Un primato nella Giustizia la Calabria lo ha, peccato che sia alla rovescia. A stabilirlo è la relazione della Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato della Corte dei conti, pubblicata ieri. Dal documento emerge infatti come le decisioni delle Corti d’Appello di Catanzaro e Reggio Calabria costino allo Stato milioni e milioni di euro ogni anno. Il motivo? I risarcimenti – o, nel gergo tecnico, l’equa riparazione – da pagare a chi è finito in carcere, agli arresti domiciliari o in regime misto di custodia cautelare per poi essere successivamente prosciolto dalle accuse. Gli errori capitano in tutto lo Stivale, ma i numeri dei due tribunali calabresi surclassano quelli di tutti i concorrenti.
Un terzo della spesa nazionale in Calabria
La relazione – che incrocia i dati forniti dal Mef con quelli del ministero della Giustizia – accende i riflettori sul triennio 2017-2019, un periodo in cui lo Stato ha sborsato oltre 111 milioni di euro a chi è rimasto in galera o ai domiciliari ingiustamente . Quasi 37 milioni – un terzo della spesa complessiva – sono dovuti a Catanzaro e Reggio. A volte il capoluogo regionale costa da solo quanto Roma, Milano, Napoli e altre grandi città italiane messe assieme.
2017, Catanzaro sbaraglia tutti
Nel 2017, ad esempio, il costo delle ingiuste detenzioni targate Catanzaro sfiora i nove milioni di euro (8.866.654,67 ad essere precisi). La Capitale arriva a meno della metà di quella cifra, fermandosi a poco meno di 4 milioni di euro. Il capoluogo campano non arriva nemmeno a 2,9. Il “bello” è che – nonostante i bacini demografici d’utenza siano ben diversi – il numero di ordinanze considerate nella relazione non è poi così divergente tra le tre città: 158 a Catanzaro, 137 nella Città eterna, 113 ai piedi del Vesuvio. Reggio Calabria, nonostante nel suo caso le ordinanze siano soltanto 21, costa comunque allo Stato poco più di un milione di euro.
2018, la spesa cresce ancora
Nel 2018 la spesa cresce ulteriormente. A Catanzaro le ingiuste detenzioni arrivano a costare poco meno di 10,4 milioni di euro, quasi cinque volte quanto speso per Napoli coi suoi 2,4. E stavolta anche Reggio “si fa valere”, con i risarcimenti che gravano sulle casse statali per quasi 2,3 milioni.
È l’inizio di una “rimonta” che le farà superare Catanzaro in cima alle graduatorie italiane dell’anno successivo.
2019, il sorpasso di Reggio
Per le ingiuste detenzioni in riva allo Stretto nel 2019 la spesa sale a quasi dieci milioni di euro (9,88), doppiando quella relativa alla Corte d’Appello di Catanzaro. Un dato che le permette di “brillare” anche nella classifica degli esborsi medi per risarcimento. Scrive la Corte dei Conti che «nell’ambito delle ingiuste detenzioni, gli importi di media oscillano dai 5.474 euro di Potenza, per 11 casi, a 82.400 euro di Palermo, per 39 casi, sebbene la spesa complessiva più alta si riscontri a Reggio Calabria con quasi 82.000 euro per 120 ordinanze».
Gli altri record negativi
Il 2019 però è un anno di “risparmi” da record per Catanzaro rispetto al recente passato, visto che l’esborso si ferma a 4,45 milioni. Non è l’unico primato poco meritorio del capoluogo regionale. Nella relazione della Corte dei Conti si legge, ad esempio, che «nel caso della detenzione carceraria è stato liquidato l’importo pari ad euro 14.244,76 con l’ordinanza n. 83/2018 da parte della Corte d’appello di Catanzaro per 18 giorni, che con la media giornaliera di 791,38 euro rappresenta oltre il triplo dei 235,82 euro quale soglia proporzionale stabilita». Ma Catanzaro è anche quella che ha speso di più per risarcire un detenuto dopo gli arresti domiciliari: «L’importo giornaliero maggiore è stato liquidato per 79 giorni (1.383,73 euro gg.) con l’ordinanza n. 34/2018, cioè oltre 11 volte la soglia proporzionale di 117,91 euro».
Il 15 febbraio la Consulta dovrà decidere se i quattro referendum sulla giustizia, tra cui quello sulla responsabilità civile dei magistrati, siano ammissibili. E chissà se questi dati influiranno sull’eventuale voto dei calabresi.
Dalla vendetta a colpi di pistola a bordo di un vespino 50, alla strage di Natale; dall’attentato che lo costringe alla sedia a rotelle, fino alla follia sanguinaria di Duisburg. E in mezzo, evasioni, fughe all’estero e ricoveri sotto falso nome: la storia di Francesco Pelle, alias Ciccio Pakistan, riportato giovedì in Italia dopo il suo arresto in Portogallo, si lega a doppio filo con quella della faida di San Luca e chiude il cerchio, a 16 anni dall’eccidio tedesco, con una delle pagine più violente della storia criminale italiana.
Trenta anni di omicidi, agguati e lupare bianche sullo sfondo di un paese, San Luca, in ginocchio. Trenta anni in cui l’uomo che fu la causa scatenante della strage davanti al ristorante “da Bruno”, ha avuto il tempo di ritagliarsi un posto alla tavola di quelli che contano. Un posto guadagnato sul sangue di una faida senza fine, iniziata con quella che sembrava un’innocua bravata nel giorno di Carnevale del 1991, e terminata a Ferragosto del 2006 con i sei cadaveri di Duisburg.
Sangue caldo
Francesco Pelle è ancora un ragazzino quando entra in diretto contatto con le guerre di ‘ndrangheta. È il primo maggio del 1993 – il crimine organizzato calabrese lega da sempre le proprie azioni omicide con le giornate di festa – e San Luca è diventato un posto pericoloso già da due anni, con i primi morti della guerra sulla montagna. Durante la mattina del giorno dei lavoratori, in una stalla arroccata in una frazione montana, cadono sotto i colpi dei killer, Giuseppe Vottari e Vincenzo Puglisi, organici della potente cosca dei “Frunzu”, giustiziati da un commando degli storici rivali dei Nirta – Strangio.
Un agguato a cui sarebbe dovuto seguire una nuova azione degli alleati dei killer, con il “pattugliamento” del paese per frenare sul nascere ogni tentativo di reazione. Ma nei primi anni ’90 le comunicazioni possono essere un problema serio anche per gente organizzata e disposta a tutto, e la seconda parte del piano salta, favorendo l’immediata reazione delle famiglie dei Pelle – Vottari.
È una fonte confidenziale raccolta dai carabinieri di San Luca a indicare proprio l’allora giovanissimo Ciccio Pakistan come uno degli autori del commando che al doppio omicidio della mattina risponderà, nel primo pomeriggio, con gli omicidi di Giuseppe Pilia e Antonio Strangio, ammazzato nella propria auto il primo, freddato davanti alla sua macelleria in paese il secondo.
Secondo quell’anonimo informatore, Ciccio Pakistan avrebbe guidato l’assalto guidando una Vespa truccata. Mai formalmente accusato di quel doppio omicidio, Ciccio Pakistan, che a quei tempi è ancora un pesce piccolo ma dalle parentele (i Gambazza e i Vanchelli) pesantissime, sparisce dai radar, rifugiandosi in Germania. Un esilio volontario, alla maniera dei boss, che gli servirà per acquisire nuovi contatti.
Ammazzateli tutti
Le faide di ‘ndrangheta non sono guerre “normali”, a volte vanno in sonno, per poi riesplodere violentissime alla prima occasione. Nel caso della faida di San Luca l’elemento che riapre le ostilità è segnato dalla cattura di uno degli storici boss del crimine organizzato calabrese, Giuseppe Morabito “il tiradritto”, scovato dalle forze dell’ordine dopo una latitanza da guinness dei primati.
In seguito alla cattura del mammasantissima africoto, restano sul terreno Antonio Giorgi e Salvatore Favasulli. I due pezzi grossi delle ‘ndrine della montagna vengono uccisi a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro e segnano il passo per l’agguato che lascerà per tutta la vita su una carrozzina il nuovo boss dei Pelle.
In questo vortice impazzito di violenza folle, dove al sangue si risponde solo col sangue, Ciccio Pakistan viene colpito alla schiena da un commando di fuoco che ha sparato da lontano: «Mi hanno voluto fare il regalo per il bambino» dirà Pelle intercettato dai carabinieri nella sua stanza d’ospedale durante la degenza per i colpi subiti. Proprio quel giorno, il 31 luglio del 2006, il figlio neonato di Pelle era stato portato a casa, ad Africo, per la prima volta.
La strage di Natale e quella in Germania
Il clima a San Luca è pesante come non mai in quei giorni, persino il ramo dei Pelle “Gambazza” tenta di mediare con il boss ferito per evitare nuovo sangue, ma senza risultato. Nel pomeriggio del giorno di Natale del 2006 infatti, un gruppo armato fino ai denti si presenta davanti al n. 150 di via Corrado Alvaro, a San Luca, la casa del boss Giuseppe Nirta, capocosca dei “Versu”. Sono decine i colpi esplosi che uccidono Maria Strangio, moglie di Giovanni Luca Nirta, vero obiettivo del commando di fuoco che intendeva vendicare il ferimento di Pakistan, e feriscono in modo grave altre tre persone, tra un cui un bambino di 4 anni.
Sarà proprio la strage di Natale a costare la condanna a fine pena mai per il boss di San Luca, che di quell’azione è stato considerato il mandante. Passano pochi mesi, a San Luca si continua a morire (ma in quel periodo erano attive anche le faide tra i Cataldo e i Cordì a Locri e quella tra i Commisso e i Costa a Siderno) ma è in Germania che la vendetta assumerà i termini più tremendi. A Duisburg, duemila e passa chilometri dal paesino arroccato in Aspromonte, vengono trucidati in sei. A guidare il commando, Giovanni Strangio, giovane fratello della donna morta ammazzata pochi mesi prima. Sarà l’atto finale della faida della Montagna, una follia di violenza senza senso che oggi, con l’arrivo in manette a Ciampino di Ciccio Pakistan, può, forse, ritenersi definitivamente chiusa.
«Quello della pace è un discorso soggettivo, personale e sindacabile. E io, nonostante la pace, continuavo a covare rancore. Brusaferri aveva tentato di ammazzare mio zio Domenico, sono cose che non si dimenticano. Ma la guerra aveva portato tanti omicidi, tanti carcerati e nessun risultato, per questo mio zio Giuseppe Cataldo e il cognato dei Cordì, Vincenzo Cavaleri, siglarono la pace».
Camicia a righe, spalle alla telecamera e toni bassi, nelle prime dichiarazioni di Antonio Cataldo (il primo a portare quel nome così pesante a collaborare con la giustizia) emergono, tra montagne di omissis, spiragli di quella che fu una delle guerre di mafia più lunghe e feroci del crimine organizzato sul mandamento jonico.
Una guerra iniziata nel 1967 con la strage di piazza Mercato e poi congelata fino al 1993, quando una bomba a mano lanciata sull’auto in corsa di Giuseppe Cataldo – uscito praticamente incolume assieme alla moglie dalla carcasse fumante dell’utilitaria Fiat ormai distrutta – riaccese gli animi, in una Babele di violenza che insanguinerà le strade di Locri per quasi un ventennio.
Il fuoco sotto la cenere
Nel racconto di Cataldo, poco più di un underdog del narcotraffico ma dal nome pesantissimo, una vita passata tra il carcere e lalatitanza e un presente da “appestato” rincorso «dagli amici e dai nemici», viene fuori uno spaccato inedito sulla pace tra i due clan santificata sull’altare degli affari: una pace che frena la violenza ma conserva il rancore. «Seppi della pace da mia zia Teresa che mi portava in carcere una ambasciata di mio zio. Quel giorno mi disse: da ora, saluta tutti». Forma e sostanza, come da tradizione ‘ndranghetistica, si fondono assieme e quel saluto, prima negato, agli esponenti della cosca rivale dei Cordì rinchiusi nello stesso carcere, sugella l’accordo che pone fine alla mattanza.
«Da quel giorno ho iniziato a salutare i Cordì e a parlare con loro. Ho parlato anche con Guido Brusaferri – nipote dei mammasantissima Cosimo e Antonio Cordì – eravamo in carcere a Reggio Calabria ma gli ho parlato un paio di volte, nonostante la pace ed i buoni rapporti, io li consideravo comunque nemici: sono loro che hanno fatto uccidere mio fratello e mio zio. Brusaferri mi aveva invitato al pranzo di Natale in cui c’erano i locresi e io non sono andato. Dopo l’attentato a mio zio, mio fratello era uscito di casa con la pistola per vendicarsi proprio su Guido Brusaferri che nell’agguato aveva avuto sicuramente un ruolo, ma poi non fece niente perché qualcuno lo avvisò e non riuscì a trovarlo».
L’attentato
Ma se sotto la cenere il fuoco continua a bruciare, la pace ritrovata consente lo scambio di informazioni. Ed è durante una passeggiata «all’aria» nel carcere di Reggio che Cataldo raccoglie dall’antico nemico Brusaferri, la confidenza sull’idea maturata nella locale locrese, di un attentato al figlio del Procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri.
«Eravamo all’aria con Brusaferri che mi disse che tutta quella storia della guerra era stata uno sbaglio e poi mi ha raccontato il fatto di Gratteri. Era il periodo che si diceva che Gratteri sarebbe potuto diventare ministro della Giustizia e tutti ne parlavano in carcere. I detenuti erano terrorizzati dall’idea che Gratteri diventasse ministro della giustizia. Lui è uno che la ‘ndrangheta la conosce ed è un uomo severo: tutti temevano leggi ancora più severe. Brusaferri mi disse: “deve sembrare una disgrazia, se lo fanno ministro simuleremo un incidente con il motorino”». Vittima designata, il figlio del magistrato di Gerace, da 30 anni ormai sotto scorta. Una circostanza che Cataldo aveva già raccontato agli investigatori e che poi aveva ritrattato ma che per fortuna di Gratteri e suo figlio non è mai stata portata a compimento.
Mi cercano tutti
La nuova collaborazione di Cataldo – che con i magistrati aveva iniziato a parlare già nel 2013, ritrattando poi in aula le dichiarazioni rilasciate agli inquirenti durante gli interrogatori «perché avevo deciso di farmi i fatti miei» – riprende solo all’inizio di questa estate. Abbandonato dalla moglie e dalla famiglia «quando sono uscito dal carcere sono andato a casa di mia madre ma la mia famiglia non mi voleva e le mie sorelle chiamarono i carabinieri per farmi andare via», rimasto senza un soldo e guardato come un paria dai vecchi compari, è lo stesso Cataldo a raccontare i motivi della sua decisione di collaborare con la giustizia.
«Nelle carte di un’operazione erano uscite delle intercettazioni in cui io facevo commenti su mio cugino e su Vincenzo Cordì. Temevo per la mia vita, in quei giorni mi cercavano con insistenza in tanti sia tra i miei parenti Cataldo sia tra gli uomini delle cosche avverse dei Cordì e dei Floccari». Ed è la paura per quello che potrebbe succedergli che spinge Cataldo a precipitarsi dai carabinieri della compagnia di Locri nella notte del sette giugno e a vuotare il sacco. Con gli investigatori dell’Arma, Cataldo parla per ore e ore, per poi ripetersi, nel pomeriggio, anche con i magistrati dell’Antimafia. Un racconto per ora coperto da numerosi omissis, ma che potrebbe fare luce su una delle pagine più oscure della storia criminale di Locri.
Mafie 2.0. Anzi, forse già 4.0. Presenti in tutto il mondo. Capaci di evolversi, di sfruttare le nuove emergenze e le nuove tecnologie. Ma, allo stesso tempo, anche colpite dall’azione repressiva delle forze dell’ordine. Emerge questo dalla Relazione semestrale della Direzione Investigativa Antimafia. Il report si riferisce al secondo semestre del 2020 e analizza le emergenze giudiziarie, ma anche sociali sui fenomeni mafiosi.
Le tante facce delle mafie
Il tratto caratteristico sottolineato dalla DIA è la capacità delle mafie di cambiare il proprio volto all’occorrenza. Senza perdere la propria forza intimidatrice di banda armata, la criminalità organizzata mostra però sempre di più il proprio volto “gentile”. Aspetto e comportamenti presentabili, per dialogare con mondi con cui non dovrebbe esserci alcun tipo di collegamento. Vale per tutte le mafie: Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra. E la crescente Sacra Corona Unita, che, tra tutte, è quella che mantiene di più il proprio volto selvaggio e spietato. Ma il dato sottolineato dalla DIA è la tendenza a sostituire «l’uso della violenza, sempre più residuale, con linee d’azione di silente infiltrazione».
Il report della DIA riprende le indagini effettuate, lungo la Penisola, dalle Dda. E sempre con maggior forza le indagini rimarcano «l’attitudine delle ‘ndrine a relazionarsi agevolmente e con egual efficacia sia con le sanguinarie organizzazioni del narcotraffico sudamericano, sia con politici, amministratori, imprenditori e liberi professionisti».
Particolare spazio è dedicato alla realtà criminale della Capitale. “Roma città aperta”, davvero. Ma nel senso che lì riescono a penetrare sostanzialmente tutte le mafie. Che poi dialogano, proficuamente, con la criminalità locale e con le organizzazioni criminali straniere. «A un livello più strategico – si legge nel documento – condotte violente quali omicidi, tentati omicidi o gambizzazioni possono risultare funzionali a orientare o persino deviare significativamente il corso delle relazioni delinquenziali (anche datate) delle alleanze ovvero degli equilibri spesso labili e comunque sempre soggetti al business contingente».
A Roma, mafia, camorra e ‘ndrangheta fanno affari e riciclano denaro. Forti della maggiore capacità di occultamento e mimetizzazione. «La mancanza di un’organizzazione egemone con cui fare i conti e di contro l’elevato potenzialità del capitale sociale del territorio (in termini di presenze criminali, rete di professionisti, esponenti istituzionali, amministratori pubblici, politici locali e nazionali) sono fattori che uniti alle emergenze originate dall’emergenza sanitaria da Covid-19 sicuramente possono favorire il reinvestimento dei capitali illeciti», segnala il documento di oltre 500 pagine.
Le mafie e il Covid
Più e meglio di chiunque, le mafie riescono a interpretare in anticipo i cambiamenti della società. E a sfruttare le emergenze. Di qualsiasi tipo. Si pensi alle infiltrazioni negli appalti dopo una catastrofe (su tutte, il terremoto de L’Aquila). Non fa eccezione, evidentemente, anche la pandemia da Coronavirus, che ha investito l’Italia e il mondo tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020. Ancora dalla relazione della DIA: «Il rischio di inquinamento dell’economia che è stato ulteriormente accentuato dallacrisi pandemica, nella capitale potrà comportare un ulteriore espansione delle condotte usurarie che potrebbero andare a intaccare non solo le piccole e medie imprese ma anche i singoli».
Ancora una volta, viene presa Roma come esempio di quanto possa avvenire, però su tutto il territorio nazionale. «Non sono tuttavia da sottacere quelle condotte violente opera di soggetti criminali emergenti che si presentano alla lente degli analisti e degli investigatori come funzionali alla conquista di porzioni di territorio per la gestione delle piazze di spaccio degli stupefacenti il cui approvvigionamento resta tendenzialmente appannaggio di camorra, ‘ndrangheta e in misura minore di cosa nostra con gruppi di criminalità straniera, in particolare albanese, che si stanno sempre più affermando nel settore».
I Calabresi aveva già effettuato un’inchiesta sulla capacità della ‘ndrangheta di sfruttare il welfare. Dai bonus spesa Covid, al Reddito di Cittadinanza. Una tendenza che adesso viene sottolineata anche dalla DIA. «La spregiudicata avidità della ‘Ndrangheta non esita a sfruttare il reddito di cittadinanza nonostante la crisi economica che grava anche sul contesto sociale calabrese e benché l’organizzazione disponga di ingenti risorse finanziarie illecitamente accumulate». L’affermazione della DIA richiama diverse indagini che hanno visto personaggi affiliati o contigui ai clan calabresi quali indebiti percettori del reddito di cittadinanza: dalle famiglie Accorinti del Vibonese, a quelle crotonesi, come i Mannolo oppure i Pesce e i Bellocco di Rosarno. O alle famiglie di San Luca.
‘Ndrangheta regina del narcotraffico
Le analisi focalizzano la visione «globalista» della ‘ndrangheta. La relazione della DIA utilizza proprio questo termine per documentare come le ‘ndrine si siano stabilite in numerosi Paesi del mondo e siano capaci di dialogare da pari a pari con i produttori di droga dell’America Latina. La relazione censisce i gruppi affiliati in tutte le regioni italiane, in diversi Paesi europei (Spagna, Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda, Germania, Austria, Repubblica Slovacca, Romania e Malta), nonché in Australia, Stati Uniti e Canada.
San Giusto Canavese (Torino) e Lonate Palazzolo (Varese), Lona Lases (Trento) e Desio (Monza e Brianza), Lavagna (Genova) e Pioltello (Milano). Sono solo alcuni dei “locali” di ‘ndrangheta al nord. Luoghi lontani dalla “casa madre” calabrese, dove, comunque, le ‘ndrine avrebbero messo radici. La Direzione investigativa antimafia nella sua Relazione semestrale al Parlamento conta ben 46 “locali” nelle regioni settentrionali. Sono25 in Lombardia, 14 in Piemonte, 3 in Liguria, 1 in Veneto, 1 in Valle d’Aosta ed 1 in Trentino Alto Adige.
Ritorna quindi il concetto di holding, capace di ripulire gli enormi capitali illeciti, frutto dei traffici di droga. Proprio nel mercato della droga, la ‘ndrangheta continua a essere leader a livello internazionale. Una visione, quella della DIA, che va a cozzare con quanto messo nero su bianco pochi giorni fa dall’Europol. Che, invece, dava un ruolo in grande crescita alle organizzazioni criminali albanesi.
«Non più impermeabile»
Un aspetto molto importante sotto il profilo investigativo ma, forse, anche sociale è quello che la DIA rileva sul fenomeno delle collaborazioni con la giustizia. Il “pentitismo” da cui, per tantissimo tempo, la ‘ndrangheta è rimasta pressoché immune. Si legge nella Relazione Semestrale: «Non appare più così monolitica ed impermeabile alla collaborazione con la giustizia da parte di affiliati nonché di imprenditori e commercianti, sino a ieri costretti all’omertà per il timore di gravi ritorsioni da parte dell’organizzazione mafiosa».
Le indagini, evidenzia la Relazione, danno conto «dell’ampio e pressoché inedito squarcio determinato dall’avvento sulla scena giudiziaria di un numero sempre più elevato di ‘ndranghetisti che decidono di collaborare con la giustizia». E anche «esponenti di primo piano hanno scelto di rompere il silenzio».
‘Ndrangheta e “colletti bianchi”
Il timore è quello di sempre. La conquista di ampie fette di mercato da parte delle cosche. «Le ‘ndrine – si legge nel documento – potrebbero intercettare i vantaggi e approfittare delle opportunità offerte proprio dalle ripercussioni originate dall’emergenza sanitaria, diversificando gli investimenti secondo la logica della massimizzazione dei profitti e orientandoli verso contesti in forte sofferenza finanziaria”.
In particolare, «secondo un modello collaudato, la criminalità organizzata calabrese persisterebbe nel tentativo di accreditarsi presso imprenditori in crisi di liquidità ponendosi quale interlocutore di prossimità, imponendo forme di sostegno e prospettando la salvaguardia della continuità aziendale, nel verosimile intento di subentrare negli asset proprietari e nelle governance aziendali al duplice scopo di riciclare le proprie disponibilità di illecita provenienza e inquinare l’economia legale impadronendosi di campi produttivi sempre più ampi».
La relazione semestrale della Dia
Anche i settori commerciali di interesse sono quelli di sempre: dalle costruzioni agli autotrasporti, passando per la raccolta di materiali inerti. E poi, ancora, ristorazione, gestione di impianti sportivi e strutture alberghiere, commercio al dettaglio. E, ovviamente, il settore sanitario. «Si registrano nel settore del contrabbando di prodotti energetici (oli lubrificanti ed oli base) in virtù dei notevoli vantaggi economici derivanti dalla possibilità di immettere sul mercato prodotti a prezzi sensibilmente più bassi di quelli praticati dalle compagnie petrolifere», scrive ancora la DIA. Eccola la sinergia tra mafie e colletti bianchi: «Incaricati di curare le importazioni di carbo-lubrificanti dai Paesi dell’Est Europa, gestire la distribuzione dei prodotti sull’intero territorio nazionale attraverso società-filtro create ad hoc per attestare attraverso falsa documentazione il fittizio assolvimento degli adempimenti tributari e in tal modo riciclare i capitali di provenienza illecita messi a disposizione dai sodalizi mafiosi».
«La ‘Ndrangheta esprime un sempre più elevato livello di infiltrazione nel mondo politico-istituzionale, ricavandone indebiti vantaggi nella concessione di appalti e commesse pubbliche». Perché, oltre alla smisurata capacità economica, la vera forza della ‘ndrangheta, sono le relazioni. Quelle che le permettono di entrare nei palazzi del potere, di dialogare con mondi (anche occulti) con cui sarebbe dovuta entrare in contatto: «Grazie alla diffusa corruttela vengono condizionate le dinamiche relazionali con gli enti locali sino a controllarne le scelte, pertanto inquinando la gestione della cosa pubblica e talvolta alterando le competizioni elettorali».
Le criptovalute
Proprio grazie ai professionisti al proprio servizio, le cosche riescono anche a cogliere e interpretare le varie opportunità offerte della globalizzazione. «Avvalendosi sempre più delle possibilità offerte dalla tecnologia si orientano verso i settori del gioco d’azzardo (gaming) e delle scommesse (betting) nei quali imprenditori riconducili alla criminalità organizzata, e grazie alla costituzione di società sedenti nei paradisi fiscali, creano un circuito parallelo a quello legale che consente di ottenere notevoli guadagni e in particolare di riciclare in maniera anonima cospicue quantità di denaro».
Denari che poi si muovono in giro per l’Europa e per il mondo. Sia nel Vecchio Continente, con Svizzera, Lussemburgo e Malta. Sia in altre zone del pianeta, come Dubai, Seychelles, Hong Kong, sono disseminati paradisi fiscali o, comunque “zone franche”. Dove la ‘ndrangheta opera finanziariamente in maniera pressoché incontrollata. E nella gestione dei suoi business ricorre sempre più spesso «a pagamenti con criptovalute quali i Bitcoin e più recentemente il Monero, che non consentono tracciamento e sfuggono al monitoraggio bancario».
Ecco la ‘ndrangheta 2.0. Che corre veloce, però. Quindi, forse, è già ‘ndrangheta 4.0.
Accoltellata a morte dal marito. Il barbaro femminicidio di Sonia Lattari, 43enne, assassinata dal marito, Giuseppe Servidio a Fagnano Castello, nel Cosentino, riapre il dibattito sulla condizione delle donne in Calabria. Discriminate, ghettizzate, con minori opportunità di accesso al mondo del lavoro e alle istituzioni. E, spesso, vittime di violenze o uccise.
I numeri su omicidi e violenze
In un anno, in Italia, sono state uccise 105 donne. È il 38% degli omicidi volontari. Il dato emerge dall’annuale dossier del ministro dell’Interno. Il periodo di riferimento del dossier è quello che va da agosto 2020 a luglio 2021.
Sonia Lattari è la quarta donna uccisa in Calabria dall’inizio dell’anno per mano di partner o ex compagni. Spesso il delitto si consuma al termine di un periodo, più o meno lungo, di violenze fisiche e psicologiche. Se, infatti, il numero di vittime in Calabria non registra picchi particolarmente significativi rispetto alla media nazionale, ciò che preoccupa sono i cosiddetti “reati spia”. Quelli, cioè, che possono preludere a un epilogo ancor più drammatico. «In questo momento in Procura abbiamo un numero elevatissimo di denunce per reati di violenza di genere ed è un trend che è in crescita». Ad affermarlo il procuratore capo di Cosenza, Mario Spagnuolo.
Sonia Lattari insieme al marito, oggi accusato di averla uccisa a coltellate
Ma non sempre si denuncia. La stessa Sonia Lattari, nel passato, aveva subito percosse dall’uomo. Ma non aveva denunciato. «Troppe volte ematomi e ferite vengono giustificati in termini non credibili, quando arriva la polizia sul luogo delle violenze. E allora invitiamo a denunciare, perché abbiamo tutta una struttura di supporto per affrontare i drammi di queste persone, se si affidano a noi», aggiunge Spagnuolo.
Antonella Veltri, presidente della Rete nazionale dei centri antiviolenza, dà una chiave di lettura diversa: «Le donne stanno dimostrando grande resistenza. Ma le donne non denunciano perché con il sistema attuale si ripropongono a una vittimizzazione secondaria».
La donna in Calabria
Oltre ai casi di violenza diretta, ciò che preoccupa è la condizione generale della donna in Calabria. A cominciare da quella lavorativa. Il mercato del lavoro calabrese che sino al 2019 mostrava un lieve ma costante recupero, nel mese di giugno 2020 registra un arresto di tale trend positivo. A certificarlo il rapporto sull’economia della Calabria della Banca d’Italia. Ovviamente su tale situazione, molto ha inciso la pandemia da Covid-19. Ma a pagare sono sempre le “solite” categorie. La riduzione della occupazione ha riguardato principalmente la fascia di lavoratori di età compresa tra 15 e 29 anni. E la componente femminile.
Nel 2018 per l’Italia aumenta la distanza nel tasso di occupazione femminile dalla media europea. Che passa da 11,5 a 13,8 punti percentuali. A livello nazionale si riduce il gap tra uomini e donne. Questo per effetto della contrazione nel periodo del tasso di occupazione maschile. Ma il divario è più elevato rispetto alla media europea. Tra il 2008 e il 2018, per quanto riguarda il tasso di occupazione femminile il Mezzogiorno, già molto lontano, perde ulteriormente terreno. Attestandosi al 30,5 del 2018.
In Italia, il reato di femminicidio è stato introdotto solo nel 2013. La legge 19 luglio 2019, introduce talune disposizioni a tutela delle vittime di violenza domestica e di genere. Ed è l’occasione per chiarire il funzionamento del sistema penale per la tutela delle vittime di femminicidio. Il cosiddetto “Codice Rosso”. Negli ultimi 10 anni, in Calabria sono circa 100 le donne uccise.
«Vorrei superare lo stereotipo calabrese del vittimismo. La situazione delle donne in Calabria rispecchia grossomodo quello che avviene a livello nazionale. Ma vorrei che su questo si interrogassero anche gli uomini. Non c’è stata una presa di coscienza maschile. Che io invece invoco», afferma ancora Antonella Veltri.
Nonostante il Documento di indirizzo strategico regionale per l’avvio della programmazione 2021-2027, individuasse precisamente entità e cause della condizione di svantaggio in cui versa la donna in Calabria, è stata di fatto smantellata la rete di consultori familiari, presidi socio sanitari e centri antiviolenza. Tutte strutture che potrebbero prevenire delitti. Ma che potrebbero contrastare, anche culturalmente, le violenze e le discriminazioni nei confronti delle donne.
Uno striscione di protesta contro la panchina rossa installata di fronte alla questura di Cosenza
Nessun segnale dalle istituzioni
Tali strutture necessitano di figure professionali quali psicologi, psicoterapeuti e psichiatri. Ma sono stati colpiti dalla scure del Piano di rientro dal debito sanitario della Calabria. Sul punto, Antonella Veltri chiede un impegno a tutte le istituzioni: «Non ha senso sbandierare le belle panchine rosse, su cui andiamo a fare accomodare le donne vittime di violenza. Chiedo quindi che venga data forza ai centri antiviolenza. Essi sono l’avamposto per contrastare tutto questo».
Ma la cartina al tornasole di quanto manchi una presa di coscienza, soprattutto culturale, è data dalla scarsa partecipazione alla vita pubblica delle donne. Anche il Consiglio regionale della Calabria è, da sempre, un “affare” quasi esclusivamente per uomini. E anche le imminenti Regionali (che porteranno al voto con la doppia preferenza di genere). Anche su questo, Antonella Veltri ha un’idea controcorrente: «Sono sempre stata contraria alle Pari opportunità, ma la doppia preferenza può essere, effettivamente, un facilitatore. Non mi piace, ma vedremo cosa accadrà. Insisto, però: le donne non sono messe nelle condizioni di dimostrare il proprio valore».
La lista delle “zoccole”
Non si perde l’occasione, però, di dimostrare, anche pubblicamente, un presunto disvalore femminile. Sarebbe infatti grottesco, se non fosse parimenti inquietante, quanto accaduto qualche giorno fa a Cinquefrondi, in provincia di Reggio Calabria. Sui muri del paese della Piana di Gioia Tauro, infatti, è apparsa quella che è stata battezzata la “lista delle zoccole”.
A segnalare l’accaduto, un’attivista cosentina del Collettivo Fem.In (lo stesso che incastrò l’allora commissario alla sanità, Giuseppe Zuccatelli con le sue dichiarazioni no-mask). Sul punto è intervenuta anche l’amministrazione comunale di Cinquefrondi, entrando in contatto con le autorità. Nel tentativo di individuare il responsabile o i responsabili delle continue affissioni notturne. Ma anche i cittadini si sono organizzati in vere e proprie “ronde” per scovare chi, tra i 6500 abitanti di Cinquefrondi abbia ideato questa lista offensiva e discriminatoria.
Un elenco di donne, con tanto di nomi e cognomi, additate come “zoccole”. Un pratica che viene ormai praticata da tempo, avendo trovato anche una connotazione sociologica: “slut shaming”. La vergogna pubblica nei confronti di donne considerate troppo disinvolte nei comportamenti sessuali. O nel modo di vestire. Donne di facili costumi, quindi. O, comunque, degne di riprovazione. Soprattutto per ragioni di tipo sessuale. Ma non solo. Alle malcapitate viene affibbiato ogni tipo di insulto. «Leggi, ma non strappare», il messaggio di accompagnamento.
In Argentina, a metà degli anni ’70, c’è un uomo alto alto che passa le giornate a trovare il modo di salvare vite. Fabbrica uno a uno i documenti che servono per spedire donne uomini e bambini lontano dalla violenza del regime argentino. Riesce a salvarne centinaia ma, ciononostante, dorme con il dispiacere di non aver potuto fare nulla per tantissimi altri di quelli che hanno bussato alla sua porta. Passa e ripassa a mente i loro volti, cerca di capire cosa può fare per capire che fine hanno fatto, se in qualche modo possono ancora essere salvati. Va avanti così per molti anni E per un ragazzo in particolare: suo nipote Eduardo.
Il sindaco emigrante
È una storia, quella di Filippo Di Benedetto, che inizia sulle pendici del Pollino, a Saracena. Quinto di sette figli, assorbe la passione per gli ideali comunisti da suo padre, Leone di Benedetto, il primo abbonato al quotidiano comunista L’Unità. Lavorava in una piccola falegnameria e affiancandosi all’opera del pedacese Fausto Gullo, durante gli ultimi anni del regime fascista, all’età di 21 anni, contribuì a organizzate le prime proteste antifasciste del comprensorio. Per questo fu arrestato, torturato e rinchiuso nel carcere di Castrovillari nel 1943. Poi cadde la dittatura e alle prime elezioni democratiche del 1947 divenne sindaco di Saracena.
Di Benedetto, secondo da sinistra, con Sandro Pertini
Organizzò una manifestazione in paese contro chi si opponeva a portare il servizio idrico nelle case di campagne: un corteo che quando arrivò nei campi trovò la strada sbarrata da un cordone di uomini in divisa con i fucili pronti a sparare. «Sparate a me», disse Di Benedetto mettendosi alla testa del corteo, ma «nessuno tocchi questi lavoratori». Un episodio rimasto negli occhi dei molti presenti a lungo, che tuttavia non lo aiutò a far crescere le condizioni economiche della sua comunità, alle prese con un dopoguerra ricco solo di miserie e soprusi.
«Sparate a me», disse Di Benedetto mettendosi alla testa del corteo, ma «nessuno tocchi questi lavoratori»
Con il Comune in grave dissesto, la sua decisione nel 1952 fu quella di provare a raggiungere suo fratello Orlando in Argentina. Avrebbe cercato di rimettersi in forze e di tornare a Saracena, ma gli eventi della vita ebbero il sopravvento e dall’Argentina tornò in Calabria diverse volte, ma come faceva un emigrante.
Ebanismo e sindacato
A Buenos Aires diventò Felipe per gli affetti, e sposò una calabrese emigrata che si chiamava Rosa Garofalo, originaria di Cosenza. Ebbero due figli maschi, Mario e Claudio. Di Benedetto imparò il mestiere di ebanista e provò a integrarsi nella nuova realtà, piena di emigrati come lui. La passione politica lo aiutò parecchio: si iscrisse al Partito comunista e nel 1975 fu nominato responsabile del patronato Inca Cgil di Buenos Aires. A centinaia si rivolgevano a lui per questioni sindacali e ancora di più quando iniziò a frequentare l’Associazione calabrese di Buenos Aires, della quale fu eletto presidente nel 1976.
Di Benedetto durante un comizio del Pci in Argentina
Non era un periodo facile, l’Argentina, in quel momento l’ultimo baluardo democratico del Cono Sud dell’America latina stava per capitolare sotto i colpi di un conflitto latente. Il 24 marzo del 1976 arrivò il colpo di Stato, e in poche settimane la repressione si fece durissima, fino ad arrivare al crimine contro l’umanità noto come “Sparizione forzata”. A migliaia furono presi clandestinamente, incarcerati, torturati, uccisi e fatti sparire.
Un acclamato intervento di Di Benedetto a una cena di emigrati in Argentina
Sulle orme di papà
Oggi Claudio Di Benedetto, proprio come faceva il papà a Buenos Aires, restaura mobili antichi alle pendici del Pollino, a Castrovillari. Negli anni ’80 ha vinto una borsa di studio in restauro del mobile e ha svolto un corso di perfezionamento in Brianza. Poi ha deciso di vivere in Calabria.
«Mio padre veniva due o tre volte all’anno in Italia. Portava in Argentina i prodotti locali della Calabria e parlava in dialetto calabrese. Perciò, qui era tutto familiare e mi colpì della Calabria la natura: 10 minuti il mare, 10 minuti la montagna… tutto vicino, mentre in Argentina abbiamo delle lunghe distanze difficili da coprire, e un brutto clima. Soprattutto a Buenos Aires».
Riprese di Gianluca Palma, montaggio di Marco Mastrandrea.
L’intervista fa parte dell’Archivio Desaparecido, un progetto di memoria attiva promosso dal Centro di Giornalismo Permanente di Roma
Claudio è molto fiero della storia del padre, anche se è cosciente che per l’indole schiva del carattere che ha ereditato se n’è parlato poco e niente. «Successe che un giorno nel suo ufficio incominciarono ad arrivare alcuni genitori di origine italiana. Raccontavano che alcuni dei loro figli erano stati rapiti e non avevano avuto più notizie di loro. Così mio padre, immediatamente, va a chiedere spiegazioni sia all’ambasciata che al consolato italiano di Buenos Aires, dove era conosciuto. Da parte delle autorità italiane bocche cucite però: nessuna informazione. E questo fa capire la complicità del governo italiano con quella giunta militare».
L’unico ad aiutarlo
A Buenos Aires, a quei tempi un’autorità italiana che ha deciso di non rimanere cieca davanti a tutto quello in realtà c’è. Si chiama Enrico Calamai e fa il viceconsole. La storia lo riconosce come un gigante, sono innumerevoli le opere che raccontano il suo impegno, nel 2004 è stato decorato dall’Argentina con l’Orden del Libertado General San Martín e il suo nome figura fra quelli del Giardino dei Giusti a Milano. Nella sua biografia ricorda il contributo di Di Benedetto, è fra i pochissimi ad averlo fatto: «Aveva una tosse infernale, una giacca logora, ma sapeva da quale impiegato delle Poste andare per spedire un telegramma senza essere denunciato».
Il diplomatico italiano Enrico Calamai
Ai tempi a Di Benedetto diede anche un consiglio importante, lo ricorda il figlio Claudio: «Decisero insieme di aiutare vite umane, salvando centinaia e centinaia di persone da morte sicura; aiutandoli a espatriare anche con passaporti falsi, nascondendo molti di loro in luoghi sicuri e denunciando alle autorità italiane quello che stava succedendo. Io mi ricordo che Calamai molte volte diceva: ‘Filippo, non ti esporre in questo modo… io sono un console, ho l’immunità, ho la scorta, ma tu non hai nessuno che ti protegge. Così metti a repentaglio la tua vita e quella della tua famiglia’. Ma mio padre continuò a salvare vite».
Eduardo è sparito
Ha continuato fino a quando è stato possibile, cercando di non raccontare a nessuno cosa faceva. In famiglia non ne parlava mai, teneva separati gli ambiti, anche perché era molto pericoloso. Difatti, dopo poco tempo, l’orrore che stava piombando nel cuore della notte di migliaia di case argentine bussò anche alla porta di casa Di Benedetto. Domenica Maria Alba Di Benedetto, figlia di suo fratello Orlando, insieme al marito Antonio Eduardo Czainik, vennero presi dagli squadroni della morte mentre erano intenti ad accompagnare a scuola i due figli. Vennero portati in un centro clandestino di detenzione, dove furono brutalmente torturati. Perché?
Eduardo era nato nella capitale federale il 27 aprile del 1947 e faceva il meccanico in un’officina a Posta de Pardo, Ituzaingó, Buenos Aires. Era un militante del gruppo rivoluzionario Forze Armate di Liberazione 22 agosto (FAL 22), ecco perché era su una lista. Ufficialmente risulta sequestrato il 25 agosto 1977 in via Nazca 920, dove abitava. Al quotidiano argentino Pagina/12 Christian Czainik, uno dei figli di Eduardo, ha raccontato che la famiglia riuscì a ottenere qualche informazione attraverso canali non ufficiali, ma che queste informazioni non sono servite a nulla perché hanno respinto il ricorso di habeas corpus e la denuncia al Ministero dell’Interno presentate dalla madre.
Il cruccio più grande
I tentativi furono i più disparati, Domenica in quegli anni ha girato in lungo e in largo le caserme alla ricerca del marito, riuscendo a incontrare anche il celebre agente dei servizi Raul Guglielminetti, ritenuto l’uomo che avrebbe portato gli archivi segreti della dittatura in Svizzera, più avanti processato in Argentina per aver sequestrato imprenditori a scopo estorsivo. Nulla è servito a sapere qualcosa di Eduardo, desaparecido all’età di 30 anni.
Una richiesta di informazioni su Antonio Czainik apparsa su Pagina 12
Di Benedetto prendeva informazioni e segnalava più casi di giovani perseguitati possibile, si spingeva fino al limite, ricevendoli nel suo ufficio e accompagnandoli in consolato. Li nascondeva fino al rimpatrio permesso dall’opera diplomatica di Calamai. Rischiava grosso, ma riuscì a contribuire al salvataggio di più di 300 persone, secondo le stime ufficiali. Moltissimi riuscirono a farsi passare per turisti, arrivarono in Italia e scamparono a una fine orribile anche grazie all’impegno di Filippo Di Benedetto, ma fra loro non c’era il nipote Eduardo. Per lui non ci fu niente da fare, era troppo tardi, e questo fu un cruccio che si portò appresso per tutta la vita.
Di Benedetto muore in Argentina nel 2001 sostanzialmente in povertà, senza nemmeno gli onori della cronaca. Solo 18 anni dopo, il 7 settembre del 2019, a Saracena decidono di intitolargli una strada. L’evento non ha l’eco che meriterebbe, ma in prima fila c’è un uomo che ha fatto tanta strada per esserci. Prende il microfono e di Filippo Di Benedetto dice: «Eravamo in contatto continuo e lo ricordo come una persona di un grande calore umano, generosa, molto umile e pure pieno di una grande saggezza ed intelligenza, di una grande cultura vera di civiltà». Parola di Enrico Calamai.
Ora non lo dicono più solo gli inquirenti: le travi d’acciaio nel museo multimediale di piazza Bilotti presentano dei difetti non accettabili e sono necessari interventi per renderle sicure. La conferma all’ipotesi della magistratura arriva infatti dai tecnici assunti dal Comune di Cosenza nella speranza che dimostrassero l’esatto contrario.
Le rassicurazioni infondate di Occhiuto
«Ribadisco che prima del collaudo anche le leggere imperfezioni presenti in alcune travi d’acciaio sono state oggetto degli opportuni interventi, sì da rendere anche tali componenti del tutto conformi alla normativa e quindi sicuri», rassicurava il sindaco Occhiuto nell’aprile del 2020 all’indomani del sequestro di quella piazza che considerava il fiore all’occhiello della sua amministrazione.
C’era anche lui tra i 13 rinviati a giudizio per le vicende relative alle presunte irregolarità nelcollaudo della maxi opera, riaperta al pubblico quasi completamente pochi mesi fa. A restare chiuso era stato proprio il museo, con Occhiuto che a gennaio scorso aveva spiegato che erano «in corso ulteriori e più approfondite indagini sulle travi metalliche».
Le indagini commissionate dal Comune
Quelle indagini – almeno quelle commissionate da Palazzo dei Bruzi – si sono concluse e il risultato è apparso nei giorni scorsi sull’albo pretorio del Comune, seminascosto tra decine di allegati a una determina. Il documento ha un titolo inequivocabile: “Verifica delle travi in acciaio presenti nell’area museo”. Porta la firma di cinque ingegneri della Sismlab, spin-off dell’Unical scelto dall’amministrazione comunale per effettuare i test. È lungo più di 100 pagine, fitte di calcoli ingegneristici, immagini relative alle prove effettuate sui materiali utilizzati. E si conclude con un verdetto inequivocabile: le travi sono difettose e c’è bisogno di intervenire al più presto per evitare il peggio.
I difetti inaccettabili alle travi
I cinque di Sismlab lo scrivono a chiare lettere nelle loro conclusioni: «Vista la presenza di difetti su due travi e in particolare sui cordoni di saldatura, considerato che i difetti sono definiti non accettabili e quindi da riparare, considerati inoltre i coefficienti di sicurezza rilevati in presenza dei carichi accidentali nelle sezioni danneggiate, a giudizio di chi scrive e nello stato attuale di consistenza non è possibile riammettere alla riapertura al pubblico l’area attualmente interdetta individuata come area museale».
Non solo, gli ingegneri aggiungono che «la possibilità di riapertura degli spazi al pubblico dell’area museale e delle aree con esse connesse sono, a giudizio di chi scrive, condizionate all’esecuzione di improcrastinabili lavori di consolidamento da effettuare sulle travi portanti in acciaio». Se non si fanno quelli – e in fretta – niente più museo a piazza Bilotti perché mancherebbero le «condizioni di sicurezza secondo la vigente normativa».
I bulloni serrati male
Oltre ai difetti alle travi, ci sarebbero anche dei problemi col serraggio dei bulloni. Dalle verifiche di Sismlab emerge, infatti, «l’evidenza che alcuni elementi presentano dei valori di esercizio leggermente più bassi di quelli impostati per la verifica e intorno al 10-13 % in meno». Tant’è che «sulla base delle risultanze sperimentali appare evidente la necessità di eseguire un intervento di consolidamento sulle travi per poter riammettere all’esercizio le aree del museo. L’intervento ovviamente dovrà essere finalizzato a ripristinare i coefficienti di sicurezza delle travi in acciaio intervenendo sia sulle saldature che sulle parti di bullonatura per ripristinare su queste parti il corretto serraggio».
Il mare Mediterraneo è malato. A dirlo sono le eloquenti immagini che ogni estate ci pongono di fronte alla squallida realtà dell’acqua sporca e di turisti in fuga. Ma adesso sono anche i dati diffusi da Legambiente.
Inquinamento, abusivismo edilizio e pesca illegale sono le cause del grande male che affligge il nostro mare. Anche e soprattutto in Calabria dove il mare, se tutelato e valorizzato, potrebbe essere l‘elemento chiave di una rinascita economica e turistica della regione.
Il lockdown non ha fermato la mattanza
Sui problemi della depurazione e sull’abusivismo che deturpa le coste si sono scritti fiumi di inchiostro, mentre poco o nulla è stato detto sulle conseguenze della pesca illegale per l’ecosistema marino e non solo. Neanche un anno di lockdown è servito ad arginare l’aggressione criminale alle coste e al mare: i sequestri effettuati dalle Capitanerie di porto e dalle Forze dell’ordine, hanno fatto segnare numeri in costante crescita.
Reti illegali sequestrate dalla Guardia costiera
Pesca fuorilegge
Per inquadrare il potenziale impatto della pesca illegale è necessario operare una prima distinzione tra pesca professionale e pesca sportiva.
La prima, regolamentata dal consorzio Mably, rileva i dati di cattura e sbarchi per conto del ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali e avviene tuttavia su base campionaria e attraverso il dichiarato dei battenti che è obbligatorio solo per i natanti superiori ai 10 metri. Questi però rappresentano solo il 38% della flotta da pesca esistente in Italia.
Una rete di controllo dalle maglie davvero troppo larghe che diventano voragini quando si parla di pesca sportiva. Basti solo pensare che la Federazione italiana operatori pesca sportiva, che rappresenta oltre 600 negozi di articoli da pesca, dichiara due milioni di pescatori sportivi e ricreativi. Un numero in crescita esponenziale che sfugge ad ogni tentativo di controllo e monitoraggio.
Il bianchetto: l’oro del mare
Nel 2020 la Calabria è stata la quarta regione d’Italia per numero di infrazioni accertate (324) pari al 7,2% del totale nazionale con 470 persone denunciate o arrestate e 280 sequestri effettuati.
La Capitaneria di porto, solo nel 2020, lungo i 715 km di costa calabrese ha sequestrato la bellezza di 40.446 kg di prodotti ittici. Sono dati emersi da Mare monstrum 2021, il rapporto annuale di Legambiente.
In Calabria novellame, tonno e pesce caviale
Ogni regione ha le sue specialità. In Calabria la maggior parte degli illeciti riguarda la pesca illegale di pesce caviale, tonno e novellame. In Sicilia, Campania e Puglia la pesca illegale si concentra invece su datteri di mare, crostacei e molluschi.
La pesca del novellame di alice e sarde, detta anche neonata, bianchetto o rosamarina, è una tradizione tutta calabrese che arreca un danno alla fauna marina di proporzioni enormi.
Il medico veterinario Santi Spadaro ha indicato la portata di questo scempio: «È una pesca che crea un danno biologico devastante, ogni chilo di novellame corrisponde a 2 quintali di pesce adulto».
Un business difficile da individuare e da contrastare. Un kg di novellame può essere acquistato dai 13 ai 15 euro per poi essere rivenduto nella ristorazione con ricavi importanti.
“No driftnets”
Le Capitanerie di Porto e la Guardia Costiera sono da sempre impegnate a contrastare la pesca illegale soprattutto quando questa avviene attraverso l’utilizzo delle reti da posta derivanti che non vengono ancorate al fondo ma sono lasciate libere di muoversi in balìa delle correnti, intrappolando ogni tipo di specie marine senza possibilità di distinzioni.
Nel 2021, dal 15 aprile al 15 luglio, il Centro di controllo nazionale pesca ha pianificato a livello nazionale l’operazione “No Driftnets” (nessuna rete derivante).
Nella nostra regione i controlli sono avvenuti nel Tirreno Cosentino con la nave Gregoretti impegnata nello specchio d’acqua antistante le Isole Eolie e la nave Cavallari a largo di Amantea. La prima ha sequestrato attrezzi e reti da posta per oltre 10 chilometri. La seconda ha individuato invece 2,5 chilometri di rete illegale che aveva intrappolato anche delle mante (una specie protetta), una della quali di circa mezza tonnellata.
Altri interventi sono stati svolti dai militari in località San Lucido di Cetraro, dove sono state ritrovate altre 3 reti lunghe circa 3,8 chilometri.
Tutte le attrezzature sono state sequestrate e i trasgressori sanzionati.
Depauparamento del Mediterraneo
Atti internazionali e della Unione europea hanno messo in guardia l’Italia sul sovrasfruttamento degli stock ittici e sulle crescenti minacce alla sopravvivenza di molte specie di pesci e di altre specie marine.
Ma nessun vero deterrente normativo è in atto, quasi come se i dati sullo sfruttamento del mare e l’impatto della pesca amatoriale non fossero sufficientemente allarmanti.
E al danno si aggiunge la beffa. La nuova legge 27 del 29 marzo 2019 “Capo IV Bis – Misure a sostegno del settore ittico” ha di fatto ridotto molte delle sanzioni amministrative in vigore e prevede sanzioni per la pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata, principalmente in via amministrativa con sanzioni pecuniarie non deterrenti attribuendo rilevanza penale solo in un residuale numero di ipotesi.
Il grido di Legambiente
Sembra quasi un incentivo alla pesca illegale. Duro il giudizio di Legambiente: «È necessario rafforzare il sistema normativo e dotare di strumenti idonei gli organi inquirenti per consentire di contrastare la pesca illegale e per assicurare l’effettiva tutela delle specie oggetto di pesca e dell’ambiente marino».
Al vuoto normativo si somma quello culturale. Fino a quando i menù dei ristoranti saranno pieni di frittelle di bianchino e fritture di “fragaglia”, i retrobottega delle pescherie di vasetti di tonno pescati illegalmente nei mari calabresi, il mare nostrum diventerà sempre più mare monstrum.
Il pasticciaccio che ha portato alla chiusura delle Terme Luigiane continua a tenere banco. Nei giorni scorsi avevamo intervistato il sindaco di Acquappesa, Francesco Tripicchio, che per replicare alle accuse subite in questi mesi era andato all’attacco di Sateca. La sua versione, però, è diametralmente opposta a quella dell’azienda che ha gestito il compendio termale dal 1936 all’anno scorso. I vertici di Sateca parlano di «opera di disinformazione» da parte dell’amministratore comunale. E smentiscono categoricamente che le proteste di questi mesi siano «una montatura costruita ad arte dai gestori storici» come reputa Tripicchio. Così, per offrire ai lettori un’informazione più ampia possibile, dopo i lavoratori, gli utenti e il sindaco abbiamo sentito anche gli imprenditori affinché potessero dire la loro su quello che sta accadendo.
I Comuni vi hanno fatto un’offerta affinché le attività nel 2021 proseguissero, perché l’avete rifiutata?
«La società è stata costretta a rifiutare perché l’accettazione era condizionata dalla seguente formula vessatoria e quindi inaccettabile: “resta inteso che tale proposta è subordinata al ritiro di tutti i contenziosi in atto, nessuno escluso”. E il canone che ci chiedevano era assolutamente fuori mercato in termini economici».
Eppure secondo Tripicchio le cifre non si discostano da quelle che si pagano altrove. Se in posti come Fiuggi o Chianciano l’acqua costa di più, perché Sateca dovrebbe spendere meno per l’acqua delle Terme Luigiane?
«Non sappiamo se il sindaco Tripicchio dica certe cose per manifesta incompetenza o malafede. Ma a smentire le sue affermazioni c’è il rapporto del Dipartimento del Tesoro secondo il quale la totalità delle terme del Lazio (compreso Fiuggi) pagano annualmente canoni per 179.000 Euro e quelle della Toscana (compreso Chianciano) 106.000 Euro».
Quelle però sono le concessioni, la vostra è una subconcessione. Tripicchio spiega che il calcolo del vostro eventuale canone futuro è figlio di un accordo del 2006 tra Stato e Regioni. Perché dovreste continuare a pagare molto meno?
«In realtà il sindaco fa riferimento ad un documento di indirizzo delle Regioni in materia di acque minerali, cosa molto diversa. È per questo che Fiuggi, distribuendo bottiglie in tutto il mondo, paga un milione di canone. I conti tornano. Forse il sindaco pensa di rimediare al dissesto del suo Comune rifacendosi sulla Sateca? Una pubblica amministrazione non può sparare cifre a vanvera, dovrebbe fare riferimento al mercato. Non a quello delle acque da imbottigliamento, però».
Per il sindaco sono solo 44 i vostri dipendenti, altri parlano di 250 lavoratori: quanti sono in realtà?
«Tripicchio purtroppo non sa leggere i bilanci e neanche i certificati camerali. Nella nota integrativa allegata al nostro bilancio del 2019 (ultimo anno pre-covid) si indica un numero medio annuo (quindi riferito a 365 giorni) di 100 lavoratori, per i quali la Sateca spa ha speso 2.122.000 Euro. Se fossero stati solo 44 dipendenti, avremmo pagato uno stipendio medio a dipendente di 48.227 euro. Purtroppo non possiamo permettercelo».
Voi contestate ai Comuni di non aver pubblicato un bando, loro replicano che la procedura adottata sia equivalente secondo il Codice degli appalti. Come se ne esce?
«Riteniamo la manifestazione d’interesse non valida e abbiamo presentato ricorso. Purtroppo il Tar ha rimandato a ottobre la sentenza, prevista all’inizio di luglio, su richiesta dei due Comuni e della Regione, che sembra non abbiano fretta di chiarire le cose. Tripicchio fa, inoltre, riferimento all’art.79 del Codice degli Appalti, che però non riguarda minimamente l’argomento in questione. Dopo mesi che chiediamo qualche riferimento normativo alle assurde azioni dei due sindaci, Tripicchio ci fornisce un articolo di legge che non c’entra nulla».
La subconcessione a vostro favore, comunque, è scaduta da 5 anni. Per quale motivo avrebbero dovuto farvi continuare come se niente fosse?
«Non esiste al mondo che si sbatta fuori in maniera illegale, come siamo certi verrà dimostrato dalla magistratura, e con la forza il subconcessionario di un servizio pubblico prima dell’insediamento di chi prenderà il suo posto. Vale per tutti i servizi di pubblica utilità, soprattutto per quelli sanitari. Il tutto gridando al rispetto della legge senza mai dire a quale legge si faccia riferimento».
Su una cosa con Tripicchio potreste essere d’accordo, però: il sindaco trova strano che, oltre a voi, a rispondere all’invito dei Comuni siano state solo ditte campane. Che idea vi siete fatti a riguardo?
Il fatto che alla manifestazione d’interesse abbiano partecipato solo aziende di Castel Volturno, Casalnuovo di Napoli, Casoria etc. , tutte operanti nel settore edile, con capitali sociali modestissimi e senza alcuna esperienza termale e che, secondo il sindaco, questa sia una “strategia”, perché poi con l’avvalimento potranno subentrare altri soggetti, secondo noi è molto preoccupante. E anche delle amministrazioni comunali responsabili dovrebbero preoccuparsi. Perché un’azienda seria e fatta da persone perbene non partecipa direttamente ad una manifestazione d’interesse ma manda avanti delle “teste di ponte”? Questo atteggiamento di Tripicchio non fa altro che alimentare le preoccupazioni e le voci su imprenditori chiacchierati e interessati.
Il parrocco di Guardia ci ha raccontato di aver ricevuto minacce per essersi schierato dalla parte dei vostri dipendenti. Cosa avete da dire a riguardo?
«L’affermazione del sindaco “Al parroco porterò sostegno se davvero è stato minacciato” lascia molte perplessità sulle qualità umane di Tripicchio, non pensiamo che tale affermazione meriti alcun commento».
Tripicchio però è certo che le Terme riapriranno già nel 2022, con o senza Sateca. Quante probabilità ci sono che vada davvero così secondo voi?
«Noi della Sateca siamo cresciuti a “pane e zolfo”. Sappiamo benissimo cosa vuol dire avviare uno stabilimento da zero, visto che i sindaci prima di appropriarsene coattivamente ci avevano espressamente richiesto che fosse totalmente sgombro. Ad essere ottimisti, la ristrutturazione – siamo in zona soggetta a vincoli ambientali – e tutta la parte burocratica (autorizzazione sanitaria, accreditamento, budget, autorizzazioni di VVF, certificazioni varie…) necessitano di anni. Anche con lo scandaloso, perché passa il principio che chi distrugge viene premiato, contributo economico promesso ai due sindaci da Orsomarso l’apertura l’anno prossimo è assolutamente impossibile».
A che pro allora un annuncio di quel genere?
«Ci auguriamo che il proclama di Tripicchio non vada ad inserirsi nella campagna elettorale di Rocchetti (il sindaco di Guardia Piemontese, il comune che insieme ad Acquappesa gestirà le acque termali fino al 2036, nda) e Orsomarso e che non inizi una campagna di promesse ed impegni sulle terme che nessuno potrà certamente mantenere. Chiediamoci se una Giunta regionale che dovrebbe svolgere solo l’attività ordinaria in attesa delle elezioni possa, invece, promettere finanziamenti, posti di lavoro e contributi a destra e a manca».
Possibile che gli errori siano tutti della pubblica amministrazione?
«Il ritardo accumulato dal 2016 ad oggi nel fare il bando è esclusivamente da attribuire ai due Comuni. Non sono stati in grado per anni di presentare la documentazione richiesta dalla Regione, nonostante questa si fosse dichiarata disponibile ad aiutarli. Tripicchio e Rocchetti, anche grazie all’immobilismo della proprietaria delle acque, la Regione, hanno distrutto una realtà imprenditoriale, assolutamente non perfetta, ma che con il suo lavoro teneva in piedi l’economia della zona e consentiva a centinaia e centinaia di lavoratori una vita dignitosa e a migliaia di curandi il benessere. Parliamo di una realtà imprenditoriale mai sfiorata da alcuna collusione con la criminalità, incentrata sul totale rispetto della normativa e dei contratti di lavoro. Di questa distruzione dovranno rispondere sia in sede civile che penale».
Ma perché dovrebbero accanirsi contro di voi come sembrate pensare?
«Siamo amareggiati, in Calabria le cose vanno sempre al rovescio: chi distrugge in maniera gratuita aziende e posti di lavoro ha il coraggio di ricandidarsi e chi fa chiudere le Terme Luigiane facendo perdere centinaia di posti di lavoro viene addirittura premiato, proprio dall’assessore al lavoro Orsomarso, con un milione di euro di finanziamento. È iniziata la campagna elettorale, non c’è altro da dire».
La malavita ha tolto la vita a Luigi Gravina trentanove anni fa, ora il Comune di Paola potrebbe ucciderne il ricordo rimuovendo la scultura in sua memoria dal luogo dell’omicidio per spostarla chissà dove. A denunciarlo sono Luigina Violetta, la vedova di Gravina, e i suoi figli con una lettera indirizzata al sindaco Roberto Perrotta e al segretario generale della cittadina tirrenica.
Dal luogo del delitto a chissà dove
La signora racconta che a contattarla in questi giorni sarebbe stato un dirigente comunale, Fabio Iaccino, informandola della volontà dell’amministrazione di spostare la statua da via Nazionale – lì dove uccisero Gravina – e sollecitandola a collaborare «al fine di individuare con urgenza altra zona della città idonea ove spostare la scultura». Una proposta, questa, che non poteva che cogliere di sorpresa i familiari della vittima, che vorrebbero comprenderne le ragioni.
Stesso sindaco, idee diverse
L’aspetto più singolare della vicenda è che a volere quella scultura, la cui inaugurazione risale al 2004, in quel punto era stato proprio lo stesso Perrotta, all’epoca come oggi sindaco di Paola. A quei tempi l’amministrazione comunale scrisse di avvertire «in maniera molto forte, l’esigenza di onorare il ricordo del compianto Luigi Gravina, figlio di questa terra, deceduto tragicamente a Paola il 25.3.1982, per mano mafiosa, essendosi rifiutato, reiteratamente e con forte determinazione, di cedere alle insistenti e minacciose richieste estorsive della criminalità organizzata locale».
La cerimonia inaugurale
Il movente del delitto, infatti, era stato il coraggio di Gravina, allora 33enne, di denunciare i malavitosi che si erano presentati per estorcergli denaro in cambio di protezione. L’artigiano pagò quel rifiuto col sangue. E la sua città, seppur con grande ritardo, decise di omaggiarlo preservando la memoria di quella scelta letale. Era il 25 aprile del 2004 e all’inaugurazione, oltre ai familiari parteciparono in tanti oltre ai familiari. C’era Perrotta ovviamente e con lui Jole Santelli, all’epoca sottosegretario alla Giustizia, l’ex presidente della Camera Luciano Violante, l’allora procuratore capo Luciano d’Emmanuele, l’Avvocato generale dello Stato f.f. Francesco Italo Acri, gli ex sindaci Antonella Bruno Ganeri e Giovanni Gravina. Ma anche un’altra donna del Tirreno cosentino che aveva perso il marito per mano della ‘ndrangheta, la vedova di Giannino Losardo.
Le ultime parole famose
In quell’occasione Perrotta pronunciò parole che la signora Violetta ancora ricorda: «Con tutto il dolore che può esistere – disse il sindaco quel pomeriggio – io vorrei essere sempre il figlio di chi è stato ucciso e non di chi ha ucciso. A Luigi va il nostro ricordo, il nostro pensiero e la nostra gratitudine per aver trovato il coraggio della denuncia. Era una persona affettuosa e un artigiano onesto; la sua morte violenta e crudele ci fa sentire ancor più vicini alla sua famiglia, a cui va tutto il nostro calore. Quanto accaduto non deve succedere più soprattutto nella città di san Francesco, dove un fatto di questi è mille volte più scandaloso. Paola vuole essere una città civile che vive così come il suo grande primo cittadino ci ha insegnato».
Un passo indietro delle istituzioni
Non è dato sapere cosa penserebbe il santo paolano del trasferimento della scultura a distanza di 17 anni fa. Né si può conoscere il suo giudizio sulla profanazione, era il 2012, di due targhe dedicate allo stesso Gravina in ricordo della sua morte. In quel caso i colpevoli erano dei vandali, stavolta è il Comune e alla famiglia della vittima la scelta del municipio è andata di traverso: «Spostare quel simbolo antimafia in altro luogo, significherebbe, a nostro avviso, svilire la figura di Luigi Gravina e indebolire la lotta alla mafia. È come se la Istituzione si fosse in un certo senso tirata indietro, togliendo lustro all’iniziativa di allora».
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