e alla versatilità del clan Piromalli, il gruppo più forte, alleato con i Molé in diversi momenti storici e per varie attività. L’insuccesso e la difficoltà sono la normalità del crimine.
    Invece, la capacità di risolvere i problemi e mantenere la reputazione è una specialità dei Piromalli. Non a caso nell’operazione Hybris vi sono affiliati e simpatizzanti dei Piromalli e Molé imputati di una serie di condotte illecite che restituiscono la fotografia di una realtà mafiosa poliedrica e stratificata, nonostante i problemi.

    Una criminalità piena di “hybris”

    Si legge infatti nell’ordinanza di Hybris:
    «Ciò che si ricava è l’immagine di un aggregato criminale che, seppur provato dalle vicende interne legate alla mancanza di un capo carismatico accettato da tutti i propri componenti, mantiene intatta la propria “hybris”, ovvero la propria tracotanza criminale e, in un periodo di depressione economica e sociale, determinato dalla restrizione connesse all’emergenza sanitaria derivante dalla pandemia da covid-19 che caratterizzano l’interno arco temporale investigato, trova nuovo linfa ripiegandosi in attività delinquenziali “classiche”, quali le estorsioni ai commercianti e ai piccoli imprenditori agricoli della zona di stretta competenza territoriale (coincidente con il territorio del Comune di Gioia Tauro), il traffico di armi e di stupefacenti».

    piromalli-tutti-segreti-potere-dinastia-ndrangheta
    Pino Piromalli, alias “Facciazza” tra i carabinieri

    Il ritorno di Pino “Facciazza” Piromalli

    Dall’operazione Hybris arriva un’intercettazione bomba ammessa al processo ’ndrangheta stragista, che conferma il ruolo che i Piromalli avrebbero avuto nella strategia stragista di Cosa Nostra negli anni 90.
    Pino Piromalli (Facciazza) scarcerato nel maggio 2021, quindi nel pieno degli eventi descritti in questa indagine, sarebbe stato l’artefice dell’accordo con i siciliani, avallando le stragi di stato.
    Il suo rientro a Gioia Tauro dopo anni di detenzione è il perno di tutto ciò che accade in questi anni nel sottobosco mafioso della città della Piana. Senza il capo meccanico, come lo definirà uno dei reggenti del clan, Girolamo Piromalli, alias Mommino, c’è anarchia, c’è confusione, e si rischia che la gente non sappia stare al suo posto. Senza il capo legittimo, riconosciuto da tutti, il caos degli insuccessi è più difficile da superare.

    Un’immagine simbolo della strage di Capaci

    La ’ndrangheta? Tutta questione di prestigio

    Come si collegano dunque le attività delinquenziali classiche – l’estorsione, il traffico d’armi e di stupefacenti – con il ruolo storico della dinastia mafiosa gioitana per eccellenza?
    È tutta una questione di riconoscimento sociale e di reputazione, nonché di amplificazione del potere mafioso-criminale.
    La scarcerazione di colui che per successione dinastica guida il clan è questione di reputazione. Il clan deve avere un suo capo “storico”, dal cognome e dalla storia pesante, anche se questo capo non dovesse decidere di tutte le attività criminali dei vari segmenti della ’ndrina e della “locale”.
    Ma c’è di più: la perdita dei carichi di stupefacente non è solo un fatto negativo: è un vero e proprio smacco per i clan.

    Una macchina economica

    Don-Mommo-Piromalli
    Don Mommo Piromalli, storico leader del clan

    Non riuscire, per ragioni indipendenti dalla propria volontà, a portare a casa tonnellate di cocaina è certamente un danno economico. Ma la capacità di organizzare importazioni ogni due settimane – mettendo quindi in allerta le forze dell’ordine e il porto- aiuta il riconoscimento sociale del gruppo che cura l’importazione.
    Si sa che sono loro a importare: lo sanno gli altri clan, lo sanno i “capi”. I soldi del traffico di cocaina – tanti – girano e le perdite si ammortizzano grazie anche ad altre attività criminali che confluiscono nelle “bacinelle”.
    Ciò accade perché i Piromalli non sono un clan come gli altri. Sono una dinastia mafiosa della prima ora, che ha partecipato alla formazione della ’ndrangheta contemporanea, come nessun’altra famiglia.

    Contro i Piromalli la repressione non basta

    Appurato che il capo legittimo è fuori, che l’ordine si può ristabilire e che le alleanze sono sotto controllo, perdere denaro in fondo non è un problema. Beninteso: fintanto che reputazione e riconoscimento sociale restano.
    Pertanto, continuino pure le forze dell’ordine a fare un eccellente lavoro di interruzione delle attività criminali a Gioia Tauro.
    Ma non ci si scordi neppure un momento che il potere di questo casato sta nella caratura criminale dei capi storici. E che essa amplifica ogni attività degli affiliati. Interrompere questo circolo vizioso richiede molto di più che semplici repressioni.

  • Ma il nuovo Pd targato Schlein su Reggio non ha nulla da dire?

    Ma il nuovo Pd targato Schlein su Reggio non ha nulla da dire?

    Anche se si continua a definirle “del PD”, le primarie svoltesi quasi due settimane addietro sono state, per fortuna e per scelta lungimirante e azzeccata, “del Centrosinistra”. Senza trattino.
    Per chi ha a cuore le sorti della parte progressista dello schieramento politico italiano, e non i propri interessi personali o della “ditta”, tale modalità di partecipazione all’elezione del vertice del PD è l’unica capace di assicurare il più ampio coinvolgimento del popolo della Sinistra, con vantaggi immediati e di prospettiva per essa e per la democrazia italiana. Per la democrazia italiana per una ragione oggettiva, certificata dai numeri.

    La Sinistra degli enunciati

    Tante le ipotesi in questi anni per spiegare l’astensione crescente che ha caratterizzato le elezioni nel nostro Paese. Tra queste, la disillusione degli elettori di Sinistra, allontanatisi legittimamente dalle urne perché orfani politici di un soggetto che portasse avanti le battaglie ideali del progressismo, schiava com’è del neo liberismo figlio dei vari Blair, Clinton, D’Alema, e via dicendo.

    terza-via-pd-schlein-falcomata-e-reggio-non-ha-nulla-da-dire
    Tony Blair, Fernando Cardoso, Massimo D’Alema, Bill Clinton, Lionel Jospin e Gerhard Schroeder

    Ampliamento dei diritti civili e sociali; contrasto alle diseguaglianze; tutela dei titolari di nuove forme di lavoro, e non solo di occupati nei settori tradizionali; redistribuzione della ricchezza prodotta; lotta alla disoccupazione; garanzie sulla qualità e l’estensione dei servizi pubblici. Su questi temi, e su tanti altri, i progressisti (sulla carta) si sono limitati agli enunciati. O, peggio ancora, hanno agito in continuità con le forze conservatrici e liberiste.

    Per la prima categoria possiamo citare, ad esempio, la questione dello Ius soli: nel momento decisivo, abbiamo assistito ad una ritirata indecorosa ed incomprensibile. Per la seconda l’infausta decisione sull’articolo 18. E va bene che a compierla fu il partito di Renzi, ma altrettanto vero è che non si registrò quella sommossa che sarebbe stato lecito attendersi, se non da parte di alcuni.

    La sorpresa Schlein

    Le primarie aperte, e il fatto che si siano mosse verso i seggi un milione e centomila persone, sono gli elementi che hanno generato il benefico stravolgimento dell’elezione di Elly Schlein. Importante in sé, per la piattaforma schiettamente di Sinistra sulla quale ella ha basato la sua campagna, ma non solo. La sua vittoria, se Schlein manterrà il profilo che l’ha sempre contraddistinta, riporterà a casa e alle urne gli orfani politici di cui sopra.

    primarie-pd-schlein-falcomata-e-reggio-non-ha-nulla-da-dire
    Elly Schlein festeggia la vittoria alle primarie

    Lo dimostrano i sondaggi e, ancora di più, l’impennata di iscritti al PD, determinata dalla speranza che esso trovi una sua precisa identità e intraprenda un cammino che sia in sintonia con un soggetto di centrosinistra alternativo rispetto alle politiche liberiste. Sono trascorse appena due settimane dall’exploit di Schlein, e perciò non è certo tempo di bilanci. Tuttavia, i segnali positivi non sono mancati. Sia quelli indirizzati all’interno dello schieramento progressista, sia quelli con destinatario il Governo.

    La destra fa la destra (italiana)

    A proposito del Governo, una considerazione è necessaria. Esso è un esecutivo di destra, che si muove e agisce come un esecutivo di destra. E di una destra con una precisa identità e una matrice ben identificabile. Non è la CDU tedesca, e Meloni non è Merkel. Storie personali e politiche diverse; riferimenti culturali e politici sideralmente distanti: radici nella destra fascista italiana per Meloni; nel centrodestra tedesco, che ha fatto da quasi 80 anni i conti col passato della Germania e non è mai sceso a patti con l’estrema destra, per la Merkel.

    Mi stupisce lo stupore – ipocrita e finto in certi casi – col quale vengono accolti scelte, posture, atteggiamenti della destra al governo. Non esclusivi di Meloni, beninteso; gli altri partiti della maggioranza non hanno nulla di diverso dai fratelli e dalle sorelle d’Italia. Anzi, forse sono gli esponenti del partito di maggioranza relativa e la loro condottiera a sforzarsi, con scarsi risultati, nel non apparire eredi diretti di una dottrina che ha sconquassato l’Italia, l’Europa, l’intero pianeta.

    Le prime mosse? Niente questione morale

    Ma torniamo a Schlein e al nuovo corso del Partito democratico. La segretaria del PD ha preso posizione sui più importanti temi sul tappeto, compreso quello scottante, decisivo e divisivo della guerra in Ucraina. Ella ha evitato la prassi di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Rifuggendo meritevolmente il vago, si è detta favorevole a proseguire con l’appoggio al Paese aggredito, coerentemente col suo voto in Parlamento. D’altro canto, ha tenuto a segnalare la necessità di uno sforzo diplomatico dell’Unione europea per trovare una via d’uscita a un conflitto che rischia di sfociare in un’escalation micidiale e globale.

    Palazzo_San_Giorgio_-_Reggio_Calabria_-_Facciata_dal_lato_sinistro
    Palazzo San Giorgio, il municipio di Reggio Calabria

    Ma la nuova segretaria del PD non ha toccato un tema che ci riporta alle vicende calabresi e reggine in particolare. Si tratta della questione morale, sulla quale vi è a mio avviso l’esigenza di un forte segnale di discontinuità. Il Comune di Reggio versa da tempo in una condizione di minorità dal punto di vista amministrativo e politico, con il sindaco – del Comune e della Città metropolitana – e diversi esponenti della Giunta e della maggioranza sospesi in applicazione della legge Severino. In più, un consigliere, ex capogruppo del PD, è il principale accusato perché avrebbe imbastito un sistema di brogli nelle elezioni comunali nelle quali è stato eletto lo stesso sindaco Giuseppe Falcomatà.

    Falcomatà e il caso Miramare

    Tornando a quest’ultimo, qualche giorno fa sono state depositate le motivazioni della sentenza d’appello che ha riformato quella di primo grado portando la condanna da un anno e quattro mesi a un anno per il processo “Miramare”. Sono stati condannati invece a sei mesi gli assessori, la segretaria comunale, la dirigente del settore interessato e l’imprenditore. Nelle motivazioni, Falcomatà è individuato come «vero regista della vicenda». I giudici lo evincono dai messaggi Whatsapp scambiati tra i membri di Giunta in prossimità della seduta dell’esecutivo: essi documentano in modo pregnante il suo interesse personale all’esito della pratica, percepito dagli assessori come “un suo desiderio” da assecondare.

    Il collegio giudicante ha rilevato che questi e altri contatti «documentano senza possibilità di equivoci le tensioni e le accese discussioni che hanno accompagnato e seguito la trattazione della pratica Miramare prima ancora della riformulazione del testo definitivo, evidente frutto di una soluzione di compromesso nell’intento di tutti di assecondare i desiderata del sindaco. Le richiamate emergenze concorrono senz’altro a dimostrare l’interesse personale perseguito dal Falcomatà con la delibera in oggetto, che ciascun imputato, ognuno nel proprio ruolo, ha concorso a realizzare».

    Giuseppe Falcomatà

    Secondo i giudici d’appello, alla fine, si configura la commissione del reato d’abuso d’ufficio per «l’affidamento in via diretta dell’uso dei locali di un prestigioso immobile comunale, per svolgere eventi finalizzati a valorizzare le risorse culturali, territoriali e turistiche della città ad un’associazione del tutto sconosciuta nel panorama degli enti no profit cittadini, senza la benché minima valutazione comparativa di proposte progettuali di altri soggetti interessati, omettendo il necessario vaglio di congruità tecnico ed economica dell’unica istanza considerata, violando le norme sulle competenze attribuite dall’art. 42 Tuel al Consiglio comunale». Questo, in sintesi, il quadro comportamentale criminoso cristallizzato dal collegio giudicante nelle motivazioni alla sentenza.

    Sciogliere il Consiglio a Reggio Calabria?

    Veniamo al dato politico – amministrativo e, direi, etico e morale. Il Comune di Reggio e la Città metropolitana sono retti da quasi due anni da due supplenti, e da un esponente della destra è venuta la richiesta di scioglimento del Consiglio in applicazione dell’art. 141 del Testo unico sugli Enti locali. A mio avviso, rilevare nella situazione del Comune di Reggio la sussistenza degli elementi contenuti nella norma in questione potrebbe essere solo il frutto di una forzatura, anche in considerazione della gravità della sanzione che ne scaturirebbe. Tuttavia, il ragionamento non si può chiudere a questo punto. Bisogna senz’altro sottolineare la pretestuosità della posizione favorevole allo scioglimento del Consiglio dettata da situazioni passate, determinate dalla destra, ben più gravi di quella che ci occupa.

    La sede della Corte di Cassazione a Roma

    Il ragionamento deve però proseguire passando dal piano giuridico a quello politico, etico e morale. Nel quale entra in scena Elly Schlein e l’auspicato nuovo corso del Partito democratico sotto la sua guida. Dopo le puntuali, precise, gravi motivazioni dei giudici di secondo grado, è possibile ancora fare finta di niente?
    Anche considerando la vischiosità del reato di cui parliamo, e del dibattito aperto sulla sua consistenza giuridica (soprattutto dalla destra, in verità), reato che comporterebbe, ad avviso dei sostenitori della sua abrogazione, la quasi paralisi dell’attività amministrativa per il cosiddetto “terrore della firma”? È ammissibile puntare sulla presunzione di innocenza fino alla pronuncia della Cassazione dopo una simile condanna per fatti giuridicamente acclarati, posto che il giudizio della Suprema Corte non investe i profili fattuali ma quelli di legittimità?

    Il primato (e gli strumenti) della politica

    Ci si lamenta spesso del ruolo di supplenza assunto dall’apparato giurisdizionale rispetto alla politica. Esso si manifesta, tuttavia, proprio quando la politica non interviene con gli strumenti a sua disposizione, anche in presenza di fatti e atti gravi, che contribuiscono ad accrescere la sfiducia dei cittadini nei confronti delle Istituzioni. Che è poi una delle cause della disaffezione e della diserzione dalla politica attiva e dalla sua manifestazione più importante: il voto.

    Per tutti questi motivi, sarebbe opportuno, urgente, un intervento della nuova segretaria del Partito democratico. Per porre fine ad una vicenda che si trascina da troppo tempo e che non ha senso alcuno procrastinare. Per dare un segnale forte di cesura rispetto al passato. Per costruire una proposta politica credibile, per la città di Reggio, in grado di mettere almeno in discussione uno sbocco favorevole alla destra che, alle condizioni attuali, appare ai più scontato.