Tag: giustizia

  • Nicola Gratteri, la Procura di Napoli si avvicina

    Nicola Gratteri, la Procura di Napoli si avvicina

    Il suo mandato in Procura a Catanzaro è agli sgoccioli – scadrà, dopo 8 anni, nel 2024 – ma per Nicola Gratteri potrebbe presto arrivare una sede ancora più prestigiosa: Napoli. Alle pendici del Vesuvio, infatti, c’è da riempire la casella lasciata vuota dall’addio, circa un anno fa, del procuratore Giovanni Melillo. Melillo passò alla Direzione Nazionale Antimafia, posto per il quale molti vedevano in pole proprio il magistrato calabrese. Che restò, invece, al suo posto in attesa di nuove destinazioni.

    Nicola Gratteri favorito per la Procura di Napoli

    E ora la nuova meta per Nicola Gratteri dopo Catanzaro, si diceva, sarà probabilmente la Procura di Napoli. Nella riunione di stamane della quinta commissione a Palazzo dei Marescialli è il suo nome ad essere emerso come il candidato migliore per il posto che fu di Melillo. Non l’unico, si badi bene, come sempre in occasioni simili. Ma la maggioranza dei voti (4 su 6) del Csm, al momento, ha indicato Nicola Gratteri come futura guida di quello che è il più grande ufficio direttivo d’Italia e d’Europa con 112 pubblici ministeri in pianta organica e 99 in servizio, competente su un territorio di quasi un milione e mezzo di abitanti.

    Ora toccherà al Plenum, entro la fine del mese, stabilire su quale candidato puntare. Gratteri questa volta sembra presentarsi da favorito. Ma gli avversari da battere – Giuseppe Amato, procuratore capo di Bologna, e Francesco Curcio (Potenza) in particolare – non sono certo da sottovalutare. Così come Aldo Policastro (Benevento) e Rosa Volpe, che a Napoli coordina la Direzione distrettuale antimafia e ha fatto da facente funzioni dopo l’addio di Melillo per un anno. Nomi prestigiosi, che rendono impossibile azzardare previsioni.

    La risposta del Plenum dovrà arrivare entro la pausa di inizio agosto. Se nessuna delle candidature proposte raggiungerà la maggioranza assoluta (17 voti su 33), si andrà al ballottaggio tra i due più votati. Lì a fare la differenza, più che i rispettivi curricula, saranno le correnti della magistratura e il voto dei membri laici. E il successo di oggi potrebbe rivelarsi inutile per Gratteri.

  • Poca sanità e molti suicidi: il dramma delle galere calabresi

    Poca sanità e molti suicidi: il dramma delle galere calabresi

    Carceri calabresi: in pole position c’è l’emergenza sanitaria. Ma i guai non si fermano qui.
    Questo infatti è solo il dato principale del dossier 2023 (il settimo, per la precisione) del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Questo dossier è parte integrante della relazione al Parlamento.
    Il report nella parte relativa alla Calabria ha ad oggetto i primi cinque mesi di attività dell’ufficio calabrese, ricoperto dall’avvocato cosentino Luca Muglia a partire dal 25 ottobre scorso.

    Carceri calabresi: il quadro generale

    Sulla carta, non ci sarebbero motivi d’allarme, almeno non troppi: gli istituti penitenziari calabresi sono 12, inclusi l’Istituto penale minorile di Catanzaro e le due Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) e i detenuti non superano le 3mila unità.
    Tuttavia, l’ufficio regionale del Garante ha riscontrato alcune criticità evidenti da analizzare, affrontare e, si spera, risolvere.
    Nell’ordine il dossier segnala: «Le eccessive lacune della sanità in ambito penitenziario, le condizioni strutturali di alcuni Istituti, datati nel tempo e privi di manutenzione, l’inadeguatezza di molte camere detentive (alcune prive di doccia), la mancanza di offerte scolastiche o formative adeguate, l’assenza di progetti di inclusione stabili, la carenza di organici e di personale della Polizia penitenziaria e dei Funzionari giuridico-pedagogici, la scarsa presenza di mediatori linguistico-culturali».

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    Luca Muglia, il garante dei detenuti calabresi

    Carceri calabresi: l’analisi del Garante

    Le difficoltà per il Garante regionale sono da ricondurre a molteplici fattori.
    Alcuni sono interni all’Amministrazione penitenziaria, altri derivano dalla mancata o insufficiente cooperazione degli Enti locali. I detenuti, a loro volta lamentano problematiche riguardanti questioni processuali o necessità legate ai colloqui coi familiari, ai trasferimenti, al lavoro o alle cure mediche.
    Invece, quanto alle Rems, «le esperienze di Santa Sofia d’Epiro e di Girifalco appaiono valide. La prima, pur con limiti strutturali, ha consolidato buone prassi terapeutiche. La seconda, aperta nel 2022, è una struttura di assoluta eccellenza».

    L’appello del Garante

    L’11 novembre scorso, quindi a pochi giorni dal suo insediamento, il Garante calabrese dei detenuti ha firmato e condiviso l’appello sottoscritto da numerose personalità. Argomento: l’elevato numero di suicidi registrati nelle carceri il 2022.
    L’appello ha obiettivi precisi. «Ricorrere al carcere come extrema ratio, garantire spazi e contesti umani che rispettino la dignità e i diritti, moltiplicare le pene alternative, garantire al cittadino detenuto la possibilità di un reale percorso di inclusione».
    Tra i contenuti individuati dal Garante regionale nei primi mesi di lavoro, figurano:
    • difficoltà dell’esecuzione penale, la nuova disciplina delle pene sostitutive e delle misure alternative;
    • giustizia riparativa;
    • formazione professionale e l’inclusione sociale;
    • tutela nei procedimenti di limitazione della responsabilità genitoriale;
    • condizione delle donne detenute;
    • esigenze dei giovani dell’Istituto penale minorile.
    Si legge ancora nel dossier: «A tali fini sono state coinvolte tutte le amministrazioni interessate, da quella giudiziaria a quella penitenziaria, dagli organi amministrativi a quelli politici. Il Garante ha promosso, inoltre, un dialogo costante con il Dipartimento regionale di tutela della salute, l’Osservatorio sulla sanità penitenziaria e l’ufficio scolastico regionale volto alla risoluzione di problematiche specifiche. Ha attivato una importante interlocuzione con la Conferenza episcopale calabra, i Poli universitari penitenziari e l’associazione Antigone. Ottimo il rapporto di fattiva collaborazione instaurato con i garanti territoriali di Reggio Calabria, Crotone e Catanzaro».
    Il Garante regionale, infine, ha promosso una campagna di sensibilizzazione finalizzata al superamento dei pregiudizi culturali e delle etichette sociali che colpiscono i detenuti. Il tutto condito da uno slogan efficace: “Per un linguaggio non ostile dentro e fuori il carcere”.

    Uno sguardo ai migranti

    Il dossier termina con un passaggio sui Centri di accoglienza: «Il Garante regionale, su delega del Garante nazionale (in base alla normativa approvata nel 2020), ha effettuato pure una visita al Centro governativo di accoglienza di Sant’Anna, Isola Capo Rizzuto. La delegazione era composta anche da Elena Adamoli e Alessandro Albano (ufficio del Garante nazionale) e da Nicola Cocco (esperto del Garante nazionale). La visita aveva come focus originario la situazione dei minori stranieri non accompagnati (Msna) che fanno ingresso nel Centro e l’utilizzo della struttura quale hotspot. Gli elementi di osservazione acquisiti relativamente alle condizioni materiali dei luoghi ispezionati hanno imposto, tuttavia, una responsabilità di analisi complessiva a tutela della dignità e dei diritti fondamentali di tutti gli ospiti della struttura. L’esperienza congiunta è stata estremamente positiva, il rapporto è in corso di elaborazione».
    Il sistema carcerario in Calabria può e deve funzionare meglio. Si vedrà

  • Rende è ko: ora rischia anche la grande Cosenza

    Rende è ko: ora rischia anche la grande Cosenza

    Rende è commissariata. Ed è il caso di dire, senza troppi “forse”: finalmente.
    E non perché si ritiene lo scioglimento per mafia una salvezza. Al contrario, la città del Campagnano subirà quel che di solito subiscono i Comuni in situazioni simili: la paralisi.
    Tuttavia, lo scioglimento ha un pregio politico non proprio trascurabile: cala il sipario su un’esperienza amministrativa finita almeno da un anno, travolta dai problemi giudiziari personali dell’ex sindaco Marcello Manna e dalle inchieste, antimafia e non.
    Le quali hanno colpito non solo i vertici politici, ma hanno danneggiato in profondità anche l’amministrazione.
    I problemi non finiscono qui: Rende non è una città piccola né secondaria. E il suo scioglimento rischia di avere conseguenze oltre i confini municipali.
    Ma andiamo con ordine.

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    La Prefettura di Cosenza (foto C. Giuliani) – I Calabresi

    Scioglimento di Rende: come vola la notizia

    Il tam tam è iniziato dopo le 22 del 27 giugno: prima sono volati gli screenshot del sito del Ministero dell’Interno (o della Presidenza del Consiglio), via What’s App o social. A bomba, è arrivato qualche articolo, arronzato alla meno peggio o preimpostato come i “coccodrilli” più classici: segno che varie redazioni attendevano lo scioglimento.
    In realtà, l’annuncio è stato meno spettacolare è più mesto: un comunicato del governo affogato tra varie note, dedicate agli argomenti più disparati, tra cui le nuove regole del Codice stradale, l’abolizione di normative ottocentesche e un altro commissariamento, stavolta a Castellamare di Stabia. Anche questo è un segno: fuori dalla Calabria, Rende è una cittadina che pesa solo i suoi 35mila abitanti. In Calabria, le cose vanno altrimenti: silenzi imbarazzati dai vertici regionali, dichiarazioni più o meno di circostanza. Più qualche posa giustizialista e l’annuncio, fatto da quel che resta dell’attuale ex amministrazione, di un ricorso al Tar.
    Fin qui siamo negli atti dovuti e nelle ipotesi. Torniamo al presente.

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    L’ex sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    Il collasso della città unica

    C’è poco da essere garantisti sullo scioglimento per mafia. Questa procedura segue criteri di pubblica sicurezza, anche sganciati dagli esiti dei procedimenti giudiziari.
    Un esempio lampante è il recente scioglimento per mafia di Amantea, operato in assenza di inchieste della magistratura. Rende, oggetto di inchieste tuttora in corso ma non concluse, non fa eccezione, anzi.
    Finora hanno fatto tutti più o meno a gara a ricordare quell’autentico mostro, a metà tra il vespaio e il labirinto, che è Reset, l’operazione della Dda da cui è partito tutto.
    E qualcun altro, anche correttamente, ha raccontato che questa non è la prima volta che Rende è finita nel mirino di una commissione d’accesso. Oltre dodici anni fa era toccato alla vecchia guardia riformista. Ma Rende aveva evitato il commissariamento e il vecchio nucleo dirigente, che pure aveva passato qualche guaio, è uscito finora intero dalle attenzioni della Dda.
    Con Manna le cose cambiano: la città è sotto torchio e rischia di travolgere il processo politico-amministrativo predisposto dalla Regione, da cui dovrebbe nascere la Grande Cosenza. Vediamo come.

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    L’aula bunker di Lamezia, dove si svolge Reset

    Ordinaria amministrazione

    Sappiamo alcune cose. Innanzitutto, i nomi dei commissari che gestiranno Rende per i prossimi diciotto mesi: il prefetto a riposo Santi Gioffrè, la viceprefetta di Cosenza Rosa Correale e Michele Albertini, dirigente di seconda fascia della prefettura di Brindisi.
    Questa terna avrà due compiti: certificare la presenza mafiosa nel Comune di Rende e quindi metterla in condizioni di non nuocere; gestire l’ordinaria amministrazione.
    E qui casca l’asino.
    Riavvolgiamo il nastro: il disegno di legge regionale da cui dovrebbe derivare la fusione di Cosenza, Rende e Castrolibero in un Comune unico, prevede due passaggi e un termine finale.
    I passaggi, ricordiamo, sono: referendum consultivo tra i residenti delle tre città e gestione guidata da un commissario che dovrebbe portare la nuova città alle sue prime elezioni.
    La deadline è prevista a febbraio 2025. In pratica alla scadenza più o meno secca dei diciotto mesi di commissariamento di Rende.
    Andiamo di nuovo con ordine. Per il referendum consultivo, che dovrebbe tenersi a breve, non ci sarebbero troppi problemi: il voto sarebbe legato all’area urbana e non ai singoli municipi. Quindi la terna di commissari rendesi dovrebbe preoccuparsi, al massimo, dei seggi e della loro sicurezza.
    Il problema è lo step successivo.

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    La sede del Comune di Rende

    Scioglimento di Rende: mostri in arrivo

    Si è già detto: nel secondo passaggio, un commissario dovrebbe guidare i sindaci di Cosenza, Rende e Castrolibero alle elezioni della nuova città, dopo aver fuso gli uffici dei tre Comuni ed elaborato le linee guida urbanistiche, finanziarie e politiche.
    Per Cosenza e Castrolibero non ci sarebbero problemi perché, si scusi il bisticcio, ci sono i sindaci. Recalcitranti ma ci sono.
    Per Rende c’è il problemone: i commissari antimafia potrebbero gestire l’autoscioglimento di un Comune in un ente più grande?
    Quasi di sicuro no. Anzi, in tutto questo c’è una cosa certa: lo scioglimento totale di un Comune non è un atto di ordinaria amministrazione. Altrettanto sicuri sarebbero i mostri giuridici che uscirebbero da questa situazione.
    Primo mostro: la coesistenza tra due commissari, quello della città unica e quello antimafia, che dovrebbe sciogliere del tutto un Comune “inquinato”.
    Secondo mostro: la fusione tra un Comune sciolto per mafia, ancora in predissesto, e uno in dissesto spinto.

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi
    Sandro Principe, ex sindaco di Rende e leader dell’opposizione (foto Alfonso Bombini)

    La tempesta perfetta

    Si può far finta di non capire i problemi che nasceranno dall’attuale situazione di Rende e, quindi, si può andare avanti verso la città unica. Lo hanno fatto, ad esempio, alcune associazioni nel corso di un dibattito all’Unical.
    Le opposizioni di Rende, nel frattempo, vanno alla carica e accusano Manna: lo scioglimento è colpa sua, recitano varie note stampa, perché non si è dimesso.
    Su tutto, resta un rebus difficile da interpretare: lo scioglimento toglie dall’imbarazzo il Pd, che pure aveva sostenuto l’ex sindaco e forse riporta numeri nell’area riformista, che ha finora fatto opposizione in Consiglio comunale e si prepara a opporsi, praticamente da sola, al progetto di città unica.
    Rende non è l’unica città importante di Cosenza ad aver subito il commissariamento per mafia: prima di lei è toccato (come già detto) ad Amantea. Ma anche a Cassano e, prima ancora a Corigliano Calabro.
    Ma nessuno di questi centri ha il peso economico e culturale della città del Campagnano. Soprattutto, nessuno ha il suo ruolo geografico di tassello importante per la città unica. Che ora traballa vistosamente.
    La tempesta è alle porte. E i primi lampi fanno capire che non sarà un acquazzone estivo: si annuncia perfetta.

  • Rende sciolta per mafia: tornerà la fiducia dopo l’arroganza?

    Rende sciolta per mafia: tornerà la fiducia dopo l’arroganza?

    Lo scioglimento del Consiglio comunale di Rende per mafia è una pagina nera per uno dei municipi più importanti della Calabria.
    Rende, infatti, è sede universitaria e ha una popolazione composita e aperta anche per l’afflusso e lo stabilirsi di tanti studenti e docenti. In più, vanta un reddito medio tra i migliori della regione. Viste le dimensioni e la centralità culturale, economica e politica della città, lo scioglimento turba tutta la provincia di Cosenza e la Calabria.

    Rende e mafia: un’inutile caccia al colpevole

    Facile persino indicare le responsabilità dirette e indirette di questa situazione amara.
    Ciò che però ha colpito negli anni, soprattutto nei mesi scorsi, è stata la completa mancanza del senso del limite e del ridicolo negli attori politici coinvolti in questa faccenda.
    Davvero nessuno può dirsi esente da uno spregio continuo del comune senso del pudore. Di quel senso comune rappresentato dall’opinione pubblica, già nel Settecento definita come “tribunale” dei potenti.

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    La sede del Comune di Rende

    Mafia a Rende: un potere spregiudicato

    A Rende il potere ha agito senza la minima considerazione della grammatica istituzionale e politica democratica. La quale prevede un confronto costante con la società civile, con le sue rimostranze, le sue titubanze, le sue critiche.
    Paradossale che si siano sottratti a questo confronto, in primo luogo, una giunta e un sindaco che hanno oltrepassato gli steccati ideologici in nome di un civismo trasversale che ha messo insieme Forza Italia, Partito Democratico e altre forze di tutto l’arco costituzionale.
    Per rimanere all’ultimo anno (e mentre le inchieste e i provvedimenti giudiziari si susseguivano) si sono alternati, in nome di un malinteso garantismo, ben quattro sindaci. Negli ultimi mesi, il sindaco, più volte oggetto di provvedimenti, si è persino riproposto alla guida dell’Anci Calabria, a cui inopinatamente era stato indicato quale elemento non divisivo.

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi
    Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    Niente remore: governiamo e basta

    Nelle ultime settimane si sono dimessi consiglieri di maggioranza e sono cambiati assessori per arrivare all’approvazione di Psc e Bilancio. Insomma, nessuna remora nell’azione di potere, anche di fronte a una società civile esterrefatta per le continue notizie di abusi e delusa per il livello dei servizi amministrativi peggiorato negli anni.
    Insomma, il potere ha mostrato quell’arroganza che Alberto Sordi ha reso nel personaggio del Marchese del Grillo.
    Lo stesso dicasi per le forze politiche maggiori. Forza Italia, il cui capogruppo in Provincia è elemento di punta dell’amministrazione rendese, pare essersi dissolta rispetto alle dinamiche locali.
    Non una manifestazione per la città. Non una dichiarazione del pur assai loquace presidente regionale Occhiuto. Guardare dall’altra parte è stato evidentemente il mantra suggerito da qualche rubicondo spin doctor.

    Mafia a Rende: anche il Pd ha le sue colpe

    Il Pd regionale non è riuscito a nominare un commissario di un circolo il cui segretario è stato prima incompatibile e poi è finito ai domiciliari. Anche da questa parte, piuttosto, silenzio.
    Anzi, il segretario provinciale e il suo factotum, responsabile degli enti locali, hanno sfondato qualche limite quando hanno deciso di incontrare le stesse aree politiche di cui i loro ispiratori sono stati i principali carnefici: hanno cucito la coalizione civica ora sciolta per mafia e l’hanno fatta votare e sostenuta sino all’ultimo.
    Del resto, lo stesso segretario provinciale, in quanto reggente del circolo, è atteso dagli iscritti da mesi per un confronto che sveli come e perché i due candidati alla segreteria locale, assessori della giunta appena sciolta, sono stati sui decisi sostenitori.

    Ricucire la fiducia

    Insomma, anche le forze politiche nazionali hanno pensato che governare Rende fosse tutto e qualsiasi tentativo di lettura della società rendese uno sforzo inutile, persino dannoso. Il governismo si rivela ancora una volta malattia mortale per la credibilità della Politica.
    Della triste vicenda rendese si parlerà a lungo e diciotto mesi di commissariamento non basteranno a ricucire la fiducia tra Politica e Società.
    Tuttavia è necessario provarci, senza nostalgie ma con una presenza costante nei quartieri della città. Soprattutto, con una capacità di studiare e proporre soluzioni ai diversi problemi dei cittadini e una accanita volontà di dispiegare orizzonti di sviluppo. Dopo le pagine buie, la storia continua e, con impegno, si possono ancora scrivere capitoli interi di buon governo.

    Antonio Tursi

  • Pena e redenzione: miracolo nel carcere di Rossano

    Pena e redenzione: miracolo nel carcere di Rossano

    Ogni vicenda giudiziaria è fatta di storie umane, alcune più complesse di altre.
    La storia di F.A., un 49enne di origini pugliesi, è un caleidoscopio di avvenimenti contraddittori, che oscilla dalla tragedia alla redenzione. Il tutto nel carcere di Rossano.
    Questa storia la racconta una recente ordinanza della Cassazione, che ispira sensazioni contrastanti in chi l’approfondisce: riprovazione (e ribrezzo) per il crimine, compassione e solidarietà per la riabilitazione.
    L’uomo scontava a Brindisi un cumulo di pena per vari reati, (circa 20 anni di reclusione in tutto). Ma nell’ottobre del 2013 riceve in carcere un’ordinanza di custodia cautelare per omicidio aggravato dal metodo mafioso.

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    Il carcere di Rossano

    In carcere a Rossano per omicidio di mafia

    La Dda pugliese accusa F.A. di aver ucciso A.M. nella notte del 29 maggio del 1998. Il cadavere di quest’ultimo era stato trovato l’’8 ottobre dello stesso anno nelle campagne di Ostuni, nel Barese.
    La vittima era un affiliato al clan dei Mesagnesi della Sacra corona unita ed era considerato un confidente della polizia. Perciò, per le regole mafiose, era il classico morto che cammina.
    Proprio F.A. sarebbe stato incaricato di mettere a tacere la “gola profonda”.
    Per l’omicidio, il 49enne prende 30 anni di reclusione. E sin da subito è trasferito da Brindisi al carcere di massima sicurezza di Rossano: in attesa degli esiti processuali diventa un detenuto “speciale”, quindi non può più restare in cella con i detenuti comuni.

    La conversione nel carcere di Rossano

    Tuttavia, al 49enne accade in carcere qualcosa che lo cambia definitivamente, nonostante le pesanti condanne che nel frattempo vari tribunali gli comminano e la sua pesante storia personale. Forse è merito di un incontro col cappellano del carcere o di altri detenuti. O forse influiscono entrambe le cose. Fatto sta che F.A. prende la via della fede e cambia vita.
    Insieme a un ergastolano decide di riprendere gli studi. Nel 2017 si laurea all’Unical in Scienze del servizio sociale e sociologia presso l’aula Caldora. Ottiene 106 su 110, con una tesi su “La sfera pubblica: Il carcere come progetto sociale”. Alla cerimonia hanno partecipato i familiari, il cappellano della casa di reclusione di Rossano e alcuni esponenti dei Radicali italiani.
    Questa svolta personale offre speranza anche a tutte le persone che si trovano nella stessa condizione di F.A., passato oscuro incluso.carcere-rossano-si-cassazione-messa-ex-mafioso

    Il Tribunale di sorveglianza diffida: niente messa

    Nel 2022 F.A. chiede al Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro di poter seguire alcune funzioni in Chiesa per le feste più importanti, (Natale e di Pasqua), ma i giudici non gli concedono il beneficio.
    Il Tribunale ha rilevato la sussistenza di «sicuri indici di un percorso carcerario esemplare, posto che dalla relazione di sintesi del carcere emergeva la partecipazione alle attività trattamentali più varie, un serio percorso di istruzione, e una profonda revisione critica del proprio passato con adesione convinta ai principi religiosi cattolici».
    Inoltre, dalle note della Dda, della Polizia di Stato e della Guardia di finanza risulta «l’assenza di elementi successivi alla carcerazione, di tipo socio familiare, patrimoniale o giudiziario, sintomatici di un persistente legame con l’organizzazione criminale di appartenenza». Tuttavia, il Tribunale di Catanzaro nega il consenso affermando che tutto questo non basta a dimostrare «la recisione dei legami associativi e l’esistenza delle condizioni che escludano in radice la ripresa della relazione con il gruppo criminale».

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    La Cassazione dice sì

    A questo punto F.A. ricorre in Cassazione contro le decisioni del Tds e stavolta le cose vanno diversamente. Gli ermellini annullano l’ordinanza e rinviano gli atti a Catanzaro per una differente decisione.
    Per i giudici di Piazza Cavour i colleghi di Catanzaro hanno «compiuto un giudizio astratto e avulso dalla realtà».
    Certo, non ci può essere nessuna certezza matematica di una riabilitazione assoluta, ma le “prove” della rieducazione e del percorso personale del detenuto sono incontrovertibili. Quindi i requisiti per l’accettazione delle sue richieste ci sono tutti. Da queste premesse il giudizio finale è positivo: «Il giudice del rinvio, senza avere vincoli sul merito del giudizio, è tenuto a riesaminare la richiesta di parte, senza ripetere i censurati vizi della motivazione». Prossimamente F.A. potrà partecipare a funzioni religiose nella cattedrale Maria Santissima Achiropita di Rossano.
    Il principio alla base della scelta della Cassazione resta sempre l’articolo 27 comma 3 della Costituzione: «Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato». Il caso è chiuso.

  • MAFIOSFERA| Sibaritide e clan: il dito e la luna

    MAFIOSFERA| Sibaritide e clan: il dito e la luna

    Il 16 settembre 2020, tra imminenti nuovi lockdown per contenimento del Covid e la fine della prima estate pandemica, un tale Claudio Franco Cardamone, di Corigliano-Rossano, è a bordo di un’Audi A4 e sta per valicare i confini tedeschi. È in compagnia di un altro soggetto e insieme sono apparentemente diretti in Belgio. Le autorità del Polizeipraesidium di Francoforte sul Meno stanno seguendo l’autovettura e l’uomo della Sibaritide. Lo vedono entrare in un’abitazione di Hanau, in Germania. A quel civico sono ufficialmente residenti Carmelo Bellocco e Federica Viola, lui di Rosarno, lei di Palmi.

    Dalla Sibaritide alla Germania per il clan

    Claudio Franco Cardamone – conosciuto come Il Bello o anche Marine o Taccagno – è un astro emergente del narcotraffico sul territorio dell’alto Jonio cosentino. Lo arresteranno in seguito a ordinanza di custodia cautelare a firma della Direzione distrettuale Antimafia di Catanzaro i primi di giugno 2023, in un’indagine, Gentleman 2, contro il clan Abbruzzese-Forastefano di Cassano Jonio e i loro gruppi satelliti di Corigliano-Rossano, sempre nella Sibaritide. Secondo gli inquirenti, tra 26 persone coinvolte nell’ordinanza, ci sono individui che gestiscono la distribuzione di stupefacenti nell’alto Jonio cosentino; arriva dal Sudamerica ma passa per l’Europa per poi finire sul mercato a Cosenza, Vibo Valentia e anche Reggio Calabria.

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    Claudio Cardamone

    Cardamone è considerato il punto di riferimento del gruppo Abbruzzese-Forastefano in quanto riesce, si legge nell’ordinanza, a «intavolare trattative per l’importazione di partite di cocaina dal Sudamerica da destinare al mercato europeo e in particolare al territorio calabrese». Cardamone è dunque un broker locale. Lavora insieme a un altro soggetto Rosario Fuoco – detto Schmitt – anch’egli dell’entroterra cosentino, di Campana, che a Francoforte sul Meno gestisce la pizzeria Da Dino, appoggio logistico dei coriglianesi in visita d’affari in Germania. Entrambi sono «pienamente inseriti nel panorama del narcotraffico internazionale».

    Il narcotraffico al contrario

    In Operazione Gentleman 2, che segue appunto l’indagine Gentleman del 2015, sempre contro le cosche del territorio, ci sono una serie di spunti interessanti. Soprattutto, per capire il narcotraffico, per così dire, al contrario. Infatti, per soddisfare gli appetiti dei gruppi criminali della Sibaritide, lo stupefacente arriva non in Calabria – come spesso pure accade per mano di clan di ‘ndrangheta – ma in Germania, Belgio o Spagna. Dunque si muove al contrario, verso la Calabria e non dalla Calabria.

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    Navi cariche di container nel porto di Gioia Tauro

    Sembra infatti peculiare notare come questo sia in parziale controtendenza alle stime della DCSA (Direzione Centrale per i Servizi Antidroga) nell’ultima relazione del giugno 2023, per cui «a Gioia Tauro si concentra l’80,35% dei sequestri di cocaina effettuati alla frontiera marittima, con un’incidenza del 61,73% sul totale nazionale», nel 2022.
    Si tratta dunque di reti del narcotraffico che necessitano organizzazione diversa. La distribuzione e lo spaccio sono sì in Calabria, ma l’importazione avviene invece altrove.

    Germania d’appoggio e Sibaritide piazza per i clan

    Dunque, le quantità dello smercio e delle forniture sono diverse (10-20-50 kg si distribuiscono, ma molti di più se ne importano), le alleanze pure. Serve infatti collaborare con altri attori che importano, siano essi albanesi, italiani o spagnoli.
    Sono sicuramente chiari anche gli obiettivi del gruppo – il profitto, ovviamente – e la capacità di movimento. La Germania è luogo prediletto come “appoggio”, ma la Sibaritide è la piazza.

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    Angelo Caravetta

    Ci sono soggetti coinvolti in questa operazione che fanno emergere un po’ di domande in più a chi la analizza. Un esempio? Angelo Caravetta, che hanno arrestato in questa operazione e vanta esperienza decennale nel traffico di stupefacenti grazie anche a viaggi e collegamenti in Spagna. Tra il 2013 e il 2018 Carevetta è stato politico locale a Corigliano, eletto in consiglio comunale. Ci sono molte domande relative allo stato della democrazia in Calabria che arrivano sempre molto puntuali quando succedono queste cose.

    L’unione fa la forza

    Ma torniamo al viaggio del settembre 2020 perché ci aiuta a ragionare su un altro elemento di questa indagine e cioè l’esistenza di una squadra investigativa comune tra Italia, Germania, Spagna, Belgio, proprio per operare in modo più svelto e condividere le indagini in Europa, grazie al supporto di Eurojust ed Europol. Le squadre investigative comuni (Joint Investigative Teams, JITs) sono di gran lunga lo strumento che gli operatori del settore – analisti, poliziotti, magistrati – prediligono perché aiutano ad evitare i ritardi della burocrazia che naturalmente esiste quando bisogna condividere dati e materiali di indagine da paese a paese.

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    La sede di Eurojust

    Se indaga la polizia tedesca e condividerà poi gli elementi di indagine con la DDA di Catanzaro, è sicuramente molto meglio per tutti da un punto di vista di capacità di indagine e di gestione delle autorità del territorio. Lo si dice sempre, ma sta diventato sempre più ovvio anche nella pratica: l’unico modo per contrastare il narcotraffico europeo è la collaborazione. Non solo negli arresti, ma già dalle indagini. Perché qui di narcotraffico si tratta, anche se al contrario, verso la Calabria.

    Una ‘ndrangheta “non mafiosa”

    Quel viaggio di Cardamone in Germania nel settembre 2020 e la presenza di Carmelo Bellocco ci permettono di riflettere su un’altra cosa ancora. Bellocco ha vari precedenti penali ed è membro di uno dei casati principali della piana di Gioia Tauro. Eppure non ha rapporti costanti o diretti con i vari membri dell’organizzazione criminale sotto indagine in Gentleman 2. Anzi, si legge nell’ordinanza che «sebbene non si nutrano dubbi in ordine all’inserimento dell’indagato nel traffico internazionale di stupefacenti, non si reputano sussistenti sufficienti elementi per affermare che in detto contesto egli operi legato da vincoli con i ritenuti sodali».

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    Nicola Gratteri durante la conferenza stampa sull’operazione Gentleman 2

    Insomma, Bellocco, che è uno ‘ndranghetista in un circuito del narcotraffico di primo piano, non è coinvolto a tutto tondo nell’operazione. E che ci sia la ‘ndrangheta ma non le condotte tipiche di mafia, ex articolo 416-bis del Codice penale, risulta chiaro nel resto dell’ordinanza. Essa esclude la mafiosità dell’associazione e che i proventi illeciti siano confluiti in tutto o in parte nelle casse dell’associazione mafiosa.
    Si opera dunque – e non è affatto raro nelle operazioni del narcotraffico, soprattutto della distribuzione di stupefacenti – una differenziazione tra gli obiettivi di profitto, che sono comuni nel crimine organizzato, e quelli di potere, che sono comuni al crimine organizzato di natura mafiosa.

    Sibaritide: clan sì, ‘ndrina pure?

    Si pone qui sempre lo stesso problema interpretativo-analitico quando si parla di ‘ndrangheta fuori dai territori canonici (Reggio Calabria e dintorni, fino al confine con le province di Vibo e di Crotone per capirci). Che il clan Abbruzzese-Forastefano sia un’organizzazione di stampo mafioso della Sibaritide, ai sensi del codice penale, sembra abbastanza pacifico quanto meno nella giurisprudenza. Ma che venga chiamato ‘ndrina e dunque clan di ‘ndrangheta non è necessariamente accurato. A maggior ragione quando – come nel caso di Gentleman 2 – il clan non opera secondo modalità mafiose ma solo per logiche di profitto criminale.

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    Un panorama di Cassano

    La giustapposizione che si fa, sempre troppo facilmente e superficialmente, è tra organizzazione mafiosa in Calabria e ‘ndrangheta. Come se tutte le organizzazioni mafiose in Calabria fossero “attratte” dal marchio e dall’organizzazione della ‘ndrangheta di default solo perché stanno in Calabria.
    È certamente vero che esistono delle somiglianze tra gruppi del nord e del sud della regione,. Ma esistono anche importanti differenze – tra cui proprio le reti del narcotraffico, come evidenziato in questa sede – di cui sappiamo comunque troppo poco perché continuiamo ad applicare le “lenti” della ‘ndrangheta (e dunque certe aspettative che ne derivano). E così ci perdiamo i dettagli e le specificità dei gruppi nel contesto di riferimento.

    La legge del mercato

    Volendo togliere l’etichetta e le lenti di ‘ndrangheta agli Abbruzzese-Forastefano per un momento (senza per questo togliere loro quella di mafia, se e quando utile a comprenderne l’operato) e guardando poi ai loro traffici di stupefacenti, ci accorgiamo che il loro comportamento non è in linea con i comportamenti di ‘ndrangheta quanto più lo è con i comportamenti di altre organizzazioni criminali operanti nel mercato degli stupefacenti e che incidono sul territorio di riferimento in modo molto dannoso. I clan di ‘ndrangheta sono spesso importatori di cocaina, ma anche fornitori per altri gruppi (cioè la comprano e la rivendono all’ingrosso).

    Ma non tutti i clan (mafiosi e non) calabresi si comportano così o addirittura utilizzano la fornitura della ‘ndrangheta. Le scelte, nel mondo del narcotraffico sono dettate da logiche di mercato quanto da opportunismo. Le tendenze europee, confermate anche nella relazione 2023 della DCSA, mostrano infatti come per l’importazione e la distribuzione di stupefacenti, soprattutto cocaina ma anche altri narcotici, ci siano moltissimi attori criminali attivi a specializzazione crescente, di origine mista e soprattutto dalla natura nucleare operante tramite rete.

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    Nikolaos Liarakos, latitante greco in contatto con i Forastefano

    Non è un caso che tra i principali fornitori del gruppo Abbruzzese-Forastefano, e di Cardamone come suo broker, siano albanesi e greci, dominanti sia per le importazioni sia per la logistica. Grazie a questi fornitori e a individui in Messico e in Colombia che possono garantire i contatti con i cartelli della produzione e del narcotraffico dall’America Latina, il gruppo riesce a partecipare all’importazione (si badi bene, non a gestirla né a pilotarla) ad Anversa, in Belgio, o a Rotterdam, in Olanda, per poi spostare lo stupefacente a Francoforte, tramite ‘amici’ calabresi, alcuni anche di “ndrangheta classica” (Bellocco ad esempio), e infine in Calabria per la vendita.

    Sibaritide e clan: si guarda il dito e non la luna

    Operazioni come quella qui in esame ci ricordano che spesso, nel guardare alle notizie, si rischia la proverbiale confusione tra il dito e la luna. Sappiamo tutti della internazionalizzazione della ‘ndrangheta e della capacità dei clan di ‘ndrangheta di operare a diverse latitudini spostando stupefacente per mezzo mondo, spesso (non sempre) passando dal porto di Gioia Tauro, porta del Mediterraneo e dell’Europa. Sappiamo molto meno della situazione in cui versano parti della Calabria dove i gruppi criminali coinvolti nel narcotraffico possono rispondere a diverse logiche e diverse reti e di conseguenza avere almeno la possibilità, se non la capacità, di operare in modo controintuitivo rispetto al resto della regione a matrice ‘ndranghetista.spacciatore-spaccio-droga-2-2

    Questo è il dito. La luna, invece, sta come sempre in quello che si vede meno, e cioè il mercato dei consumi in Calabria. Tutta questa cocaina, tutta l’eroina, destinata alla Sibaritide, chi la consuma? Ci si indigna molto quando gli ‘ndranghetisti spostano tonnellate di cocaina da Gioia Tauro al resto d’Italia e del mondo. Ma quando gruppi locali la cocaina o l’eroina la portano a casa propria, che impatto può avere questo consumo sul tessuto sociale di riferimento, quello stesso tessuto di cui le organizzazioni criminali poi si nutrono? Ma sulla luna dovremo interrogarci in un altro momento.

  • Coca a fiumi a Gioia Tauro: ‘ndrangheta sul podio del narcotraffico

    Coca a fiumi a Gioia Tauro: ‘ndrangheta sul podio del narcotraffico

    ’Ndrangheta spa torna sul podio. E riconquista lo scettro di organizzazione criminale top nel traffico di stupefacenti, cocaina e marijuana in particolare.
    Infatti, la maggior parte dei sequestri di “neve” ed “erba” del 2022 è avvenuta nel porto di Gioia Tauro, tornato anch’esso ai vecchi “allori”.
    Questo dopo un paio di anni di delocalizzazione nei porti di Livorno, La Spezia, Genova, e del litorale laziale.
    Sono i primi risultati del corposo dossier annuale della Dcsa (Direzione centrale servizi antidroga) del Viminale. Il dossier attesta la ripresa del narcotraffico ai livelli pre pandemia, con particolare incremento della cocaina.

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    Un cane antidroga della Guardia di finanza

    Il narcotraffico dopo il Covid

    Il progressivo rientro alla normalità e il sostanziale superamento dei limiti alla mobilità di persone e merci ha riattivato i business mafiosi. Cala il numero delle tonnellate totali sequestrate dalle forze dell’ordine tranne per la cocaina.
    Si legge infatti nel report: «Il volume totale dei sequestri di droga è passato dalle 92,79 tonnellate, rinvenute nel 2021, alle 75,01 tonnellate del 2022, con un decremento percentuale del 19,17%; si può osservare, però, nei risultati, suddivisi per tipo di sostanza, una sensibile crescita dei sequestri di cocaina. Il risultato complessivo, comunque, è il sesto più alto nella serie decennale; se si esclude il quinquennio 2014-2018 e lo scorso 2021, periodi segnati da particolari e contingenti elementi di caratterizzazione, non era mai stato raggiunto un livello di sequestri così consistente, negli ultimi 40 anni».

    ’Ndrangheta Über Alles

    Sulla leadership delle ’ndrine non ci sono dubbi. Infatti, prosegue il dossier: «In questo complesso scenario, si rafforza il ruolo egemone della ‘ndrangheta calabrese, che continua a rappresentare l’organizzazione mafiosa italiana più insidiosa e pervasiva, caratterizzata da una pronunciata tendenza all’espansione sia su scala nazionale che internazionale ed una delle più potenti e pericolose organizzazioni criminali al mondo».
    Grazie alla presenza di propri esponenti e broker operativi nei luoghi di produzione e di stoccaggio temporaneo delle droghe, la mafia calabrese è l’organizzazione più influente nel traffico della cocaina sudamericana.
    La disponibilità di ingenti capitali illeciti e una spiccata capacità di gestione dei diversi segmenti del traffico le hanno permesso, nel tempo, di consolidare un ruolo rilevante nel narcotraffico internazionale.

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    I sequestri di droga regione per regione secondo la Dcsa

    Calabria e droga: un primato in cifre

    Consideriamo le quantità sequestrate e rapportiamole sulle macroaree. Nel 2022, Sud e Isole sono in testa con il 56,87% del totale. Seguono il Nord con il 25,88% e il Centro con il 17,25%.
    La Calabria, con 19.459,72 kg di droga, emerge in assoluto nel Paese. Ciò grazie ai sequestri di cocaina a Gioia Tauro per 16.110,38 kg. Subito dopo, in classifica, Sardegna, Lazio, Lombardia, Campania, Emilia Romagna, Liguria e Toscana.
    Per quel che riguarda le macroaree, i sequestri di cocaina risultano distribuiti per il 69,99% al Sud e Isole, per il 16,20% al Centro e per il 13,81% al Nord. Le regioni in cui si è sequestrata più coca sono Calabria, Lazio, Campania, Liguria, Friuli, Toscana, Veneto, e Lombardia.
    La frontiera marittima, con 20.050,38 kg, si conferma lo scenario operativo caratterizzato dai maggiori sequestri. In questo caso, il decremento dell’incidenza rispetto al totale degli ambiti frontalieri è minimo: dal 98,88% del 2021 al 98,15% del 2022. Vince Gioia Tauro, che incide per l’80,35% (16.110,38 kg). Lo seguono a distanza Civitavecchia (1.187,19 kg) e Trieste (730 kg).

    Goia Tauro: il porto della droga in Calabria

    Il porto di Gioia Tauro appare ben 260 volte nel dossier annuale della Dcsa del Viminale. Nella parte finale del rapporto c’è un capitolo a parte tra i grandi approdi marittimi internazionali che ne parla diffusamente.
    A Gioia Tauro, nel 2022 è stata sequestrata la più alta quantità di cocaina, 16.110,38 kg, pari all’80,35% dei quantitativi rinvenuti presso la frontiera marittima (20.050,38), al 78,86% del totale della cocaina rinvenuta presso tutte le frontiere (20.429,31 kg) e al 61,73% della coca sequestrata a livello nazionale (26.099,36 kg). Seguono i porti di Civitavecchia (1.187,19 kg) e di Trieste (730 kg). Lo stesso andamento si osserva anche negli anni precedenti.
    nel porto di Gioia Tauro. Nel 2020, su 10.479 kg di cocaina sequestrati alla frontiera marittima, 6.186 kg sono stati rinvenuti a Gioia Tauro (pari al 59%).

    Le banchine del porto di Gioia Tauro

    Sniffare in Calabria

    Se si analizzano i dati in possesso della Direzione, a partire dal 2017, il porto di Gioia Tauro è quello in cui sono stati sequestrati i maggiori quantitativi di cocaina, fatta eccezione per il 2018 e 2019 (anni in cui viene superato, rispettivamente, dal Porto di Livorno e Genova nel 2018 e dal solo Porto di Genova nel 2019). Nel 2022, è confermato il trend che, negli ultimi 5 anni, evidenzia una crescita costante dei quantitativi di cocaina sequestrati nel porto di Gioia Tauro (si passa dai 217,78 kg del 2018 ai 16.110,38 kg del 2022). La coca arriva in Calabria soprattutto da Ecuador e Brasile. Sono dati chiari, da analizzare a fondo, insieme a tutta l’altra enorme mole del dettagliato report governativo. La cocaina torna in Calabria.

  • GENTE IN ASPROMONTE | Quarant’anni di guerra ai bracconieri

    GENTE IN ASPROMONTE | Quarant’anni di guerra ai bracconieri

    «Ancora, a distanza di anni, non capisco come si potesse sparare dalle terrazze e dai balconi della città migliaia di colpi contro i falchi pecchiaioli e di come non venisse attivato un servizio di garanzia dell’ordine pubblico. Questura e Prefettura dov’erano?».
    Quegli spari stridevano con ciò che Nino Morabito, dirigente di Legambiente e ambientalista reggino di lungo corso chiama «il silenzio che regnava sovrano». Nino ha tanto contribuito ad abbattere del 99% il fenomeno della caccia illegale dei cosiddetti adorni durante la migrazione riproduttiva.

    È uno dei partecipanti all’uscita verso Pietra Cappa, che racconterò nella prossima puntata, ed è un ex consigliere dell’Ente Parco nazionale dell’Aspromonte. Non ha mezzi termini sulle condizioni della media valle e della montagna: «Vedo, a dispetto degli obblighi di legge, intere aree prive dei controlli minimi, in piena zona A (tutela integrale, ndr.). Cose che, con le opportune scelte del caso, l’accesso culturale, col supporto delle guide, sarebbe sacrosanta. Ancor oggi comanda lo scempio del pascolo abbandonato, delle stalle abusive e delle attività illegali che dovrebbe essere punito e represso».

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    Cacciatori (regolari) all’opera in Aspromonte

    Rapaci migratori: dallo Stretto all’Aspromonte

    La storia di oggi riguarda lui e il movimento creato a tutela dei rapaci che ogni anno, a primavera, passano dallo Stretto di Messina sorvolando l’Aspromonte per dirigersi a nord fino in Scandinavia e a est, in Europa centro-orientale, sulla rotta del Conero e delle Prealpi orientali. Questa storia ha radici antiche ed è figlia degli anni Ottanta, quando Reggio somigliava più a Beirut che a una qualsiasi città italiana.
    Sono gli anni della guerra di mafia, della passeggiata del Lungomare Falcomatà ancora inesistente, dei soldi facili, dell’eccesso. A Reggio in primavera si spara. Anche in piena città. Dalle terrazze e dai balconi.

    Migliaia di rapaci transitano per la riproduzione da sud a nord con picchi di passaggio di migliaia di esemplari selvatici tra il 20 aprile e il 20 maggio di ogni anno. La migrazione è da sempre un momento critico nella loro vita: c’è un alto rischio di morte che per alcune specie supera anche il 50% della loro popolazione.
    Siamo negli anni Ottanta e «sul solo versante calabrese ci sono dalle 13mila alle 15mila persone che sparano».

    Lo stretto di Messina, insieme al Canale di Sicilia, al Bosforo e allo Stretto di Gibilterra, è uno dei crocevia nella migrazione dei rapaci sull’asse Nord-Sud/Sud-Nord.
    Questo perché «per oltrepassare il Mediterraneo senza disperdere troppe energie necessarie per il lungo viaggio, i rapaci – che oltretutto non sono uccelli acquatici e non possiedono il piumaggio reso impermeabile da secrezioni di apposite ghiandole – devono attraversare il mare utilizzando i corridoi più stretti per sfruttare le correnti ascensionali favorite dalla presenza non della superficie omogenea dell’acqua, ma dalla diversità della terra sottostante», racconta Nino.

    «Il fenomeno è facilmente osservabile nel «territorio che va da Pellaro a Palmi a seconda delle condizioni meteo. A meno che non subentrino venti intensi sul canale di Sicilia dai quadranti di Sud e Sud-Est particolarmente proibitivi per attraversare 150-200 km di mare per i rapaci. Questo li costringe ad attendere anche diversi giorni consecutivi nel versante tunisino e libico senza lasciare la costa, in attesa del momento giusto per partire», chiarisce Nino.

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    Nino Morabito

    Reggio città occupata

    Negli anni Ottanta Reggio è un territorio in emergenza e lo resterà per buona parte dei Novanta. Faide e attentati spingono lo Stato a mandare contingenti di bersaglieri a presidiare una città che appare fuori controllo.
    La caccia illegale all’adorno è un fenomeno più che diffuso. «Era una consuetudine delle vecchie generazioni legata alla tradizione delle cacce primaverili rese illegali dopo il 1977, dato che era biologicamente errato cacciare la fauna selvatica che si spostava per riprodursi. C’era poi una componente simbolica legata a forme di goliardia e competizione così come di iniziazione maschile, che sconfinava fino a veri e propri atti di dominio sul territorio. Non è un caso che una buona percentuale dei fermati negli anni, sparasse con un’arma con la matricola abrasa».

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    Rapaci in Aspromonte (foto di Peter Horne)

    «Tutto questo non doveva per forza significare che i soggetti in questione fossero propriamente malavitosi, ma che si aggirassero in certi coni d’ombra di confine, questo sì. Più in generale mi sono accorto che vigeva una sorta di impercettibilità di una pratica che, pur illegale, veniva considerata come qualcosa a cui proprio non si poteva rinunciare. Mentre le forze dell’ordine restavano immobili», aggiunge Nino.

    Inizia la battaglia per i rapaci

    Quella che sarebbe diventata la battaglia di Nino inizia in Sicilia nel 1984 con le denunce dell’appena quindicenne Anna Giordano, determinata figlia dell’allora direttore del Cnr di Messina. Parliamo di una giovane appartenente a una famiglia di cultura elevata che ha sostenuto le sue scelte.
    Anna, assieme a un’altra ragazzina poco più piccola, Deborah Ricciardi, denuncia lo sterminio di rapaci e comincia a lottare. Il 1984 è l’anno in cui si svolge il primo campo di attivisti per il monitoraggio e la tutela della migrazione dei rapaci, dove è presente anche la Lipu cui Anna, assieme ad altri attivisti siciliani, ha aderito. Contemporaneamente sul versante calabrese, si formano i primi gruppi con le stesse procedure: adesione alla Lipu e organizzazione dei primi presidi che sfociano nel primo campo calabrese. Siamo nel 1985.

    Attivisti in azione contro i bracconieri

    La caccia illegale di rapaci in Aspromonte

    La caccia illegale di rapaci è un fenomeno complesso fatto di dimensioni diverse e intersecate che permeano le comunità: sociale, economica, culturale. Nino mi racconta che «durante la migrazione di ritorno, tra agosto e settembre, i rapaci tengono quota e possono essere scorti solo dall’Aspromonte. Invece in primavera, all’andata, gli uccelli perdono quota nell’attraversare lo Stretto».

    «I rapaci passano a migliaia e puoi vederli vicinissimi, anche a sei o sette metri di distanza, specialmente da Archi, Gallico, Catona e Campo Calabro. Sono facili prede. In passato, tra retaggi culturali, simbologie, goliardia, il fenomeno, almeno all’inizio, generava un’economia di scala. Le migliaia di tiratori affittavano postazioni di tiro, compravano colazioni, avevano disposizione rudimentali laboratori di tassidermia abusiva, spesso nel retro delle stesse armerie che vendevano loro fucili e cartucce». «Inoltre si era sviluppata un’economia indiretta di accompagnamento perché molti dei borghi e delle frazioni in cui si svolgeva la caccia allestivano veri e propri eventi finali con tanto di teatrini e feste di paese dove si celebrava il migliore e si dileggiava il peggior cacciatore», prosegue Nino.

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    Un volontario inglese antibracconaggio

    I feroci bracconieri degli anni Ottanta

    Negli anni Ottanta «la tensione era altissima: insulti e aggressioni verbali e fisiche erano all’ordine del giorno. Battevamo a macchina i comunicati stampa e li inviavamo via fax. Il Corpo forestale dello Stato raccoglieva personale da diverse parti d’Italia e lo convogliava in Calabria. La resistenza sociale era diffusa e si respirava un clima di guerriglia. Anche noi, come altri attivisti, ci siamo ritrovati le automobili distrutte a bastonate».
    L’impegno di Nino inizia durante la sua formazione universitaria a Parma, ateneo allora noto per nomi di altissimo profilo legati all’etologia: Danilo Mainardi, più conosciuto come divulgatore di Quark, ma anche Sandro Lovari per gli ungulati, Sergio Frugis per l’ornitologia, Gandolfi per l’ittiologia.

    «Coinvolsi alcuni colleghi a venire a darci una mano e, tra chi aderì, ci fu il figlio di un senatore democristiano che avrebbe poi dovuto proseguire la propria ricerca naturalistica in Africa. Durante un’uscita del nostro gruppo sopra l’acquedotto di Gallico, un gruppo di sei o sette bracconieri, raggiunti i volontari, distrusse la loro auto a colpi di pietre e bastone. Ogni giorno gli elicotteri scortavano le pattuglie che smontavano e dovevano fare rientro al quartier generale della Forestale allestito a Gambarie. Fino al 1995 le forze dell’ordine avevano l’ordine di presentarsi in assetto antisommossa: casco, giubbotto antiproiettile, mitraglietta. Quell’episodio ha cambiato la percezione del problema e del rischio», spiega il dirigente di Legambiente.

    Stormo di uccelli migratori

    L’attentato di Gambarie contro la Forestale

    Nino si riferisce all’attentato a colpi di lupara diretto contro la camionetta dei forestali, nel quale uno degli agenti, colpito alla gola, ha perso l’uso delle corde vocali e ha rischiato la vita.
    «Prima dell’88 eravamo assediati. Facevamo osservazione e monitoraggio in zona Santa Trada con decine e decine di persone che ci insultavano, mentre annotavamo numeri e passaggi: “Scrivilu, curnutu! 10 falchi… scrivattillu, sifiliticu!”. Noi eravamo lì a preservare il territorio e i bracconieri, che ci consideravano un corpo estraneo, ci sfidavano, ci osservavano, come facevamo noi, e studiavano le nostre mosse. Dopo aver pernottato in una struttura a Catona ed esserci ritrovate le auto distrutte abbiamo cambiato strategia: le macchine le affittavamo e ci spostammo a dormire a Lazzaro. Io facevo questa vita un mese e mezzo all’anno. Senza il nostro pungolo non ci sarebbe stata la reazione del territorio e delle Istituzioni».

    Mi racconta la sua versione Stefania Davani, attivista romana che incontro un pomeriggio di metà maggio trascorso sulla media valle del Reggino per assistere al passaggio dei migratori.
    «Ricordo benissimo quel periodo. La tensione, la paura, gli assalti». Erano gli anni del monitoraggio strutturato, dei gruppi vasti divisi in diverse postazioni di osservazione da nord a sud dello Stretto. «Durante uno di questi scontri con i cacciatori un gruppo di attivisti stranieri inseguiti fino in spiaggia, fu costretto sotto una sassaiola a gettarsi in mare con i vestiti addosso e uno di loro rischiò di annegare», spiega Stefania.

    Una migrazione sullo Stretto

    Gli stranieri contro i cacciatori

    Gli stranieri sono l’altra parte di questa storia. Stefania è sposata con uno di loro, l’inglese Peter Horne, che viene da anni in Calabria per monitorare i rapaci.
    «Mi occupavo già di tutela dell’avifauna in Gran Bretagna. Con mia moglie abbiamo questa comune passione. I primi anni qui sono stati terribili, Oggi, rispetto all’inizio, gli attacchi a Reggio e in Sicilia sono molto diminuiti. Questo è frutto di un lavoro congiunto fatto da attivisti e Carabinieri forestali. I rapaci non sono dei calabresi, dei siciliani, dei tedeschi o degli inglesi. Sono un patrimonio comune, europeo e mondiale, da difendere tutti insieme. Anche loro rappresentano il nostro futuro».

    Gli attivisti stranieri sono il grimaldello che Nino ha usato per piegare il bracconaggio: «Avevamo contattato organizzazioni amiche e gruppi di attivisti stranieri sensibili al tema. Li abbiamo di quanto stavamo facendo e gli abbiamo chiesto aiuto. Loro avevano aderito e le strutture competenti dei loro Paesi di provenienza avevano comunicato alle rispettive ambasciate che cittadini inglesi, tedeschi, svedesi, ecc. si stavano recando a Reggio Calabria per fare attivismo. Le stesse ambasciate avvisavano le autorità italiane che i loro cittadini potevano trovarsi in situazioni di rischio. Lo Stato fu chiamato a intervenire. Fu questa strategia l’arma bianca che ci fece ottenere una vittoria impensabile».

    Gli anni Novanta

    Le aggressioni fisiche sono proseguite anche negli anni Novanta.
    «C’erano ancora zone impraticabili e rischiose, tipo Rosalì o Calanna. Eppure, qualcosa cambiava. Lo Stato si muoveva, c’erano maggiore sensibilizzazione e consapevolezza, i rapaci erano protetti dal 1972, l’Unione Europea era intervenuta nel 1979 con la Direttiva Uccelli e l’Italia aveva promulgato la relativa ultima legge confermativa 157/1992».
    «Il dibattito pubblico nazionale e internazionale su questi temi si era imposto, il contrasto tramite fermi di polizia e sanzioni era serrato. Il risultato fu che, dopo i primi anni ’90, la partecipazione alle cacce diminuì. Molti che sparavano senza capire bene i rischi di varia natura (ordine pubblico, minaccia alla biodiversità, illegalità, sanzioni) si erano improvvisamente svegliati dal loro torpore e avevano preso coscienza».

    A colpi di arresti e di interrogazioni parlamentari la situazione si è normalizzata: «La normativa europea ci ha molto aiutato. I maggiori controlli e pressione, il monitoraggio e il lavoro degli attivisti hanno permesso grandi risultati. E, una volta diminuiti i tiratori, abbiamo cominciato a muoverci più agevolmente. In pochi anni il 50% dei bracconieri ha smesso di sparare».

    Tra gli episodi assurdi che Nino ricorda due in particolare rendono la consistenza del fenomeno. Innanzitutto, i mandati di consigliere comunale e regionale svolti dall’avvocato Francesco Tavilla dal ’95 al 2000 «con il solo proclama “viva la caccia agli adorni”», già ampiamente vietata. Poi l’interrogazione parlamentare «a seguito del decesso per infarto di un tiratore su una terrazza di Reggio Calabria, provocato – a dire degli onorevoli – dallo spavento per il sorvolo di un elicottero della Forestale».

    Attivisti di Legambiente

    La situazione oggi

    «Oggi rimangono un centinaio di irriducibili, comprese le aree interne (Solano, Villa Mesa, Calanna). Il fenomeno è stato abbattuto del 99%».
    I risultati sono eloquenti: «Il falco pecchiaiolo è ricresciuto in maniera significativa; sono tornate le cicogne, che erano quasi scomparse e hanno ricominciato a nidificare. Lo stesso dicasi per i falchi di palude, i grillai, le albanelle minori, il cuculo, il lodolaio», mi racconta Nino.

    La guerra però non è vinta: «Il bracconaggio è abbattuto ma cova sottotraccia. Bisogna tenere alto il controllo. Dato che il fenomeno è contratto, siamo organizzati in modo diverso: operiamo in modo dinamico e con azioni veloci. Raccogliamo indizi in diverse aree per fornire il quadro più completo possibile alle forze dell’ordine».
    Gli episodi ci sono ancora: «Quello beccato l’anno scorso era uscito dalla galera da sei mesi dove era finito per associazione mafiosa». La battaglia è importante perché colpisce i simboli, «toglie finestre di espressione con cui si può pretendere e presupporre che l’illegalità vinca. Non ha più un valore economico, ma sociale. È come le vacche sacre: un simbolo potente da debellare», chiarisce Nino.

    Uccelli migratori nel tramonto

    Una battaglia di civiltà tra ambiente, legalità e turismo

    Un valore sociale che fiorisce nelle mani delle nuove generazioni. Secondo Peter «c’è un fattore culturale legato all’avvicendarsi delle nuove generazioni: loro hanno ben chiaro che il mondo ha risorse limitate e che quello che abbiamo va salvaguardato». Ancor di più oggi, davanti agli stravolgimenti climatici, alle alluvioni e alle siccità ampiamente documentate.
    Il birdwatching e il monitoraggio dell’avifauna sono un presidio di legalità ed educazione per un intero territorio. Già: dimostrare che lo Stato pone un argine ai fenomeni illegali è un segnale importantissimo per territori come il nostro. Rappresenta la speranza di una comunità che non deve arrendersi. Un comparto su cui costruire nuovi percorsi turistici dedicati a un spettacolo visibile in pochissime aree al mondo, in cui lo Stretto e l’Aspromonte dominano.

  • MAFIOSFERA | Grosso affare a Chinandrangheta

    MAFIOSFERA | Grosso affare a Chinandrangheta

    Servono all’incirca 240mila euro per finanziare dall’Italia – dalla Calabria – un acquisto di cocaina pura di poco più di 30 kg. Un chilo costa all’incirca 7.200 euro ma la cifra raccolta deve coprire anche le spese di conversione, cioè un 17-18% che un’organizzazione al servizio degli importatori si prende per trasformare quei 240mila euro in 240mila dollari, e “spostarli” in Brasile.

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    Droga sequestrata nel corso dell’operazione Aspromonte emiliano

    Chinandrangheta

    L’operazione Aspromonte-Emiliano della distrettuale antimafia di Bologna di fine maggio 2023 ha confermato e sviluppato il filone di indagini già presentato durante operazione Eureka all’inizio del mese, sulle relazioni tra criminalità organizzata come la ‘ndrangheta e organizzazioni di soggetti di nazionalità cinese in Italia specializzati proprio in questo servizio di riciclaggio e spostamento internazionale del denaro legato al traffico di stupefacenti.

    Nell’indagine bolognese le Guardia di Finanza conferma come una rete di persone di nazionalità cinese si sarebbero servite del sistema di fei ch’ien o “denaro volante” (un sistema informale di trasferimento di denaro) prelevando il denaro dall’organizzazione criminale ‘ndranghetistica per poi inviarlo attraverso una lunga catena di bonifici, ad aziende commerciali ubicate in Cina e Hong Kong. Da queste aziende poi, i soldi ripuliti verrebbero nuovamente inviati ai narcotrafficanti e anche ai broker in Sudamerica tramite una serie di “agenti” all’estero. Il sistema è molto bene oliato e – possiamo immaginare – non sia nuovo neanche per le nostre organizzazioni criminali.

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    Hong Kong è una delle città di approdo dei soldi riciclati dai cinesi

    “Lavanderie” asiatiche

    Uno dei segreti non segreti legati al narcotraffico, e soprattutto al narcotraffico di alto livello come quello della ‘ndrangheta, è sempre il riciclaggio di denaro. Se non si ripuliscono i soldi, il narcotraffico non funziona, è monco. Ma se riciclare denaro non è sempre una questione di avere sofisticati mezzi o di fare il giro del mondo, grazie al contrasto effettivo – soprattutto in alcuni paesi come l’Italia – il riciclaggio è sempre più questione per specialisti. E in questo caso, gli specialisti non possono che venire dal Sud-Est Asiatico, dal momento che sono decenni che gruppi criminali cinesi si stanno specializzando nel riciclaggio di denaro.

    Il sistema bancario clandestino

    Ci ricorda la ricerca che già nel 1983 alcuni documenti della DEA americana (Drug Enforcement Administration) ipotizzavano l’esistenza di un “sistema bancario clandestino” dominato da gruppi criminali cinesi nel Sud-Est asiatico. Negli Stati Uniti, in quegli anni – ma la situazione è cambiata poco – emerse che la maggior parte del denaro dell’eroina fosse gestito in Asia dal sistema bancario clandestino cinese. Persino le famiglie italo-americane della mafia newyorkese si affidarono in alcuni casi a gruppi di cinesi. Anche oggi, i traffici di cocaina negli USA, secondo la DEA, passano tramite gruppi di riciclatori tra Cina e Hong Kong.

    Già nel 1983 documenti della Dea ipotizzavano l’esistenza di un sistema bancario clandestino

    Tra cambiavalute, negozi di oro e società commerciali, il sistema bancario clandestino era legato da vincoli di parentela a un’intricata rete di altri interessi commerciali cinesi a cui il mercato dell’eroina si legava. All’epoca la DEA avvertiva che le procedure di registrazione di questo sistema bancario clandestino erano quasi inesistenti. Per trasferire denaro da un Paese all’altro si usavano messaggi in codice, chat e telefonate. Il sistema era in grado di trasferire fondi, spesso in valute diverse, da un Paese all’altro in poche ore, di garantire l’anonimato del cliente, di offrire una transazione praticamente in quasi totale sicurezza. Era complesso allora ed è tuttora complesso nonostante molti passi avanti siano stati fatti per capire e contrastare questo sistema.

    La Cina è vicina… alla Calabria

    Ma se è almeno dagli Ottanta che si conosce questo meccanismo e i suoi attori significa che sono oltre 40 anni che si è consolidata la reputazione, e affermato il riconoscimento, del “sistema cinese” di riciclaggio. Dunque, quasi pari ai tempi della mafia calabrese sullo scacchiere internazionale laddove, come si sa, sono 30-40 anni che alcune ‘ndrine sono diventate punto di riferimento per il traffico degli stupefacenti.
    Insomma, calabresi e cinesi – quando si tratta dell’area criminale di propria competenza – si parlano da pari perché hanno pari reputazione, storia e riconoscimento criminale nelle proprie ‘specializzazioni’.

    Il servizio di pick-up money da parte dei cinesi è dunque parte di una relazione stabile con gli ‘ndranghetisti. Non solo in Calabria, ma anche in Europa. Già in operazione Pollino-European ‘ndrangheta connection, nel 2018, si era visto come il canale cinese avesse aiutato il movimento di denaro. E come il sistema fosse rodato anche da ‘ndranghetisti in altri paesi europei, per esempio in Germania.

    Diceva Luciano Camporesi a Domenico Pelle che non c’erano problemi a muovere denaro coi cinesi: «Se mi dici Hong Kong ce l’ho… ti arriva il cinese, ti porta… ti porta i soldi. Gli dai l’appuntamento in albergo e ti porta i soldi e non è un problema…».
    Pelle allora prospettava sempre a Camporesi di effettuare il pagamento della sostanza stupefacente proprio attraverso la Cina, canale questo già sperimento da lui, in quanto, in passato aveva pagato tramite bonifico e chi lo aveva ricevuto era rimasto soddisfatto: «Ma in Cina non ti conviene di più? L’altra glielo abbiamo mandato noi con il bonifico, ci hanno fatto festa». Un terzo uomo, Giorgio, aggiungeva che in Cina era semplice mandare i bonifici in quanto vi sono molte aziende, «perché là ci sono le aziende e gli… gli conviene di più…».

    L’applicazione di messaggistica SkyEcc

    I messaggi criptati

    La stabilità del rapporto continua oggi, come si vede grazie alle indagini su SkyEcc – un’applicazione di messaggistica criptata basata su abbonamento – che è stata smantellata, i cui messaggi – un’enormità – sono stati decriptati e sono ora in uso da varie polizie europee grazie anche al supporto di Europol. I messaggi decriptati di SkyEcc sono confluiti tra le prove a sostegno sia di Eureka che di Aspromonte-Emiliano. Lo smantellamento dei sistemi criminali e delle reti di cui si compongono è oggi arrivato a livelli ancora più sofisticati, riuscendo a entrare nelle comunicazioni tra gli attori e a capirne specializzazioni e contatti. Si parla, su SkyEcc, molto liberamente, e questo favorisce anche lo scambio di informazioni e l’accrescimento delle reputazioni.

    Ad esempio, si legge in operazione Eureka, il 18 novembre del 2020 l’utente 9W8SEC di SkyEcc chiedeva a Sebastiano Mammoliti, classe 2003, se conoscesse persone in grado di far giungere il denaro in Sudamerica anche con il metodo dei change money: «Ma te micca hai change” … “for i soldi?” … “per mandare i soldi di la fra cioè Brazil Ecuador”…”e loro tengono la loro %”…”si usano i change money”… “di più fanno i cinesi questi lavori” … “che ci serviranno fra” … “per il nostro lavoro”».

    «Più di un milione alla volta non si prendono»

    Il 20 agosto del 2020 Francesco Giorgi, classe 97, in quel momento a San Luca (RC), e Paolo Pellicano, soprannominato Rambo, in quel momento dimorante a Montepaone, pianificavano su SkyEcc gli impellenti trasferimenti su ruota di proventi del narcotraffico per compensi pari a 1% dell’intera somma di volta in volta movimentata. Giorgi ricorda che i «cinesi» a Roma «più di un milione alla volta non si prendono». Insomma, molte delle regole continuano a farle loro, i riciclatori. Ma ovviamente il rapporto è transazionale, di servizi comprati e resi, e serve tutto a distribuire meglio i rischi.

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    La banconota usata come token a Roma

    A Roma il sistema è semplice. Pellicano deve recarsi ad un indirizzo concordato, dove un soggetto, asiatico, si mostrerà con una banconota contrassegnata da un numero di riconoscimento. Quel numero di riconoscimento è il token comunicato a Pellicano per la consegna. Lucio Aquino, da Maasmechelen, che in quel momento agisce da broker sia con i cinesi che con i colombiani – destinatari delle somme riciclate – dà indicazioni sulla chat di gruppo su SkyEcc a cui partecipano Giorgi, Pellicano e anche Francesco Strangio, a Genk, in Belgio.

    Aquino conferma: «Dovete consegnare dopo che vi fanno vedere il token»… «Devi dare 1 token 1 milione». Si inviano foto col numero del token, dunque della banconota, e anche quando ci sono dei problemi – Pellicano a un certo punto non riconosce il numero del token e scriverà in chat «il cinese si è avvicinato con banconota da 5 euro ma non combacia» – tramite chat si risolvono tutti. «Arrivano cinesi da tutte le parti…» scriverà Pellicano, in quanto a quell’indirizzo aspetta due gruppi di riciclatori, uno da Napoli, che fa ritardo anche per via del traffico.

    Riciclaggio ‘ndrangheta

    Che si tratti di un’operazione sofisticata e di un gruppo specializzato di riciclatori viene confermato da alcune richieste che il gruppo dei cinesi fa ai calabresi – legati alle ‘ndrine di San Luca – che stanno raccogliendo la somma necessaria. Perché si raggiunga l’accordo sono infatti necessari almeno 500mila euro altrimenti l’emissario del gruppo dei riciclatori non andrà proprio a San Luca a recuperare la somma, insomma il lavoro non verrà accettato. Inoltre, la somma comprende anche la garanzia del rimborso per intero nel caso di sequestro del denaro durante il trasporto – quindi i calabresi possono stare tranquilli.

    Se non si riesce a convincere «i cinesi» a scendere in Calabria ed effettuare il ritiro di una somma inferiore, si può ricorrere al «cugino di un albanese», che sta a Roma, che uno dei Giampaolo ha conosciuto in Brasile e che può accollarsi il rischio della transazione anche per somme più basse. Ma ovviamente il rischio per gli ‘ndranghetisti aumenterebbe, dal momento che il servizio non è completo di garanzia. Ma anche raccogliendo 2 milioni – cosa che in un momento il gruppo riesce a fare – da consegnare ai cinesi, il rischio di consegna a Roma viene comunque giudicato inferiore rispetto alla discesa in Calabria degli emissari del gruppo cinese.

    Rapporti di fiducia

    Insomma, il mondo del crimine organizzato è altamente incerto e l’incertezza si gestisce trovando metodi alternativi di fiducia. Laddove nel mondo legale la fiducia arriva da metodi sanzionatori e dalla protezione dei sistemi giuridici, nel mondo illegale la fiducia arriva dalla longevità del rapporto, dalla reputazione, dal riconoscimento reciproco – “gente nostra”, “nostri amici”. Tra clan di ‘ndrangheta e gruppi di origine cinese il rapporto è duraturo perché fiduciario e perché basato sugli stessi criteri di riconoscibilità nei “mercati” di riferimento (droga per i calabresi, denaro per i cinesi). E guardare ai rapporti tra i gruppi specializzati ci ricorda anche che nel mondo della criminalità organizzata nessun gruppo è davvero mai autonomo, e che un’efficiente attività di contrasto non può mai solo focalizzarsi su un aspetto del problema e sottovalutare gli altri.

  • Bernardino Alimena: il sindaco che inventò la Criminologia

    Bernardino Alimena: il sindaco che inventò la Criminologia

    Il ricordo più visibile che gli ha dedicato Cosenza è una strada abbastanza importante, di cui condivide l’intestazione con suo padre Francesco. I più la conoscono perché c’è la sede dell’Azienda sanitaria provinciale e perché la sera ci si ritrovano i ragazzi, come si faceva una volta a piazza Kennedy.
    Altri ne ricordano il nome per averlo incrociato nella Parte generale di qualche manuale di Diritto penale, ma non ricordano il perché, tranne qualche giurista più anziano e colto. In realtà, Bernardino Alimena meriterebbe di più. Anche della retorica con cui lo celebra in qualche circolo .
    Per capire perché, partiamo da alcune domande banali (e basilari): delinquenti si nasce o si diventa? Perché si delinque? È vero che la tentazione fa l’uomo ladro?

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    Bernardino Alimena

    Emergenza criminale fin de siècle

    Rispondere, più che impossibile, sarebbe ridicolo: tuttora i criminologi si scervellano su questi argomenti. Ma a fine Ottocento, quando Alimena elaborava le sue teorie giuridiche, questi problemi erano ancora più pressanti: l’Italia non aveva fatto a tempo a nascere, che subito fu costretta ad affrontare la sua prima emergenza criminale.
    Il banditismo, già endemico in parecchie zone, si politicizza ed evolve in brigantaggio, la prima forma di criminalità organizzata. Soprattutto al Sud, ma anche in alcuni ex territori pontifici (Emilia e basso Lazio) e in Toscana.
    Anche il resto del Paese non scherza: le grandi città (Napoli, Milano e Palermo) sono insicure, i centri di provincia pullulano di microcriminalità e le carceri si riempiono.

    A complicare il tutto, c’è l’enorme pressione demografica: dall’Unità al 1890 gli italiani aumentano del 40%.
    Quel che è peggio, il Paese non ha strumenti adatti per affrontare quest’emergenza. Si pensi che per avere il primo Codice penale italiano ci vuole il 1871. Stesso discorso per l’omologazione del sistema carcerario e della Pubblica sicurezza.
    Questo basta a far capire l’importanza della generazione di giuristi (e non solo) di cui Bernardino Alimena fu un elemento di spicco.

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    Maria Oliverio detta Ciccilla, celebre brigantessa calabrese

    Bernardino Alimena figlio di patriota

    Alimena, classe 1861, nasce praticamente con l’Italia e respira da subito il Diritto penale: suo padre Francesco, oltre che patriota risorgimentale e deputato per tre legislature (dal 1882 al 1892), è un avvocato famosissimo, dall’oratoria travolgente. Il tipico principe del foro, insomma.
    Dopo aver studiato Giurisprudenza a Napoli (un classico per gli aspiranti giuristi dell’epoca) ed essersi laureato a Roma nel 1885, Bernardino prende un’altra strada. Frequenta poco i Tribunali, a cui preferisce la ricerca e si dà alla politica, dove, grazie anche al peso del suo cognome, ottiene risultati apprezzabili: diventa prima consigliere comunale di Cosenza e poi, nel 1889, sindaco. Il primo non di nomina regia ma eletto direttamente dai cittadini.

    Ma la teoria giuridica resta il suo pallino, come testimoniano le tante pubblicazioni e, soprattutto, gli incarichi accademici. Nel 1889 ottiene la libera docenza di Diritto penale a Napoli a cui aggiunge, l’anno successivo, quella in Procedura penale. Ma, a causa degli impegni della ricerca e (soprattutto) della politica, inizia i corsi solo nel 1894, con una prolusione dal titolo significativo: La scuola critica di diritto penale. Non la citiamo a caso: sin dal titolo, contiene l’abc dell’Alimena-pensiero.
    Il salto di qualità avviene nel 1898, quando il giurista cosentino ottiene la docenza straordinaria in Diritto penale all’Università di Cagliari e, infine, quella ordinaria nella medesima materia a Cagliari.
    Nel mezzo, c’è un popò di pubblicazioni dai titoli (e dai contenuti) pesanti. Più una serie di polemiche che hanno un bersaglio ben preciso: la Scuola positiva del Diritto penale, che in quel momento va per la maggiore, e, soprattutto, il suo fondatore, Cesare Lombroso.

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    Il monumento a Cesare Lombroso

    Il primo fu Lombroso

    La tradizione penale italiana ha avuto almeno tre grandi iniziatori: i milanesi Cesare Beccaria e Pietro Verri e il napoletano Gaetano Filangieri.
    Sono i capicorrente della Scuola classica, che concepisce il diritto penale come un sistema di difesa dell’individuo dal potere. A fine ’800 le loro tesi non servono più, se non a motivare le arringhe degli avvocati.
    Di fronte alla criminalità di massa, occorre altro. Vi provvede per primo, appunto, Cesare Lombroso, che formula la celebre tesi dell’atavismo criminale.

    Lombroso, che è un medico e non un giurista, ha essenzialmente un merito: sposta l’attenzione dal reato al reo. In altre parole, studia i delinquenti e mette in secondo piano i delitti. Il delinquente, secondo la teoria lombrosiana, è tale o perché costretto dalle circostanze, o perché ha tendenze naturali (innate ed ereditarie) a delinquere.
    Il primo è una persona normale, a cui si può applicare il diritto; il secondo è un deviante per nascita, che al massimo può essere isolato dalla società per il suo stesso bene.

    E qui arrivano gli aspetti più “piccanti” e controversi del pensiero lombrosiano. Innanzitutto, l’atavismo criminale, che si riconosce da alcuni difetti fisici del reo (la fronte bassa, gli arti tozzi, la celebre “fossetta occipitale mediana”, gli zigomi pronunciati, il mento troppo sfuggente o troppo prominente, ecc.).
    Da qui al rischio di un razzismo sotto mentite spoglie il passo sarebbe breve. Ma, ad onor del vero, va detto che Lombroso non l’ha mai fatto: non ha mai detto che un popolo o una razza è potenzialmente più criminale di un’altra.

    Il Museo Lombroso di Torino

    I limiti del positivismo

    I limiti di questo pensiero, semmai sono altri. Il positivismo, innanzitutto, minimizza il ruolo della volontà e del libero arbitrio: il delinquente nato non può che delinquere per vocazione. Poi riduce la funzione della pena a una sola cosa: la difesa sociale.
    In questa visione determinista, quasi meccanica, il ruolo del giurista è ridimensionato a favore di quello dell’antropologo.
    Il giurista, in altre parole, serve a punire o ad assolvere la persona normale, che è punibile (e quindi rieducabile) perché dotato di volontà e capacità di scelta. Lo scienziato serve a identificare il delinquente nato che, ripetiamo, può solo essere isolato. Fine della storia.
    Le teorie lombrosiane, per quanto celebri e dibattute, hanno inciso poco nel mondo giuridico. La loro vera utilità è stato lo stimolo alla polizia scientifica, inaugurata in Italia da Salvatore Ottolenghi, allievo di Lombroso. A questo punto, torniamo a Bernardino Alimena.

    Bernardino Alimena e la Terza scuola

    Reprimere i reati non è roba da medici o antropologi. Tocca ai giuristi. È, in parole povere, il concetto sostenuto da Alimena che, assieme a Emanuele Carnevale e Giovanni Battista Impollimeni, fonda la Terza scuola o Scuola critica.
    Questa è un mix tra le due correnti precedenti. In pratica, Alimena&Co saccheggiano qui e lì ed elaborano una visione più avanzata e meno rigida sia del garantismo settecentesco sia del positivismo lombrosiano.
    Il primo concetto su cui agisce Alimena è il libero arbitrio, che per lui è la capacità di fare ciò che si vuole. Per Lombroso, al contrario il libero arbitrio è capacità di volere una cosa anziché un’altra. Nello specifico di delinquere o meno, cosa che è preclusa al delinquente nato.

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    Salvatore Ottolenghi

    Bernardino Alimena vs Cesare Lombroso

    Ancora: per i positivisti lombrosiani, il comportamento antisociale del delinquente è tale solo in rapporto alle regole della società. Per Bernardino Alimena, invece, i comportamenti antisociali sono valutabili in due modi: filosofico e morale, perché esiste comunque un senso assoluto del bene e del male, e sociale. Di questo aspetto, appunto, si occupa il Diritto penale.
    Ma quando un delinquente è davvero imputabile? Per Lombroso sono imputabili, cioè possono rispondere dei reati ed essere puntiti, solo le persone sane. Per Alimena, invece, sono imputabili tutte le persone capaci di autodeterminarsi e suscettibili di essere dirette anche attraverso la pena. In altre parole: chi teme la pena può sempre essere punito (e, se possibile, recuperato). Ciò vale anche per le persone con tendenze naturali a delinquere. Quindi i criminali atavici, secondo Alimena, sono una minoranza borderline e non la maggioranza dei delinquenti, come invece sostengono i lombrosiani.

    Un duello internazionale

    Tutto questo, oggi sembra facile perché è acquisito. Ma nella seconda metà del XIX secolo è una novità dirompente.
    Non a caso, il dibattito tra lombrosiani e terza scuola si svolge dappertutto: in particolare all’estero. Bernardino Alimena partecipa a vari congressi che si svolgono a Parigi (1889 e 1895), San Pietroburgo (1890), Bruxelles (1892 e 1900) e a Budapest (1905).
    In questi dibattiti, l’intellettuale cosentino non si limita a criticare Lombroso e la sua scuola. Ma formula proposte pratiche interessanti: tra queste l’istituzione delle giurie popolari e la riforma delle carceri minorili. Tra i tanti altri impegni di Alimena, val la pena di segnalare la partecipazione alla commissione incaricata di redigere il Codice penale del Regno del Montenegro, che nel 1910 proclama l’indipendenza dall’Impero Ottomano.

    Nicola I del Montenegro

    Un notabile in carriera

    La parte più conosciuta della vita di Bernardino Alimena è essenzialmente la carriera politica, che tuttavia è poca cosa rispetto all’attività intellettuale.
    Oltre alla presenza di lungo corso nel consiglio comunale di Cosenza – che Alimena non ha mai mollato, nonostante la sua attività frenetica in giro per il Paese e in Europa – si segnalano due sue candidature alla Camera.
    La prima è del 1909. Alimena vince nel collegio della sua città con l’appoggio dei cattolici, che gli assicurano 999 voti al primo turno e 1.598 al secondo. Tuttavia, il neodeputato non fa in tempo a sedere alla Camera che la giunta per le elezioni gli contesta presunte irregolarità elettorali e annulla il voto.
    Ci riprova nel 1913 e becca più voti: 3.737, che però non gli bastano, perché nel frattempo il corpo elettorale si è allargato.

    Rapporti che contano

    Tanta popolarità deriva da due fattori: l’attaccamento alla città e l’impegno culturale, profuso con l’Accademia cosentina, di cui diventa presidente, e attraverso il Circolo di cultura, fondato assieme a Pasquale Rossi.
    Anche l’appartenenza al notabilato dell’epoca ha il suo peso. Al riguardo, non è certa l’appartenenza di Bernardino Alimena alla massoneria. Ma i rapporti che contano li ha tutti. Ad esempio, con Luigi Fera e Bonaventura Zumbini, di cui sposa la nipote Maria nel 1897.
    Muore nel 1915, poco dopo l’entrata in guerra dell’Italia.
    Lascia uno stuolo di ammiratori, tra cui Alfredo Rocco, astro nascente della scienza penale e futuro autore dei codici penale e di procedura penale. Rocco definirà Alimena «soprattutto un cultore di psicologia e sociologia criminale, non giureconsulto in senso stretto». Come dire: troppo colto per essere solo un giurista. Mica male come complimento.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.