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  • Pentiti, i rampolli dei clan vibonesi si ribellano

    Pentiti, i rampolli dei clan vibonesi si ribellano

    Da delfini a pentiti. Quando si parla di casato si evoca qualcosa di aristocratico e di antico. Di nobiltà ce n’è in verità molto poca nei racconti che delle dinastie mafiose del Vibonese fanno i loro stessi rampolli. Sono cresciuti a pane e ‘ndrangheta ma, adesso, hanno cominciato a ribellarsi al loro stesso sangue e a quello che hanno visto scorrere fin da bambini tra la costa degli Dei e le montagne delle Serre. Sono storie diverse ma emblematiche quelle di Emanuele Mancuso e Walter Loielo. Viaggiano su binari distinti e paralleli ma, in determinati momenti, si avvicinano pericolosamente.

    Un tipo alternativo

    Nato il giorno di San Valentino di 33 anni fa, Emanuele secondo sua padre era come un surici. «Dove passavo io facevo danni» – dice. E il padre, che ha un nome diffuso in famiglia, Pantaleone, è conosciuto come “l’ingegnere” e per essere stato protagonista di un arresto da film. Alla fine di agosto del 2014 lo catturò la gendarmeria argentina in una città alla frontiera con il Brasile, Puerto Iguazù. Cercava di passare il confine a bordo di un bus turistico con un documento argentino falso intestato a tale Luca de Bortolo e con 100mila euro addosso.

    All’epoca, per dire che aria tirasse in famiglia, era accusato del duplice tentato omicidio di sua zia Romana e del figlio, che era avvenuto 6 anni prima al culmine di dissidi sfociati nel sangue tra i vari rami della famiglia. Il danno più grosso, osserva sornione lo stesso Emanuele in collegamento con l’aula bunker di Rinascita-Scott, lo ha fatto collaborando con la giustizia.

    I parenti e la ex compagna vogliono indurlo a ritrattare

    Secondo la stessa Dda di Catanzaro i suoi parenti, e anche l’ex compagna da cui ha avuto una bimba, volevano indurlo a ritrattare in ogni modo: la promessa di un ristorante tutto suo in Spagna, pressioni di ogni tipo facendo leva anche sulla figlia neonata, le minacce urlate dai vicini di cella al carcere di Siano. Volevano farlo passare per pazzo. In effetti lo conoscevano bene, perché Emanuele tanto “normale” non lo è mai stato. Un «tipo alternativo», si è definito lui stesso, perché non seguiva il protocollo di famiglia. Faceva furti e rapine mentre i suoi gli dicevano che «fare quelle cose fosse una vergogna perché un Mancuso non doveva abbassarsi a tanto».

    Molto ferrato nelle nuove tecnologie, tanto da essere spesso addetto alle bonifiche per gli uomini del clan, lo era altrettanto nella coltivazione di marijuana su scala industriale. Ne piantava tanta ma sostiene di non fumarla perché gli fa abbassare la pressione. La cocaina invece sì, ammette di averla usata spesso. Ma a uno degli avvocati difensori che lo controesaminava ha risposto irritato di «non aver mai sostenuto alcuna visita psichiatrica».

    Un cadavere nel bosco

    Walter lo chiamano “batteru” ed è ancora più giovane. Classe 1995, ha anche lui un padre ingombrante. Anzi, aveva: si chiamava Antonino ed è sparito nel nulla un giorno di aprile del 2017. Né suo figlio, che al contrario di Emanuele non è il primo pentito della sua famiglia, né gli altri familiari all’epoca ne denunciarono la scomparsa. Oggi invece Walter è indagato per avere occultato il cadavere del genitore. Sarebbe stato lui stesso ad indicare la carcassa di una Cinquecento rossa seminascosta nei boschi di Gerocarne vicino a cui avevano seppellito il padre. Avevano, sì, lui e suo fratello Ivan, che è quello accusato di averlo ucciso.

    Il movente è ancora un mistero: non è di ‘ndrangheta, hanno detto gli inquirenti quando hanno scoperto il corpo a novembre del 2020, il contesto evidentemente sì. Perché è quello della famiglia Loielo, una storia criminale lunga decenni che da banda di rapinatori alla fine degli anni ’70 li vede poi diventare l’ala armata della “società” di Ariola, frazione-epicentro nelle Preserre vibonesi di una faida ventennale con il clan Emanuele, che li ha scalzati dal dominio militare decapitando la loro cosca con un efferato duplice omicidio nel 2002. All’epoca caddero, per mano del boss emergente Bruno Emanuele, Pino e Vincenzo Loielo, di cui il padre di Walter era primo cugino.

    Anni dopo i rampolli dei Loielo avrebbero tentato di rialzare la testa per vendicare i loro morti. A soffiare sul loro rancore sarebbe stato un altro Pantaleone Mancuso, “Scarpuni”, tentando da dietro le quinte di ridimensionare gli odiati Emanuele. È finita con una scia di morti e altrettanti tentati omicidi. In uno di questi, ad ottobre del 2015, rimase ferito proprio Antonino mentre era a bordo della sua vecchia Panda. Con lui c’era la compagna incinta di sei mesi e un altro figlio, Alex. Pochi giorni dopo tentarono di ammazzare anche lo stesso Walter, che era assieme a due cugini e che era stato già in precedenza bersaglio di un ulteriore attentato. Sangue, vendette, famiglie non esattamente da Mulino Bianco, ma a un certo punto arriva qualcuno che la catena dell’odio la spezza.

    Il coraggio di sfidare il “supremo”

    Emanuele è iperattivo, spregiudicato, ha mostrato un’indole violenta ma anche un’intelligenza vivace. Una cosa che pochi sanno di lui, per esempio, è che era in grado di scriversi da solo le istanze da presentare ai giudici in relazione a misure di sorveglianza a cui era sottoposto. Raccontano che in alcuni casi le firmasse lui stesso, a nome dei suoi avvocati, e che qualche volta il Tribunale le abbia anche accolte. Non sorprende, dunque, il piglio con cui parla durante i processi. Il coraggio non gli difetta: è stato capace di stringere un’amicizia fraterna con Peppe Soriano – nipote del boss Leone, «uno psicopatico criminale» – a cui offriva soldi e assistenza legale proprio tramite lo zio, incurante che questi fosse parecchio inviso al “supremo” Luigi Mancuso, prozio di Emanuele che «con una parola riesce ad entrare nel tuo cervello, non usa metodi brutali ma ha un carisma inaudito».

    Cinquemila euro per ammazzare un vecchietto

    Walter è più introverso, quasi impacciato. Terza media, condizioni familiari «difficili» e qualche saltuario lavoro agricolo alle spalle. Al suo esordio in un processo, lo scorso 23 giugno, si è un po’ impappinato parlando davanti alla Corte d’Assise di Catanzaro. È stato chiamato a rendere in aula le sue prime dichiarazioni da pentito nel procedimento sull’autobomba di Limbadi che il 9 aprile 2018 ha ucciso il biologo 42enne Matteo Vinci e ferito il padre Francesco. Un crimine che ha fatto rumore e che forse qualcuno della galassia Mancuso ha ordito senza farlo sapere ai boss che contano.

    Il 26enne ha raccontato che due indagati accusati di essere gli esecutori materiali – per cui però il Riesame ha annullato i relativi capi d’imputazione – tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018 gli avrebbero portato una “’mbasciata” da parte di «quelli di là sotto», locuzione con cui nel Vibonese sono inequivocabilmente identificati i Mancuso. Gli avrebbero proposto di «uccidere un vecchietto in campagna per 5mila euro». Lui, però, si sarebbe rifiutato senza nemmeno chiedere quale fosse l’identità della potenziale vittima.

    Walter ne avrebbe poi parlato con Giuseppe Mancuso, fratello di Emanuele che avrebbe aiutato in un periodo di latitanza. E quello gli avrebbe risposto che era stato un cognato degli imputati a dare l’ordine dell’omicidio senza farlo sapere ai parenti. Walter è però inciampato nel controesame. Ha detto rispondendo a un avvocato di non aver capito a quale cognato Mancuso si riferisse, ammettendo di essersi «un po’ confuso».

    Gli incroci pericolosi e la storia che cambia

    Così si sono in qualche modo incrociate le storie di questi due rampolli che pur essendo giovani ne hanno viste tante. Uno viene da un contesto rurale e, oltre ad aver seppellito il suo stesso padre, si sarebbe trovato in prima persona nel mezzo di una faida che ha visto morire ammazzati anche ragazzi che non c’entravano nulla. Come Filippo Ceravolo, che aveva appena due anni più di lui ed è stato raggiunto dai pallettoni del suo clan, appena 19enne, solo perché aveva chiesto un passaggio al vero obiettivo dei killer, un ragazzo legato agli Emanuele che è rimasto illeso.

    L’altro è un predestinato, un principino della ‘ndrangheta «di serie A». Non ha paura a bollare addirittura come «carabinieri senza divisa» alcuni dei suoi «zii grandi» accusandoli di aver coltivato per anni amicizie e collusioni tra insospettabili colletti bianchi.
    In attesa di capire se e quanto le loro dichiarazioni possano superare il vaglio della credibilità in sede giudiziaria è un fatto, inedito, che i rampolli di due casati di ‘ndrangheta rompano in questo modo il legame di omertà con i loro consanguinei e provino a riscrivere la storia. La loro e quella della loro terra.

  • LONGFORM | Una madres di Calabria contro il Plan Condor

    LONGFORM | Una madres di Calabria contro il Plan Condor

    La sera del 9 luglio 2021 Maria Bellizzi, partita quasi un secolo prima dalla Calabria, è a casa a Montevideo con sua figlia Silvia. Aspettano con impazienza di mettersi in contatto con l’Italia, è da 22 anni che lo aspettano questo momento. Era il 25 giugno del 1999 infatti, quando Maria fece ritorno a Roma per depositare la denuncia di sparizione di suo figlio alle autorità italiane. Quel giorno, davanti al pubblico ministero Giancarlo Capaldo, Maria non era sola. Insieme a lei c’erano le signore Marta Casal, moglie di Gerardo Gatti, italo-uruguaiano scomparso a Buenos Aires; Luz Ibarburu, madre di Pablo Recagno, italo-uruguaiano anche lui scomparso a Buenos Aires, Cristina Mihura, moglie di Bernardo Arnone, italo uruguaiano scomparso a Buenos Aires e Aurora Meloni, moglie di Daniel Banfi, cittadino italo-uruguaiano assassinato a Buenos Aires. Sono tutti desaparecidos. 

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    Maria Bellizzi nel 1928 è partita dalla Calabria, dal paese di San Basile, una comunità greco-albanese aggrappata alle pendici del Pollino. Quel 25 giugno del 1999 è a Roma per denunciare la scomparsa del suo primogenito, Humberto Bellizzi, cittadino italo-uruguaiano rapito a Buenos Aires. E da quando è sparito nel nulla che Maria non ha pensato ad altro, trasformandosi da un giorno all’altro da una tranquilla casalinga a una madres, una delle instancabili protagoniste dell’organizzazione che più di qualsiasi altra ha saputo rappresentare una spina del fianco delle dittature civico militari che hanno segnato il momento più buio del ’900 in America latina.

    Maria per quarant’anni ha girato le questure, i commissariati, i tribunali e le ambasciate di più paesi per chiedere di suo figlio. Quella denuncia a Roma è stato il primo atto del Maxi Processo Condor, oggi Maria ha 96 anni e freme per ricevere la notizia della sentenza definitiva. Si può solo provare a immaginare cosa prova nel momento in cui squilla il telefono.

    DOV’È HUMBERTO?

    Aprile del 1977, fra i banchi dell’università Piero nota un’assenza insolita. Le lezioni sono iniziate da poche settimane e finora il suo compagno di studi Humberto non ne ha saltata nemmeno una. La sera tardi ci pensa e, prima di rincasare, decide di passare da casa sua per capire il perché di questa assenza inaspettata. Casa di Humberto è a via Bartolomè Mitre, a pochi isolati dal Congresso argentino. Quando Piero gira l’isolato e inizia a guardare il vecchio condominio, sulla porta del palazzo nota subito un tipo guardingo che non ha mai visto.

    Si avvicina guardando le finestre in alto e decide lo stesso di salire le poche scale che lo separano dal primo piano. Lì trova quello che non poteva immaginare. Nell’appartamento ci sono delle persone che rovistano affannosamente fra le cose di Humberto. Piero non chiede, immagina siano pericolosi, perciò continua a salire le scale facendo finta di niente. Perde un po’ di tempo finendo il corridoio di un altro piano. Poi torna indietro, riscende e corre ad avvertire gli altri: Humberto non c’è, Humberto è scomparso. 

    Pochi giorni prima Jorge Goncalves Busconi, orologiaio all’incrocio fra le strade San Josè e Belgrano, sempre nel distretto dove ha sede il Congresso di Buenos Aires, stava per uscire dal lavoro. Passeggiava con la sua Maria, incinta di otto mesi, che ora racconta la scena agli amici, radunati per capire cosa stia succedendo in quel quartiere. Un gruppo di uomini armati le hanno chiesto a muso duro: «Sei anche tu uruguaiana?». Alla risposta negativa l’hanno tirata via con uno strattone: «Allora allontanati». Jorge è stato preso e portato via in un lampo. Il giorno prima del suo arresto Jorge era a casa di Humberto, sono amici da tempo e in quel periodo si vedono con molta frequenza. Ora sono entrambi spariti. 

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    Il Palazzo del Congresso a Buenos Aires

    Perché li hanno presi, che tipi sono? Dell’orologiaio Jorge non abbiamo detto solo che aveva 35 anni, Humberto invece nel 1974 ne ha 24. In Uruguay questo figlio di italiani ha completato gli studi primari al Colegio Nuestra Senora de Pompeya, ha studiato medicina e ha vissuto con i suoi genitori e sua sorella minore Silvia in un appartamento di Montevideo, a via Enrique Aguiar, numero 5014. Da giovanissimo ha diretto il giornale di quartiere “El Sol” e ha lavorato nella pubblicità come pittore di lettere e fumettista. In Uruguay ha militato nel ROE (Resistenza Studentesca Lavoratrice) e all’istaurarsi di una feroce dittatura militare ha pensato, come molti giovani connazionali, di trasferirsi in Argentina, in quel momento l’ultimo baluardo apparentemente democratico del Cono Sud dell’America latina. L’unica illusione di futuro.

    A Buenos Aires è arrivato nel 1974, ha lavorato nella pubblicità per la società Nestlé e successivamente ha aperto anche la dispensa alimentare con i suoi amici Carlos Ramirez, Ricardo Perez e proprio Jorge Goncalves Busconi. Si tratta di una piccola attività commerciale, un magazzino all’incrocio tra Sarmiento e Montevideo, nella zona del Mercado Rosado. Con Ricardo Perez erano anche soci in un’altra attività, un laboratorio di pittura pubblicitaria proprio davanti all’appartamento di Humberto, sull’insegna c’è scritto “Tabarà”. 

    Il 19 aprile 1977, Humberto, uruguaiano figlio di italiani ha ottenuto la cittadinanza argentina da un mese. Quella mattina è una come tante, fino a quando arriva una persona al suo appartamento e chiede di parlargli per commissionargli un lavoro di pittura pubblicitaria su una vetrina.  Humberto risponde che la cosa gli interessa, ma che prende i lavori a metà con il suo socio Ricardo. Allora gli chiede dove sta il socio, e lui lo porta dall’altro lato della strada, dove si mettono d’accordo per andare tutti insieme all’indomani a vedere questa vetrina. Tutto normale.

    Poi però arriva una telefonata che normale non è. Un cliente che ha una gioielleria avvisa Ricardo di non andare in quel posto, perché all’incrocio fra le strade Independencia e Entre Rios c’è gente strana ad aspettarli. È invece troppo tardi per Humberto, che a quel punto già non si trova più. Non si sa se è andato in anticipo all’appuntamento o se lo abbiano preso in quella fatidica strada. L’unica cosa che si sa che è sparito in pieno giorno e in pieno centro, proprio come il suo amico Jorge.

    Ma perché a Humberto Bellizzi, uno studente e lavoratore come tanti altri, è toccata una sorte così crudele? Una domanda che perseguita gli amici e i familiari, e che ad oggi ha una sola possibile risposta. Nel 1974, nell’anniversario del golpe uruguayano, Humberto aveva partecipato a una manifestazione in Argentina. La manifestazione non era autorizzata, perciò fu arrestato insieme a 101 connazionali. Fu subito rilasciato, ma inserito in una lista. La colpa di questo giovane è stata quindi aver manifestato da uomo libero contro la dittatura, un affronto che i tiranni del tempo non potevano dimenticare. 

    EL ATLETICO

    Secondo testimonianze più recenti, i due sarebbero stati portati nel Club Atletico, uno dei centri di detenzione clandestina di cui pullulava in quel periodo Buenos Aires. Era una caserma militare, l’avevano chiamata Club Atletico per celare il fatto che in realtà la lettera “A” stava per “Antisovversivo”. Atletico, Banco e Olimpo erano tre centri collegati, tanto che nei processi si parla di questo sistema di repressione come “ABO”. L’Argentina in quel periodo vive così, nella bugia legalizzata. Mentre si prepara ad ospitare i Mondiali del 1978 in un clima di festa nazionale, nelle pance segrete delle caserme tortura, uccide e fa sparire un’intera generazione.

    Il Club Atletico si trovava in Avenida Paseo Colón numero 1266, nel quartiere di San Telmo, uno dei più antichi della città. È stato operativo per un anno circa, dal febbraio del 1977 fino a inizio 1978, quando lo hanno smantellato per la costruzione dell’autostrada 25 de Mayo. I suoi orrori sono finiti sotto una montagna di terra che li ha coperti per decenni. Nel seminterrato del Club Atletico si stima siano transitati circa 1800 prigionieri, pochissimi sono sopravvissuti. 

    «Il tuo nome d’ora in poi sarà K-35, poiché per gli estranei sei scomparso», ha raccontato di essersi sentito dire nel Club Atletico il sopravvissuto Miguel Ángel D’Agostino. Trascinato per le scale fino al seminterrato, è stato privato di ogni effetto personale. Poi è stato spersonalizzato, è diventato una lettera e un nome, come accadeva nei centri nazisti. L’accostamento non è casuale, all’interno del Club Atletico si sentiva ripetutamente una cassetta con i discorsi di Hitler a tutto volume, accompagnati dalle urla e dalle risate dei repressori.

    La sopravvissuta Ana María Careaga, aveva sedici anni quando finì all’Atletico e sua madre è ancora desaparecida. Ha raccontato questi dettagli al Conadep, la commissione governativa che ha fatto luce sui crimini di Stato in Argentina: «A quel tempo l’unica cosa che poteva salvarci dalla sofferenza era la morte. Poiché nessuno sapeva dove fossimo, dissero di avere tutto il tempo del mondo. L’unico modo per fermare la sofferenza era morire, perché non ci avrebbero lasciato liberi e non ci avrebbero lasciato morire per poter continuare a torturarci».

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    Un’altra sopravvissuta a quest’orrore ha dichiarato di aver visto e riconosciuto all’interno del Club Atletico Jorge Goncalves Busconi. Da qui si ritiene che anche a Humberto Bellizzi sia toccato lo stesso destino. Ricostruzioni storiche e giudiziarie ritengono inoltre molto probabile che i rapitori abbiano consegnato i due amici a ufficiali dell’intelligence dell’esercito uruguaiano che interrogavano e torturavano in quel centro in Argentina. Fra i più famosi ci sono i membri della Compañía de Contrainformaciones, il maggiore Carlos Calcagno e il capitano Eduardo Ferro.

    L’ex militare uruguaiano Jorge Nestor Troccoli ha anche lui origini italiane e si è distinto nelle operazioni congiunte con l’Argentina per dare la caccia a quelli che venivano considerati sovversivi. È stato l’unico imputato del Processo Condor giudicato in aula, visto che per sfuggire alla giustizia del suo paese è venuto a rifugiarsi in Campania, prima a Marina di Camerota e poi a Battipaglia, dove il dieci luglio 2021 è stato arrestato. Dovrà scontare la pena definitiva all’ergastolo. Questa è la notizia che Maria aspettava da anni.

    UNA STORIA DI CALABRIA

    Il nome completo del figlio di Maria è Andres Humberto Bellizzi Bellizzi. Non c’è errore, il cognome è ripetuto due volte perché è lo stesso della madre e del padre, entrambi provenienti da San Basile, un paese del Pollino in provincia di Cosenza dove è evidentemente molto diffuso. Quando per le prime volte andò a chiedere di suo figlio in commissariato gli capitò un funzionario che le disse: «Ah, il ragazzo con un doppio cognome, qui non c’è». Era il segno che lo sapeva eccome dov’era il figlio. 

    Maria, come molti corregionali dell’epoca, arriva a Montevideo da bambina per la legge di ricongiungimento familiare. Il papà, partito tempo prima per sfuggire alla fame del Sud Italia fra le due guerre mondiali, aveva finalmente trovato occupazione stabile e poteva riabbracciare la sua famiglia. È il 1928, il viaggio, lunghissimo e pericoloso, Maria lo compie insieme alla madre: è un nuovo inizio, che presto si presenta come ancora più difficile. Il padre di Maria muore giovanissimo, e a lei tocca prendersi cura dei fratelli per aiutare la madre a sostenere la famiglia. Studia, lavora e a vent’anni sposa Andrés Bellizzi, anche lui oriundo di San Basile. Hanno due figli, Humberto e Silvia.

    Maria si occupa della famiglia e cresce i figli nella pace, fino a quando il colpo di Stato militare impone la partenza al figlio. Lui comunque torna spesso a casa e non le dà molto da pensare: studia, lavora tanto e ottiene ben presto la cittadinanza permanente in Argentina. Poi però il golpe militare arriva anche là. E una domenica, il 25 aprile del 1977, la notizia che Humberto è sparito insieme a Jorge raggiunge quella casa di italiani a Montevideo. La vita di quella famiglia viene sconvolta per sempre.

    Maria da quel giorno si trasforma in un’icona di lotta in Uruguay, diventa referente nazionale de la Asociación de Madres y Familiares de Detenidos-Desaparecidos. Assurge a simbolo per migliaia di donne, manifestando in prima fila per i diritti umani ogni volta che ve n’è occasione, nonostante l’avanzare dell’età. 

    Anni di lotta e di dignità, poi nel 1986 Maria rivela a un settimanale uruguaiano di aver finalmente scoperto perché sparì il figlio. Dieci giorni dopo aver presentato la denuncia di sparizione di Humberto al Ministero degli Affari Esteri uruguaiano, rivelò Maria, l’allora cancelliere Rovira convocò la famiglia Bellizzi. Ed è in quelle stanze che scoprirono la triste verità, anche se in modo ufficioso.

    Perché era stato preso suo figlio? Perché in quel momento, furono queste le parole di un funzionario, «era necessario arrestare tre uruguaiani in Argentina». Ma perché proprio lui? Perché nel 1974, quando ancora l’Argentina era democratica, c’era stata una manifestazione per protestare contro il golpe in Uruguay e 101 manifestanti uruguaiani finirono in una lista, che anni dopo si rivelerà una lista di morte. La colpa di Humberto, dunque, fu quella di aver osato manifestare liberamente contro la violenza. Un affronto i tiranni che non potevano dimenticare.  

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    Il cantante Jorge Drexler posa a sostegno della battaglia per Humberto Bellizzi

    Maria non si è mai fermata, ha aderito convintamente all’idea di far partire il processo in Italia. Il 12 maggio del 2017 è riuscita a incontrare Sergio Mattarella richiamandone l’attenzione sul tema decenni dopo l’impegno di Pertini. Al tempo dell’incontro fra Maria e il Capo dello Stato del suo paese di origine, la sentenza di primo grado del Processo Condor di Roma pareva continuare la linea dell’impunità storica.
    Ma Maria che non è tipo da arrendersi, lo stesso ha manifestato i suoi buoni auspici al Presidente della Repubblica consegnandogli una lettera in cui gli ha chiesto di occuparsi del caso di Nestor Troccoli e dei torturatori che hanno trovato riparo in Italia, invitando Mattarella a leggere i cognomi della lista dei desaparecidos, per potersi accorgere di quanto questa storia abbia a che fare con il nostro paese. 

    «Gli dissi anche che fino all’ultimo respiro della mia vita avrei continuato a lottare per conoscere la verità e fare giustizia per mio figlio e per tutti i detenuti scomparsi», ricorda Maria Bellizzi a I Calabresi, e oggi che finalmente c’è una sentenza definitiva è arrivato il momento di fare il punto sul suo impegno.
    «È stato davvero un sollievo ricevere la notizia della sentenza. Nonostante la distanza nel tempo e nei chilometri», ha aggiunto, «la giustizia è stata conquistata e credo che ora si apra al mondo un precedente internazionale. È importante per le nuove generazioni in tutti i posti del mondo dove tutto questo ancora accade». 

    Quando è stata chiamata a deporre in aula a Roma, nel 2015, gli imputati della scomparsa del figlio erano nel frattempo deceduti. Perciò la sua deposizione ha avuto un valore collettivo, ricostruendo la vicenda della sparizione di Humberto ha potuto parlare del Plan Condor come di un coordinamento repressivo internazionale fra gli apparati di due paesi sotto dittatura militare. 

    «Mi sono trovata davanti una corte lontana, insensibile, disinteressata ai gravi fatti denunciati», ricorda. D’altra parte, però, è grata a tutte le organizzazioni che si sono spese per la causa, dai sindacati agli uffici consolari. «Lasciatemi evidenziare in modo molto positivo l’impegno e la sensibilità di tanti. Del senatore Felipe Michelini, di Jorge Ithurburu e della “24marzo”, del pm Tiziana Cugini e degli avvocati, in particolare il nostro avvocato Arturo Salerni, un eccellente professionista e una persona cordiale, anche lui calabrese. Non posso fare a meno di ricordare e ringraziare giornalisti, storici e testimoni come Roger Rodriguez, Martín Almada, oltre alla ricercatrice Francesca Lessa. È importante che la stampa continui a diffondere i contenuti di questa sentenza, che si affermi grazie alla pena perpetua che la sparizione forzata è un crimine di lesa umanità permanente. È un importante punto di arrivo».

    E ora? «Non è finita. Devo infatti anche sottolineare che nonostante ci sia una condanna, manca la verità. Gli archivi esistono, li conosciamo, ma tutto è ancora nascosto in un patto di omertà che lo conduce alla tomba. Ci devono dire che fine hanno fatto i corpi dei nostri cari, perché esistono ancora, sono presenti, sono memoria. Finché non avremo la risposta continueremo a chiedere con tutta la voce che abbiamo in corpo: ¿Dónde estan?».

    RIVOLUZIONARI DI CALABRIA

    La Regione Calabria si è costituita parte civile nel caso di Humberto Bellizzi. In questa enorme ferita aperta del Novecento, Maria non è l’unica madre coraggio calabrese, ce ne sono tante. Una è Angela Maria Aieta, finita a bordo dei voli della morte per aver sfidato i militari argentini che avevano arrestato suo figlio, Dante Gullo. Alla sua memoria la cittadina tirrenica di Fuscaldo ha dedicato una scuola. Il caso di Angela Maria è uno dei pochi in cui ci si ricorda di ricordare questi emigrati che hanno combattuto per un’idea di pace in continenti lontani. Un altro eroe calabrese di questa vicenda è stato Filippo Di Benedetto, il sindacalista già sindaco del Pci a Saracena che in Argentina ha contribuito a salvare decine di vite. Per la ricostruzione di queste storie in pubblicistica, c’è da ringraziare l’impegno della giornalista calabrese Giulia Veltri.

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    Dante Gullo: sua madre Angela Maria Aieta fu un’altra delle vittime di origini calabresi uccisa in uno dei voli della morte

    Restano però decine e decine gli eroi calabresi di cui non si ricorda nessuno. Come Libero Giancarlo Castiglia da San Lucido, comandante del distaccamento guerrigliero che ha combattuto la dittatura in Brasile. Vite perse nel nulla, come quelle di Salvatore Amico, desaparecido di Corigliano Calabro, Francesco Carlisano di Pizzoni, Lucio Leone di Cosenza. E di tanti, tanti altri, solo a San Basile ce ne sono altri due. Erano fratelli, si chiamavano Hugo e Francisco Scutari Bellizzi. La loro storia è stata raccontata dalla storica calabrese Rossella Tallerico.

    Hugo fu sequestrato il 5 agosto del 1977 e rinchiuso anche lui nel Club Atletico. Lavorava in una banca come delegato sindacale, e combatteva in favore dei diritti dei lavoratori. Anche la sua compagna, Delia fu sequestrata e portata nel Club Atletico, ma dopo 92 giorni fu liberata. Hugo, invece, divenne un desaparecido. Nel loro ultimo incontro, Delia promise al suo amato che avrebbe continuato a combattere in favore della libertà e democrazia, battaglia che dopo 37 anni Delia continua a portare avanti.

    Francisco, invece, fu sequestrato il 18 ottobre del 1978, mentre aspettava un suo compagno di militanza del gruppo politico al quale apparteneva, in un angolo di Buenos Aires. Francisco, giunto all’appuntamento, trovò un operativo delle forze repressive che tentarono di bloccarlo. Lui riuscì a scappare, riparandosi in un palazzo, ma lo catturarono. Una sopravvissuta, detenuta nel Centro di Detenzione El Olimpo, reso celebre dal film capolavoro di Marco Bechis, raccontò al fratello Horacio che Francisco fu portato lì, ma non gli seppe dire se vi fosse arrivato vivo o morto. 

    Per ricordare il coraggio di questi emigrati calabresi a San Basile oggi c’è una piazzetta solitaria, ogni tanto qualche emigrato va a mettere un fiore sotto la targa che dice: “Largo dei desaparecidos”.

  • Amianto, voti e lavoro dalle fabbriche del Tirreno

    Amianto, voti e lavoro dalle fabbriche del Tirreno

    Lavoro, amianto e voti sulla strada che porta alle fabbriche del Tirreno cosentino. Qui a Nord della Calabria non solo il turismo ha creato un po’ di reddito e tanta ricchezza per pochi. Migliaia di uomini e donne erano impiegati in quelle che adesso sono soltanto  archeologia industriale. Operai nelle fabbriche della Marlane e Lini e Lane di Praia a mare, donne alla camiceria di Scalea, alla Foderauto di Belvedere, alla Emiliana tessile di Cetraro. Di tutto questo lavoro oggi non rimane niente.

    Le fabbriche abbandonate
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    Il vecchio stabilimento abbandonato della Lini e Lane

    La Foderauto di Belvedere e la Lini e Lane sono abbandonate, la Emiliana di tessile riconvertita ad altro, la Marlane ancora invasa da rifiuti tossici sotterrati. E sembra incredibile che una struttura di questa grandezza, maestosità, imponenza, totalmente in preda al degrado stia al centro di una cittadina, considerata turistica, come Praia a Mare. Uno scheletro enorme emerge fra campi ancora coltivati, il vicino cimitero, palazzi per turisti e residenti. Si entra da un lato, quasi nascosto, proprio alle spalle del cimitero. Di fronte c’è la linea ferroviaria, dall’altra parte scorre la strada provinciale che delimita un altro scheletro: quello della famigerata Marlane.

    Era una fabbrica con 400 operai

    Quando entri nello stabilimento della Lini e Lane campeggia gigantesco, sulla sinistra, a mo’ di guardiano un enorme serbatoio in cemento e amianto. Una discarica invisibile che non vede nessuno, né il sindaco Praticò, né l’Asl. I tetti sono in amianto, così altre strutture. I topi sono dappertutto. Il silenzio è rotto solo dai treni che passano e che rimbombano all’interno vuoto della vecchia fabbrica. Negli anni Sessanta, questo capannone, era il fiore all’occhiello di tutta la Calabria con 400 operai. Da qui uscivano lenzuola, ricami, fazzoletti, tovaglie per tutta Italia.

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    Il vecchio serbatoio della “Lini e Lane”
    Dalla fabbrica uscivano voti alla Dc

    Lo Stato di allora, i governi di allora, i vari panzoni, forchettoni democristiani venivano a visitarla periodicamente rivendicandone nuovi finanziamenti e nuovi incentivi. Così come alla Marlane e in tutte le fabbriche tessili dell’epoca, a Castrovillari come a Cetraro ed a Scalea, da qui non uscivano solo lini e lane, ma anche voti a profusione per la DC. Basta leggere le interrogazioni parlamentari, finte, che gli stessi democristiani calabresi rivolgevano ai loro stessi governi democristiani. Le facevano dimostrando interesse per gli operai e poi in parlamento votavano per le dismissioni. Le interrogazioni del 1967 portano la firma di Mariano Luciano Brandi, socialista saprese, di area manciniana che fu deputato dal 1968 al 1972. Le altre del 1979 portano la firma di Romei, Buffone, Cassiani, Pucci. Democristiani doc che hanno fatto la storia del partito e della Calabria.

    I sindacati reggevano il sacco ai partiti

    I sindacati non disturbavano i partiti. Si accontentavano di esistere con le loro tessere ed anche loro ne approfittavano per ottenere qualche indotto lavorativo. Come avveniva alla Marlane dove la “triplice” si era spartita tutto l’indotto esterno della Marzotto costituendo cooperative guidate proprio dai segretari di Praia a Mare. Loro sapevano che quelle industrie tessili si reggevano solo con i cospicui finanziamenti delle varie Isveimer, Imi, Gepi, Cassa del Mezzogiorno.

    Non avevamo mai visto uno stipendio mensile

    Sono gli operai che non lo sapevano. Operai che provenivano tutti dal mondo contadino, che non avevano mai visto uno stipendio mensile, e che per loro anche una cifra modesta ricevuta ogni mese, serviva loro per incentivare i loro sogni. Vedere il figlio laureato, pagare qualche debito, comprarsi l’auto, magari una Cinquecento o un tre ruote per andare il pomeriggio in campagna, finirsi la casa costruita mattone per mattone da loro stessi.

    Quel che resta delle fabbriche

    Oggi tutto è ridotto a scheletri industriali. Potrebbero diventare musei questi fabbricati. Ma il loro destino è ben altro. Nonostante le denunce fatte dal Comitato cittadino per le bonifiche dei terreni, nessuno è intervenuto. Il Comune dice di non poter intervenire in quanto l’area apparterrebbe ad un privato di Scalea, il privato non ha soldi per intervenire e cerca un compratore. Intanto la struttura continua a vivere mangiando i rifiuti che solerti cittadini praiesi avvezzi alla differenziata continuano a portarle.

     

  • Sequestri e vacche sacre, c’è del marcio nell’Arma?

    Sequestri e vacche sacre, c’è del marcio nell’Arma?

    Qual è stato il ruolo delle forze dell’ordine nei sequestri di persona avvenuti tra gli anni ’80 e ’90 in provincia di Reggio Calabria? È vero che dei carabinieri collusi con la ‘ndrangheta hanno favorito e sono stati parte attiva nei sequestri? Che uso è stato fatto delle camionette in dotazione all’Arma? È vero che servivano per trasportare i sequestrati ed eludere i posti di blocco delle altre forze dell’ordine? Ma soprattutto, fu proprio perché vide un sequestrato su un mezzo dell’Arma che Stefano Bonfà fu ucciso? Esiste un legame tra i sequestri di persona di ieri e il fenomeno delle vacche sacre di oggi? A questi e ad altri interrogativi, cerca risposta Bruno Bonfà, figlio dell’uomo ucciso il 3 ottobre 1991.

    La ricerca della verità

    Tanti gli esposti denuncia presentati dall’imprenditore agricolo specializzato nelle colture di bergamotto. Diversi i destinatari: ministri dell’Interno e della Giustizia, prefetti, procuratori capo della Dda, commissari straordinari del Governo, il procuratore nazionale Antimafia, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E per ultimo il primo ministro Mario Draghi.
    La richiesta di accertamento di Bruno Bonfà è circostanziata e dettagliata. Chiede di verificare i rapporti tra criminalità, servizi segreti e forze dell’ordine in relazione ai sequestri di persona avvenuti in Aspromonte. Nello specifico, quelli nella vallata de La Verde.
    «Mio padre ha pagato con la vita l’aver visto qualcosa che non doveva vedere. Molto probabilmente uno dei sequestrati a bordo di una camionetta dell’Arma. La mia è una battaglia per la verità – spiega – sui tanti morti trucidati solo perché fortuiti testimoni di quei passaggi inconfessabili».

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    Il frontespizio dell’ultima denuncia presentata dall’imprenditore Bruno Bonfà
    Seguire il denaro per verificare eventuali collusioni

    Bonfà sollecita accurati controlli. Vuol capire come all’epoca la ‘ndrangheta disponesse di informazioni riservate, poi usate per evitare di percorrere strade e sentieri controllati dalle forze dell’ordine presenti sul territorio.
    Per questo motivo chiede di verificare le dichiarazioni rilasciate da un dirigente di Polizia. che confermavano la collusione di parte dei militari dell’Arma di Bianco. Il dirigente fu improvvisamente trasferito in altra sede e Bonfà vorrebbe accertare anche le vere ragioni di quel trasferimento. Ma per individuare i deviati basterebbe «seguire i soldi».

    L’imprenditore, nelle sue denunce, suggerisce un accertamento patrimoniale per tutti i militari in servizio coinvolti nella gestione dei sequestri di persona sul territorio ricadente nella giurisdizione della Compagnia dei Carabinieri di Bianco. In particolare, quelli che operavano «nella vallata La Verde, alle spalle di Africo, nel bosco di Ferruzzano, lungo la fiumara La Verde, direzione Motticella, ai piedi di Samo e nelle relative diramazioni perché crocevia tra San Luca e Motticella».
    «Per scoprire se ci sono stati militari deviati basterebbe – afferma l’imprenditore – fare un semplice incrocio dei dati tra mezzi a disposizione dell’Arma. Percorsi svolti, personale in servizio, eventuali posti di blocco e attuali risorse economiche dei Carabinieri in servizio all’epoca per individuare gli eventuali collusi».
    Su un punto Bonfà non transige: «Tutti gli accertamenti sulla presenza o meno di forze militari deviate devono essere svolte da forze investigative non calabresi. Troppo alto il rischio insabbiamento».

    Sequestri e vacche sacre

    Dal 1998 l’azienda agricola Bonfà, produttrice di bergamotto, è oggetto di incursioni delle vacche sacre della ‘ndrangheta che, a più riprese, hanno distrutto il 70% delle 3500 piante esistenti.
    Grazie alla legge 44/99 è riuscito ad ottenere un indennizzo per i danneggiamenti avuti.
    Circa 200mila euro, elargiti in più tranche. Poca roba rispetto al reale danno subito. Che oggi ammonterebbe a 20 milioni di euro.
    Con le risorse ricevute Bonfà ha ripreso le produzioni che contraddistinguono l’azienda in Italia, ma non basta. Anche perché i pascoli delle vacche sacre sono continuati nel tempo, così come i piccoli danneggiamenti e gli incendi.
    In un primo momento le forze dell’ordine hanno registrato quanto denunciato dall’imprenditore e ci sono stati anche interventi di abbattimento di alcuni capi di bestiame.
    Ma poi, improvvisamente, nulla si è più mosso. Nonostante le decine di foto testimonianza c’è chi ha persino tentato di addebitare i danni presenti all’interno dell’azienda «alla presunta incuria» di Bonfà che l’imprenditore respinge al mittente: «È in corso l’elettrificazione della mia azienda, un servizio di cui godranno tutti gli agricoltori della vallata. Assurdo».

    Gli avvistamenti a marzo 2021

    Del suo caso si sta occupando la Procura di Reggio Calabria e la X Commissione parlamentare. Ma la sua pratica per ricevere un nuovo indennizzo grazie alla legge 44/99 è ferma.
    «A causa – spiega – delle ennesime informative deviate che hanno prodotto le forze dell’ordine e che io ho prontamente denunciato». Silenzi, omissioni e accuse che per l’imprenditore hanno un unico emissario: la ‘ndrangheta. Obiettivo: portare l’azienda al collasso e rilevarla. Ma Bonfà ha la testa dura e ha scelto di continuare la sua battaglia di verità nonostante tutto. «Lo faccio per la memoria di mio padre, non si può far finta di niente. Se tacessi sarei anch’io connivente».

     

     

  • Tirreno inquinato, Magorno come Orsomarso: dalle querele all’imbarazzo

    Tirreno inquinato, Magorno come Orsomarso: dalle querele all’imbarazzo

    La realtà è sotto gli occhi di tutti quotidianamente: l’acqua appare sporca in molti tratti del Tirreno cosentino. Chiamatelo come volete questo sporco: polvere della spiaggia, fioritura algale, mare mosso, detersivi dei fondali. Il dato è che la voglia di fare un bagno è sempre meno. I turisti sui social sono scatenati. Furiosi, pubblicano foto da ogni spiaggia tirrenica con il mare tutt’altro che limpido. E ne hanno piena ragione: una settimana in un hotel o casa privata presa in affitto arriva a costare fino a 1500 euro. Aggiungete il costo dei lidi, dei parcheggi e del sostentamento e alla fine ci si ritrova con una bella spesa.

    Bandiere Blu

    L’esborso si sosterrebbe anche volentieri se si potesse fare un bagno nel Tirreno in tranquillità. Ma se si arriva sulle spiagge e si trovano sporche e il mare, in più, non è balneabile allora ci si sente truffati. Se poi si è venuti in questa zona spinti dalle nuove Bandiere Blu, la sensazione aumenta. Già, le Bandiere Blu: Per ottenerne una – è scritto sul sito che le assegna -, bisogna rispondere a ben 35 criteri che vanno dall’accesso dei disabili alle spiagge al controllo sulla depurazione, passando per l’affissione pubblica dei dati sulla balneabilità. Criteri forse rispettati altrove, mentre ad oggi in nessun paese sul Tirreno cosentino che abbia ottenuto la bandiera Blu tutto ciò si è avverato.

    L’inchiesta sulla depurazione

    Cade come un macigno a mezza estate l’inchiesta del procuratore Bruni sulla depurazione, un macigno grande come un palazzo che ha sconvolto tutti i centri del Tirreno. In particolare, i comuni di Diamante, Buonvicino e San Nicola, paesi sui quali vigeva la legge dei gestori dei depuratori e di funzionari degli uffici tecnici, forti tutti dall’appoggio di un infedele tecnico dell’Arpacal che li avvertiva dell’arrivo di eventuali ispezioni ai depuratori. Il sistema scoperchiato da Bruni dà l’idea di individui presi da delirio di onnipotenza per il tanto danaro che ricevevano dai Comuni con delibere a cadenza mensile. Quasi fossero sicuri dell’impunità, parlavano liberamente fra loro sui cellulari delle loro malefatte e dei traffici in atto.

    https://www.facebook.com/456580921189432/videos/745458892971276

    Dall’inchiesta apprendiamo cose che confermano i timori di quanti da anni lottano per avere un mare pulito individuando le cause della sporcizia e proponendo i metodi per eliminarle. Nell’indagine è finito anche un video che i militanti dell’associazione ambientalista Italia Nostra avevano effettuato a San Nicola Arcella filmando in diretta la rottura della condotta sottomarina e la conseguente fuoruscita dei liquami in mare. Quel video, appena apparso su Facebook, aveva allarmato le ditte, i tecnici, il sindaco di San Nicola, che immediatamente erano corsi ai ripari. Con buona pace di quegli amministratori che vedono negli ambientalisti l’equivalente di un’invasione di cavallette o altre sciagure.

    Magorno come Orsomarso, querele per chi dissente

    L’ultimo ad intervenire in questa direzione è stato proprio il sindaco di Diamante, Ernesto Magorno. Il renziano, infatti, ha stigmatizzato l’intervento di Italia Nostra che ha mostrato proprio il mare sporco fra Diamante e Belvedere in una bellissima giornata. E con una delibera subito approvata dalla giunta ha messo in guardia le associazioni per future querele da parte dell’ente a tutela di un mare pulito per decreto. Neanche due settimane dopo e l’inchiesta di Bruni ha cambiato le carte in tavola.

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    La delibera della Giunta di Diamante firmata meno di due settimane fa dal sindaco Ernesto Magorno

    Gli arresti scattati dopo l’operazione Archimede hanno messo in pausa la questione, con il sindaco che ha commentato l’accaduto lanciando uno striminzito comunicato di appoggio all’azione giudiziaria, come se la cosa non lo riguardasse. Ma il tecnico ai domiciliari è del suo comune, così come i vari responsabili delle ditte in questione. Sono presenti da decenni a Diamante, non solo per il depuratore, ma anche per altre gestioni. Quella dell’acquedotto, per esempio, sulla quale sembra che penda un’altra inchiesta, o quella di diversi appalti su opere pubbliche. Sono sempre gli stessi a vincere le gare e sono sempre gli stessi a poter lavorare.

    Un problema diffuso

    Nei mesi scorsi altre inchieste hanno riguardato ulteriori comuni tirrenici come Maierà, Tortora, Scalea, Praia a mare. Un filo unico che la Procura di Paola sta cercando di portare a galla dopo anni ed anni di acquiescenza . Ma nell’inchiesta c’è di più. Ed è davvero grave.

    I fanghi depurati del depuratore di Buonvicino finivano sotterrati in terreni agricoli e a portarceli erano propri i dipendenti della ditta, autorizzati dal loro capo. Operazioni senza scrupoli che mettevano in pericolo le falde acquifere del territorio circostante oltre che i terreni stessi e le coltivazioni che vi erano. Un’attività criminale scoperta da poco, ma che secondo gli inquirenti andava avanti da tempo. E che si spera l’inchiesta blocchi immediatamente.

  • Catanzaro, Garofalo nuova presidente della Corte d’appello

    Catanzaro, Garofalo nuova presidente della Corte d’appello

    Il giudice Francesca Garofalo è la nuova presidente della terza sezione penale della Corte d’appello di Catanzaro. L’insediamento è arrivato questa mattina, col procuratore generale Beniamino Cortese nel ruolo di cerimoniere. Garofalo subentra all’ex presidente Marco Petrini, finito nella bufera e condannato in primo grado dal Tribunale di Salerno per corruzione in atti giudiziari.

    Da trent’anni a Catanzaro

    La carriera della nuova presidente, iniziata 30 anni fa, si è svolta tutta a Catanzaro.
    Entrata in magistratura nel 1991, Garofalo è stata in servizio fino al 2004, prima alla Pretura e in seguito al Tribunale civile del capoluogo calabrese. Il passaggio in Corte d’Appello, nel ruolo di consigliere, arriva nel 2005. Da allora e fino al 2014 la giudice è rimasta in servizio al civile per poi occuparsi di penale. Quindi, il passaggio alla Corte d’assise di appello, sempre a Catanzaro.

    Tradizioni di famiglia

    Quella tra la famiglia Garofalo e i tribunali locali è una lunga storia. Nata a Lamezia Terme, la nuova presidente è figlia di Giulio Sandro Garofalo, che ha guidato il tribunale di Lamezia all’inizio degli anni 2000. Una carica che adesso ricopre suo figlio Giovanni, insediatosi alcuni giorni fa.

  • Archimede, indagati e destinatari delle misure cautelari

    Archimede, indagati e destinatari delle misure cautelari

    Archimede è il nome dell’operazione coordinata dalla Procura di Paola -guidata da Pierpaolo Bruni – e condotta dai carabinieri della compagnia di Scalea, sotto il comando del capitano Andrea Massari. In dieci sono i destinatari di misure cautelari. Gli inquirenti ipotizzano una serie di condotte collusive e fraudolente. Compreso il ricorso ad appalti spezzatino e allo smaltimento dei fanghi di depurazione senza adeguato trattamento nei terreni agricoli.

    In quattro agli arresti domiciliari

    Quattro persone sono finite agli arresti domiciliari: Tiziano Torrano, Pasqualino De Summa, Giuseppe Maurizio Arieta e Maria Mandato. Coinvolta in Archimede anche il sindaco di San Nicola Arcella, Barbara Mele. Per lei obbligo di presentazione e firma alla polizia giudiziaria. Albina Rosaria Farace e il tecnico dell’Arpacal, Francesco Fullone, sono stati sospesi dall’esercizio del pubblico ufficio per 12 mesi.

    Per Enzo Ritondale e Renato La Sorte disposti rispettivamente il divieto di contrarre con la pubblica amministrazione per 12 mesi e per 6 mesi. Vincenzo Cristofaro raggiunto dal divieto di esercitare la professione di ingegnere per 12 mesi. Sono indagati a vario titolo anche Alberto De Meo, Francesco Astorino, Giovanni Amoroso, Giovanni Palmieri, Giuseppe Oliva, Vincenzo Perrone, e Virgilio Cordero.

  • Orsomarso pronto a denunciare la Procura?

    Orsomarso pronto a denunciare la Procura?

    Fausto Orsomarso l’ha detto e ripetuto: è pronto a denunciare chiunque oserà dire che il mare calabrese è inquinato. Il motivo? La buona qualità delle acque è certificata dai controlli dell’Arpacal. E le chiazze marroni che vi galleggiano sopra? Altro non sono che fioritura algale.

    Poco importa che agli occhi (e spesso al naso) dei comuni mortali quelle macchie ricordino più lo sterco che fioriture. O che queste ultime, qualora la versione dell’assessore venisse confermata in toto, non siano esattamente le beniamine dell’associazione Dermatologi italiani. O, ancora, che tra le possibile cause delle fioriture ci sia anche l’inquinamento. Trascurabili dettagli.

    Questa mattina, però, a mettere in dubbio la bontà delle affermazioni di Orsomarso sono stati proprio coloro che avrebbero dovuto raccogliere le sue eventuali denunce, ossia magistratura e forze dell’ordine. Con la prima che se l’è presa, tra i tanti, proprio con un tecnico dell’Arpacal, reo secondo gli inquirenti di aver taroccato i controlli delle acque in modo da farle risultare più pure di quanto siano in realtà.

    Fossimo in un sillogismo aristotelico l’enunciato sarebbe semplice: Orsomarso denuncia chi dice che il mare è inquinato, la Procura dice che il mare è inquinato, Orsomarso denuncia la Procura. La logica, però, quando c’è di mezzo la politica calabrese non sempre è applicabile.

    Dal maestro Scopelliti al discepolo Orsomarso

    Qualche anno fa, ad esempio, l’allora governatore Scopelliti si presentò in enorme ritardo a una conferenza stampa presso la Confindustria bruzia. Si giustificò spiegando di aver passato le ore precedenti sorvolando in elicottero il Tirreno cosentino insieme agli esperti regionali e la Guardia costiera. Dal volo avevano tratto una conclusione (secondo lui) rassicurante, che enunciò con solennità: «Il mare calabrese non è inquinato, è sporco». Se fosse impolverato o altro non lo chiarì, nonostante gli sguardi curiosi dei suoi ascoltatori.

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    Fausto Orsomarso insieme al celebre dj Bob Sinclar

    Orsomarso, che di Peppe Dj è stato fido discepolo al punto da intrattenersi in consolle con Bob Sinclar l’estate scorsa, ha usato più o meno la stessa tecnica. Solo che l’operazione della Procura di Paola gli ha scombinato i piani. La minaccia gli si è ritorta contro, mentre sui social fiorivano i commenti ironici sull’accaduto. Una figura degna delle celebri profezie di Fassino. O, per restare in tema, una figura di fioritura algale.

     

  • Legnochimica a Rende: lo Stato dimentica, i tumori no

    Legnochimica a Rende: lo Stato dimentica, i tumori no

    Della Legnochimica di Rende non si parla da tempo, se non per gli incendi che colpiscono la zona con sinistra puntualità durante il periodo estivo. Tutto ciò che sembra restare della vicenda complessa e tortuosa dell’ex fabbrica di pannelli in ledorex che fu il simbolo dello sviluppo industriale d’Oltrecampagnano è un processo per disastro ambientale.
    Si trascina stancamente davanti al Tribunale di Cosenza e quasi non fa più notizia. Analogamente, risultano ferme tutte le ipotesi di bonifica delle vasche di decantazione della ex fabbrica, cioè i laghetti artificiali che vanno periodicamente in autocombustione e tormentano gli abitanti della zona con i loro odori metifici.

    Un disastro ambientale su scala

    Rende non è Taranto: non ne ha il mare bellissimo e le cozze saporite. Ma se si opera un paragone su scala, è facile capire che Legnochimica ha pesato nella vita e nell’economia di Rende come le acciaierie nella città pugliese.
    Nel bene e nel male. Anzi, visto che siamo in Calabria, il male prevale: la fabbrica che occupava centinaia di persone non c’è più. Su parte dei suoi terreni, nel frattempo liquidati in tutta fretta, sono sorte altre attività economiche, anche importanti, ma dalla capacità occupazionale decisamente minore.

    Al posto della vecchia Spa, riconducibile alla famiglia Battaglia di Mondovì, c’è una srl, che ha la proprietà dei tre laghi artificiali residui, dei terreni circostanti e di ciò che resta delle ultime strutture aziendali, aggredite anch’esse a più riprese dalle fiamme.
    Il mistero si annida in questi trenta ettari di terreno, attorno ai quali si snoda via Settimo, una zona abitata da alcune famiglie che sono, allo stesso tempo, memoria storica e vittime della storia di uno dei più ambiziosi tentativi di industrializzazione della Calabria. Prima hanno visto la fabbrica sorgere e svilupparsi, poi hanno pagato un tributo di lutti e lacrime a questo sogno finito quasi in niente.

    La chiusura di Legnochimica

    Legnochimica chiuse i battenti a inizio millennio e, dal 2006, cominciò un processo tortuoso di liquidazione volontaria, fermato due anni dopo da Eraldo Rizzuti, assessore all’Ambiente della giunta di Rende guidata da Umberto Bernaudo, che nutriva seri dubbi sull’opportunità di liquidare i terreni e di coprire i laghi artificiali senza una doverosa bonifica. Purtroppo, i fatti gli hanno dato ragione: ad agosto 2008 si verificò la prima “autocombustione” delle vasche. Era l’avvio di una brutta vicenda destinata a peggiorare.

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    Eraldo Rizzuti, assessore all’Ambiente del Comune di Rende quando il sindaco era Umberto Bernaudo

    Infatti, a partire dal 2009, varie persone iniziarono a morire. Se ne contano dieci in meno di due anni, tutte per tumori alle parti molli, in particolare al pancreas (circa sei). Un indizio, a detta degli esperti, di almeno due cose: la presenza di inquinamento industriale e di un’epidemia tumorale. Purtroppo, gli indizi non sono prove.
    Ma in Calabria accade di peggio: la mancanza di un registro dei tumori li abbassa a livello di suggestioni, perché l’assenza di un database impedisce di elaborare i rilievi statistici necessari per puntare il dito verso qualcosa o qualcuno. Ed ecco che questa tragedia ha un peso secondario nell’attuale processo per disastro ambientale.

    La guerra delle perizie

    Il peso relativo dei morti non è l’unico paradosso di questa vicenda. Attorno all’ex Legnochimica di Rende si è scatenata una vera e propria guerra dei periti, che sostengono tesi diverse, quasi diametralmente opposte.
    La prima tesi, elaborata dall’Arpacal, minimizza la portata dell’inquinamento. Le sostanze inquinanti, a detta dei funzionari dell’Agenzia regionale, ci sarebbero, ma quasi nei livelli consentiti dalla legge. Il sottinteso è evidente: con una pulizia minima, è possibile interrare i laghi residui e procedere alla liquidazione.
    La seconda tesi è decisamente più pesante e autorevole. L’autore è l’ex rettore dell’Unical, Gino Mirocle Crisci, in qualità di consulente per la prima inchiesta giudiziaria sulla ex Legnochimica.
    Questa inchiesta partì in seguito alle autocombustioni del 2008 ed ebbe come indagato Palmiro Pellicori, all’epoca liquidatore dello stabilimento.

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    L’ex rettore dell’Università della Calabria, Gino Mirocle Crisci

    Crisci, per soddisfare le richieste della Procura, portò avanti una serie di carotaggi e di prelievi fino a trenta metri di profondità. I risultati della sua ricerca restano inquietanti: nel sottosuolo dell’ex stabilimento c’è una concentrazione abnorme di acido cloridrico, zinco e metalli pesanti. Secondo le stime dell’ex rettore sarebbero in quantità superiore alle soglie legali di circa cento volte.
    La relazione di Crisci finì come il procedimento per cui l’aveva elaborata: archiviata, perché nel frattempo la morte di Pellicori, unico indagato, aveva fermato il procedimento.
    Ed ecco il paradosso: fino al 2016, l’unica perizia ad avere un valore legale era quella soft dell’Arpacal, mentre quella di Crisci manteneva un suo valore scientifico ma restava di fatto inutilizzabile.
    Intanto, le autocombustioni sono proseguite e le persone hanno continuato a morire.

    La nuova inchiesta

    La seconda inchiesta è partita nel 2016, anche sulla spinta di inchieste giornalistiche. Stavolta, sono finiti nel mirino Pasquale Bilotta, il liquidatore che aveva preso il posto di Pellicori, e alcuni vertici dell’amministrazione di Rende: il sindaco Marcello Manna, Francesco D’Ippolito, assessore all’Ambiente della giunta Manna dal 2014 al 2019, e Francesco Azzato, dirigente dell’Ufficio tecnico del Comune.
    Per questi tre il procedimento è terminato nel 2019, con un non luogo a procedere, pronunciato dal Gup di Cosenza e confermato dalla Corte d’Appello di Catanzaro.

    Alla sbarra è rimasto il solo Bilotta, sul quale gravano le accuse di disastro ambientale e omessa bonifica. Il processo, iniziato dalla procuratrice aggiunta Marisa Manzini e gestito in aula dal pm Antonio Bruno Tridico, prosegue a rilento.
    Ma tra le polemiche, sempre più in sordina, e i brogliacci giudiziari è quasi sparito il problema reale: la bonifica.

    La bonifica della discordia

    Il problema è più che sentito dall’amministrazione attuale di Rende. «Il Comune è intervenuto nei limiti delle sue disponibilità», spiega il sindaco Marcello Manna. Politichese? Proprio no: «Com’è noto, siamo in predissesto», argomenta ancora il sindaco, «e abbiamo un problema giuridico non secondario: l’esproprio».
    Secondo l’attuale normativa in materia di disastro ambientale vige il principio per cui “chi inquina paga”, quindi toccherebbe alla srl di Mondovì, attualmente sotto curatela fallimentare, togliere i quattrini. L’alternativa, fa capire il sindaco, sarebbe procedere all’esproprio previo inserimento dei terreni della Legnochimica nelle apposite liste del Ministero dell’Ambiente. Ma dalla Regione tutto tace. «Abbiamo fatto molte istanze a Catanzaro, tutte finite in rimpalli burocratici», argomenta ancora Manna.

    Ma la burocrazia è solo uno dei problemi. Un altro, gravissimo, è dovuto alla mancanza di un piano di caratterizzazione. Sul punto, è intervenuto con chiarezza Francesco Azzato, dirigente dell’Ufficio tecnico del municipio: «Noi abbiamo finanziato una borsa di studio dell’Unical per ottenere una nuova perizia», il cui scopo non è «la caccia al colpevole ma dare indicazioni efficaci per una bonifica». Il risultato è lo studio del professor Salvatore Straface, che riprende il leitmotiv della vecchia ricerca dell’Arpacal: i laghi non sarebbero inquinati in maniera pericolosa. Punto e a capo?

    Ancora lutti a Rende

    Se ci si attiene invece ai risultati della perizia di Crisci, bonificare costerebbe circa dieci milioni di euro. Una somma di cui non dispone il Comune e che è difficile da captare da altri fondi, regionali e nazionali.
    E, come già anticipato, i lutti continuano: dal 2016 a oggi se ne contano altri dodici, con la stessa tipologia dei precedenti nove. Quasi tutte le persone sono morte di tumori alle parti molli, tutti i decessi si sono verificati a via Settimo e dintorni, quindi a distanza significativamente breve dall’ex Legnochimica di Rende, tutti sono avvenuti in un lasso breve, poco più di tre anni.

    Ciò che pesa di più su questa vicenda è il nuovo silenzio surreale. I suoi spazi mediatici sono ridottissimi e le poche voci del territorio quasi spente. La XAssociazione Crocevia, per anni in prima fila nella battaglia sull’ex stabilimento, ha perso la propria sede e ha ridotto le proprie attività. Gli altri comitati si limitano a comunicati stampa duri ma poco ascoltati.
    A Rende, come a Taranto, per decenni si è barattato l’ambiente (e quindi la salute) col lavoro. Ma al posto delle ciminiere è rimasto un fantasma. Inquietante, pericoloso e forse letale, come in un romanzo horror che difficilmente potrà avere un lieto fine.

  • A scuola di truffa: le “Note dolenti” di Cinquefrondi

    A scuola di truffa: le “Note dolenti” di Cinquefrondi

    La scuola come un’azienda. Dove, quindi, è possibile truffare per proprio tornaconto. È un vero e proprio “sistema” quello che avveniva all’interno dei Liceo Musicale di Cinquefrondi. A farlo emergere, un’inchiesta della Procura della Repubblica di Palmi, eseguita dai carabinieri. “Note dolenti” il nome del fascicolo. Iscritte nel registro degli indagati cinque persone. Insegnanti, ma anche lo stesso dirigente scolastico del plesso.

    Indagata la preside

    Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, truffa ai danni del Ministero dell’Istruzione e abuso d’ufficio i reati contestati dal pubblico ministero Daniele Scarpino. Gli inquirenti parlano di «un illecito sistema di false, forzate e irregolari iscrizioni di studenti finalizzato a indurre in errore le articolazioni territoriali del Ministero della Pubblica Istruzione». Tutto «per costituire le prime classi anche senza un numero minimo di iscritti, o falsificando o non svolgendo le prove obbligatorie di ammissione, e quindi consentendo un ingiusto profitto di retribuzione ad alcun insegnanti».

    Tra le persone indagate, Francesca Maria Morabito, dirigente scolastico del plesso di Cinquefrondi, a sua volta costola del Liceo “Giuseppe Rechichi” di Polistena. Morabito, due mesi fa, è stata eletta presidente dell’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria. Dai dati ufficiali riportati su istruzione.it, emerge come il Liceo di Cinquefrondi abbia cinque classi per 69 alunni. Una media di 13 alunni per classe.

    L’ingiusto vantaggio in almeno due anni scolastici

    Analisi documentali e testimonianze per ricostruire le condotte, che si sarebbero perpetrate nel corso di almeno due anni scolastici. Le indagini avrebbero dimostrato come nei test attitudinali di ingresso per l’anno scolastico 2019/2020, la commissione esaminatrice, composta dal dirigente scolastico e altri docenti in servizio presso l’istituto formativo, abbia falsificato il verbale pubblico di commissione.

    Sarebbe stata attestata l’idoneità di alcuni alunni che neanche si erano presentati alle prove valutative. Successivamente, al fine di avere un numero minimo di studenti, gli stessi alunni sarebbero stati forzatamente iscritti alla classe prima. Così il Ministero dell’Istruzione sarebbe caduto in errore. Nelle successive comunicazioni, infatti, la classe risultava composta da un numero di studenti superiore a quello reale. E così, si stilava un orario di lezioni comprensivo di ore di insegnamento per alunni in realtà inesistenti.

    Una circostanza che si sarebbe ripetuta anche nel successivo anno scolastico, il 2020/2021. In questo caso, la dirigente scolastica, nonostante uno specifico obbligo di legge, non avrebbe consapevolmente costituito la commissione esaminatrice e non indetto le preordinate prove per la verifica delle competenze musicali degli aspiranti studenti. Questa, infatti, è una condizione necessaria ai fini dell’iscrizione. Così facendo, quindi, la dirigente scolastica avrebbe formalmente istituito la classe. Ma era solo una formazione “di carta”, che avrebbe così permesso ingiusti vantaggi patrimoniali ad insegnanti non di ruolo. In un caso, addirittura, la stessa dirigente si sarebbe illegittimamente sostituita all’identità di un genitore di una alunna minorenne. Tutto al fine di compilare e registrare fittiziamente la domanda di iscrizione.

    Pubblica istruzione da spolpare

    Nella provincia di Reggio Calabria sono numerose le scuole costrette a chiudere i battenti per la mancanza di numeri richiesti, come abbiamo mostrato con il reportage di Vincenzo Imperitura sulla Locride. Così si accorpa l’intero percorso formativo in un’unica classe. Soprattutto per quanto concerne le scuole medie. Diverso quanto accaduto al Liceo Musicale di Cinquefrondi.

    Sì, perché tale sistema/meccanismo avrebbe comportato un ingiusto profitto in favore di alcuni insegnanti, anche non di ruolo. Retribuzione stipendiale per lezioni individuali mai effettuate, oltre che ulteriori eventuali vantaggi in termini di punteggi e graduatorie. Così, dunque, la Pubblica amministrazione, anzi, la Pubblica istruzione, diventa una mammella da succhiare, una torta da dividere, carne da spolpare. Grazie una gestione burocratica e amministrativa illecita, che avrebbe portato illegittime retribuzioni ad insegnanti ed altri docenti, di ruolo o non. Una illecita alterazione del sistema di assunzione, distribuzione e pagamento delle ore di insegnamento.