Tag: giustizia

  • Il sacco dei boschi nella Calabria degli incendi

    Il sacco dei boschi nella Calabria degli incendi

    «L’attacco criminale al patrimonio naturale della terra di Calabria ha interessi precisi e individuabili. C’è necessità di massimo impegno nel controllare il territorio ed individuare mandanti ed esecutori di questa tragedia». Il sindaco di Napoli e candidato alla presidenza della Regione, Luigi De Magistris, ne è sicuro. Dietro l’ondata di incendi che, ormai da settimane, investe la Calabria, vi sarebbero una strategia e un disegno. De Magistris, tuttavia, non indica alcunché di ulteriore rispetto alla grave affermazione. Elementi che, al momento, non sembrano essere concreti.

    I boss e la montagna

    Ma c’è un dato certo: da decenni, ormai, i boschi calabresi sono stati conquistati dal crimine. Comune e organizzato. Non può essere dimenticato il sangue versato nell’ambito della “faida dei boschi” scoppiata tra gli anni ’70 e gli anni ’80 tra le famiglie di ‘ndrangheta nel territorio montano a cavallo delle province di Catanzaro, Vibo Valentia e Reggio Calabria. Che poi ha avuto una recrudescenza anche negli anni 2000, con gli ultimi delitti fino al 2013.

    Gli incontri riservati

    Negli anni e progressivamente, lo Stato ha lasciato, centimetro dopo centimetro, ettari ed ettari di macchia calabrese. Che è diventata terreno congeniale per effettuare incontri riservati di ‘ndrangheta, come dimostrato fin dal 1969 con il summit di Montalto, dove cosche e destra eversiva progettavano piani criminali. O per nascondere latitanti. Magari per sotterrare armi ed esplosivi. O per installare enormi e fiorenti coltivazioni di marijuana. I ritrovamenti, da parte delle forze dell’ordine, sono pressoché quotidiani. Ed è quindi, impossibile, fornire un quadro d’insieme su un fenomeno gigantesco.

    Le vacche sacre

    L’intervento sui boschi, in Calabria, ha percorso due strade. Prima l’antropizzazione delle campagne. Con interventi che le hanno disboscate e devastate. Poi la desertificazione del territorio, che, quindi, ha portato a migliaia di ettari sostanzialmente incontrollati. O, meglio, controllati dal crimine organizzato, soprattutto. La ‘ndrangheta. Anche il fenomeno delle “vacche sacre”, sempre in maggiore aumento, si inquadra in questo sistema in cui i boschi e le campagne sono ormai lasciati alla mercé del crimine e del malaffare.

    Il re della montagna

    Non è un caso che, negli anni, l’Aspromonte, più che scenario di bellezze paesaggistiche, ambientali e animali, sia stato prima teatro di numerosi sequestri di persona. Dove, peraltro, si sono sperimentate le peggiori alleanze e trattative tra Stato e ‘ndrangheta. Poi ambienti ideali dove nascondere i latitanti. E, infatti, uno dei boss più importanti che la ‘ndrangheta abbia mai avuto, Rocco Musolino, era soprannominato il “re della montagna”. Il suo feudo era Santo Stefano in Aspromonte, lì dove Gambarie doveva diventare una grande meta turistica e sciistica. E dove, in alta stagione invernale, non funziona nemmeno la seggiovia. Don Rocco Musolino, massone, in contatti di affinità con alti magistrati, è morto alcuni anni fa. Senza condanne definitive per ‘ndrangheta. Nel proprio letto, come nelle migliori tradizioni criminali.

    Il business dei terreni

    Quando, poco prima di Ferragosto, il capo della Protezione Civile, Fabrizio Curcio, è sceso in Calabria per monitorare la drammatica situazione di quei giorni, ha stimato in circa 11mila gli ettari bruciati sul territorio. Ovviamente, nei dieci giorni successivi il dato è certamente aumentato. Anche se non possediamo cifre ufficiali.

    È indubitabile che la maggior parte dei roghi sia di origine dolosa. Ma è ormai sempre più marginale il fenomeno dei piromani isolati, che appiccano il fuoco a causa della loro patologia e che amano crogiolarsi nel disastro causato. Molto più preoccupante è ciò che può riguardare i tentativi di lucro sui terreni. E, ovviamente, un territorio in larghi tratti incontrollato e disabitato, dove è ormai saltato da anni il sistema di controllo, anche un piccolo focolaio viene scoperto in enorme ritardo. Quando la situazione è già ampiamente compromessa.

    Le autorizzazioni in Regione

    Poco più di un anno fa, gli investigatori hanno effettuato un accesso agli atti degli uffici della Regione Calabria, per verificare se i tagli effettuati nei boschi calabresi siano in numero superiore rispetto alle autorizzazioni rilasciate. Un meccanismo abbastanza rodato è quello delle aste boschive per poter lucrare sulla vendita del legame.

    Le ‘ndrangheta tra i boschi della Sila

    L’altopiano della Sila e suoi boschi sono zone franche. I controlli pressoché inesistenti. E, quindi, bocconcini succulenti per la ‘ndrangheta.  Una recente inchiesta della Dda di Catanzaro avrebbe dimostrato come i boschi della Sila fossero nella loro totalità ad appannaggio delle cosche di ‘ndrangheta. Con il monopolio del taglio boschivo. Perché l’enorme fenomeno di disboscamento abusivo delle foreste calabresi non indica un’assenza di controllo di quei luoghi. Bensì l’esatto opposto. Se si taglia, se si disbosca, se si porta via la legna, è perché qualcuno lo permette. Accadeva in Sila con gli imprenditori Spadafora, coinvolti nel maxiprocesso “Stige”. Anche grazie alla presunta complicità del maresciallo Carmine Greco, ex comandante della stazione forestale di Cava di Melis, nel Comune di Longobucco. Un soggetto attorno a cui ruotano vicende torbide che hanno coinvolto o sfiorato anche magistrati.

    Il lucro sui terreni bruciati

    Proprio dalle carte raccolte sul conto di Greco, emergerebbe il ruolo degli Spadafora in un affare che riguarda l’acquisizione di un bosco molto grande. Che era stato recentemente aggredito da un incendio. Ecco il meccanismo di lucro sui terreni bruciati. L’area, per essere tagliata, aveva bisogno di una autorizzazione regionale. Che doveva poi prevedere anche la possibilità di una nuova semina per il rimboschimento. L’interesse dei gruppi criminali sui terreni interessati dagli incendi è fatto notorio, anche attraverso stime al ribasso dei terreni. Dietro il disastro che ad agosto ha (fin qui) causato sei vittime in Calabria, potrebbe esserci proprio questo business. Sempre in uno dei filoni d’indagine sul conto di Greco, degli Spadafora e della ‘ndrangheta dei boschi, è stata ritrovata contabilità occulta riguardante i profitti realizzati col traffico di materiale nelle centrali a biomasse.

    Un forestale ogni 190 abitanti

    Figure mitologiche. Al centro di scandali, ma anche tanta ironia sul web. Sono gli operai forestali calabresi. Uno studio di qualche anno fa, aveva dimostrato come fossero in un numero più elevato rispetto ai Rangers canadesi. Con proporzioni tragicomiche: un forestale ogni 190 abitanti, a fronte di un Rangers ogni 7800 abitanti.  Figure istituite per risanare il suolo calabrese, devastato dalle alluvioni degli anni ’50. Ma la Sila, l’Aspromonte e il Pollino non sembrano aver beneficiato di tali figure. Anzi. Ogni anno il governo centrale doveva rifinanziare il settore e, ciclicamente, si aveva notizia di sprechi, malversazioni. Infiltrazioni della ‘ndrangheta nelle schiere infinite.

    Clientele e prebende

    Trenta, forse quarantamila i forestali calabresi nei tempi d’oro. Come in ogni grottesca vicenda calabrese, la realtà si mischia alla leggenda. Attualmente sarebbero 3.000 gli operai che dipendono da Calabria Verde, l’azienda regionale che ha assorbito l’Afor. E poi circa altre 1700 unità tra i Consorzi di bonifica e i parchi. Insomma, molti di meno rispetto al passato. Ma costerebbero ancora circa un milione e mezzo di euro all’anno. E hanno un’età media di 60 anni. Segnalati, raccomandati. Talvolta con precedenti penali. Imboscati. Nel vero senso della parola. Al di là delle cifre, il problema è concettuale. I boschi calabresi (e ciò che ruota attorno a essi) sono stati, ancora una volta, una camera di compensazione per piazzare i propri uomini. Per fare clientele e pagare prebende. E, ovviamente, anche la ‘ndrangheta ha pasteggiato.

    Le nomine dei Parchi

    Le nomine dei presidenti dei Parchi, di scelta politica, spesso non mettono al riparo dalle ingerenze del potere. E tutto ciò, poi, porterebbe a una gestione talvolta carente, talvolta pedestre. Se si pensa che il Piano Antincendi del Parco Nazionale dell’Aspromonte, oggi presieduto da Leo Autelitano, verrà completato solo il 6 agosto scorso. Quando già le fiamme avevano avvolto ettari ed ettari di territorio. Degli 11mila ettari in fumo comunicati da Curcio prima di Ferragosto, ben 5.400 sarebbero quelli bruciati solo in Aspromonte.

    Le presunte pressioni sul presidente del Parco

    Sono di alcuni mesi fa le dichiarazioni rese in aula nel processo “Gotha” dall’ex presidente del Parco Nazionale dell’Aspromonte, Giuseppe Bombino. Ha riferito delle presunte ingerenze dell’allora consigliere regionale della Calabria e oggi deputato di Forza Italia, Francesco Cannizzaro, per la nomina del Direttore del Parco Nazionale dell’Aspromonte. Sponsorizzando un soggetto, nonostante questi non avesse i requisiti necessari per essere inserito nella terna di persone da sottoporre al Ministro per la nomina. Bombino avrebbe ricevuto pressioni sia da destra che da sinistra, anche su un soggetto ritenuto vicino all’ex assessore regionale, Demetrio Naccari Carlizzi: «Non volevo una persona locale alla direzione del Parco, perché temevo che più che rispondere al territorio potesse rispondere ai propri sponsor» – dirà in aula.

    Attività predatoria sui fondi

    Sempre in quell’occasione, l’ex presidente del Parco parlerà di una «assegnazione clientelare dei fondi» gestiti dall’Ente Parco. Secondo il suo racconto, in passato, le attività non venivano promosse secondo piani organici ma, al contrario, erano i singoli Comuni che, tramite associazioni e/o cooperative, richiedevano finanziamenti per attività di loro esclusivo interesse.  L’ex presidente del Parco parlerà anche di «attività predatoria» sui fondi e di un metodo per «fregare l’ente pubblico per interessi localistici».

    Forse il disastro dei boschi calabresi potrebbe avere come causa anche questo tipo di dinamiche.

  • Caminia, il paradiso perduto dice basta al cemento abusivo

    Caminia, il paradiso perduto dice basta al cemento abusivo

    Dal 1969 ad oggi un abuso lungo 52 anni segna la storia di uno dei tratti di costa più suggestivi della Calabria. Caminia, provincia di Catanzaro, comune di Stalettì, è una lingua di terra costeggiata da macchia mediterranea e da un mare caraibico.
    Un paradiso che si è riusciti a deturpare stuprandolo con abusi di ogni tipo: costruzioni “ignoranti” ammassate una sull’altra, casette poggiate sulla spiaggia a pochi metri dal mare, canaloni di scolo di cemento armato da cui non scola più niente perché non hanno mai visto neanche un’ora di manutenzione.

    Un mostro sul mare

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    Ci sono voluti più di 45 anni perché qualcuno, in questo caso la Procura di Catanzaro, accendesse un faro su questa vergogna nazionale.
    Inizia tutto nel 2015 con il progetto per la costruzione di un megavillaggio proprio sopra la baia di Caminia. Arrivano le ruspe e fanno il loro lavoro. Scavano e producono detriti, una enorme quantità di detriti, che vengono gettati a valle e ostruiscono i 2 canaloni di scolo che costeggiano un villaggio vacanze. Sono nove piccoli bungalow e un parcheggio sorti sul demanio marittimo proprio sotto il costone del fondo Panaja di Caminia.

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    L’area recintata al cui interno sorgevano i bungalow demoliti e quel che resta degli arredi interni

    È a questo punto che Caminia esce dal cono d’ombra e si scopre, grazie all’indagine coordinata da Nicola Gratteri, che si tratta di un’area demaniale di 5.000 mq sottoposta a vincolo paesaggistico e identificata come zona a rischio frana, alluvione e inondazione dal Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico Regionale.
    Il 17 dicembre 2020 i proprietari di un villaggio e i residenti di una settantina di villette a schiera a pochi metri dalla spiaggia di Caminia ricevono il provvedimento di sequestro dei fabbricati.
    Passano altri 6 mesi e, il 22 giugno scorso, la Procura della Repubblica di Catanzaro invia il provvedimento esecutivo. Le demolizioni iniziano il 20 luglio e terminano come da cronoprogramma il 16 agosto 2021.

    Il deserto degli abusivi

    Oggi il paesaggio è spettrale: i bungalow sono stati rasi al suolo e uguale sorte dovrebbe toccare a tutte le villette che dal “villaggio Aversa” arrivano alla fine della spiaggia di Caminia. Una schiera interminabile di casette – tutte rigorosamente abusive – abbandonate in fretta dai proprietari che dopo la comunicazione dell’Autorità giudiziaria non possono più abitarle anche se hanno presentato un ricorso in Tribunale per bloccare l’esecutività delle demolizioni. Ci vorrà del tempo, ma la sorte, anche per queste costruzioni, dovrebbe essere la stessa.

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    Case abusive sotto sequestro a pochi metri dalla spiaggia di Caminia

    In un primo momento i proprietari del villaggio hanno tentato la strada della mediazione con l’aiuto di un legale. A quanto è dato sapere la famiglia Aversa era anche riuscita ad arrivare a un compromesso. Avrebbe dovuto sborsare oltre 2 milioni di euro per arrestare l’iter delle demolizioni senza la certezza però di acquisire la proprietà del terreno. Un incognita per il futuro e un rischio troppo grosso.
    Hanno desistito, anche su consiglio del procuratore Mariano Lombardi, storico frequentatore della spiaggia di Caminia.

    E gli Aversa, che oltre al villaggio abbattuto gestiscono lo stabilimento balneare lido Panaja, quest’ultimo perfettamente in regola per concessione e pagamento dei tributi, hanno preferito prendere in locazione una vasta area nella zona di Pietragrande, a poche centinaia di metri da Caminia, da adibire a parcheggio. Da lì, con le navetta, accompagnano i clienti alla spiaggia.

    Il Comune in cerca di idee

    Il futuro comunque qualche porticina la lascia aperta. Si parla di un bando del comune di Stalettì per la gestione dell’area in cui sorgeva il villaggio. Notizie precise ancora non ce ne sono. Sulla questione il sindaco di Stalettì, Alfonso Mercurio ci ha detto: «Stiamo lavorando a un concorso di idee per l’area oggetto di demolizione. Il bando sarà pubblicato in autunno e il miglior progetto sarà scelto da un’apposita commissione e riceverà i finanziamenti previsti dalla Regione Calabria».

    La baia di Caminia, il golfo di Copanello, le vasche di Cassiodoro sono solo tre dei tesori naturali del Comune di Stalettì. «Siamo un piccolo comune – precisa Mercurio – e non abbiamo le risorse sufficienti. Per portare a reddito e rendere attrattive queste aree abbiamo bisogno di contributi pubblici. Ben vengano dunque le risorse stanziate dalla Regione per il rifacimento delle fognature e per il ripristino della zona archeologica Fonte di Panaja».

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    La baia di Caminia vista dall’alto

    Ma perché solo uno dei villaggi presenti sul demanio è stato raso al suolo? «La Cabana – spiega Mercurio – è titolare di concessione. Gli Aversa, invece, hanno costruito senza mai riconoscere la proprietà del demanio a differenza di quanto fatto con lo stabilimento balneare Panaja».

    Legambiente teme il bis

    La presidente di Legambiente Calabria, Anna Parretta, commenta così la vicenda: «Restiamo in attesa della demolizione di tutte le villette abusive, incluse quelle ancora sub iudice, un vero ecomostro diffuso per come è stato definito, e del conseguente recupero ambientale effettivo del territorio. Non vogliamo che restino ferite aperte come quella, ben visibile, rimasta a Stalettì dopo l’abbattimento di parte di villaggio Lopilato, seguito ad anni di lotte ambientali». Nei progetti dell’amministrazione il rilancio di Caminia passa da «un adeguato piano parcheggi e da una mobilità sostenibile. E quando arriveranno le risorse del Recovery plan noi saremo pronti».
    Speriamo che non abbia in mente un’altra colata di cemento.

  • Tribunale Rossano, è pure un flop a cinque stelle

    Tribunale Rossano, è pure un flop a cinque stelle

    È pure un flop a 5 stelle la mancata riapertura dell’ex Tribunale di Rossano. Il M5S poteva fare di più con 4 parlamentari della Sibaritide. Ci sarebbe da aggiungere Vittoria Baldino, originaria di Paludi ma eletta nella circoscrizione Lazio 1.
    Al Governo il ministro della Giustizia è stato fino a poco tempo fa un grillino ortodosso e giustizialista come Alfonso Bonafede. Nessun partito o movimento politico ha mai avuto una pattuglia così grande da quelle parti. Centrodestra e centrosinistra non hanno fatto meglio.
    La città adesso è diventata Corigliano-Rossano e conta 80mila persone. Ha il Pil più alto della Calabria e tanta storia ma non si è mai arresa allo scippo del Tribunale. Almeno nella sua componente rossanese. Perché il campanilismo qui non è morto con la città unica.

    L’ingresso dell’ex tribunale di Rossano Calabro durante l’occupazione
    La Scutellà si batte in solitaria

    Eppure qualcuno nel Movimento 5 Stelle in questi anni ha tentato di muovere le acque. Elisa Scutellà, deputata grillina di Corigliano-Rossano, ha presentato una proposta di legge per la riapertura dei 31 tribunali. Adesso si attende che arrivi in Commissione Giustizia, di cui lei fa parte. Poi seguirà il normale iter alla Camera di competenza. Non è così facile. Perché gli equilibri politici sono cambiati. Non poco. Tra Bonafede e la Cartabia esiste una distanza siderale. Così come tra Conte e Draghi.
    La proposta di legge porta la firma anche delle parlamentari calabresi Enza Bruno Bossio (Pd) e Wanda Ferro (Fdi). Ma non quella di Vittoria Baldino, Francesco Forciniti e Francesco Sapia. Gli ultimi due hanno lasciato il movimento quando Grillo ha imposto di votare la fiducia a Draghi.

    Elisa Scutellà, parlamentare del Movimento 5 stelle
    E in Senato?

    La senatrice Rosa Silvana Abate non poteva tecnicamente firmare la legge della Scutellà. Invece poteva essere tra i firmatari dello stesso testo presentato a Palazzo Madama da un’altra 5 stelle, Felicia Gaudiano. Non lo ha fatto. Anche la Abate però fa parte della squadra di parlamentari della Sibaritide.

    In principio fu la Cancellieri

    La Riforma della Giustizia del ministro Annamaria Cancellieri ha di fatto emesso la sentenza di morte verso il tribunale di Rossano e altri 30 in tutta Italia. Era il 2012. Non è andata meglio con Andrea Orlando, ex guardasigilli del Pd da sempre vicino al consigliere regionale della Calabria, Carlo Guccione. Il centrodestra ha, pure, la sua quota di responsabilità. E su Jole Santelli, allora parlamentare di Forza Italia e in passato sottosegretario alla Giustizia, è sempre circolata insistentemente la voce che si fosse spesa per la salvezza del Tribunale di Paola. Lei si è sempre opposta con forza a questa versione. Vennero un po’ tutti alla protesta per la riapertura del Tribunale, soprattutto il Pd con i suoi parlamentari.

    Nel 2013 erano tutti nel Pd. Da sinistra Stefania Covello, Enza Bruno Bossio, Ernesto Magorno e Mimmo Bevacqua a sostegno della protesta pro Tribunale

     

    Il colpo a vuoto di Graziano

    L’ultimo tentativo di portare avanti la battaglia per il tribunale di Rossano si è scontrato con la mancanza del numero legale. Così gli stessi colleghi di maggioranza e opposizione hanno affossato la proposta di legge del consigliere regionale dell’Udc, Giuseppe Graziano. Voleva essere un atto di impulso verso il Parlamento. A questo punto ci si chiede se la trovata di Graziano fosse o meno velleitaria ed elettorale, visto che si vota a ottobre e rimane forse una sola seduta a Palazzo Campanella per approvare il testo del “Generale”.

     

     Era uno Stasi di lotta
    Da sinistra l’ex governatore della Calabria, Peppe Scopelliti con Mauro Mitidieri e Flavio Stasi, allora impegnati nello sciopero della fame in difesa del tribunale

    Fatta la nuova città, trovato il nuovo sindaco: Flavio Stasi. Una parte di credito e fiducia se l’era conquistata proprio quando fece – insieme all’attuale assessore agli Affari legali, Mauro Mitidieri – lo sciopero della fame in difesa del Tribunale di Rossano. Allora Stasi era militante e attivista di Terra e Popolo. Adesso è tutto cambiato. Da primo cittadino ha presieduto nel 2020 un consiglio comunale aperto. Per sensibilizzare deputati e cittadini sulla vicenda dell’ex tribunale. Ma anche lui ha mollato la presa su un problema così difficile come la ridefinizione della geografia giudiziaria.

    La manifestazione contro la chiusura dell’ex Tribunale di Rossano
    Castrovillari non ha risolto i problemi

    L’avvocato Maurizio Minnicelli è stato uno dei protagonisti del movimento in difesa del tribunale di Rossano. Un presidio poi accorpato a Castrovillari. Dove, sostiene il penalista: «Abbiamo assistito nel corso degli anni a un aumento delle pendenze e nessuna riduzione dei tempi dei processi, ad aggravi di spesa senza alcun risparmio».
    Minnicelli analizza non senza autocritiche rivolte alla comunità di appartenenza. «Forse non siamo stati molto in allerta 20 anni fa – aggiunge – quando si parlava di questa riforma». Le colpe sono anche della «società civile» secondo l’avvocato di Corigliano-Rossano «incapace di comprendere che la battaglia per il tribunale non fosse una lotta di casta». Di casta no e nemmeno di classe. In un territorio dove la criminalità organizzata non molla la presa, il presidio di giustizia copriva un bacino di 150mila persone sulla fascia jonica. Questo lo sa bene Nicola Gratteri. Non a caso il procuratore di Catanzaro aveva riportato a galla in Commissione antimafia la vicenda dell’ex tribunale di Rossano.

  • Quella trattativa Stato-‘Ndrangheta dopo la strage di Duisburg

    Quella trattativa Stato-‘Ndrangheta dopo la strage di Duisburg

    Da quattordici anni a questa parte, la Germania e l’Europa sembrano aver imparato molto poco nel contrasto al crimine organizzato. Eppure, la strage di Duisburg fece “scoprire” a tutto il Vecchio Continente la presenza oppressiva, pericolosa, sanguinaria della ‘ndrangheta.

    Scorre il sangue a Duisburg

    È la notte tra il 14 e il 15 agosto del 2007 quando sul suolo tedesco, a Duisburg, restano sull’asfalto in sei. Davanti al ristorante italiano ”Da Bruno” nell’inferno di piombo rimasero uccisi Tommaso Venturi che aveva appena compiuto 18 anni, i fratelli Francesco e Marco Pergola di 22 e 20 anni, Francesco Giorgi appena 17enne, Marco Marmo di 25 anni, e Sebastiano Strangio di 39 anni.

    Secondo quanto accertato dagli investigatori, quella sera nel ristorante non era stato soltanto festeggiato il compleanno di Venturi. Ma anche la sua ammissione nella ‘ndrangheta, avvenuta con la maggiore età. La cerimonia della “copiata”, conclusa, come da tradizione, con il giuramento proferito dal nuovo accolito mentre si lascia bruciare tra le mani un’immaginetta sacra. Il santino di San Michele Arcangelo, ritrovato proprio addosso a al 18enne Venturi. Vengono falciati da oltre 70 colpi. Tra cui, quello finale, alla testa.

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    Giovanni Strangio, considerato la mente del commando che agì a Duisburg

    Un eccidio che, nel corso degli anni, gli inquirenti calabresi ricostruiranno, portando a condanne definitive. Tra cui quella di Giovanni Strangio, punito col carcere a vita perché considerato la mente del commando entrato in azione nel giorno di Ferragosto. Strangio verrà arrestato il 12 marzo del 2009 in Olanda, a Diemen, piccolo centro vicino ad Amsterdam.

    Una scia di sangue iniziata nel 1991

    Una mattanza che la vulgata fa iniziare con un banale scherzo di trent’anni fa, protraendosi però, con una lunghissima scia di sangue, per decenni tra le famiglie contrapposte Pelle-Vottari e Nirta-Strangio. Quel massacro fece conoscere a tutti la pericolosità della ‘ndrangheta, che, da decenni, ha allungato i propri tentacoli in Germania, nei Paesi Bassi, in Francia, nel Regno Unito, in Svizzera, in Spagna e in Austria. In questi luoghi le ‘ndrine agiscono quasi del tutto indisturbate, con il traffico di droga e di autovetture. Ma anche con il riciclaggio di denaro attraverso aziende e locali. Forte la presenza di San Luca, con le famiglie Romeo-Pelle-Vottari e Nirta-Strangio. Ma anche i Farao-Marincola di Cirò (Crotone) e i Pesce-Bellocco di Rosarno (Reggio Calabria).

    Una lunga scia di sangue nata con il lancio di uova tra famiglie “rivali” nel Carnevale del 1991. La violenza, nei mesi antecedenti a Duisburg, coinvolse il boss Francesco Pelle, in quel periodo 32enne, detto ‘Ciccio Pakistan’, che perse l’uso delle gambe in un agguato il 31 luglio 2006. Un tentato omicidio di cui si vendicò ordinando la strage di Natale del 2006 in cui morì una donna, Maria Strangio. Per errore. Il vero obiettivo, fallito dai sicari, era il marito Gianluca Nirta.

    Gli uomini “cerniera”

    Quella mattanza sul suolo tedesco sembra non aver insegnato nulla alla Germania e all’Europa. Le normative con cui i singoli Paesi contrastano il crimine organizzato continuano a essere inadeguate. E carenti anche i collegamenti investigativi tra Stati. Ma per le mafie non esistono confini. Soprattutto per la ‘ndrangheta. Nei mesi successivi alla strage di Duisburg si attiverà soprattutto l’Autorità Giudiziaria italiana: la Dda di Reggio Calabria chiuderà il cerchio con diversi tronconi dell’inchiesta “Fehida”.

    Negli anni, il processo “Gotha” ha anche ricostruito (seppur con una sentenza di primo grado) le trame che seguirono quei mesi di sangue. Un contesto torbido in cui membri dell’Arma dei Carabinieri, del Ros, in particolare, sarebbero stati in contatto con uomini di ‘ndrangheta e soggetti “cerniera”. Patteggiando per arrestare alcuni latitanti.

    I protagonisti sono l’avvocato Antonio Marra, considerato trait d’union tra lo Stato e le cosche, e l’ex parroco di San Luca e rettore del Santuario di Polsi, don Pino Strangio. Ambedue condannati in primo grado nel maxiprocesso “Gotha”. I due avrebbero svolto un ruolo di intermediazione, con l’accordo di alcuni ‘ndranghetisti di rango, per interloquire con canali ritenuti “non istituzionali”. Tutto al fine di acquisire notizie utili per la cattura di alcuni latitanti “sanlucoti”. In particolare Giovanni Strangio, poi arrestato dalla Polizia in Olanda.

    Rapporto intenso quello tra Marra e don Strangio. I due avrebbero interloquito, talvolta in maniera equivoca e torbida, con alcuni membri del Ros dei Carabinieri. In quegli anni, almeno fino all’arrivo di Giuseppe Pignatone a capo della Procura di Reggio Calabria, funzionava in quel modo in riva allo Stretto. Marra e don Strangio sarebbero stati elementi di collegamento. Pedine di un sistema fatto di accordi, confidenze e soffiate e in cui si trovavano magistrati, ‘ndranghetisti, forze dell’ordine e membri dei servizi segreti.

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    Giuseppe Pignatone, ex capo della Procura di Reggio Calabria

    La Trattativa Stato – ‘Ndrangheta

    In una conversazione intercettata, don Pino Strangio fornisce a un appartenente del Ros i nominativi dei “sanlucoti” per i quali erano stati intrapresi determinati accordi per suo tramite. ‘Ndranghetisti che la Squadra Mobile identifica in Antonio Romeo, classe 1947, detto “Centocapelli” e considerato affiliato alla ‘ndrangheta di San Luca, in quel periodo detenuto a Parma; Antonio Romeo, classe 1957, detto “Il Gordo”, latitante a seguito dell’operazione denominata “Super Gordo” dai primi mesi del 2005, veniva tratto in arresto da personale del Commissariato di P.S. di Bovalino (RC) coadiuvato da personale del Commissariato di P.S. di Siderno (RC) in data 28.5.2008); Fortunato Giorgi, cognato di Romeo “Centocapelli” e inserito a pieno titolo nella consorteria dei Romeo alias “Stacchi”, legati a quella dei Pelle alias “Gambazza”.

    I carabinieri che interloquirono con Marra e don Strangio negli anni finiranno pure sotto inchiesta. Ma alla fine otterranno un’archiviazione. Quello che il processo “Gotha” avrebbe dimostrato è il fatto che lo Stato avrebbe trattato per arrivare ad alcuni risultati investigativi che placassero la mattanza. Mettendo sul piatto della bilancia il trasferimento di carcere di alcuni detenuti.

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    In quegli anni, il Ros dei carabinieri aveva due anime. Una di queste credeva alla strategia secondo cui si dovesse attingere alle fonti confidenziali per arrivare ad alcuni risultati investigativi. Fonti che, quasi sempre, chiedono qualcosa in cambio. Stando a quanto ricostruito dalle indagini, sarebbero stati proprio i membri del Ros a contattare Marra per penetrare il territorio di San Luca. E per stringere il cerchio su alcuni latitanti. E poi il legale si sarebbe rivolto a don Pino Strangio. Il prete è, in quel periodo, rettore del Santuario della Madonna di Polsi. È, quindi, molto ben inserito sul territorio della Locride.

    L’accordo salta

    Marra e don Strangio avrebbero anche interloquito con alcuni magistrati. Anche se non si scoprirà mai il contenuto di tali interlocuzioni. Secondo le intercettazioni a carico dell’avvocato Antonio Marra si sarebbero anche tenuti degli incontri a San Luca. In quella sede sarebbero stati presi accordi con alcuni ‘ndranghetisti. Proponendo a essi vantaggi e favori in cambio di un aiuto per la cattura di alcuni latitanti. Tra cui, appunto, quella di Strangio.

    Funzionava così. Del resto, lo testimoniano anche le indagini sul conto della famiglia Lo Giudice. Negli stessi anni, la cosca aveva rapporti privilegiati con forze dell’ordine e magistrati. Lo stesso avvocato Marra viene definito dai carabinieri che interloquivano con lui una fonte preziosa sul territorio. Nel doppiogioco tra Stato e ‘ndrangheta, evidentemente: «Aveva delle conoscenze…».

    Nel post strage di Duisburg si tentò di fare lo stesso. Ma nel frattempo, in riva allo Stretto è arrivato il procuratore Giuseppe Pignatone. L’accordo salta, anche perché i carabinieri che avevano imbastito la trattativa subiscono il trasferimento. Marra non la prende benissimo, parlando al telefono con un altro membro dell’Arma, distaccato ai Servizi Segreti: «Ora sono in un mare di guai perché… per due cose, primo perché là ora, ora non so che cazzo dirgli di tutte le cose che siamo andati a dirgli, e a fare…eee… sembra poi che li abbiamo presi per il culo».

    Così si conclude una trattativa, su cui, ancora, restano alcuni punti interrogativi: «A me non me ne fotte niente… cioè a dire io posso pure andare a san Luca a dirgli “guardate! sono una massa di buffoni, i soliti sbirri, dicono le cose e non le mantengono!».

  • Omicidio Scopelliti: un patto di sangue ancora senza verità

    Omicidio Scopelliti: un patto di sangue ancora senza verità

    Sul suo sangue sarebbe stata edificata la pax mafiosa delle cosche di Reggio Calabria e della sua provincia. A distanza di trent’anni, non c’è ancora una verità univoca. Né sotto il profilo storico, né sotto il profilo giudiziario, sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. Una delle massime autorità uccise in Calabria a colpi d’arma da fuoco. Esattamente 30 anni fa. Oggi.

    Il delitto

    Difficile, forse impossibile, non innamorarsi del mare della Costa Viola, litorale tirrenico della provincia di Reggio Calabria. E di quel mare cristallino, che di notte si riempie di lampare, era profondamente innamorato il giudice Antonino Scopelliti. Originario di Campo Calabro, ma da anni operante a Roma, presso la Suprema Corte di Cassazione. Tornava proprio dal mare. Da quel mare. È il pomeriggio del 9 agosto 1991. I sicari lo raggiungono sulla strada che collega la Costa Viola a Campo Calabro. Le pallottole investono l’autovettura. E colpiscono alla testa il magistrato. L’auto non si ferma, sbanda e termina la propria corsa in una scarpata.

    Un “omicidio eccellente”. Due estati dopo quello dell’ex presidente delle Ferrovie, Lodovico Ligato. Un omicidio che fa tanto rumore. Sebbene Reggio Calabria e la sua provincia siano interessate da una sanguinosissima guerra tra cosche. E quindi abituate ai morti per le strade. Una guerra che, dopo l’omicidio di Nino Scopelliti, si fermerà. Come per incanto. Una pace immersa nel sangue di un alto magistrato. Sarebbe stato proprio l’omicidio Scopelliti il prezzo con cui le cosche reggine si sarebbero sdebitate rispetto all’interessamento di Cosa Nostra affinché si bloccasse la mattanza per le strade di Reggio Calabria.

    Scopelliti, infatti, avrebbe dovuto rappresentare la pubblica accusa nel Maxiprocesso contro la Cupola di Cosa Nostra, giunto al cospetto della Suprema Corte di Cassazione. Proprio quello istruito da Giovanni Falcone. E, quindi, a un passo dalla sentenza definitiva che avrebbe avvalorato il “teorema Buscetta”. Nino Scopelliti era in vacanza nella “sua” Campo Calabro. Ma anche nella canicola d’agosto aveva con sé le carte del Maxiprocesso. Le studiava.

    Gli interessi di Cosa Nostra

    La ‘ndrangheta avrebbe eseguito l’omicidio, sul proprio territorio, in segno di “ringraziamento” nei confronti della mafia siciliana. Cosa Nostra avrebbe avuto un ruolo determinante per la stipula della pace tra gli schieramenti De Stefano-Tegano-Libri e Condello-Imerti, che a partire dal 1985 si erano dati battaglia, lasciando sull’asfalto centinaia di morti ammazzati.

    È questa la tesi più accreditata. Una sentenza che tuttavia nessun Tribunale ha mai scritto in maniera definitiva. L’omicidio del giudice Scopelliti è senza responsabili. Ancora oggi. Dopo 30 anni. Tante sono state, nel tempo, le ipotesi riguardanti i motivi che portarono all’omicidio del magistrato. Alcuni dissero che i Corleonesi avevano tentato di avvicinare il sostituto procuratore generale presso la Cassazione. Volevano chiedesse la nullità del processo, come invocato dalle difese nei motivi d’appello, ma ricevettero un secco “no”. Per altri, invece, l’eliminazione di Scopelliti era utile affinché i tempi di decisione si allungassero eccessivamente. In quel modo sarebbero scaduti i termini di custodia cautelare. Una circostanza che avrebbe riportato in libertà centinaia di boss e affiliati alla mafia siciliana. E verosimilmente in latitanza.

    Le indagini e i processi

    In primo grado, l’impianto accusatorio regge con la condanna all’ergastolo di personaggi come Totò Riina, Bernardo Brusca, Pippo Calò e Pietro Aglieri. L’accusa però si dissolve in appello. Arrivando poi alla definitiva sentenza assolutoria in Cassazione. Poco o nulla, invece, si è fatto nei confronti degli esponenti della ‘ndrangheta. Sebbene gli inquirenti, negli anni, abbiano potuto contare sulle dichiarazioni di alcuni importanti collaboratori. Come Filippo Barreca e Giacomo Lauro. Lauro parla di un confronto tra due boss di rango, Nino Mammoliti e Pasquale Condello. Mentre Barreca cita esponenti di spicco del clan De Stefano. Le cosche avrebbero tentato di avvicinare il magistrato in vista dell’ultimo grado di giudizio.

    Per decidere l’esecuzione del giudice Scopelliti si sarebbero scomodati personaggi di livello criminale immenso, Totò Riina su tutti. Il quale, peraltro, in Calabria era già stato. Ad Africo, ospite del “Tiradritto” Giuseppe Morabito. Riina avrebbe raggiunto in motoscafo il boss Pasquale Condello per affrontare l’argomento dell’eliminazione del magistrato. Rimasti impuniti i presunti mandanti. Invisibili, ectoplasmi, gli esecutori materiali.

    Un omicidio così eclatante, di una persona così in vista, non poteva essere deciso senza l’accordo degli esponenti principali della ‘ndrangheta reggina. Tanto le schiere dei Condello, quanto quelle dei De Stefano. Anche in virtù della nuova pace, dovevano essere informate del progetto. E non sarebbe nemmeno da escludere che su quella moto che seguiva l’auto di Scopelliti, vi fossero due killer scelti da entrambi gli schieramenti. Uno in rappresentanza dei condelliani, l’altro inviato dai destefaniani. Sicuramente personaggi spietati. Di comprovata e certa fiducia. E di rara abilità e precisione. I “migliori”.

    Nell’aprile del 1993, scattano le manette a carico dei componenti della Cupola palermitana. Arrestati anche i calabresi Antonino, Antonio e Giuseppe Garonfolo, come soggetti inseriti a livello verticistico nell’omonima organizzazione operante a Campo Calabro e collegata ai De Stefano. Arrestato anche Gino Molinetti, uno dei killer più spietati della ‘ndrangheta. Le dichiarazioni dei pentiti mettono in luce il ruolo determinante di Cosa Nostra nella definizione della seconda guerra tra cosche del reggino. E, quindi, il conseguente credito acquisito presso i due schieramenti contrapposti.

    Per l’uccisione del giudice furono istruiti e celebrati presso il Tribunale di Reggio Calabria ben due processi. Uno contro Salvatore Riina e sette boss della “Commissione” di Cosa Nostra. E un secondo procedimento contro Bernardo Provenzano ed altri sei boss, tra i quali Filippo Graviano e Nitto Santapaola. Furono tutti condannati in primo grado nel 1996 e nel 1998. E successivamente assolti in Corte d’Appello nel 1998 e nel 2000. Le accuse dei diciassette collaboratori di giustizia (cui si aggiunsero quelle del boss Giovanni Brusca) non bastarono. Vennero giudicate discordanti.

    Speranza in fumo

    Un primo, vero, atto di pace tra i cartelli che fino al giorno prima si erano rincorsi, individuati e trucidati. Per le strade cittadine. In una vera e propria guerra. Combattuta con pistole, fucili di precisione, autobombe e bazooka. Un omicidio di livello altissimo, di cui solo poche persone avrebbero dovuto sapere. L’uccisione del giudice Scopelliti rappresenta, di fatto, uno spartiacque fondamentale nella storia della società reggina. E della ‘ndrangheta, diventata negli anni una delle più potenti e ricche organizzazioni criminali del mondo. Da quell’omicidio passano le nuove dinamiche criminali che hanno portato Reggio a vivere sotto una cappa. Quella della pax mafiosa.

    Lo scenario inquietante, da sempre paventato, e quello di un’alleanza mafia-‘ndrangheta. Una pianificazione che sarebbe avvenuta in un summit mafioso svoltosi nella primavera del 1991 a Trapani. Lì avrebbe partecipato lo stesso Matteo Messina Denaro.

    Un paio di anni fa, il collaboratore di giustizia catanese Maurizio Avola farà ritrovare nelle campagne siciliane un fucile. A suo dire, sarebbe stata l’arma utilizzata per il delitto. Da qui la nuova indagine della Dda di Reggio Calabria, che coinvolge ben diciassette tra boss della mafia siciliana e della ‘ndrangheta. Tra gli indagati figura anche il boss latitante Matteo Messina Denaro, primula rossa di Cosa Nostra. Oltre a lui, sono coinvolti altri sei siciliani, i catanesi Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo e Maurizio Avola. Dieci gli indagati calabresi: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Paquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano. Il gotha della ‘ndrangheta. Cui si aggiungono Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti. Ancora lui.

    Ma mesi dopo, anche quest’ultima speranza di arrivare a una verità storica e giudiziaria, sembrerà tramontare quasi definitivamente. Gli accertamenti eseguiti sul fucile calibro 12 di fabbricazione spagnola fatto ritrovare da Avola non danno alcun esito. Arma troppo vecchia. Ossidata e incrostata. Le sue pessime condizioni strutturali non consentirebbero, quindi, di poter effettuare tutti gli esami previsti. Verrebbe meno, così, una prova regina utile alla ricostruzione del delitto.

  • Legnochimica, 13 anni di indagini per un disastro senza colpevoli?

    Legnochimica, 13 anni di indagini per un disastro senza colpevoli?

    Non è retorico parlare di un processo infinito per i fatti di Legnochimica, la ex mini Fiat cosentina trasformatasi in ecomostro dopo la fine della produzione.
    Il processo, in corso dal 2016 davanti al Tribunale di Cosenza, è l’esito di una serie di inchieste giudiziarie iniziate nel 2009, in seguito agli incendi sospetti scoppiati in quel che resta dell’ex fabbrica di pannelli in Ledorex a partire dall’agosto del 2008.
    Tredici anni di indagini: un po’ tanti per un sospetto disastro ambientale.
    Purtroppo, rischiano di non essere retoriche altre espressioni, con cui viene bollato l’ex sito industriale di contrada Lecco, nel cuore di Rende, circa trenta ettari schiacciati tra lo stabilimento di Calabra Maceri e quello di Silva Team, un’azienda specializzata nella produzione di peptina: “terra dei fuochi calabrese”, “Ilva cosentina” e via discorrendo.

    Tre indizi faranno una prova?

    Ancora oggi c’è chi contesta la pericolosità del sito. Lo hanno fatto alcuni funzionari dell’Arpacal, sentiti come teste nel 2019 durante il dibattimento in cui è rimasto alla sbarra un solo imputato: il commercialista Pasquale Bilotta, ex liquidatore dei beni della società di Mondovì, attualmente in fallimento per incapienza.
    E, dall’altro lato, c’è chi insiste sulla pericolosità estrema di questi terreni, soprattutto perché gli indizi e le suggestioni non mancano, purtroppo.

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    Le acque nere di uno dei laghetti nei terreni dell’ex Legnochimica a Rende

    C’è l’odore nauseabondo che promana dai terreni e dai tre laghi artificiali in cui fino all’inizio del millennio venivano trattati i materiali. Ci sono le fiamme, che si levano alte e inquietanti dalle acque di questi bacini non appena sale la temperatura.
    E ci sono le morti sospette. Dieci in un anno e mezzo circa. Tutte per tumori alle parti molli. Tutte nella stessa zona: via Settimo, un angolo di un chilometro e mezzo che cinge l’ex stabilimento.
    L’ultima parola, con ogni certezza, spetterà ai magistrati cosentini.
    Vogliamo scommettere su come andrà a finire?

    La storia delle inchieste

    Nessuna dietrologia e nessun complotto. La Procura di Cosenza ha indagato su due elementi distinti ma collegati: l’ipotesi di disastro ambientale, attribuibile senz’altro all’attività di Legnochimica, e, ovviamente, la ricerca del colpevole.
    Il presunto colpevole, Pasquale Bilotta, in questo caso è quello che è rimasto col classico cerino in mano.

    Infatti, Bilotta ha una sola responsabilità: aver rilevato il ruolo di commissario liquidatore che fu di Palmiro Pellicori, tra l’altro l’ultimo amministratore di Legnochimica.
    Pellicori è stato il primo indagato in questa vicenda complessa. L’inchiesta a suo carico, avviata dopo le denunce dei residenti e delle associazioni che li rappresentavano (il comitato Romore e l’associazione Crocevia) si fermò nel 2012, in seguito alla sua morte per leucemia.

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    L’ingresso del tribunale di Cosenza

    Questa inchiesta ha lasciato un’eredità pesante e, finora, insuperata: la perizia di Gino Mirocle Crisci, geologo di vaglia e all’epoca non ancora rettore dell’Università della Calabria. Questo documento, importante e inquietante allo stesso tempo, finì archiviato con l’indagine. E si è risvegliato con l’indagine riaperta a inizio 2016.
    Nel frattempo, nessuno ha prodotto un altro documento valido o fatto quel che si poteva (e doveva) fare: un piano di caratterizzazione credibile ed efficace e avviare la bonifica. Sempre nel frattempo, gli abitanti della zona industriale, ma anche quelli della vicina e popolosa Quattromiglia, sono stati investiti dai miasmi. E, come già detto, alcuni hanno iniziato a morire di tumore.

    Occorre, a questo punto, fissare bene un concetto: una cosa è una ctu, cioè una consulenza tecnica redatta per conto della Procura che indaga; un’altra un piano di caratterizzazione, cioè una relazione tecnica sulle condizioni della zona su cui si sospetta l’inquinamento e di cui si intende promuovere la bonifica.
    Nel caso di Legnochimica, la ctu e i tentativi di caratterizzazione non solo non coincidono, ma arrivano quasi a risultati opposti. Secondo la prima, l’area dell’ex stabilimento sarebbe praticamente compromessa, per i secondi, invece, l’inquinamento c’è, ma non sarebbe pericoloso.

    La perizia Crisci

    Non è il caso di scendere nei dettagli tecnici, che ci si riserva di approfondire.
    In estrema sintesi, è sufficiente dire che la perizia di Crisci è un elaborato di non troppe pagine (circa una quarantina) zeppe di dati, con cui l’ex rettore dell’Unical relazionava all’autorità giudiziaria i risultati della sua indagine.
    I contenuti sono spaventosi: Crisci riferisce di quantità di cloro, metalli pesanti, ferro, zinco e nichel in quantità abnormi, superiori fino al centinaio di volte i limiti massimi stabiliti dalle normative ambientali.

    Attenzione a un dettaglio: già nel 2005 e nel 2008 i primi rilievi affidati ai tecnici dell’Arpacal parlavano di forte concentrazione di sostanze cancerogene nell’area.
    E allora una domanda è spontanea: come mai l’Arpacal ha cambiato idea?
    Ma prima di procedere è doveroso rispondere a un’altra domanda: come ha fatto Crisci a ottenere questi risultati?

    In realtà, il primo a essere insoddisfatto di questa perizia è proprio il suo autore: in più occasioni l’ex rettore ha dichiarato che le sue ricerche sono state incomplete per l’insufficienza dei fondi a sua disposizione. Ma, a dispetto di questa insufficienza, ha lavorato tanto: ha effettuato prelievi d’acqua fino a dieci metri di profondità e prelevato porzioni di terreno fino a trenta metri.
    Crisci avrà fatto poco, ma gli altri, cioè l’Arpacal e i tecnici incaricati da Legnochimica, hanno fatto di meno. Per il primo, il sito è pericoloso. Per gli altri no.

    La perizia alternativa

    Nel 2014 Rende cambia. L’amministrazione comunale guidata da Marcello Manna inizia un rapporto delicato e pericoloso con la società di Mondovì per arrivare alla bonifica in tempi brevi.
    Il costo della bonifica sarebbe di circa sei milioni e mezzo, ma l’azienda prende tempo e propone soluzioni che definire low cost è davvero poco: dal Piemonte arrivano proposte di interventi per un massimo di 650mila euro. Più che un divario, un burrone. E Bilotta, ovviamente, difende gli interessi dell’azienda che rappresenta.

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    La sede del Comune di Rende

    Il balletto dura fino al 2016, quando la Procura, sommersa dalle denunce, riapre l’inchiesta e recupera la perizia di Crisci.
    Tutto risolto? Neanche per sogno, perché la perizia viene messa in discussione.
    La procuratrice aggiunta Marisa Manzini nomina un nuovo consulente: è il chimico Giovanni Sindona, anche lui docente dell’Unical e già protagonista dell’inchiesta sull’ex Pertusola di Crotone, altro grave disastro ambientale tutto calabrese.

    Purtroppo, Sindona fu al centro di un’altra inchiesta, non proprio bellissima: riguardava una presunta truffa ai danni dello Stato.
    Per amor di verità, è doveroso dire che la posizione del prof di Arcavacata fu archiviata. Ma, sempre per amor di verità, è importante ricordare che in quell’inchiesta finirono in manette otto persone, alcune delle quali legate proprio all’ex Legnochimica.

    La perizia Sindona non è mai uscita. Sei mesi dopo il ricevimento dell’incarico, il chimico dell’Unical si limitò a dire che i lavori procedevano a rilento ma che comunque i primi risultati erano diversi da quelli ricavati da Crisci. Risultato: la Procura revocò l’incarico a Sindona e riprese la perizia Crisci tal quale.
    Quali fossero le differenze tra questo lavoro incompiuto e la relazione dell’ex rettore non è dato sapere. Né può spiegarlo Sindona, passato a miglior vita all’inizio del 2020.

    La relazione Straface

    Nel frattempo, l’amministrazione Manna non è stata con le mani in mano. Non avrebbe potuto, anche perché il sindaco, il suo assessore all’Ambiente e il dirigente dell’Ufficio tecnico del Comune erano finiti sotto inchiesta assieme a Bilotta.
    Ma per fortuna, a differenza del commercialista, le loro posizioni furono archiviate.
    Il Comune di Rende, nel 2017 erogò una borsa di studio a favore dell’Unical, da cui è derivata la perizia del professor Salvatore Straface, anch’essa un esempio di incompletezza, tra l’altro giustificata: i cinquantamila euro messi a disposizione dal municipio sono bastati sì e no per alcuni prelievi e scavi superficiali.
    I risultati? Neanche a dirlo, completamente divergenti dalla perizia Crisci: l’inquinamento c’è, ma non è pericoloso. Peccato solo che i pochi mezzi non giustificano risultati così perentori.

    Un finale annunciato?

    È il momento di riprendere la scommessa fatta all’inizio. Il processo a carico di Bilotta potrebbe finire in una maniera tipicamente all’italiana: certificherebbe un disastro senza colpevoli, perché la strategia della difesa, a quanto si è appreso dalle cronache, mira più a sfilare l’imputato dall’accusa di disastro ambientale che a negare il disastro.

    Sarebbe l’ennesima beffa per i cittadini di Rende e per tutti coloro che hanno a cuore l’ambiente. Legnochimica è andata in fallimento, non potrà provvedere alla bonifica in nessuna misura. E difficilmente potrà farlo il Comune, le cui casse sono in crisi da anni.
    Intanto altre persone della zona sono morte, sempre di tumore, accrescendo il bilancio macabro che riguarda gli abitanti della zona e gli ex dipendenti dell’azienda, tra cui le neoplasie hanno mietuto non poche vittime.
    Ma queste sono altre storie, su cui si ritornerà a breve.

  • Paviglianiti in manette: chi è il principe della coca con 6 cellulari

    Paviglianiti in manette: chi è il principe della coca con 6 cellulari

    La sua è una storia da romanzo. Sotto il profilo criminale, inizia ormai decenni fa, con i primi crimini di ‘ndrangheta e l’avvio del traffico internazionale di stupefacenti. Dal punto di vista giudiziario, invece, raggiunge l’apice proprio due anni fa. Era l’agosto del 2019. Ora Domenico Paviglianiti è stato nuovamente arrestato. Lo scorso 3 agosto, i carabinieri di Bologna e la polizia spagnola lo hanno scovato a Madrid, dove l’uomo, 60enne, era latitante.

    Uno dei principi del narcotraffico internazionale

    La sua carriera criminale si dipana tra gli anni ’80 e gli anni ’90.È in quel periodo che Paviglianiti si guadagna l’appellativo di “boss dei boss”. Dall’area grecanica della provincia di Reggio Calabria, Paviglianiti è diventato uno dei broker del narcotraffico internazionale più potenti e longevi della storia.

    Da sempre considerato un elemento apicale della sua cosca, tuttora attiva e potente nei comuni di San Lorenzo, Bagaladi e Condofuri nel Reggino. Ma con ramificazioni importanti in Lombardia e, ovviamente, in Sud America per la gestione dei traffici di droga.

    La sua cosca si è sempre inquadrata nell’alveo dello schieramento “destefaniano”. Fin dai tempi della seconda guerra di ‘ndrangheta, che tra il 1985 e il 1991 insanguinò con oltre 700 morti la provincia di Reggio Calabria, Paviglianiti ha sposato la causa dei De Stefano. La cosca che, più di tutte, ha modernizzato la ‘ndrangheta.

    La complessa vicenda giudiziaria

    Su di lui pende un provvedimento di esecuzione di pene concorrenti per 11 anni, 8 e 15 giorni, emesso il 21 gennaio dalla Procura di Bologna per i reati di associazione di tipo mafioso, omicidio e associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. Dall’ottobre 2019 aveva lasciato l’Italia, rifugiandosi in Spagna.

    Proprio da quel 2019, in cui, nell’arco di due mesi, verrà arrestato e scarcerato diverse volte. Fino a diventare uccel di bosco.

    Paviglianiti, condannato all’ergastolo, era stato catturato in Spagna nel 1996. L’estradizione era stata concessa a condizione che l’Italia non applicasse il carcere a vita. In quel periodo, infatti, l’ordinamento spagnolo non prevedeva il “fine pena mai”.

    Per questo motivo venne condannato a 30 anni, che, nell’agosto 2019 (anche per via di alcune riduzioni) risultavano già scontati. I suoi legali, infatti, avevano rilevato come a febbraio 2019, dopo 23 anni, tra indulto, liberazione anticipata, era già scontata tutta la pena. Da qui la scarcerazione.

    Ma, dopo due giorni, un successivo ricalcolo portò a un nuovo ordine di carcerazione. Paviglianiti venne così nuovamente arrestato, quando ancora non aveva lasciato il Nord Italia, dove era detenuto. Poi, la scarcerazione nell’ottobre dello stesso anno. Liberato, nel giro di due mesi, due volte per fine pena.

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    Di nuovo in pista?

    Adesso il nuovo arresto. In Spagna i carabinieri sono arrivati seguendo le tracce di alcuni familiari. Il concreto sospetto degli investigatori è che Paviglianiti avesse ripreso in mano il business del traffico internazionale di sostanze stupefacenti.

    Quando è stato preso era da solo ma ci sono accertamenti in particolare su una donna sudamericana. I contatti con il Sud America spingono infatti gli inquirenti a ritenere che Paviglianiti fosse ritornato a essere il potente broker del narcotraffico che era prima della lunga detenzione.

    Piuttosto sospetto, in tal senso, il fatto che quando il boss è stato bloccato in strada, nei pressi della propria abitazione di Madrid, avesse con sé sei cellulari in un borsello, seimila euro in contanti e documenti falsi con un’identità portoghese.

  • Strage di Bologna, 41 anni dopo: quel filo nero che porta alla Calabria

    Strage di Bologna, 41 anni dopo: quel filo nero che porta alla Calabria

    Sono passati 41 anni. Senza verità. Senza giustizia. Sono le 10.25 del 2 agosto 1980 quando l’orologio della stazione di Bologna si ferma. La deflagrazione, il boato, le fiamme, i brandelli umani. Il bilancio: 85 vittime e oltre 200 feriti. Il più grave atto terroristico (per proporzioni) del secondo dopoguerra, uno degli ultimi degli anni di piombo. Proprio quegli anni di piombo ancora da riscrivere – giudiziariamente e non solo – per i collegamenti tra entità oscure e occulte. Dalla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, alla strage di piazza della Loggia del 28 maggio 1974, fino alla strage del treno Italicus del 4 agosto 1974.

    Massoneria, servizi deviati e ‘ndrangheta

    Un intreccio inquietante tra terrorismo, soprattutto di matrice neofascista, servizi segreti deviati, logge coperte (su tutte la P2), comitati d’affari di altissimo e raffinatissimo livello, criminalità organizzata. In particolare, la ‘ndrangheta, per decenni sottovalutata, avrebbe avuto un ruolo centrale in alcune delle vicende più oscure della storia d’Italia. La strage della stazione di Bologna non fa eccezione.

    Proprio recentemente è iniziato il processo a carico di Paolo Bellini, ex membro di Avanguardia Nazionale, ma anche soggetto con collegamenti importanti all’interno della ‘ndrangheta. Per la criminalità organizzata calabrese compirà almeno una decina di omicidi. Oggi è alla sbarra insieme all’ex capitano dei carabinieri Piergiorgio Segatel per depistaggio. Con loro anche Domenico Catracchia, amministratore di alcuni immobili di via Gradoli a Roma usati come rifugio dai Nar. Risponde di false informazioni al pm al fine di sviare le indagini. Tra gli imputati ci sarebbe dovuto essere anche l’ex capo del Sisde di Padova, Quintino Spella, nel frattempo deceduto.

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    L’ex capo della Loggia P2, Licio Gelli

    È proprio questo l’intreccio perverso e indicibile. Per la bomba alla stazione di Bologna sono stati già condannati definitivamente gli ex Nar Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Tutti puniti in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi, individuati quali mandanti, finanziatori o organizzatori. Di Licio Gelli sappiamo molto (ma non tutto) circa le trame della sua Loggia Propaganda 2. I nomi di Ortolani (banchiere intrallazzato con lo IOR), D’Amato (direttore dell’Ufficio Affari riservati del Ministero degli Interni) e Tedeschi (giornalista e politico) formano (ma non completano) il quadro a tinte fosche.

    La colonna di Avanguardia Nazionale a Reggio Calabria

    Non lo completano. Perché è quasi tutto da delineare il coinvolgimento delle mafie e, in particolare, della ‘ndrangheta. Il processo a carico di Bellini ci sta provando. In una delle ultime udienze prima della pausa estiva, l’ex esponente di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, Vincenzo Vinciguerra, ha parlato di «accordo organico» tra destra eversiva e ‘ndrangheta. «La ‘Ndrangheta vedeva Avanguardia come una forza che poteva mettersi contro lo Stato», ha aggiunto Vinciguerra.

    E Bellini è accusato di essere il “quinto uomo” della bomba alla stazione. Oltre alle tre condanne definitive, infatti, ce n’è un’altra, finora di primo grado, a carico di Gilberto Cavallini. Bellini è stato proprio un uomo forte di Avanguardia Nazionale. La stessa Avanguardia Nazionale che aveva rapporti soprattutto con la ‘ndrangheta di Reggio Calabria.

    In riva allo Stretto, Avanguardia Nazionale aveva, a partire dalla fine degli anni ’60, una colonna formidabile. Ineguagliabile in qualsiasi altra parte del Paese. Proprio la ‘ndrangheta doveva essere di fatto l’esercito armato attraverso cui si sarebbe dovuto attuare il Golpe Borghese. Siamo alla fine del 1969. Pochi mesi dopo, nel luglio del 1970, scoppierà la rivolta di Reggio, quella del “Boia chi molla”, fagocitata dagli ambienti di destra.

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    Un’immagine dei Moti di Reggio del 1970

    Junio Valerio Borghese, Franco Freda, Stefano Delle Chiaie: tutti nomi che nulla avrebbero dovuto avere a che fare con il territorio. A Reggio Calabria, invece, erano di casa. Soggetti che legano il proprio nome alla notte della Repubblica.
    Il nome di Delle Chiaie è stato accostato alle grandi stragi degli anni Settanta, come piazza Fontana o Bologna, e a omicidi eccellenti, come quello del giudice romano Vittorio Occorsio. I processi, però, lo hanno sempre visto assolto per non aver commesso il fatto o per insufficienza di prove.

    Dall’Italia al Sud America

    Un dato molto significativo, emerge dalla sentenza della Corte d’Assise di Bologna sulla strage della Stazione, per cui vengono condannati i neofascisti Giusva Fioravanti e Francesca Mambro: «Stefano Delle Chiaie, invece, si muove con grande disinvoltura nell’Argentina dominata dal regime militare. Da latitante qual è, frequenta liberamente vari ambienti e compare a cena a fianco del console italiano.

    Reduce dall’esperienza cilena, dopo un primo momento di difficoltà, comincia a prosperare, raggiungendo l’apice della sua fortuna nel periodo in cui le forze governative argentine – il che, tenuto conto di quella realtà, equivale a dire gli apparati militari– appoggiano, assieme a quelle cilene, il colpo di Stato militare boliviano. Proprio nel periodo prodromico del golpe intensifica la frequentazione della Bolivia. E, dopo la realizzazione del golpe, ottiene addirittura una collocazione stabile e ufficiale presso lo Stato Maggiore dell’Esercito boliviano, quale assessore del VII Dipartimento: carica di tale importanza, che gli dava l’opportunita di incontri diretti con il Capo dello Stato […]

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    Saluti romani attorno alla bara di Stefano Delle Chiaie

    […] Delle Chiaie comincia a prender quota in quello Stato, dove la polizia militare imperversa. Capo di Stato Maggiore della Marina è l’ammiraglio Massera, piduista e addirittura visitatore dello stabilimento industriale di Gelli in Castiglion Fibocchi. Licio Gelli ha stretti rapporti con i servizi argentini. […]

    La penetrazione del potere gelliano in Argentina, tende dunque ad assumere le medesime caratteristiche e ad attingere livelli non inferiori a quelli dell’analoga penetrazione nella realtà italiana». Per questo, scrivono infine i giudici di Bologna «il collegamento Gelli-Delle Chiaie non si presenta come una possibilità, più o meno plausibile, ma costituisce una necessità logica».

    P2 e ‘Ndrangheta

    Lo stesso Vinciguerra, nel corso degli anni, dichiarerà che timer dello stesso lotto di quelli impiegati per l’eccidio di Piazza Fontana erano stati utilizzati anche per «far saltare i treni che portavano gli operai a Reggio Calabria per una manifestazione sindacale». Siamo proprio nel periodo del “Boia chi molla”. E uno dei soggetti più influenti sarebbe appunto Delle Chiaie.

    Sono gli anni in cui la P2 governa un sistema caratterizzato dalla presenza di metastasi in molti dei gangli fondamentali della vita istituzionale, sociale ed economica, dalla magistratura alle grandi case editrici, dai giornali all’alta burocrazia, fino ai partiti politici. Tuttavia, l’aspetto più inquietante e profondo della penetrazione piduista era rappresentato dalla presenza sistematica e monopolistica di uomini iscritti alla P2 ai vertici delle Forze Armate e soprattutto dei Servizi di Sicurezza.

    I Servizi con grembiule e cappuccio

    Interessante, sul punto, un atto giudiziario che infine è stato confermato e divenuto definitivo. Nella sentenza della Corte di Assise di Bologna del 11 luglio 1988, sulla strage della Stazione, viene affermato che: «Nello stesso volger di tempo, nell’ambito di altro procedimento pendente, avanti all’autorità giudiziaria milanese per l’affare Sindona, il 17 marzo 1981 i giudici istruttori Turone e Colombo disponevano un sequestro nell’abitazione e negli uffici di pertinenza del capo della loggia massonica P2, Licio Gelli.

    In Castiglion Fibocchi, la Guardia di Finanza sequestrava, tra l’altro, oltre a una lista degli iscritti alla Loggia P2, tutta una serie di documenti che denunciavano in quali attività e di quale rilievo la Loggia era implicata […] Occorre rilevare sin da ora che risultarono iscritti nelle liste sequestrate fra gli altri, i seguenti nominativi: prefetto Walter Pelosi, capo del Cesis; generale Giuseppe Santovito, direttore del Sismi; generale Giulio Grassini, direttore del Sisde; generale Pietro Musumeci, capo dell’Ufficio Controllo e Sicurezza del Sismi».

    E c’è anche chi sostiene che, anche dopo lo scioglimento, in seguito alla approvazione della“Legge Anselmi”, la P2 non si sia mai effettivamente dissolta. E che abbia continuato, con altro nome, con altre vesti, a perseguire i propri scopi eversivi. Non è un caso che l’inchiesta “Sistemi Criminali”, condotta alcuni anni fa dal pubblico ministero Roberto Scarpinato sulla strategia della tensione dei primi anni Novanta, ipotizzasse questi oscuri accordi.

    Si è conclusa però in un’archiviazione complessiva per personaggi del calibro del gran maestro della P2, Licio Gelli, Stefano Delle Chiaie, mafiosi come Totò Riina e i fratelli Graviano, ma anche l’avvocato Paolo Romeo, avvocato reggino condannato in via definitiva per mafia nel processo Olimpia e considerato un’eminenza grigia delle dinamiche ’ndranghetiste. Ma non arriverà nemmeno in aula, con l’archiviazione del fascicolo.

  • ‘Ndrangheta, massoneria e politica: per “Gotha” 25 anni a Romeo, 13 a Sarra

    ‘Ndrangheta, massoneria e politica: per “Gotha” 25 anni a Romeo, 13 a Sarra

    La componente riservata della ‘ndrangheta esiste e ha deciso (e decide) le sorti della vita politica, economica e sociale della popolazione. Lo ha stabilito con la sentenza di primo grado del maxiprocesso “Gotha” il Tribunale di Reggio Calabria, presieduto da Silvia Capone.

    Condanne e assoluzioni per i politici

    In particolare, in riva allo Stretto sono stati inflitti 25 anni di reclusione per Paolo Romeo, 13 anni per Alberto Sarra. Ma è clamorosa l’assoluzione di Antonio Caridi. Il Tribunale ha quindi accolto l’impianto accusatorio portato avanti dalla Dda di Reggio Calabria, seppur con alcune assoluzioni inaspettate. Un teorema accusatorio ambizioso quello portato avanti dalla Procura in quel periodo retta da Federico Cafiero De Raho, oggi procuratore nazionale antimafia.

    Sarebbe stato l’avvocato ed ex parlamentare Paolo Romeo, con un passato nell’estrema destra, al vertice della masso-‘ndrangheta. Romeo avrebbe infiltrato le Istituzioni a ogni livello. Da quelle più strettamente locali, fino ai livelli più alti. Si inquadra in tal senso la condanna inflitta in primo grado all’ex sottosegretario regionale, Alberto Sarra. Mentre è assolutamente una sorpresa quella per l’ex senatore Totò Caridi.

    Nell’impostazione accusatoria, peraltro, non solo Sarra e Caridi, ma anche l’ex sindaco reggino ed ex governatore, Giuseppe Scopelliti sarebbe stato diretto dalla volontà di Paolo Romeo. Scopelliti, pur evocato numerose volte, non risultava comunque tra gli imputati del maxiprocesso alla componente riservata della ‘ndrangheta.

    Il prete e gli avvocati

    Pur trattandosi, per il momento, di una sentenza soltanto di primo grado, quella del processo “Gotha” potrebbe segnare una svolta nella lotta giudiziaria ai livelli più alti e alle connivenze più oscure della criminalità organizzata calabrese. Nello stralcio celebrato con il rito abbreviato (e, quindi, già arrivato alla sentenza d’appello) è infatti già stato condannato l’altro soggetto ritenuto come l’eminenza grigia della ‘ndrangheta: l’avvocato Giorgio De Stefano, legato da vincoli parentali con lo storico casato reggino, ma considerato (al pari di Romeo) una mente raffinatissima capace di fare da collante tra l’ala militare dei clan e i livelli riservati.

    Tra le altre persone condannate, l’avvocato Antonio Marra (17 anni), considerato il braccio destro di Romeo, ma anche l’ex, onnipotente, dirigente del Settore Urbanistica del Comune di Reggio Calabria, Marcello Camera, anche se punito solo con 2 anni di reclusione a fronte della richiesta di 13 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Assolto l’ex presidente della Provincia di Reggio Calabria, Giuseppe Raffa. Condannato invece l’ex rettore del Santuario della Madonna di Polsi, a San Luca, don Pino Strangio. Il prete avrebbe fatto parte della rete relazionale occulta di Romeo.

    In particolare, l’avvocato Marra avrebbe svolto il “lavoro sporco” di confidente con le forze dell’ordine. In tal senso, si inquadrerebbe il ruolo di Marra nella presunta “trattativa Stato-‘ndrangheta” per arrivare ad alcuni arresti dopo la strage di Duisburg del Ferragosto 2007, che si inquadrava nella sanguinosa faida di San Luca. Trame non completamente chiarite, in cui emergerà il ruolo di alcuni appartenenti del Ros dei Carabinieri, ma anche dello stesso prete don Strangio. Rapporti con i Servizi Segreti di cui era esperto il commercialista-spione, Giovanni Zumbo, condannato a 3 anni e 6 mesi di reclusione.

    Il procedimento è durato diversi anni, con centinaia di udienze all’interno dell’aula bunker di Reggio Calabria. La Dda di Reggio Calabria si è avvalsa anche delle dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, che hanno tratteggiato il legame oscuro e indicibile tra ‘ndrangheta, massoneria e servizi segreti deviati.

    Le decisioni del Tribunale di Reggio Calabria:

    Vincenzo Amodeo assolto

    Domenico Aricò assolto

    Vincenzo Carmine Barbieri 3 anni e 4 mesi

    Marcello Cammera 2

    Amedeo Canale assolto

    Demetrio Cara assolto

    Antonio Caridi assolto

    Carmelo Cartisano 20 anni

    Francesco Chirico 16 anni

    Giuseppe Chirico 20 anni

    Saverio Genoese Zerbi – deceduto

    Salvatore Primo Gioè 16 anni e 6 mesi

    Paolo Giustra 2 anni

    Giuseppe Iero assolto

    Antonio Marra 17 anni

    Maria Angela Marra Cutrupi assolta

    Angela Minniti 2 anni e 8 mesi

    Teresa Munari assolta

    Domenico Nucera assolto

    Domenico Pietropaolo assolto

    Giovanni Pontari assolto

    Giuseppe Raffa assolto

    Rosario Giuseppe Rechichi 3 anni e 6 mesi

    Giovanni Carlo Remo assolto

    Paolo Romeo 25 anni

    Alberto Sarra 13 anni

    Andrea Scordo assolto

    Giuseppe Strangio 9 anni e 4 mesi

    Rocco Antonio Zoccali assolto

    Giovanni Zumbo 3 anni e 6 mesi

    Alessandro Delfino 5 anni

  • VIDEO | Se son alghe fioriranno: una depurazione che fa acqua

    VIDEO | Se son alghe fioriranno: una depurazione che fa acqua

    Fa acqua da tutte le parti. Con l’aggravante che si tratta di acqua sporca, che fuoriesce dagli scarichi fognari attraverso troppe tubature non regolarmente collettate e finisce direttamente e abusivamente nei corsi d’acqua che sfociano a mare. Da anni il sistema di depurazione calabrese minaccia – e l’inchiesta Archimede ne è una prova – lo stato di salute del mare degli oltre 800 km di costa tra Jonio e Tirreno. Proprio sul litorale ovest molto spesso appaiono enormi chiazze, strisce e bollicine giallastre, che inibiscono i bagnanti dalla voglia di fare un tuffo e, in generale, rischiano di tenere lontani i turisti.

    Le istituzioni minimizzano, i cittadini si indignano

    E così sono ripartite le polemiche, tra social network, comunicati e conferenze stampa di assessori e sindaci che accusavano i cittadini indignati di fare «cattiva pubblicità» al Tirreno calabrese con la diffusione di «immagini di mare sporco non veritiere». Non si tratta di «merda», ha spiegato Fausto Orsomarso, ma di semplice e naturale «fioritura algale» e chi dice il contrario rischia una denuncia.

    Il giudizio dell’esperto

    Una analisi approfondita prova a farla un veterano dell’ingegneria idraulica dell’Università della Calabria. Il professor Paolo Veltri spiega che «il mare calabrese è di tipo oligotrofico, cioè presenta pochi nutrienti e, anche in presenza di alte temperature, non dà luogo a fioritura di alghe. Può succedere – sostiene Veltri – ma non è di certo un fenomeno sistematico». Il problema dell’acqua marrone del Tirreno resta quella depurazione finita a più riprese nel mirino della magistratura.

    Promesse e protocolli

    Intanto, mentre Capitano Ultimo ha promesso lo sblocco dei fondi – circa 70 milioni di euro – per sanare le procedure di infrazione e i depuratori malfunzionanti, si aspetta l’adesione di tutti e 21 i Comuni del Tirreno cosentino al protocollo d’intesa promosso dalla Provincia di Cosenza su input determinante del comitato “Mare Pulito”. Si chiede soprattutto monitoraggio costante e la trasparenza sui dati dei sistemi di depurazione.