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  • Giacomo “Big Jim” Colosimo: il re lenone

    Giacomo “Big Jim” Colosimo: il re lenone

    Si chiamava Colosimo, Giacomo Colosimo, e a Chicago era arrivato da… Colosimi, piccolo centro del Savuto cosentino al confine con la provincia di Catanzaro. Ma lì in Illinois avevano cominciato presto a conoscerlo con altri due nomi. Il primo era Big Jim, per la stazza non indifferente. Il secondo, Diamond Jim: adorava ostentare pietre preziose sul pomo del bastone, il fermacravatta, la cintura, il bavero di giacche e cappotti, persino le ghette.
    Ma come aveva fatto quel giovane calabrese emigrato negli States in cerca di fortuna a trasformarsi in Diamond Jim? La risposta sta in due parole: Chicago Outfit.
    La moda, però, con questa storia non c’entra nulla. L’Outfit di Big Jim Colosimo è la mafia di Chicago. La chiamano così, comanda nella Windy City da oltre un secolo. E l’ha creata proprio lui.

    Hinky Dink e Bathouse: Big Jim Colosimo si prende il Leeve di Chicago

    Giacomo arriva a Chicago con papà Luigi e mamma Giuseppina nel 1885 e all’inizio ci prova pure a guadagnarsi il pane onestamente. Consegna giornali, fa lo sciuscià, lavora alle ferrovie. Ma per arrotondare passa presto a furti ed estorsioni mentre, sulla carta, fa lo spazzino. È con quest’ultimo lavoro che conquista i favori di due dei politici più corrotti che Chicago abbia mai avuto: Michael Hinky Dink Kenna e John Bathouse Coughlin.
    Sono loro a comandare nel Levee, il distretto del vizio della viziosissima Chicago, e Big Jim Colosimo gli procura un bel po’ di voti oltre a raccogliere per i due aldermen il pizzo nel quartiere.

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    “Hinky Dink” Kenna e “Bathouse” Coughlin

    Il re lenone e la regina Victoria

    Il calabrese ha carisma da vendere e pochi scrupoli. Gli piacciono tre cose: i soldi, le donne, l’Opera. Grazie alle prime due scopre la sua vera “vocazione” criminale: fare il magnaccia.
    È così che comincia a farsi un nome in certi ambienti e conosce Victoria Moresco. Lei è la tenutaria di due bordelli a Levee. È obesa, più anziana ed è pazza di lui. Jim fiuta l’occasione e nel giro di una settimana la sposa, diventando il gestore delle sua attività. Per ogni cliente che paga 2 dollari “a consumazione”, lui ne incassa 1,20. E i clienti sono tanti. Sempre di più.

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    Victoria (prima a sinistra) e sua sorella con Jim e famiglia

    Circa dodici mesi dopo le nozze, le case del piacere a Levee sotto il controllo di Big Jim Colosimo sono diventate trentacinque. In pochi anni se ne aggiungeranno centinaia, non solo in città. I bordelli più famosi sono il Saratoga e il Victoria, lo chiama così in onore della sua signora. E poi ci sono bische, scommesse, bar e saloon a rimpinguare ulteriormente le casse. I giornali locali lo chiamano vice lord, il Signore del vizio.

    La tratta delle bianche

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    Big Jim Colosimo, il re del vizio a Chicago

    Big Jim e le sue ragazze soddisfano le esigenze di qualsiasi cliente, da quelli che possono spendere pochi spiccioli ai più ricchi e perversi. Nel 1908 buona parte dell’underworld della città è nelle sue mani e anche la “Chicago bene” è di casa nei suoi locali.
    Il suo impero si fonda soprattutto sulla prostituzione, settore che nella metropoli nordamericana degli anni ’10 muove un giro d’affari stimato in 16 milioni di dollari dell’epoca e “impiega” oltre 5.000 persone.
    Per un business del genere servono continuamente forze fresche. Così tra il 1904 e il 1909 Big Jim Colosimo si dedica alla tratta delle bianche tra Chicago, St. Louis, Milwaukee e New York insieme a Maurice e Julia Van Bever, una coppia proprietaria di due bordelli vicini ai suoi.

    La Mano Nera

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    Il fac simile di una tipica lettera della Mano Nera negli States ai primi del ‘900

    Si stima che i tre facciano arrivare in quegli anni oltre 6.000 ragazze, quasi sempre minorenni, nel Levee. Le rapiscono, le drogano, le fanno stuprare dai loro uomini. Poi le mettono a lavorare in qualche casa chiusa o le vendono a qualche altro pappone per farle prostituire in strada. Per Big Jim è un affare da 600mila dollari all’anno, una cifra monstre ai primi del ‘900.
    Tutto quel denaro lo trasforma in Diamond Jim e, come spesso accade negli ambienti malavitosi, quell’ascesa irresistibile si rivelerà fatale per lui.
    A Colosimo nel 1909 arriva una lettera. C’è scritto che deve pagare 5.000 dollari se non vuole guai. E in fondo al foglio c’è una firma che può dare problemi anche a uno come lui che ha sul proprio libro paga gran parte della polizia e della politica locale: una mano nera.

    La Mano Nera è un insieme tanto eterogeneo quanto temibile di criminali italiani che vessano i propri connazionali in America. Nella sola Chicago, tra il 1895 e il 1905, ha ucciso oltre 400 persone che hanno rifiutato di piegarsi alle sue richieste. Colpisce anche fuori dagli Usa se necessario e i calabresi lo sanno bene.
    Big Jim Colosimo stesso ha lavorato per la Mano Nera nei suoi primi anni a Chicago. È del mestiere, insomma, e sa che se acconsente a pagare gli arriveranno presto nuove lettere e richieste di somme sempre più alte. Decide di sborsare il denaro la prima volta, ma azzecca la previsione e la Mano Nera non tarda a rifarsi viva. Stavolta di dollari ne vuole 50mila, il decuplo, e ne vorrà ancora di più se il re dei bordelli accetterà nuovamente di pagare.

    Big Jim Colosimo e l’arrivo di Johnny Torrio a Chicago

    Così Big Jim ne parla con Victoria e lei lo mette in contatto con suo nipote a New York: Giovanni “Johnny” Torrio. Ha già fatto parecchia strada nella malavita della Big Apple, lo chiamano The Fox, la volpe, o Papa Johnny per la sua capacità di mediare tra capi. Le arti diplomatiche di Johnny a Chicago però non balzano subito all’occhio, anzi.

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    Johnny Torrio

    Organizza un incontro con tre emissari della Mano Nera, ma ad aspettarli ci sono i sicari di Torrio che li freddano sotto un ponte. Un anno dopo fa eliminare un altro rompiscatole, Sunny Jim Cusmano. E sorte simile attende anche una prostituta-schiava scappata da un bordello di Colosimo che vuole testimoniare contro di lui in tribunale. È nascosta a Bridgeport, Connecticut, in attesa del processo quando alla sua porta bussano alcuni uomini. Si presentano come agenti federali, la fanno salire su una macchina, le scaricano dodici pallottole in corpo.
    Processo sulla tratta delle bianche chiuso.

    Il Colosimo’s e Dale Winter

    La serenità ritrovata non è l’unico beneficio dell’arrivo di Johnny. Big Jim si dedica sempre di più al locale dei suoi sogni, il Colosimo’s, che ha aperto nel 1910 al 2126-28 di South Wabash Avenue, il miglior ristorante di tutta Chicago. Ci puoi trovare seduto il grande Enrico Caruso e al tavolo accanto un gangster sanguinario o un membro del Congresso. E dal 1913 ci canta lei: Dale Winter.

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    L’interno del Colosimo’s, il ristorante di Big Jim

    A Colosimo l’ha fatta scoprire un giornalista che l’ha ascoltata cantare nel coro di una chiesa metodista da quelle parti. Viene dall’Ohio, ha una ventina d’anni, sogna di esibirsi all’Opera ed è molto carina. Big Jim se ne innamora. La porta nel suo locale e ne fa la stella, le paga lezioni di canto coi migliori insegnanti. E Dale, a sua volta, lo trasforma: il re lenone ora indossa abiti meno sgargianti, mette da parte i gioielli e i modi bruschi, studia meglio l’inglese che non ha mai davvero imparato. E a Chicago qualcuno inizia a chiedersi: Big Jim Colosimo si è rammollito?

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    1917, la pubblicità di una serata al Colosimo’s con Dale Winter protagonista

    Big Jim Colosimo e il Chicago Outfit

    Rammollito o meno, gli affari proseguono alla grande però. A occuparsi di tutto è Johnny Torrio, ormai braccio destro dello zio, dal suo ufficio nel Four Deuces, un bordello da pochi soldi con annesse bisca e sala torture che ha aperto poco distante dal Colosimo’s. Johnny non beve, non fuma, non va a donne e ogni sera, se può, la passa con sua moglie a casa. Non ama sporcarsi le mani e ha sempre l’idea giusta.

    Quando il sindaco democratico nella prima metà degli anni ’10 prende di mira il Levee e manda la Buoncostume a chiudere i bordelli, lui dissemina le ragazze in migliaia di appartamenti sparsi per il quartiere. E a poco a poco gli altri “imprenditori del settore” si mettono sotto l’ala protettrice di Big Jim Colosimo e Johnny Torrio: è nato il Chicago Outfit.

    I due iniziano ad aprire nuovi casini fuori città, lungo il confine con l’Indiana. Sono autentiche roadhouse del piacere da cui clienti e prostitute – si alternano 90 ragazze al giorno – possono varcare in un attimo la frontiera in caso arrivi la polizia e schivare l’arresto. Ad avvisare Johnny e i suoi di eventuali pericoli sono i benzinai lungo la strada, che fanno affari d’oro con tutte quelle macchine da quelle parti.

    1919: «We’ll stay with the whores, Johnny»

    L’anno della svolta è il 1919. Con l’elezione del nuovo sindaco repubblicano William Hale Thompson nel 1915, il Chicago Outfit ha di nuovo chi gli consente di spadroneggiare in città da qualche anno. Ma nel ’19 entra in vigore il Volstead Act, la legge che dà il via al Proibizionismo. E nello stesso tempo Big Jim decide di lasciare sua moglie Victoria, la zia di Johnny, per sposare Dale.
    «È quella giusta», dice al socio per spiegarli la scelta, quello commenta: «Sarà il tuo funerale».

    Una manifestazione contro il Proibizionismo nell’America degli Anni ’20: «Vogliamo la birra»

    Non va meglio quando parlano di alcolici. Secondo Johnny Torrio il Volstead Act è il più grande regalo che lo Stato potesse far loro: quelli che bevevano – e sono tanti – vorranno bere ancora di più ora che è vietato e a dissetarli di nascosto e a caro prezzo saranno proprio lui e Big Jim. Con la polizia locale già al loro servizio e gli immobili che hanno, si prospettano affari d’oro. Ma stavolta a gelare l’altro è Big Jim: «We’ll stay with the whores, Johnny», continuiamo con le puttane.

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    Una retata della polizia durante il Proibizionismo

    Il Proibizionismo prima o poi passerà, prostituzione e gioco d’azzardo ci saranno sempre, spiega il boss al suo vice. Sono già milionari così e non ha senso rischiare problemi con i federali per fare altri soldi, insiste. Ma non lo convince. Per quanto Johnny voglia bene allo zio Jim, gli affari sono affari. Big Jim Colosimo è disposto a investire poche migliaia di dollari in una distilleria clandestina, ma nulla più, quel business non è roba per il Chicago Outfit.

    Un nuovo ragazzo in città

    Ad affiancare Torrio in quei giorni c’è un nuovo ragazzo. Gli guarda le spalle perché la precedente guardia del corpo ha provato a ucciderlo ma restarci secca è toccato a lei. Arriva da New York, dove The Fox gli ha fatto da “maestro” di strada prima di trasferirsi a Chicago. Lo manda Frankie Yale, al secolo Francesco Iuele, calabrese di Longobucco a cui il nipote di Victoria Moresco ha affidato i suoi affari nella Grande Mela al momento di partire per l’Illinois. Di nome fa Alphonse Gabriel, ma tutti lo chiamano Al o Scarface, lo sfregiato, perché un coltello gli ha lasciato un ricordino sul volto. Il cognome? Capone. Anche lui, la storia è piuttosto nota, pensa che contrabbandare alcolici non sia un affare a cui rinunciare.

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    Al “Scarface” Capone

    A marzo del 1920 Big Jim divorzia da Victoria e le versa 50mila dollari affinché non abbia più nulla da pretendere. Pochi giorni dopo sposa Dale Winter in Indiana e se ne va in luna di miele. Torrio, nel frattempo, fa il Papa Johnny: parla col resto della mala di Chicago e coi suoi ex capi newyorkesi. Quando vengono a sapere che Colosimo ha di nuovo pagato la Mano Nera per paura che qualcuno facesse del male a Dale concordano tutti: si è rammollito. E non sarà certo un debole come l’ex Diamond Jim a tenerli fuori dall’affare del secolo. Johnny ha l’ok per farlo fuori.

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    Jim e Dale poco dopo il matrimonio

    Delitto al ristorante italiano

    La mattina dell’11 maggio 1920 a casa Colosimo squilla il telefono. È Torrio, dice a Jim che nel pomeriggio alle 4 sono in arrivo due carichi di whiskey per il suo amato ristorante, ma lui non potrà esserci. Tocca a Colosimo aspettare i corrieri. Ci va smadonnando in italiano per tutto il viaggio, racconterà il suo chauffeur alla polizia. Al Colosimo’s di quella consegna nessuno sa nulla, però. Jim aspetta fino alle 4:25 e si avvia verso l’uscita. Spunta un uomo dal guardaroba, gli ficca un proiettile dietro l’orecchio e sparisce per sempre.

    Pochi giorni dopo una bara da migliaia di dollari, tutta in bronzo, attraversa Chicago tra una folla oceanica. Ci sono migliaia di fiori ad accompagnarla, due bande musicali, nove aldermen, due membri del Congresso, un senatore, membri dell’ufficio del governatore, il direttore dell’Opera. Il funerale non è stato in Chiesa, però, e non c’è spazio per la salma nel cimitero cattolico. Il divieto arriva dall’arcivescovo George Mundelein in persona, ma solo perché il defunto è un divorziato.
    Big Jim Colosimo finisce in una cappella tutta per lui nel cimitero di Oak Woods a Chicago. Sulla lapide la data di morte è sbagliata (o forse, in fondo, non troppo): 1919.

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    La folla di fronte al Colosimo’s durante i funerali di Big Jim

    Chi ha ucciso Big Jim?

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    Frankie Yale

    Lascia dietro di sé due grandi misteri. Il primo è quello su chi lo abbia materialmente ucciso. Capone anni dopo racconterà a Charles MacArthur di essersene occupato di persona. Eppure il sospettato principale di quel delitto ancora oggi senza colpevoli ufficiali resta Frankie Yale. Era a Chicago quel giorno, lo hanno beccato alla stazione mentre prendeva un treno per New York. E l’unico testimone del delitto, un cameriere del Colosimo’s, ha dato una descrizione dell’assassino che pare combaciare perfettamente con lui. In giro si dice che Torrio abbia promesso a Frankie 10mila dollari in cambio di quel favore.

    Era Yale il tizio che, dopo aver mangiato un gelato e bevuto un drink all’albicocca, ha lasciato scritto dietro lo scontrino un misterioso saluto «So long Vampire, so long Lefty» ed è riapparso dal guardaroba con un revolver in mano prima di dileguarsi? Il cameriere si rifiuterà di confermarlo in aula. Quanto a Frankie, torna a New York e resta lì fino al 1937, quando una raffica di mitragliatrice Thompson consegna all’oblio eterno la sua versione dei fatti.

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    Il coroner simula per i giurati la dinamica del delitto Colosimo nel suo ristorante

    Dove sono i soldi?

    L’altro grande mistero è che fine abbia fatto l’immenso patrimonio di Diamond Jim. Dopo l’omicidio i suoi avvocati trovano solo 67.500 dollari in contanti e titoli e poco meno di 9.000 in gioielli nelle proprietà di Colosimo. Pensavano che solo a casa ci fosse a dir poco mezzo milione. Nessuno scoprirà mai dove sia il resto del malloppo.
    Dale Winter prova a chiedere l’eredità, invano: una legge dell’Illinois vieta a chi divorzia di risposarsi prima di un anno, il suo matrimonio con Big Jim è nullo. La famiglia Colosimo le dà 60mila dollari in titoli e diamanti e altri 12mila li consegna a Victoria, tagliando ogni ponte con le due donne.

    Chicago e l’eredità di Big Jim Colosimo

    Torrio controllerà Chicago fino al 1925, prima di cedere al suo alunno migliore il comando dopo aver subito un attentato dagli irlandesi nel North Side. Qualche anno dopo passerà il tempo a dare consigli a un altro suo allievo di gioventù newyorkese, Lucky Luciano. Morirà nel 1957 su una sedia da barbiere, d’infarto però.
    Capone, sempre più violento anche per la sifilide contratta in uno dei bordelli di Big Jim, diventa presto il pericolo pubblico numero uno per la stampa statunitense e l’FBI di Hoover. In galera ci finirà qualche anno dopo, nel 1932, ma per evasione fiscale. Libero ma ormai demente per la malattia, si spegnerà nel 1947.
    Il Chicago Outfit, invece, è più vivo che mai ancora oggi.

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    La tomba del gangster calabrese
  • La morte torna sul fiume: Denise e la tragica lezione del Lao

    La morte torna sul fiume: Denise e la tragica lezione del Lao

    Ora che attorno alle acque potenti del Lao si stanno spegnendo i clamori, dopo il ritrovamento del corpo della povera studentessa caduta dal gommone e quei luoghi stanno tornando alla loro primitiva solitudine, vale la pena provare a dare uno sguardo meno frettoloso alla vicenda, le cui responsabilità vanno assai oltre quelle della sola guida alla quale Denise Galatà e i suoi compagni erano stati affidati.

    Le cause della tragedia vanno cercate lontano dalle rapide bianche del Lao e molto prima del giorno della tragedia, ma sin dentro le aule di un liceo che decide di mandare i propri ragazzi a fare la “gita scolastica” in uno dei posti più belli della Calabria, ma che nella seduzione della natura selvaggia conserva un margine di pericolosità che è ben conosciuto.

    La scuola che si sposta

    La “gita scolastica” è un modo di dire improprio, quasi gergale. In realtà si tratta di viaggi di istruzione. Non è una finezza semantica, è un cambiamento di senso. Il viaggio d’istruzione è la scuola che si sposta, che va in un luogo diverso dalle proprie aule, che continua a svolgere il proprio compito di crescita ed educazione alla bellezza. È una lezione che si fa senza le mura attorno.
    Per questo non deve essere fatta per forza come una volta dentro un museo – anche se resta sempre un’ottima idea – ma anche cogliendo la lentezza di una passeggiata in un bosco. Oppure il passo svelto che richiede un sentiero di montagna un poco più impervio, affidandosi magari a una guida dei nostri parchi, in grado di spiegare i luoghi, dare voce agli spazi, dire i nomi dei posti e degli alberi.

    Il Lao e le responsabilità nella morte di Denise Galatà

    Il Lao è cosa diversa. È una bellezza severa, di quelle non addomesticate. Abbaglia gli occhi, ma può fare male. Molto. Era già successo, forse non troppo distante da dove Denise Galatà è scivolata dal gommone nel Lao. Un’altra ragazza era caduta e si era persa ingoiata dai vortici. Il ministro Valditara ha annunciato una ispezione, una richiesta di informazioni su come quella gita sia stata organizzata.

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    Denise Galatà, la 19enne morta nel fiume Lao

    È quasi certo che non troverà falle tra le carte, né errori procedurali. Resta da capire come sia stato possibile immaginare una discesa del Lao quando le scuole nell’organizzare le uscite sono responsabili perfino dell’efficienza dell’autobus su cui viaggiano gli studenti e la così detta Culpa in vigilando, ovvero l’omissione di tutela e vigilanza dei docenti verso gli studenti, durante un viaggio è molto più opprimente che durante una normale giornata scolastica. Poi entra in gioco il grado di responsabilità della compagnia di rafting, che ha considerato praticabile la discesa, malgrado i giorni di pioggia continui.

    Non si torna indietro

    Il Lao ha tre percorsi, da Laino alla Grotta del Romito, poi da questa a Papasidero e infine fino ad Orsomarso. Il primo tratto è quello più bello. Gole alte dove l’acqua corre potente, disegnando percorsi tortuosi, fatti di rapide in successione, salti, massi da aggirare, cascate. Luoghi dove non c’è la possibilità di arrivare senza un kayak o appunto un gommone, dove non è previsto di tornare indietro: si deve per forza procedere. La bellezza della natura nella sua forma più autenticamente primitiva.

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    Rafting sul Lao

    Fino a qualche anno fa il percorso intermedio era caratterizzato da un enorme macigno crollato da una delle pareti e questo ostacolo costringeva le guide a far scendere i turisti, porre i gommoni in verticale e farli passare attraverso la strettoia. Era una fatica disumana e a un certo punto il macigno scomparve liberando il percorso. Le dicerie raccontano che il tappo fosse stato fatto saltare con l’esplosivo.

    La tragica lezione della Natura

    Oggi le varie associazioni di rafting che operano in quella zona e che godono del fascino del luogo alimentando un flusso turistico notevole, fanno quadrato. Spiegano che sì, l’acqua era alta, ma il fiume praticabile, i rischi bassi e certamente le guide sono tutte esperte e puntuali conoscitori di ogni passaggio d’acqua, di ogni rapida.gommoni-lao
    Il timore è che il Lao venga chiuso come accaduto per il Raganello, fermando per l’ormai prossima estate i moltissimi i gommoni i cui differenti colori sono rappresentativi delle diverse associazioni che operano lungo il fiume, carichi di gioiosi turisti, spesso anche famiglie divertite. Solo che certe volte la natura ci ricorda che non è un luna park.

  • MAFIOSFERA| Dove c’è Calabria c’è ‘ndrangheta? Paradossi e faide in Canada

    MAFIOSFERA| Dove c’è Calabria c’è ‘ndrangheta? Paradossi e faide in Canada

    Basta trovare un calabrese che commette crimini vari all’estero per annunciare la presenza della ‘ndrangheta oltremare? No, non dovrebbe bastare. Eppure due eventi recenti in Canada, uno in Ontario e uno in Quebec, quando letti insieme, ci offrono uno spaccato interessante dello stato dell’arte – e della difficoltà di comprensione e accettazione – delle dinamiche criminali para-mafiose quando si ha la cosiddetta dimensione etnica all’estero.

    Il delitto Iacono: Calabria e ‘ndrangheta in Canada

    L’evento più recente riguarda un omicidio avvenuto a Montreal. A cadere è stata Claudia Iacono, il 16 maggio, uccisa in pieno giorno davanti al salone di bellezza di cui era proprietaria. Non sembrano esserci dubbi sul fatto che fosse proprio lei la vittima designata. Ma non sembra nemmeno essere un colpo da professionisti.
    A rendere morbosa (più del solito) l’attenzione su questo omicidio sono l’identità della vittima e quella della sua famiglia. Claudia Iacono era una influencer locale. Ed era sposata con Antonio Gallo, il figlio di Moreno Gallo, un tempo importante membro della cosiddetta fazione calabrese della mafia di Montreal.

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    Antonio Gallo e Claudia Iacono

    Laddove Claudia Iacono non sembra essere stata coinvolta in attività criminali, lo stesso non si può dire per suo marito e suo suocero. Moreno Gallo fu assassinato in un ristorante italiano in Messico nel 2013, dopo essere stato espulso dal Canada.
    A molti dei locali il delitto Iacono pare illogico: che senso avrebbe toccare la nuora di un boss? Forse avrebbe avuto più senso che la vittima fosse stata suo marito.
    Nonostante ancora non ci sia chiarezza sulle motivazioni dell’omicidio, subito si è consolidata una teoria che lo collega ad una faida di criminalità organizzata. E siccome si tratta di Montreal, per niente estranea a questo tipo di violenza (sono già 8 gli omicidi in città nel 2023), questa teoria non è affatto campata per aria.

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    Moreno Gallo, ucciso in Messico 10 anni fa

    Calabria vs Sicilia: ‘ndrangheta e Cosa nostra in Canada

    Di faide a Montreal non ne sono mancate. L’ultimo troncone, a più riprese e con periodi di pausa (forzata o forzosa) è in corso dalla morte, nel 2013, del boss Vito Rizzuto. Rizzuto era una storica figura della mafia canadese, legato alla famiglia Bonanno di New York City e originario di Cattolica Eraclea, in provincia di Agrigento.
    Come ho già delineato in un altro articolo, l’origine del dominio della famiglia Rizzuto è collegato ad una faida con un’altra famiglia, il clan Cotroni-Violi, originari di Mammola e Sinopoli in provincia di Reggio Calabria, su cui i Rizzuto hanno primeggiato negli anni Settanta.

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    Vito Rizzuto è stato il capo della Sesta Famiglia in Canada fino alla sua morte

    Tra le fila dei Cotroni-Violi c’erano dei vecchi affiliati di ‘ndrangheta. Poi, però, come è successo nella vicina città di Hamilton, il gruppo si è trasformato in una famiglia criminale ibrida, senza ‘bandiere’ mafiose chiare. E, soprattutto, legata alle dinamiche locali e non internazionali.
    Alla base del potere mafioso di Montreal c’è dunque un male primigenio mai davvero risolto che è passato alla storia cittadina come faida tra siciliani e calabresi. E qui torniamo a Moreno Gallo, di origine calabrese ma effettivamente mafioso nelle fila dei Rizzuto. Quindi, “ufficialmente” legato a Cosa nostra americana nella sua versione canadese.

    Montreal: ma la Calabria in Canada è tutta ‘ndrangheta?

    La sua è una parabola normalissima per quei territori. Lì la regionalizzazione del crimine organizzato italiano – calabresi e siciliani – non ha lo stesso significato che può avere da noi. Nel periodo di vuoto di potere legato alla carcerazione del boss Rizzuto, Gallo si era legato a un gruppo di dissidenti interno alla famiglia Rizzuto. Erano i cosiddetti calabresi, guidati però da un siciliano di Castellammare del Golfo, Salvatore Montagna, da Joe Di Maulo, molisano, membro apicale della famiglia (di origini calabresi) Crotoni, e suo cognato Raynald Desjardins, nemmeno italiano.

    E qui arriva il vero nocciolo della questione. Molti giornali italiani hanno infatti riportato la notizia della morte di Claudia Iacono definendola “vittima di ‘ndrangheta” o da inserire comunque all’interno di una faida di ‘ndrangheta a Montreal. Quest’accezione non potrebbe essere più errata: non solo Moreno Gallo non era ‘ndrangheta, ma praticamente quasi nessuno dei cosiddetti calabresi di Montreal ha qualcosa a che vedere con la ‘ndrangheta (salvo alcuni collegamenti storici o legati a business vari ed eventuali).

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    Una strada del quartiere Little Italy – o, meglio, Petite Italie – a Montreal

    Anzi, tale confusione finisce per alzare il profilo di alcuni di questi soggetti, rendendoli più di quel che sono, nel mondo criminale. Ma la questione si fa ancora più complicata quando si va ad allargare l’analisi oltre Montreal. Che esista una fazione calabrese nella mafia canadese/americana/italiana a Montreal che non è collegata con la ‘ndrangheta ovviamente non significa che non esista la ‘ndrangheta sul territorio. Anzi.
    Il secondo evento ci dimostra che così non è. E che la confusione che regna sovrana nel leggere gli eventi di mafia canadese in una connotazione etnica non fa altro che aiutare quelli che ‘ndranghetisti sembrano proprio esserlo.

    L’espulsione di Vincenzo Jimmy DeMaria

    Vincenzo “Jimmy” DeMaria, un uomo di 69 anni, originario di Siderno ma residente in Ontario – in particolare nella zona di Mississauga, un sobborgo di Toronto – è sotto processo (dal 7 maggio) davanti all’Immigration and Refugee Board, il Tribunale per l’Immigrazione. Il Canada vuole rispedirlo in Italia in seguito a una serie di intercettazioni e risultanze italiane, inammissibili però in sede di processo penale, secondo cui DeMaria farebbe parte del Crimine di Siderno, membro della ‘ndrangheta in Ontario. Nonostante i tanti anni in Canada (da metà anni 70) in seguito a una condanna per omicidio – un’esecuzione in piena regola – DeMaria non ha mai potuto prendere la cittadinanza canadese. E l’espulsione per questioni legate a un possibile coinvolgimento con la criminalità organizzata è sempre alle porte.calabria-canada-ndrangheta-tribunale

    Ma facciamo una digressione perché il background qui non è da poco. Il fratello di Jimmy – o Gimì come viene chiamato da alcuni sidernesi ‘in vacanza’ a Toronto – è Joe, Giuseppe. Joe DeMaria, secondo gli inquirenti di Reggio Calabria durante l’indagine Canadian ‘Ndrangheta Connection del 2019, è membro apicale della ‘ndrangheta sidernese della Greater Toronto Area, cioè proprio delle aree intorno a Toronto, da Brampton a Vaughan fino a Mississouga.
    Insieme ai DeMaria, altri membri apicali sarebbero Luigi Vescio, Angelo Figliomeni, Cosimo Figliomeni, Rocco Remo Commisso, Francesco Commisso. Ma coinvolti nel Siderno Group sono i cugini di Gimì e Joe, e in particolare Michele Carabatta sempre in Ontario e Vincenzo Muià, intorno al cui viaggio in Canada si muove quasi tutta l’indagine in questione.

    La ‘ndrangheta del Canada che pesa anche in Calabria

    Muià era, infatti, andato ‘in vacanza’ in Canada per capire come risolvere (e in caso per avere autorizzazione a farlo) l’omicidio di suo fratello Carmelo in Calabria.
    A prescindere da una serie di assoluzioni a processo, l’indagine fu importante perché raccontò di come si andasse a risolvere faccende di ‘ndrangheta sidernese in Canada. Questa ‘ndrangheta di Toronto non solo è ‘ndrangheta DOC, ma è anche ‘ndrangheta che influenza la Calabria (anche se provarlo a processo è un’altra cosa).

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    Beni sequestrati nel corso dell’operazione Canadian ‘Ndrangheta Connection

    Finita questa digressione torniamo a Jimmy DeMaria, che era stato già sotto processo davanti al tribunale per l’immigrazione altre volte. L’ultima – in appello – risale al 2019, prima di Canadian ‘Ndrangheta Connection, e lo vedeva in aula in quanto presunto affiliato alla ‘ndrangheta (riconosciuta come organizzazione mafiosa straniera in Canada) e coinvolto in una serie di attività di riciclaggio grazie a società di servizi finanziari.

    U mastru Commisso e le prove insufficienti

    Nel 2018 il tribunale aveva dichiarato «che esistono ragionevoli motivi per ritenere che il Richiedente (Vincenzo, Jimmy, DeMaria) sia un membro della ‘Ndrangheta». Di conseguenza, si era ritenuto che vi fossero ragionevoli motivi per ritenere che DeMaria e uno dei suoi business, The Cash House, operato da suo figlio Carlo, fossero coinvolti nel riciclaggio di denaro. La cosa portò nello stesso 2018 a un ordine di espulsione dal Canada per DeMaria, che si appellò nel 2019.

    La camera d’appello rifiuterà il primo grado e dirà che: «Il Board sembra partire dal presupposto che, poiché ufficiali e forze di polizia esperti ritengono che il Richiedente [DeMaria] sia un membro della ‘Ndrangheta, ciò costituisca di per sé una ragionevole motivazione. Tuttavia, come ha dimostrato il Richiedente [DeMaria], ci sono problemi significativi con queste prove che il Board avrebbe dovuto affrontare prima di accettare le conclusioni della polizia … Gran parte dell’analisi del Board si basa su “transazioni sospette” e “ipotesi” che richiedono l’appartenenza alla ‘Ndrangheta per essere considerate ragionevoli motivi a cui credere. Pertanto, la decisione deve essere annullata anche per questo motivo e rinviata per un nuovo esame».

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    Giuseppe “U mastru” Commisso

    Insomma, dice il Tribunale amministrativo nel 2019, bisogna dimostrare che DeMaria è ‘ndranghetista. E non solo tramite la testimonianza delle forze di polizia o dei giornali o dalle intercettazioni o da resoconti di sorveglianza. Non è molto chiaro cos’altro effettivamente chieda questo tribunale, dal momento che a processo, contro DeMaria, si erano portate anche delle intercettazioni di Giuseppe Commisso, u mastru, capo indiscusso della ‘ndrina omonima di Siderno e a un certo punto anche capocrimine, che raccontava della connessione tra Jimmy DeMaria e alcuni problemi della ‘ndrangheta con la polizia a Toronto.

    Jimmy DeMaria e la profilazione etnica

    Complice quindi la difficoltà – nota – di provare l’appartenenza alla ‘ndrangheta in Canada, ecco che Jimmy DeMaria in sede processuale non solo dichiara di aver appreso della ‘ndrangheta a/di Siderno soltanto dai giornali, ma anche di essere vittima di profilazione etnica. Prende un’equazione superficiale che equipara lo ‘ndranghetista al calabrese (criminale o meno) e la usa a suo vantaggio.

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    Vincenzo Jimmy DeMaria

    «A mio parere … molto di questo, se si guarda davvero a molto di questo, c’è un sacco di profiling etnico in corso qui, perché vieni da una certa area, vieni da lì, quindi perché vieni da lì, questo e quello, deve essere il caso». E ancora: «Se vai in un ristorante italiano qui e sei italiano, subito: “Ah, sì, beh, sai, dobbiamo tenere d’occhio questo tizio”, capite? È uno stereotipo che purtroppo quando sei italiano ci vivi dentro». Gli verrà risposto da chi presiede l’udienza con molta attenzione e correttezza politica – e di base per evitare appunto un’accusa di pregiudizio etnico – che così non è, assolutamente, e che tutti conoscono italiani che nulla hanno a che fare con la mafia. Ci mancherebbe, aggiungerei.

    Se la Calabria in Canada equivale alla ‘ndrangheta

    Ma eccoci al cerchio che si chiude. Claudia Iacono – le cui sorti non sono chiare, ma la cui vita (e morte) sono state già legate alla criminalità organizzata – viene tirata dentro all’equazione superficiale criminale calabrese = ‘ndranghetista, a torto. Ma tale equazione è ormai prassi da giornalismo disattento e analisi superficiale. E altro non fa che rafforzare quella trappola etnica da cui dovremmo soltanto voler uscire in nome della chiarezza dei fenomeni.

    Jimmy DeMaria utilizza quella stessa trappola etnica e quella prassi a suo favore, sapendo che potrebbe proprio attecchire. E che è vero, c’è una sorprendente maggioranza di gente che non opera distinzione tra italiano/calabrese e mafioso/‘ndranghetista. Questo alla fine dei giochi confonde la narrativa. Rende rumorose le indagini sul perché abbiano ucciso una donna a Montreal. E rischia di aiutare un presunto ‘ndranghetista a rimanere in Canada.

    Insomma, se le cose hanno un nome vuol dire che quel nome implica dei confini: se c’è ‘ndrangheta, c’è anche una non-‘ndrangheta. E sarebbe il caso di ricordarsi – come ci ricorda il processo a DeMaria – che ad annacquare i nomi e a espandere i confini di un fenomeno sociale si rischia soltanto che ci si ritorca contro. E che il fenomeno perda di chiarezza al punto da non essere proprio più riconosciuto e riconoscibile.

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  • Mario Occhiuto condannato per bancarotta fraudolenta

    Mario Occhiuto condannato per bancarotta fraudolenta

    Mario Occhiuto condannato, in primo grado, a tre anni e sei mesi per bancarotta fraudolenta. Per il senatore di Forza Italia ed ex sindaco di Cosenza anche il divieto di esercizio dell’attività d’impresa per 3 anni e l’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Il pubblico ministero aveva chiesto la condanna di Occhiuto a 4 anni.

    La vicenda giudiziaria che ha portato alla condanna di Occhiuto lo vedeva coinvolto nella qualità di ex amministratore della società di progettazione di edifici “Ofin”, fallita nel 2014, della quale il forzista era stato amministratore fino al 2011. A condurre le indagini era stata la Guardia di Finanza. Secondo le accuse della Procura della Repubblica di Cosenza, prima del fallimento dalla “Ofin” sarebbero venute a mancare somme di denaro per un ammontare complessivo di tre milioni di euro.

    In precedenza, per la stessa vicenda, i giudici avevano inflitto per bancarotta fraudolenta alla sorella di Mario e Roberto Occhiuto, Annunziata, una condanna a un anno e quattro mesi. In questo caso, l’imputata aveva optato per il rito abbreviato.

  • Gratta & ruba: quei brutti tentacoli sulle scommesse

    Gratta & ruba: quei brutti tentacoli sulle scommesse

    Ammalarsi di gioco d’azzardo e rischiare anche di fare gli interessi dei boss. Il quadro, più o meno a tinte sempre più fosche, è noto ma non troppo.
    Certo, se ne parla e magari ognuno conosce qualcuno che “esagera” ma i numeri ufficiali del gioco in Calabria sono preoccupanti. I calabresi risultano sempre più ludopatici. Anche a dispetto delle enormi difficoltà socioeconomiche. Infatti, in un anno ci si è permesso il “lusso” di spendere nell’azzardo, fisico e on line, oltre 4 miliardi.
    Sono cifre fuori da ogni logica, addirittura superiori a quelle di Veneto e Liguria.

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    Giocatori alle prese con le slot machine

    Il gioco d’azzardo secondo i Monopoli e l’Antimafia

    Questo quadro inquietante emerge dai dati dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli (Adm), analizzati e elaborati sia dalla Direzione investigativa antimafia sia dall’ultima Commissione parlamentare antimafia.
    Nella relazione finale (la numero 37 del 2022), pubblicata nei giorni scorsi, la Commissione punta il dito sull’influenza della criminalità organizzata nel mondo del gioco legale per attività di riciclaggio, infiltrazione e ovviamente manipolazione delle vincite e dell’intero settore. Il risultato è praticamente uguale a quello dell’ultimo report semestrale della Dia.

    Gli appetiti delle ’ndrine sul gioco d’azzardo

    In particolare i clan di ‘ndrangheta e di camorra sono considerati i principali responsabili di questi continui tentativi di impossessarsi di un settore da oltre 110 miliardi di euro l’anno, da tempo nella top five delle “aziende” con il maggior fatturato. Questo oceano di denaro, ovviamente, ha stuzzicato gli appetiti di boss e picciotti, che si sono sempre “interessati” di gioco e dintorni.

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    Gioco d’azzardo online

    Calabresi spendaccioni

    Nel 2021 in Calabria sono stati spesi 1 miliardo e 100milioni in gioco fisico (slot, gratta e vinci, lotto, superenalotto, scommesse sportive ecc.) e 3 miliardi di euro in gioco on line per un totale, come detto, superiore ai 4 miliardi. Questo trend è in crescita costante dal 2006.
    Da allora le percentuali tra gioco reale e on line si sono invertite e ormai il web ha superato sale giochi e rivendite. Nel 2021 si è arrivati al 64% on line e 34% gioco fisico. E questo non solo agevola gli eccessi e le ludopatie (che ormai i SerD trattano alla pari delle dipendenze da alcol e droghe) ma anche le infiltrazioni indesiderabili.

    Caccia ai criminali del gioco d’azzardo online

    Sul web “stare dietro” ai criminali è molto più complicato. Tuttavia, la polizia si è data un gran da fare: lo provano numerose operazioni, le più importanti delle quali, come ha sottolineato la Commissione antimafia della precedente legislatura, hanno colpito i principali clan calabresi.
    Giriamo il calendario un po’ indietro: nel 2019 l’Adm ha pubblicato un dossier con i dati di tutti i Comuni italiani divisi per regioni e per tipo di gioco d’azzardo, I suoi numeri si riferiscono al solo gioco fisico che allora in Calabria valeva 1 miliardo e 700 milioni. Questo dato, come già detto, è diminuito. In compenso, è cresciuto il virtuale. Quindi il denaro speso dai calabresi in azzardi vari è quasi raddoppiato.
    In autunno dovrebbero uscire i numeri dell’Adm relativi allo scorso anno, va da sé stimati in rialzo come in tutti gli ultimi anni escluso il 2020, l’anno del covid e delle restrizioni maggiori per tutti i cittadini.

    Giocatori d’azzardo calabresi Comune per Comune

    Nella città di Cosenza, secondo l’Adm nel solo 2019 sono stati spesi 73 milioni, a Catanzaro 93 milioni, a Reggio Calabria 198 milioni, a Crotone 53 milioni e a Vibo Valentia 59 milioni. Questi dati riguardano solo le sale.
    Tra gli altri Comuni calabresi, impressionano i 14 milioni di euro di Pizzo Calabro, i 24 milioni di euro di Villa San Giovanni, i 17 milioni di Taurianova, i 18 milioni di Melito, i 21 milioni di Bovalino, i 18 milioni di Cirò, gli 8 milioni di Spezzano Albanese, i 14 milioni di Amantea, i 13 milioni di Scalea, i 14 milioni di San Marco Argentano, i 7 milioni di San Lucido, i 17 milioni di San Giovanni in Fiore, gli 86 milioni di Rende, i 18 milioni di Paola, i 30 milioni di Montalto Uffugo, i 12 milioni di Crosia, i 91 milioni di Corigliano, i 19 milioni di Castrovillari e i 13 di Acri.
    Questi numeri parlano da soli.

    Operazione Stige

    Per la Commissione antimafia è preoccupante la crescita della ‘ndrangheta di diverse aree della Calabria in questo settore. E si citano, al riguardo, due operazioni di polizia (tra le tante) per testimoniare tanta preoccupazione.
    Esemplari, ad esempio, i dati dell’operazione Stige della Dda di Catanzaro, che ha disarticolato la locale di Cirò, capeggiata dalla cosca Farao-Marincola, con diramazioni in numerose regioni italiane e in Germania.
    Le indagini hanno accertato il controllo di fatto di un punto Snai, localizzato a Cirò Marina, basato su complesse operazioni societarie e cambi di intestazione finalizzati a occultare la riconducibilità della sala alla cosca.

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    Finanzieri in azione

    Operazione Galassia

    L’operazione Galassia è un vero e proprio riassunto della struttura e delle funzioni di un network criminale composto da tutte le matrici mafiose italiane: dalla ‘ndrangheta alla Camorra, da Cosa Nostra alla criminalità organizzata pugliese. L’indagine, coordinata dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, ha integrato diversi procedimenti condotti dalla Procure di Reggio Calabria, Bari e Catania.
    Al riguardo, la Commissione si concentra proprio sulle dinamiche che nel tempo sono mutate in relazione al gioco e agli “appetiti” delle cosche. Infatti, si apprende dalla relazione 37: «Se ancora sul finire degli anni Novanta la polizia giudiziaria era impegnata principalmente su fenomeni delinquenziali correlati alle corse negli ippodromi e nei cinodromi, ai combattimenti clandestini combinati tra animali, alle sale da gioco ambigue (parte semilegali e gran parte totalmente illegali) e ai quattro casinò autorizzati (Campione d’Italia, Venezia, Saint Vincent, Sanremo), successivamente il quadro dell’offerta di gioco muta considerevolmente».

    La mafia corre sul web

    Cosi, «dal progressivo processo di espansione dell’offerta pubblica e ancor più con il salto delle tecnologie digitali che ha consentito l’esplosione del mercato delle scommesse online, avviene anche il salto evolutivo dell’intervento delle mafie nel comparto».
    Morale della favola: si gioca troppo e così tanto da attirare le mafie.
    Impedire le infiltrazioni criminali è affare degli investigatori. Invece, ridurre gli sperperi nel gioco è un compito che spetta a tutti. Ma come? La domanda resta aperta. Per tutti.

  • Antonio Serra: il galeotto che inventò l’economia moderna

    Antonio Serra: il galeotto che inventò l’economia moderna

    Un’intuizione geniale, ripescata a partire da inizio millennio, e una vita avvolta nel mistero, su cui si sono accaniti decine di studiosi.
    Di Antonio Serra si sanno pochissime cose. Si sa senz’altro che fu un giurista per formazione, come testimonia il pomposo titolo di doctor in Utroque (cioè nei diritti Civile e Canonico).
    Si sa, inoltre, che Serra fu cosentino, probabilmente di Dipignano. Tuttavia, senza certezze. E si sa che visse a cavallo tra XVI e XVII secolo. Ma da un dettaglio non proprio irrilevante: pubblicò il suo capolavoro, nel 1613, mentre era imprigionato nel carcere della Vicaria a Napoli.
    Per il resto, ci sono solo indizi e illazioni.

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    Il ritratto di Serra e il frontespizio del suo trattato

    L’attualità del pensiero di Antonio Serra

    Partiamo dall’aspetto, forse più importante dell’opera di Antonio Serra: l’eccezionale longevità del suo pensiero, riemerso di prepotenza nel dibattito dello scorso decennio sul Mezzogiorno.
    L’artefice di questa attualizzazione è Vittorio Daniele, professore ordinario di Politica economica presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro.
    Nei suoi saggi, Daniele lancia una tesi che anima tuttora il dibattito sorto in seguito al centocinquantenario dell’Unità nazionale e suscita qualche entusiasmo negli ambienti culturali e politici legati a certo revisionismo antirisorgimentale. Prima dell’Unità, sostiene Daniele assieme a Paolo Malanima, non esisteva un grande divario economico tra Nord e Sud. Le cose cambiano dopo, col decollo industriale del Settentrione.
    In seguito, il prof di Catanzaro approfondisce i motivi di questo divario: il Mezzogiorno è rimasto indietro non per (sola) colpa delle scelte politiche ma (soprattutto) a causa della sua posizione geografica svantaggiosa. In altre parole, e a dispetto di tanta retorica sulla “centralità mediterranea”, il Sud è un territorio marginale che, comunque, non può sviluppare più di tanto. Cosa c’entra Serra in tutto questo?

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    Vittorio Daniele

    In fondo al Mediterraneo

    Daniele riprende di peso un’intuizione forte contenuta nel Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e argento, scritto in carcere dall’economista cosentino.
    L’intuizione di Serra si riferisce allora al Regno di Napoli, che versa in difficoltà economiche.
    Schiacciato in fondo al Mediterraneo e quasi isolato, il Regno, spiega lo studioso, è «un sito pessimo», perché «non bisogna mai passare da quello ad alcuno per andare in altro paese. Sia di qualsivoglia parte del mondo, e voglia andare in qualsivoglia altra, non passerà mai per il Regno se non vi vuol passare per suo gusto e allungare la strada».
    Insomma, a distanza di cinque secoli, il Serra-pensiero tiene banco.

    Antonio Serra pioniere dell’economia politica

    Ovviamente il pensiero di Serra non si limita solo a questa intuizione longeva, che comunque getta le basi della geografia economica.
    In realtà, secondo l’economista cosentino, le caratteristiche che possono generare ricchezza sono sette, divise in due grandi gruppi: cause naturali e cause accidentali. Serra considera come cause “naturali” solo la presenza di miniere.
    Le cause accidentali, a loro volta, si dividono in due sottogruppi: “accidenti proprii” e accidenti “communi”. I primi sono peculiari di ciascun Paese e si riducono a due: la posizione geografica, appunto, e la produzione agricola. I secondi, invece, sono tipici di tutti gli Stati e cambiano solo per quantità e qualità. E sono: la diffusione di manifatture, il volume dei commerci, l’intraprendenza e la qualità dei popoli e, infine, la politica. In pratica, il capitale umano. Secondo Serra, proprio la politica fa la differenza, perché può dare gli impulsi necessari alla vita civile e (quindi) allo sviluppo economico.
    Considerato il periodo storico, si può affermare che il Breve trattato di Serra stia all’economia come Il principe di Machiavelli sta alla politica.

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    Un busto di Antonio Genovesi

    L’economia dopo Antonio Serra

    Di economia, prima di Serra, avevano scritto in tanti, ma nessuno l’aveva mai considerata un ramo a sé dello scibile.
    Un po’ di cronologia può aiutare a capire meglio l’importanza di questo pensatore.
    La nascita dell’Economia politica ha una data convenzionale: il 1776, l’anno in cui Adam Smith licenzia il suo La ricchezza delle nazioni.
    Smith ha, essenzialmente, un precursore: Antonio Genovesi, che ottiene la prima cattedra italiana di Economia a Napoli nel 1754.
    L’intuizione dell’Università di Napoli è preceduta di poco dai re di Prussia, che patrocinarono, ad Halle, una cattedra di Ökonomische, Polizei und Kameralwissenschaft (1727).
    Antonio Serra precede questo processo scientifico e accademico di almeno 114 anni. Se non è pionierismo il suo…

    Vita misteriosa di Antonio Serra

    Nonostante ciò, di Serra si sa davvero poco. Ad esempio, non si sa con certezza dove sia nato e quando.
    Anche la sua origine a Dipignano è un’ipotesi, magari più forte delle altre. Infatti, spiega lo storico Luca Addante, gli unici dati certi sono stati a lungo quelli riportati dal frontespizio del Breve trattato, dove l’economista appare come «dottor Antonio Serra di Cosenza». Il che potrebbe non voler dire molto: tutti i notabili dell’epoca si dichiaravano abitanti dei capoluoghi, sebbene fossero nati fuori dalle mura.
    Questo vale anche per Cosenza e i suoi casali (tra questi, appunto, Dipignano).
    Sulle origini di Serra c’è stata, in realtà, una lunga disputa: secondo alcuni (Gustavo Valente in particolare) l’economista era originario di Celico, secondo altri (è la tesi di Augusto Placanica) di Saracena. Mentre Davide Andreotti lo fa nascere a Cosenza. Ma prende una stecca clamorosa sul presunto anno di nascita: 1501.
    Fosse vera questa data, Serra avrebbe dovuto avere 112 anni di età nel 1613, quando era in galera e scriveva il Breve trattato.
    L’ipotesi di Dipignano è avallata dalla recente scoperta di un documento notarile del 1602, che parla di un Antonio Serra di Dipignano. E sarebbe confermata da un altro documento notarile, stavolta napoletano, del 1591, nel quale si parla di un Antonio Serra, dottore in Utroque e proprietario di un fondo e case a Dipignano.
    In questo caso, i conti tornano: nel 1591 Serra avrebbe avuto almeno vent’anni e nel 1612 aveva fatto quel po’ di carriera sufficiente a ficcarlo nei guai e a ispirargli il Breve trattato.

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    Pedro Fernàndez de Castro y Andrade, viceré di Napoli

    Un capolavoro dalla galera

    Con un certo amore per la retorica rivoluzionaria, Francesco Saverio Salfi provò a legare la vicenda umana di Antonio Serra a quella di Campanella, che negli stessi anni era finito nei guai per aver ideato un tentativo di “rivoluzione” in Calabria.
    In pratica, Serra sarebbe stato tra i congiurati e sarebbe finito in galera per questo.
    Ancora una volta, i documenti smentiscono l’ipotesi. Serra finì alla Vicaria, come ha ricostruito tra gli altri Luigi Amabile, perché sospettato di falso monetario. In altre parole, gli avrebbero trovato dei pezzi d’oro, probabilmente grezzo. Per questo reato, per cui all’epoca si poteva finire al patibolo, il carcere era il minimo.
    Serra dedicò il Breve trattato a Pedro Fernàndez de Castro y Andrade, viceré di Napoli, probabilmente per cacciarsi dai guai. Ma inutilmente. Riuscì, invece, a incontrare Pedro Téllez-Giron, il successore di Fernàndez nel 1617. Ma l’incontro si risolse in chiacchiere e Serra tornò in galera. Considerando l’età presumibile (forse sessant’anni) e la durata media della vita dell’epoca (poco sopra i cinquant’anni), tutto lascia pensare che l’economista sia morto alla Vicaria, anche se non si sa quando.

    L’economista Erik Reinert

    Antonio Serra: sfigato in vita, eroe da morto

    È una regola tutta italiana, ancor più meridionale: riconoscere la grandezza di qualcuno solo dopo la vita. Infatti, perché si prendesse sul serio Antonio Serra è dovuto passare un secolo dalla morte presunta.
    Oltre a Salfi, si accorse di Serra l’abate Ferdinando Galiani, altro grande pioniere dell’economia, che lo citò nel suo Della Moneta (1751),
    Poi altro silenzio, interrotto da Benedetto Croce, che non lesina elogi all’economista cosentino.
    Antonio Serra deve la sua seconda giovinezza a un big dell’economia contemporanea: il norvegese Erik Reinert, che lo cita come massima fonte d’ispirazione assieme al piemontese Giovanni Botero, coevo e forse coetaneo dello studioso calabrese.
    Questa rinascita del pensiero “serriano” ha un valore particolare, perché avviene all’interno di un filone di pensiero che si pone come alternativo all’attuale liberismo.
    Non è davvero poco, per un calabrese che ebbe il colpo di genio in galera.

     

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Gli auguri di Aprile al generale Galletta: esperienza e competenza riconosciute da tutti

    Gli auguri di Aprile al generale Galletta: esperienza e competenza riconosciute da tutti

    Il segretario nazionale del Sim Carabinieri, Antonio Aprile, ha inviato «con entusiasmo e orgoglio i suoi auguri» al nuovo vice comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, il generale di Corpo d’Armata Riccardo Galletta. «La nomina di Galletta – proposta personalmente dal ministro della Difesa Crosetto – è un riconoscimento straordinario che sottolinea la sua straordinaria carriera e le sue competenze senza pari». È quanto si legge in una nota stampa diramata dallo stesso Antonio Aprile.

    Riccardo Galletta, nuovo vice comandante generale dell’Arma dei Carabinieri

    Nel comunicato stampa del segretario nazionale del Sim Carabinieri si legge: «La sua esperienza e competenza, indiscutibili e ammirate da tutti, fanno ben sperare che il generale Galletta offrirà un contributo fondamentale nel suo nuovo ruolo lavorativo, portando l’Arma dei Carabinieri a nuove vette di eccellenza e efficacia. Il generale Galletta, persona di grande stima e rispetto, è ampiamente apprezzato da tutti i Carabinieri per la sua dedizione e il suo impegno instancabile verso il servizio pubblico e la sicurezza del Paese. È un punto di riferimento e un modello da seguire per tutti coloro che desiderano servire l’Arma con onore e professionalità. In questa nuova fase della sua illustre carriera, auspichiamo che il generale Galletta continui a superare traguardi sempre più significativi, dimostrando ancora una volta la sua indomabile passione e il suo impegno incrollabile per la tutela della legalità e del bene comune. Siamo fiduciosi che, grazie alla sua guida illuminata, l’Arma dei Carabinieri raggiungerà livelli di eccellenza ancora più elevati nei prossimi tempi».

  • Lavoro irregolare e cantieri a rischio: altra maglia nera per la Calabria

    Lavoro irregolare e cantieri a rischio: altra maglia nera per la Calabria

    Vigilanza 110 in sicurezza, controlli a tappeto in tutt’Italia.
    La Calabria tra cantieri e ditte ispezionate fa il pienone nelle irregolarità riscontrate dai carabinieri per conto dell’Ispettorato nazionale del lavoro.
    Infatti, su 15 cantieri edili controllati 15 presentavano problematiche e 21aziende su 22 sono risultate irregolari, per varie motivazioni.

    Carabinieri e ispettori del lavoro in azione

    Il 29 marzo scorso nell’ambito di Vigilanza 110 in sicurezza 2023, promossa e coordinata dall’Ispettorato nazionale del lavoro, si è svolta un’operazione straordinaria di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori e di contrasto al sommerso nell’edilizia, che ha interessato tutto il territorio nazionale, con la sola esclusione delle Province di Trento e Bolzano e della Regione Sicilia.
    Il 27 aprile sono usciti i dati provinciali.
    Un battaglione imponente di ispettori del lavoro (541 ordinari e 177 tecnici) e di carabinieri dei nuclei ispettorato del lavoro, supportati da militari dei vari comandi provinciali dell’Arma per un totale di 634 militari impiegati (di cui 350 del Comando per la tutela del lavoro ha gestito la megaispezione.
    Alle operazioni ha partecipato anche personale ispettivo di Asl, Inail e Inps.

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    I cantieri edili sono spesso luoghi-simbolo dello sfruttamento

    Tutti i numeri di Vigilanza 110

    Oltre l’80% dei 334 cantieri ispezionati è risultato irregolare, con un sequestro preventivo già convalidato; sono 166 i provvedimenti di sospensione delle attività d’impresa, di cui 110 per gravi violazioni in materia di sicurezza e 56 per lavoro nero. La verifica ha toccato 723 aziende e 1795 posizioni lavorative.
    Il tutto sotto il coordinamento dalla Direzione centrale per la tutela, la vigilanza e la sicurezza del lavoro dell’Ispettorato nazionale del lavoro.
    Ecco il bollettino, quasi bellico, degli accertamenti: 433 aziende irregolari; 349 posizioni lavorative irregolari; 116 lavoratori in nero, tra cui 29 lavoratori extra-Ue, (dei quali 17 senza permesso di soggiorno); 568 prescrizioni per violazioni in materia di sicurezza; 166 sospensioni dell’attività d’impresa; 289 persone deferite alla autorità giudiziaria in stato libertà per violazioni varie.

    Insicurezza e lavoro nero

    Le principali contestazioni riguardano il rischio di caduta dall’alto, le irregolarità dei ponteggi, il rischio elettrico, l’omessa fornitura e utilizzo dei Dpi (dispositivi di protezione individuale), l’organizzazione e viabilità inadeguata dei cantieri e la mancata protezione dalla caduta di materiali.
    Inoltre, risultano numerose le omissioni nella sorveglianza sanitaria dei lavoratori, nella formazione e informazione dei lavoratori, nella redazione del Dvr (documento valutazione rischi), del Pos (piano operativo di sicurezza) e del Pimus (piano di montaggio, uso e smontaggio dei ponteggi).
    L’attività ispettiva ha evidenziato una rilevante presenza di lavoratori in nero nei cantieri edili (116). Su questi gravano anche ipotesi di indebita percezione del reddito di cittadinanza.
    Risultano accertati, inoltre, casi di somministrazione illecita e distacchi non genuini, utilizzo di prestazioni lavorative da parte di pseudo artigiani, violazioni negli orari di lavoro, omessa registrazione di ore di lavoro e omissione contributiva e mancata iscrizione alla Cassa Edile (94 aziende non iscritte).

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    Lavoratori in protesta

    La peggiore è la Calabria

    La Calabria divide il podio negativo con la Campania: tutti i cantieri e le aziende edili ispezionati sono risultati irregolari per vari motivi.
    I carabinieri impegnati in Vigilanza 110 hanno setacciato 15 cantieri e 22 aziende scelti a campione.
    A Catanzaro hanno verificato 4 cantieri e 5 aziende, a Cosenza 4 cantieri e 9 aziende, a Crotone 1 cantiere e 1 azienda, a Reggio Calabria 5 cantieri e 6 aziende e a Vibo Valentia 1 cantiere e 1 azienda.
    Inoltre sulle 50 posizioni lavorative verificate in 11 casi si è proceduti alla sospensione per motivi legati alla sicurezza e alla mancanza di contratti lavorativi e in ben 44 casi (compresi i sospesi) sono state imposte prescrizioni e multe per mettersi in regola.

    Le multe milionarie di Vigilanza 110

    L’importo delle sanzioni amministrative e ammende già comminate in tutta Italia, a seguito dell’ispezione straordinaria del 29 marzo scorso, è pari a 3.038.828 euro. Prossimamente dati più completi e nuovi controlli e ispezioni sempre legati alla violazione delle norme nei cantieri edili e nelle aziende collegate, soprattutto in materia di sicurezza dei lavoratori.

  • RITRATTI DI SANGUE | Sangue, droga, veleni e impunità: la leggenda di Franco Muto

    RITRATTI DI SANGUE | Sangue, droga, veleni e impunità: la leggenda di Franco Muto

    Lo chiamano, da sempre, “il Re del pesce”. Già, perché spesso in Calabria l’affaccio sul mare non significa vocazione turistica. Vuol dire che le cosche del luogo sono capaci di sfruttare anche gli specchi d’acqua per fare affari. E di affari, Franco Muto ne avrebbe fatti molti.
    Muto è uno dei boss più longevi della ‘ndrangheta. A inizio anno ha lasciato il 41bis, dove era ristretto, per motivi di salute legati all’età: 82 anni suonati.

    Franco Muto da Cetraro

    Da Cetraro, il suo regno indiscusso della provincia di Cosenza, la cosca Muto, retta da Franco Muto per decenni, avrebbe controllato il settore turistico dell’area. Soprattutto il mercato ittico.
    Soldi che vanno e vengono, tra strutture ricettive e carichi di pesce, ma anche grazie al traffico di droga, che la cosca Muto sarebbe riuscita a controllare anche nell’area campana del Cilento.
    Forse proprio grazie a questa leadership, mai messa in discussione da nessuno, la cosca è riuscita a entrare nel gotha della ‘ndrangheta. Ed è rimasta sostanzialmente immune al già marginale fenomeno del pentitismo, da cui la ‘ndrangheta è sempre riuscita a difendersi meglio rispetto a mafia e camorra.

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    Franco Muto da giovane e in un’immagine più recente

    La leggenda del re del pesce

    Franco Muto è un boss leggendario. Un po’ perché è vissuto tanto a lungo da superare varie epoche. Un po’ perché le inchieste solo in parte hanno fatto luce sui suoi affari. Molto, in realtà, è rimasto avvolto nel mistero, nella leggenda, appunto. Dagli interessi nel campo della sanità (l’ospedale di Cetraro è, da sempre, considerato cosa sua) ai rapporti con i “colletti bianchi”: dalle forze dell’ordine alla magistratura. Tutto, come sempre, all’ombra dei cappucci della massoneria deviata.

    Un regno nato a colpi di pistola

    Come tutte le storie dei grandi clan di ’ndrangheta, anche quella della cosca Muto ha radici lontane nel tempo. Già negli anni ’70, infatti, quei territori sono teatro di conflitti armati in cui la famiglia Muto si distingue in termini criminali. Sono gli anni in cui la ’ndrina costruisce la propria egemonia.

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    Franco Pino e Franco Perna. boss rivali della Cosenza di quegli anni

    Alla fine degli anni ’70 la famiglia si schiera con i Pino-Sena in faida con i Perna-Pranno-Vitelli. Più o meno gli stessi anni in cui anche la provincia di Reggio Calabria è scossa dalla prima guerra di ’ndrangheta. E sono gli anni in cui le cosche si modernizzano e sostituiscono le proprie fonti di guadagno.
    Ovviamente, il cambio di gerarchie e di equilibri non può essere silenzioso e indolore. La faida tra i Pino-Sena e i Perna-Pranno-Vitelli termina solo alla fine degli anni ‘80 con un totale di ventisette morti ammazzati.

    Chi denuncia muore: il delitto Ferrami

    Come detto, le attività investigative solo in parte hanno tratteggiato la vera entità degli affari di Franco Muto e della sua cosca. Allo stesso modo, il “re del pesce”, sebbene coinvolto in diverse inchieste, è uscito spesso “pulito”. Su tutti, gli omicidi di Lucio Ferrami e Giannino Losardo.
    Il primo, nativo di Cremona, aveva spostato la propria attività imprenditoriale di ceramiche nel Cosentino. Per la precisione, nell’area che ricadeva, già tra la fine dei ’70 e l’inizio degli ’80, sotto l’influenza dei Muto. Proprio dagli ambienti malavitosi legati al “re del pesce”, Ferrami avrebbe ricevuto le richieste estorsive. Non solo tutte rispedite al mittente, ma anche con nomi e cognomi messi a verbale in denunce circostanziate.

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    Lucio Ferrami

    Ma quelli sono gli anni in cui nessuno parla, in cui una denuncia significa condanna a morte certa. E, infatti, il 27 ottobre del 1981 Ferrami rimane vittima di un agguato mentre rientra a casa in auto dal lavoro. La sua vettura e il suo corpo vengono crivellati di colpi e la moglie, Maria Avolio, si salva solo perché Ferrami le fa scudo con il corpo.
    Per il delitto di Lucio Ferrami, il boss Franco Muto, il figlio Luigi e quattro scagnozzi del clan che avrebbero materialmente effettuato l’agguato, saranno condannati in primo grado dalla Corte d’Assise, ma assolti in secondo grado, con la formula dubitativa, allora prevista dal Codice.

    Franco Muto e il caso Losardo

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    Giannino Losardo

    Grida (e forte) voglia di giustizia anche l’omicidio di Giannino Losardo, membro del Pci e segretario giudiziario della Procura di Paola.
    Losardo viene ucciso circa un anno e mezzo prima di Ferrami. Sindaco di Cetraro tra il 1975 e il 1976, Losardo cercò di contrastare lo strapotere della cosca Muto, che già in quel periodo imperversava.
    Poi, nel 1979, ricopre il delicato ruolo di assessore comunale ai Lavori pubblici. Proprio negli anni in cui la speculazione edilizia arricchisce le cosche un po’ dappertutto in Calabria.
    Nella zona di Cetraro, la cosca Muto vuole fare man bassa di concessioni edilizie, per sviluppare i propri affari sulla ricettività e sul mercato ittico.
    Losardo denuncia più volte in consiglio il malaffare e le connivenze di cui possono godere Franco Muto e i suoi.

    Proprio al rientro da un consiglio comunale due killer in motocicletta affiancano la sua 126 azzurra e lo colpiscono gravemente. È il 21 giugno 1980.
    Losardo muore poche ore dopo in ospedale, non prima di aver pronunciato l’ormai celebre, ma inquietante, frase: «Tutta Cetraro sa chi mi ha sparato». Forse per sottolineare che, però, nessuno avrebbe parlato. E, di conseguenza, nessuno avrebbe pagato.
    Anche per questo omicidio, Franco Muto sarà imputato come mandante. Mentre come esecutori finiranno alla sbarra Francesco Roveto, Franco Ruggiero, Antonio Pignataro e Leopoldo Pagano. Ma anche in questo processo Muto e i suoi saranno assolti.
    Il delitto Losardo è tuttora impunito.

    Franco Muto e la Cunski

    È lunga l’epopea criminale di Franco Muto. Il suo nome spunta anche nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Fonti.
    Uomo della ’ndrangheta di San Luca, Fonti si autoaccusa di traffici di rifiuti radioattivi e dell’affondamento di alcune carrette del mare al largo delle coste calabresi.
    Tra queste, parla anche della Cunski, la nave che sarebbe stata colata a picco al largo di Cetraro. Ovviamente con il placet e la complicità di Muto.
    Il caso scoppia tra il 2009 e il 2010. E la ricerca della verità va avanti, in quel periodo, grazie alla pervicacia dell’allora assessore regionale all’Ambiente Silvio Greco.

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    Il relitto della Cunski

    Fonti racconta di aver chiesto un aiuto logistico alla famiglia Muto nel 1993 al fine di affondare imbarcazioni cariche di rifiuti tossici o radioattivi affidati alla famiglia Romeo di San Luca da alcune società estere.
    Inoltre, Fonti racconta di aver fatto saltare in aria le navi, azionando un telecomando da un motoscafo a 300 metri dall’imbarcazione abbandonata in mezzo al mare. Il tutto sfruttando l’oscurità, già incombente dal pomeriggio, del mese di gennaio. In cambio dell’appoggio e dell’aiuto, la famiglia di Cetraro avrebbe ricevuto circa duecento milioni di lire.

    Molto rumore per nulla?

    L’affaire Cunski si sgonfia: l’allora ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, insieme ad altri soggetti istituzionali, chiude la vicenda. Quella al largo di Cetraro – sostiene la tesi del governo – non sarebbe la Cunski, ma un piroscafo, residuo della prima guerra mondiale. Un dato inoppugnabile è dato dal fatto che, in quelle settimane di caos, le vendite di pesce a Cetraro diminuiscono dell’80%, con diversi commercianti costretti a chiudere le proprie attività. Certo non una bella situazione per il “re del pesce” Franco Muto.

    Franco Muto torna libero

    Ma Franco Muto ha superato questo e altro. Dal febbraio scorso è anche uscito dal carcere, forse quando nemmeno se l’aspettava.
    Muto aveva subito una condanna definitiva a vent’anni di reclusione nel processo “Frontiera”, che aveva ricostruito diversi anni di affari criminali della ‘ndrina. Tra questi, lo sfruttamento delle attività economiche del luogo e il traffico di droga (cocaina, hashish e marijuana) sia nel Cosentino che nel Cilento.
    Ma, in ragione dell’età avanzata e delle precarie condizioni di salute, il magistrato di sorveglianza ha autorizzato l’uscita di Muto dal carcere di Tempio Pausania, dove era detenuto.

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    Il porto di Cetraro

    E così, dopo la sentenza definitiva sancita dalla Cassazione, ha potuto far ritorno nella sua Cetraro. Sua, senza le classiche virgolette.

  • Agostinelli e Gioia Tauro: a chi non piace il presidente del porto?

    Agostinelli e Gioia Tauro: a chi non piace il presidente del porto?

    La tenuta democratica della nostra regione si misura anche da quello che succederà dopo l’aggressione al presidente del porto di Gioia Tauro Andrea Agostinelli. L’ammiraglio è stato apostrofato e poi stretto al collo da due signori, sul traghetto fra Messina e Villa San Giovanni, nel pomeriggio del 25 aprile. Agostinelli è andato in ospedale, e poi ha denunciato tutto ai carabinieri.

    Prima commissario e poi presidente, con responsabilità in altri porti della Calabria, Agostinelli è una persona che non le manda a dire e che ha dimostrato ancora una volta di avere coraggio. Poteva non denunciare, poteva stare zitto e chiudere con il solito “chiarimento”. Su quel traghetto credo si sia sentito solo.

    Il porto di Gioia Tauro e i risultati di Agostinelli

    E quindi il tessuto democratico – la politica, i cittadini, l’informazionedeve fare sentire la sua voce in questa storia. Anche per i risultati che Agostinelli ha portato: Gioia Tauro è il primo porto italiano per movimento container, e questo non fa piacere ad altri scali del Nord. Compete con Algeciras, Pireo, è all’ottavo posto in Europa.
    Con un migliore collegamento ferroviario – che Agostinelli ha chiesto per anni e solo recentemente ottenuto – Gioia sarebbe ancora più forte. Con una Zes vera – e cioè non capannoni vuoti, anni di truffe – sarebbe il volano economico per tutta la Calabria.

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    Navi cariche di container nel porto di Gioia Tauro

    Se il porto di Gioia Tauro non è più noto solo per i sequestri di droga, se non viene più definito il porto della cocaina, se il terminalista Mct ha deciso di investire in strutture e occupazione, questo si deve anche a lui. Le ultime tre gru sono arrivate in febbraio dalla Cina, ogni gru vale 150 posti di lavoro.

    Trent’anni indietro

    A chi non piace Agostinelli? C’è una questione legale in corso, legata a un tragico incidente sul lavoro. Accusato di comportamento omissivo, dovrà subire un processo. È stato rinviato a giudizio, si difenderà. Nel frattempo ha tolto la concessione alla ditta che stava effettuando quei lavori. È questo il motivo dell’aggressione? Non lo sappiamo. Ma sappiamo che senza Agostinelli si torna indietro di trent’anni, al deserto e al deficit.