Cosa resta di tutte quelle trame [LEGGI QUI LA PRIMA PARTE DELL’INCHIESTA]? Poco o nulla sotto il profilo processuale e giudiziario. Molto, sotto il profilo storico. Un contesto nebuloso, perché i protagonisti di quelle trame si muovono a livelli altissimi. Potenti multinazionali, Stati stranieri, faccendieri e centri di potere. E, ovviamente, la criminalità organizzata.
Le indagini di due distinte autorità giudiziarie hanno potuto solo in parte delineare quel contesto, anche per la vastità dei territori toccati. Dalla Calabria alla Basilicata, passando per il Piemonte, se ci riferiamo solo al territorio nazionale. Ma con il coinvolgimento di uno Stato straniero, perennemente in guerra: l’Iraq.
Il supertestimone
Percorsi e intrecci pericolosi ricostruiti anche, qualche anno fa, dalla relazione della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti, firmata da Gaetano Pecorella e Alessandro Bratti. Fili difficili da riannodare. Anche perché è difficile ricostruire il contesto affaristico-criminale di quel periodo a distanza di alcuni lustri.
Nel caso dell’Iraq, i passaggi sulla presunta gestione dei centri Enea di Rotondella (Matera) e Saluggia (Vercelli) verranno tratteggiati da un funzionario dell’ente, Carlo Giglio. Questi chiederà espressamente alla polizia giudiziaria di essere sentito. Dopo aver appreso dalla stampa che la Procura di Reggio Calabria si stava occupando di traffici illegali di rifiuti radioattivi in Calabria.
Il centro Enea di Rotondella
L’impianto ITREC (acronimo di Impianto di Trattamento e Rifabbricazione Elementi di Combustibile) è un impianto nucleare italiano costruito tra il 1965 e il 1970 dal CNEN, Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare. Un centro che da sempre è gravitato anche nell’orbita statunitense.
Il racconto di Giglio è inquietante. Secondo il funzionario, la registrazione degli scarti nucleari era truccata. Per rendere incontrollabile il movimento in entrata e in uscita di tutto il materiale radioattivo che doveva essere gestito presso tutti gli impianti nucleari. Agli atti della Commissione Ecomafie rimane anche la grande paura dell’ingegner Giglio. Con la sua opera ispettiva si attirerà anche le ire della proprietà dei centri Enea di Rotondella e Saluggia. Denunce per diffamazione e calunnia.
Iraq e Calabria: una storia di armi e rifiuti
Giglio parla poi di una presunta attività clandestina dell’Enea finalizzata a fornire tecnologia e materiale nucleare all’Iraq (12.000 kg di uranio), delle reazioni del governo americano e dei servizi segreti israeliani. Le dichiarazioni di Giglio agli atti della Commissione riguardano una presunta attività di fornitura da parte dell’Italia all’Iraq di armi da guerra (comprese navi) e di tecnologie nucleari.
In quel periodo, peraltro, giunge anche la notizia che la nave Koraby, battente bandiera albanese e salpata dal porto di Durazzo con destinazione Palermo, era stata perquisita nella rada antistante Pentimele, a Reggio Calabria. il sospetto era che trasportasse materiale radioattivo. Scorie di rame di altoforno, in particolare.
Il porto di Durazzo
La nave, giunta a Palermo, era stata respinta per radioattività del carico. Tuttavia, al successivo controllo presso il porto di Reggio Calabria, ove si era ormeggiata, la radioattività scompare dai rilevamenti. La nave aveva, perciò, ripreso la sua navigazione con destinazione Durazzo. L’inquietante ipotesi è che la nave si sia disfatta del carico radioattivo nel percorso tra Palermo e Reggio Calabria.
Una joint venture internazionale, in cui, però, l’avamposto italiano sarebbe stato rappresentato dalle due principali organizzazioni criminali: Cosa Nostra e ‘Ndrangheta. La scelta di Palermo come punto di riferimento per il traffico clandestino di materiale nucleare non è occasionale, ma mirata. Solo la mafia o le altre organizzazioni criminali operanti al Sud potevano garantire quella attività di copertura necessaria per tali traffici.
«Altro aspetto inquietante del traffico illecito di materiale radioattivo concerne lo smaltimento effettuato, con la supervisione dell’Enea, da parte dell’Enel di rifiuti radioattivi la cui destinazione è a tutt’oggi ignota. Mentre la conferma che la Calabria è stata utilizzata come deposito illecito di materiale radioattivo è data dalla scoperta di una discarica abusiva di un tale Pizzimenti», si legge agli atti della Commissione Ecomafie.
L’ingegnere Carlo Giglio
Affermazioni riservate. Gravissime. Che tirano in ballo colossi industriali, Stati stranieri e centri di potere internazionali. Per questo, negli anni, si prova a proteggere Giglio, cui gli investigatori assegnano lo pseudonimo “Bill”. Un luogo chiave, quindi, sarebbe il centro Enea di Rotondella. Nelle sue affermazioni, Giglio-Bill sostiene la non corretta tenuta della contabilità all’interno del centro Enea di Rotondella tale da consentire l’uscita di rifiuti radioattivi erroneamente definiti “scarti”.
Una nave carica di sostanze chimiche partita dall’Italia con destinazione ufficiale il Venezuela, ma approdata in Siria
L’ipotesi investigativa paventa l’esistenza di un traffico illecito di rifiuti radioattivi (negli anni ’80/’90) destinati ai paesi del Terzo Mondo, in particolare Iraq, Pakistan e Libia, per la produzione di ordigni atomici. Tutto anche grazie all’insussistenza di un’effettiva ed efficace attività di controllo tra Enea ed Enel. Nonché la totale inefficienza della Nucleco, società costituita tra Enea ed Agip, per il trattamento dei rifiuti radioattivi.
Iraq e massoneria deviata
A detta di Giglio, infatti, anche l’Italia avrebbe disperso in mare le scorie radioattive: «L’Ente (Enea) è in grado di riferire dove, come e quando», afferma l’ingegnere-ispettore. Giglio diventa un testimone prezioso per le indagini congiunte delle Procure di Reggio Calabria e Matera. I risvolti investigativi delle inchieste sulle “navi dei veleni” e delle presunte trame attorno al centro Enea, infatti, vanno a intrecciarsi.
Un ente, l’Enea, che, sempre secondo le dichiarazioni rilasciate da Giglio ai magistrati Francesco Neri e Nicola Maria Pace, sarebbe stato infiltrato dalla massoneria: «Proprio per il tramite della massoneria deviata i traffici illeciti del materiale nucleare e strategico o quelli relativi allo smaltimento in mare possono essere attuati nell’ambito dell’Ente ai massimi livelli e con la copertura più ferrea compresa quella con i servizi deviati, da sempre e notoriamente coinvolti in detti traffici».
Un passaggio della relazione firmata da Pecorella e Bratti
Proprio partendo dalle dichiarazioni di Giglio, il procuratore di Matera, Nicola Maria Pace, farà acquisire una serie di documenti. Da cui risulterà che l’Italia, nel 1978, aveva ceduto all’Iraq due reattori plutonigeni Cirene. Accertando, poi, che presso la centrale Enea di Rotondella vi era la presenza continuativa di personale iracheno. Le accuse di Giglio, comunque, non saranno mai provate dal punto di vista processuale.
Passata l’estate delle copromorfe fioriture algali, la speranza era che dei problemi della depurazione non si dovesse parlare almeno per un po’. Dal Lussemburgo, invece, tre giorni fa è arrivata l’ennesima tirata d’orecchie per l’Italia, rea di non aver rispettato le norme comunitarie in materia di acque reflue. E nella sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea ha un peso notevole (in negativo) la Calabria.
Multe vecchie e nuove
Il Belpaese non è nuovo a verdetti di questo genere. Paga, infatti, già circa 55 milioni di euro all’anno come sanzione per il mancato adeguamento dei propri impianti di depurazione alle direttive europee. Stavolta doveva difendersi da una procedura d’infrazione avviata nel 2014 e conclusa pochi giorni fa con la conferma delle violazioni contestate alle autorità nazionali dalla Commissione europea.
Oggetto del contenzioso erano raccolta, trattamento e scarico delle acque reflue urbane in centinaia di aree sensibili dal punto di vista ambientale, materia regolamentata dalla direttiva Ue sulle acque reflue (91/27/Cee). È la prima condanna per l’Italia su questo specifico dossier, ragion per cui al momento non si prevedono multe. Ma se la situazione delle fogne non dovesse mutare in meglio scatterebbero nuove sanzioni.
La situazione in Italia
E la situazione quale sarebbe? Che nel nostro Paese sono 159 i Comuni che ancora oggi non sono dotati di reti fognarie per le acque reflue urbane. Non solo: 609 agglomerati le reti le hanno, ma non a norma. Lo stesso numero di quelli in cui la pubblica amministrazione non ha predisposto le misure necessarie affinché «la progettazione, la costruzione, la gestione e la manutenzione degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane siano condotte in modo da garantire prestazioni sufficienti nelle normali condizioni climatiche locali, e tenendo conto delle variazioni stagionali di carico».
La Calabria si distingue in negativo
Nel primo caso, solo la Campania, con i suoi 85 centri, fa peggio della Calabria. Che si ferma a 58 casi citati (oltre un terzo del totale nazionale) nella sentenza, ma può fregiarsi di un poco invidiabile primato. È l’unica Regione italiana, infatti, a vantare nella sua lista il capoluogo: Catanzaro. La città di Sergio Abramo è in buona – o, meglio, cattiva – e abbondante compagnia. Nella lista nera dell’Ue ci sono parecchi centri del Cosentino con problemi di depurazione, ma non mancano quelli delle altre province.
L’elenco comprende, infatti, anche Acquaro, Aiello Calabro, Altomonte, Bocchigliero, Caccuri, Cardeto, Casabona, Celico, Cerisano, Cerzeto, Chiaravalle Centrale, Cirò, Cirò Marina, Conflenti, Delianuova, Fiumefreddo Bruzio, Gioiosa Ionica, Grotteria, Ioppolo, Lago, Laino Borgo, Lattarico, Lungro, Luzzi, Maierato, Melissa, Mongrassano, Monasterace, Mottafollone, Palizzi, Paludi, Paola, Parghelia, Petilia Policastro, Placanica, Plataci, Platì, Polia, Rocca di Neto, San Benedetto Ullano, San Demetrio Corone, San Giorgio Albanese, San Gregorio d’Ippona, San Marco Argentano, San Martino di Finita, San Sosti, Santa Agata d’Esaro, Santa Caterina Albanese, Santa Severina, Santa Sofia d’Epiro, Scandale, Scigliano, Scilla, Seminara, Spilinga, Tarsia, Zambrone.
Nessun trattamento e impianti inadeguati
Sono 128 invece i Comuni calabresi a non garantire che «le acque reflue urbane che confluiscono in reti fognarie siano sottoposte, prima dello scarico, ad un trattamento secondario o ad un trattamento equivalente». Gli stessi che quando si parla di impianti di trattamento non sono in grado di «garantire prestazioni sufficienti nelle normali condizioni climatiche locali, e tenendo conto delle variazioni stagionali di carico». Nessuna regione fa peggio quando si parla di depurazione.
Anche in questo elenco non mancano nomi eccellenti, come Corigliano (non ancora unificata a Rossano all’apertura del procedimento) e Rende. Ai 58 Comuni già citati poche righe più su vanno infatti aggiunti: Aprigliano, Belvedere Marittimo, Bianchi, Bisignano, Bonifati, Borgia, Briatico, Cardinale, Cariati, Carlopoli, Cerva, Cessaniti, Civita, Corigliano Calabro, Crosia, Crucoli, Dinami, Drapia, Fabrizia, Fagnano Castello, Feroleto Antico, Ferruzzano, Filadelfia, Firmo, Francavilla Angitola, Francavilla Marittima, Frascineto, Gerocarne, Gimigliano, Grimaldi, Guardavalle, Guardia Piemontese, Limbadi, Maida, Malvito, Mammola, Mandatoriccio, Marcellinara, Maropati, Mormanno, Nardodipace, Oppido Mamertina, Oriolo, Orsomarso, Parenti, Paterno Calabro, Pedace, Pentone, Piane Crati, Rende, Riace, Roccella Ionica, Roggiano Gravina, San Calogero, San Giovanni in Fiore, San Lorenzo del Vallo, San Nicola da Crissa, San Pietro Apostolo, San Pietro di Caridà, San Roberto, San Vincenzo La Costa, Santo Stefano in Aspromonte, Serra San Bruno, Serrastretta, Sersale, Spezzano Albanese, Tiriolo, Torano Castello, Verbicaro, Varapodio e Zungri.
Pronti a colpire ancora. Con armi da guerra. La cosca Crea di Rizziconi è una delle consorterie più feroci della ‘ndrangheta. Il lavoro congiunto di tre Direzioni Distrettuali Antimafia lo dimostra ulteriormente. Dal profondo Sud, con il lavoro dei pm di Reggio Calabria. Al Nord, con le attività della Dda di Brescia. Fino al Centro, con la Dda di Ancona, competente territorialmente per il delitto.
Tre Procure al lavoro
Con le indagini congiunte, infatti, gli inquirenti sono convinti di aver fatto luce sul delitto di Marcello Bruzzese, consumato nel giorno di Natale del 2018 a Pesaro, nelle Marche. Un delitto gravissimo, realizzato in un giorno simbolo, il 25 dicembre. Come nelle migliori tradizioni di ‘ndrangheta. Reso ancor più inquietante dal fatto che Bruzzese risiedeva nella tranquilla Pesaro, indicata come “località protetta”. Era il fratello del collaboratore di giustizia Girolamo Biagio Bruzzese, già organico alla cosca Crea di Rizziconi (RC) e dalla quale si era dissociato nel 2003 dopo aver attentato alla vita di Teodoro Crea, capo della cosca, detto il “Toro”.
Associazione di tipo mafioso, omicidio, porto e detenzione illegale di armi, reati questi ultimi aggravati dall’aver commesso i fatti al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso denominata ‘ndrangheta. Queste le contestazioni che gli inquirenti muovono agli indagati. I pm hanno spiccato un provvedimento d’urgente di fermo a carico di quattro persone: Vincenzo Larosa, Michelangelo Tripodi, Rocco Versace e Francesco Candiloro. Tutti, ad eccezione del primo, sono ritenuti organizzatori ed esecutori materiali del delitto.
Il delitto Bruzzese
Una falla pazzesca nel sistema di protezione. Le complesse verifiche condotte hanno consentito di accertare come nei periodi immediatamente precedenti all’omicidio gli indiziati avevano condotto minuziosi e ripetuti sopralluoghi per studiare le abitudini della vittima. Servendosi, in queste circostanze, di documenti falsi e di una serie di accorgimenti utili a impedire la propria identificazione.
Il vasto compendio probatorio raccolto dalle attività condotte dal ROS, ha permesso di circoscrivere il movente dell’azione omicidiaria nella “vendetta trasversale”, nell’interesse della cosca Crea. Per la decisione collaborativa assunta da Girolamo Biagio Bruzzese nel 2003.
All’omicidio del Natale 2018 va quindi attribuita una valenza strategica, in quanto necessario a rimarcare la perpetuazione dell’operatività della cosca Crea e della sua capacità di intimidazione. Nonché a scoraggiare, nell’ambito della consorteria, ulteriori defezioni collaborative.
Pronti a colpire ancora
Ma, paradossalmente, non è questo l’elemento più inquietante dell’inchiesta. Le indagini dei Carabinieri del Ros, infatti, avrebbero dimostrato come Vincenzo Larosa e Michelangelo Tripodi fossero soggetti a disposizione degli interessi del sodalizio. Larosa affiliato di vecchia data ai Crea. Il padre Carmelo avrebbe anche fornito un bunker per la latitanza di alcuni soggetti apicali del clan della Piana di Gioia Tauro. Sul conto di Tripodi, soggetto del Vibonese, pesano invece le dichiarazioni del collaboratore di giustiziaBartolomeo Arena, recentemente escusso anche nel maxiprocesso “Rinascita – Scott”, condotto dalla Dda di Catanzaro.
L’ex sindaco di Rizziconi, Antonino Bartuccio, vive sotto scorta dopo le sue denunce contro la cosca Crea
Ebbene, secondo l’inchiesta, Larosa e Tripodi stavano pianificando più attentati omicidiari nell’interesse di Domenico Crea. Anche come ritorsione per l’emissione della sentenza di condanna emessa il 12.12.2020 dalla Corte di appello di Reggio Calabria a carico di Teodoro Crea, Giuseppe Crea (cl.78) e Antonio Crea (cl. 63). Si tratta del procedimento “Deus”, con cui la Dda di Reggio Calabria ha dimostrato l’ingerenza del potente casato di ‘ndrangheta nell’amministrazione comunale di Rizziconi. In quell’occasione, si registrò la coraggiosa denuncia dell’allora sindaco Antonino Bartuccio, soggetto sgradito ai Crea. Da quel momento, Bartuccio vive sotto scorta insieme ai propri familiari. E potrebbe essere proprio lui uno dei soggetti nel mirino dei Crea.
Le armi da guerra
Alla conclusione, gli inquirenti arrivano valorizzando delle captazioni di tipo tecnologico che non si era potuto acquisire “in diretta”. Le conversazioni testimonierebbero l’astio degli affiliati dopo la sentenza d’Appello del processo “Deus”. Da quel momento, sarebbe scattata una corsa agli armamenti di tipo pesante. Un gruppo di fuoco agguerrito, nonostante i vertici della cosca siano da tempo detenuti in regime di 41 bis. Come ha spiegato il procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri: «Sempre pronti “a dare soddisfazione” ai loro capi in carcere».
Il procuratore Bombardieri durante la conferenza stampa di oggi
Un canale individuato per ottenere l’approvvigionamento di armi sarebbe stato il territorio dei Balcani. Sebbene non ritrovato in sede di perquisizione dai Carabinieri, gli affiliati fanno chiaro riferimento a un bazooka. Evidentemente in grado di poter colpire con successo anche un’auto blindata. Proprio come quella su cui viaggia Bartuccio insieme alla famiglia. Agli atti dell’inchiesta una conversazione in cui uno dei fermati, facendo riferimento a una sentenza della Corte d’Appello, diceva che ci voleva un AK47, un kalashnikov. E sparare à gogo.
Insomma, sebbene il procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, e l’aggiunto Gaetano Paci, mantengano ufficialmente il riserbo, appare pressoché scontato che uno degli obiettivi fosse proprio Bartuccio. Protagonista di una coraggiosa (e rara) denuncia e quindi da punire. Soprattutto dopo la dura sentenza d’Appello.
«Due dei fermati erano pronti a commettere altri episodi delittuosi con la disponibilità di armi da guerra inquietanti. Stavano pianificando un altro delittodi un altro testimone di giustizia che aveva reso testimonianze» ha rivelato, la procuratrice distrettuale antimafia delle Marche, Monica Garulli.
«Non mi pento di niente di quello che ho fatto. Bisogna rimanere per continuare a sognare». Dopo lo sconforto di ieri in seguito alla pesantissima condanna rimediata nel processo Xenia, il ritorno a Riace dell’ex sindaco Mimmo Lucano si apre sotto una luce diversa. Tanta la solidarietà piovuta su Mimmo “il curdo” e sul suo progetto di accoglienza che, negli anni, aveva sottratto Riace all’azzeramento culturale ed economico a cui sembrava destinata.
Un esercito a Riace
Solidarietà che si è materializzata nel paese dei Bronzi con centinaia di persone che, nel pomeriggio del day after, hanno accolto tra gli applausi l’ex sindaco. Sui gradoni dell’anfiteatro coi colori della pace, un esercito di attivisti, amministratori, candidati, rappresentanti delle Ong che pattugliano il Mediterraneo: tutti stretti all’ideatore di un modello d’accoglienza che, tra difficoltà, errori e tanto entusiasmo ha proposto un punto di vista alternativo, finendo per diventare un caso internazionale.
E così, tra “vecchi compagni” e giovani attivisti – e col consueto corollario di giornalisti, italiani e stranieri, che hanno assediato il piccolo centro jonico dalle prime ore del mattino – Lucano ha provato a raccontare il suo punto di vista su una vicenda processuale che, in primo grado, ha seppellito il “modello Riace” sotto 80 anni di carcere e risarcimenti milionari.
Quando la Prefettura chiamava
«Se hanno condannato me, allora avrebbero dovuto condannare anche la Prefettura, che mi chiamava San Lucano quando mi implorava di accettare nuovi arrivi» racconta Lucano tra gli applausi di una platea che si irrobustisce con il passare dei minuti. Arriva Peppino Lavorato, l’ex sindaco che negli anni ’90 fu splendido e coraggioso protagonista della “primavera rosarnese”, e Abaubakar Soumahoro, il sindacalista di origine ivoriana diventato icona della lotta al caporalato. Seduto nel pubblico c’è pure Sisi Napoli, l’anestesista che, schivando la baraonda mediatica, a Riace ha aperto un ambulatorio medico che si prende cura, gratis, di chiunque si presenti alla porta, immigrato o italiano che sia.
Carte d’identità
«Mi hanno condannatoper avere rilasciato la carta d’identità ad un bambino di quattro mesi che senza quel documento non avrebbe potuto accedere alle cure del servizio sanitario nazionale – dice Lucano – Una cosa che rifarei altre mille volte e mi chiedo, allora perché non mi hanno imputato la carta d’identità che ho rilasciato a Becky Moses (la ragazza nigeriana costretta ad abbandonare Riace dalla burocrazia che le negava il permesso di soggiorno, e arsa viva, una manciata di giorni dopo avere lasciato Riace, nella vergognosa baraccopoli di Rosarno, ndr)? Forse perché responsabile di quel campo dove è morta quella ragazza era la Prefettura?».
Un modello polverizzato
E poi i messaggi della mamma di Carlo Giuliani e di Roberto Saviano, oltre alle testimonianze dei rappresentanti del Baobab di Roma e della Mediterranea, la Ong che si occupa tra una montagna di polemiche di prestare soccorso alle carrette del mare alla deriva, in un abbraccio colorato e festoso che non cancella però i 13 anni e rotti di carcere con cui il Tribunale di Locri ha polverizzato l’intero modello.
C’è stato un tempo – neanche troppo lontano, tra il 2014 e il 2015 – in cui Nino Spirlì scriveva corsivi per un giornale ormai chiuso ma dal nome inequivocabile: Le cronache del Garantista. Com’è facile intuire, su quelle pagine si predicava un principio cardine della giustizia italiana: fino a sentenza definitiva, la presunzione di innocenza vale per tutti. La memoria, si sa, può giocare brutti scherzi. E il nostro ff pare aver dimenticato quei suoi trascorsi, così come non aver notato che la condanna a Lucano è in primo grado e altri due ne serviranno per stabilire la sua eventuale colpevolezza.
Spirlì e la fiction nel cesso
Dal momento in cui il verdetto avverso all’ex sindaco di Riace è diventato di dominio pubblico, gli uomini di via Bellerio hanno dato fondo a tutto il loro entusiasmo nel festeggiare la sentenza contro l’odiato accoglitore di migranti. Spirlì non ha esitato a definire Lucano «un truffatore», aggiungendo che sia il riacese che de Magistris (nelle cui liste l’ex primo cittadino è candidato) ora dovrebbero ritirarsi dalle elezioni del 3 e 4 ottobre. Poi, con eleganza oxoniana, l’erede pro tempore di Jole Santelli ha aggiunto che la Rai «di sinistra» ora ha del «materiale da buttare nel cesso», in riferimento alla mai trasmessa fiction prodotta dalla televisione di Stato sul modello Riace.
Epurazioni in Rai
Più sintetico – su twitter è d’obbligo – Matteo Salvini, che se l’è sbrigata con un «La Calabria non merita truffatori e amici dei clandestini». D’altra parte, a detta di Massimiliano Romeo (capogruppo della Lega in Senato), Salvini è «l’unico contro la mangiatoia della finta accoglienza», mentre l’ex sindaco di Riace è «uno che fa soldi sulla pelle altrui».
Tornando alla Rai, il solerte forzista Maurizio Gasparri ha già annunciato che chiederà in Commissione Vigilanza l’epurazione degli ideatori della serie tv su Lucano. Mentre Massimiliano Capitanio – membro di quella stessa Commissione, ma in quota Lega – ha tuonato contro il direttore del Tg1 per non aver inserito tra i titoli di testa dell’edizione delle 13.30 la sentenza di condanna pronunciata a Locri.
Due pesi e due misure
L’unico nel centrodestra a cui pare davvero fregar poco della questione pare Roberto Occhiuto, che mentre i commenti sulla vicenda impazzavano metteva video su facebook in cui disserta dei suoi trascorsi giovanili e di aiuti alle imprese. Un altro big leghista, Roberto Calderoli, giusto all’indomani dell’esplosione del caso Morisi – quasi derubricato a una ragazzata dai suoi, contrariamente a quando episodi simili coinvolgevano persone qualunque – sale invece sul pulpito per accusare la sinistra di usare «due pesi e due misure» quando le condanne la riguardano. Tesi anche valida, se non si comportasse nel medesimo modo pure la sua parte politica.
Uno scandalo per la sinistra
A sinistra (o quasi), in effetti, è tutto un gridare allo scandalo per quanto deciso dai giudici a Locri. La sentenza sarebbe «abnorme» per Matteo Orfini e Laura Boldrini (Pd), così come per Gennaro Migliore (Iv); «incredibile» secondo Nicola Fratoianni (Sinistra italiana); «inaudita» per Loredana De Petris (Leu). L’Anpi si dice «sconvolto», l’Arci parla di «sentenza vergognosa», mentre +Europa la reputa «sproporzionata». Il presidente nazionale di Legambiente, Stefano Ciafani, la definisce invece «inaudita».
De Magistris, Oliverio e Bruni
E in Calabria, dove Lucano corre nelle liste di de Magistris? Il primo a pronunciarsi è stato ovviamente il sindaco di Napoli. Che ha promesso di raggiungere Mimmo “il curdo” già domani a Riace perché per lui è «un uomo che è l’antitesi del crimine, un simbolo di umanità e di fratellanza universale». Sarà, alla peggio, il classico “compagno che sbaglia”: «Non è certo un cultore del diritto amministrativo, avrà pure commesso delle irregolarità ed illegittimità, ma sono convinto – scrive Dema – che alla fine del suo calvario verrà assolto perché ha agito per il bene e mai per il male».
Vicino all’ex primo cittadino di Riace anche Mario Oliverio, che ha affidato a una nota stampa – e una telefonata in privato – la sua solidarietà e stima per quel Lucano che a suo avviso uscirà immacolato dai successivi gradi di giudizio. Campionessa di sintesi, invece, Amalia Bruni. Che ha liquidato l’evento del giorno con 17 parole in totale: «Le sentenze non si commentano, si rispettano. Dispiaciuta dal punto di vista umano, non smetta di combattere».
Finisce sepolto sotto 13 anni e due mesi di reclusione il sogno di Mimmo “il curdo” Lucano. Un sogno fatto di integrazione reale, di solidarietà dal basso, di ricerca della pari dignità tra uomini di terre diverse. Un sogno che si infrange su una sentenza piombata come un asteroide in una terra di frontiera come la Locride, dove gli sbarchi dei disperati in fuga da guerra e fame si susseguono al ritmo di uno ogni due giorni.
Una condanna pesantissima – praticamente il doppio della richiesta avanzata dai Pm durante la requisitoria – arrivata in coda ad un processo dai tratti vagamente surreali e che, in poco meno di due anni, potrebbe avere posto una pietra tombale su un modello di accoglienza unico nel panorama europeo. Un modello, nato a due passi e in contrapposizione agli slum per immigrati di Rosarno, che era riuscito nel doppio intento di tendere la mano ai migranti e di ripopolare un paese, Riace, che aveva visto i propri abitanti originari, emigrare alla ricerca di lavoro e stabilità. Una sorta di sistema di vasi comunicanti interrotti dall’indagine che ha portato alle condanne di oggi.
La tarantella in Prefettura
Alla genesi dell’indagine della Guardia di finanza ci sono una serie di relazioni della Prefettura che, a leggerle, raccontano realtà completamente diverse: tra gennaio e giugno del 2017, sono cinque le ispezioni che si susseguono a Riace inviate dall’allora prefetto Michele Di Bari, il funzionario che durante il suo mandato in riva allo Stretto si fece notare per il numero di comuni commissariati e che, con nomina del governo Conte 1 e in seguito alla inarrestabile chiusura dei progetti Sprar in provincia di Reggio, fu promosso nel 2019 a capo del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione al ministero dell’Interno, all’epoca sotto la gestione di Matteo Salvini.
Ed è in quelle relazioni così diverse tra loro che emergono le differenze più marcate sul modello finito sul banco degli imputati. Nella prima relazione consegnata dai funzionari sbarcati a Riace, con gelido linguaggio burocratico, si evidenziano numerose criticità legate ai residenti “a lungo termine”, sulla condizione delle case e sulla gestione del denaro. Una relazione che, nella sostanza, sembra guardare solo all’aspetto burocratico dell’integrazione senza accorgersi della quotidianità “diversa” di Riace e che tra i suoi estensori vedeva anche la presenza di un funzionario, Salvatore Del Giglio, finito invischiato pochi mesi dopo, ironia della sorte, in un’indagine della Procura di Palmi che lo accusava di avere steso una relazione falsa sul progetto Sprar operativo a Varapodio, sul versante tirrenico d’Aspromonte. Sarà questo il documento che darà il via all’inchiesta.
E se la prima relazione aveva “smontato” il modello Riace, nel maggio del 2017 arrivano nel piccolo borgo jonico altri tre funzionari della Prefettura di Reggio che di quel piccolo paese, tracciano un quadro che sembra venire da un’altra dimensione rispetto a quello precedentemente redatto dalla Prefettura. I funzionari ministeriali girano per il paese, ne respirano il profumo e raccontano di una scuola riaperta che grazie alla nuova linfa dei bambini venuti dal mare era diventata «un miscuglio di razze, dialetti, diademi e treccine» perché, annotano «una scuola senza bambini è la conclusione ingloriosa di un mondo, un universo senza futuro. Riace ora ha la sua scuola, degli insegnanti, dei ragazzi che apprendono».
Un mondo al contrario
Scuola che, in seguito alla serrata dei progetti d’accoglienza, ha mestamente richiuso i battenti, costringendo i pochissimi bimbi rimasti in paese a raggiungere l’istituto della Marina, dieci chilometri a valle. E poi le case «umili ma pulite e confortevoli» e le botteghe e le cooperative per la raccolta rifiuti a dorso di mulo, per una realtà che rappresenta «un microcosmo strano e composito che ha inventato un modo di accogliere e investire sul proprio futuro e che ha ricominciato a fare tante cose» per un’esperienza «che è segno distintivo di quelle buone pratiche che possono far parlare bene di questa regione».
Una relazione che, superando l’aspetto burocratico, raccontava di un paesino minuscolo che splendeva di luce propria, nel deserto sociale ed economico della Locride, finendo per incuriosire intellettuali e artisti, da anni in pellegrinaggio sulle colline dello Jonio reggino per toccare con mano quel mondo al contrario creato nella Calabria degli ultimi. Wim Wenders, per dirne uno, a Riace ci ha girato anche un film. Una relazione che, a leggere il dispositivo della sentenza e in attesa delle motivazioni, sembra non avere rivestito nessun ruolo.
Il valzer dei processi
E poi i vari giudizi così diversi che, nel tempo, sono arrivati dai magistrati che si sono occupati dell’affaire Riace. Dai pm di Locri che ipotizzavano l’associazione che «mitizzava l’accoglienza sulle spalle dei migranti», al Giudice per le indagini preliminari che, in prima istanza, disponendo gli arresti domiciliari per Lucano, ridimensionava fortissimamente le accuse, dispensando bordate sulla fragilità delle indagini, passando per il Gup Monteleone, che quelle accuse di associazione a delinquere, abuso d’ufficio, concussione e malversazione le aveva resuscitate rinviando Lucano e altri 26 a giudizio, finendo al Presidente Accursio che, nel disporre il giudizio, raddoppia di fatto, la richiesta di condanna avanzata dalla Procura.
I giudici del Tribunale di Locri pronunciano la sentenza di condanna nei confronti di Mimmo Lucano
E mentre la parola fine, almeno in primo grado, chiude il discorso sul modello Riace, nei 13 anni inflitti a Lucano, finisce anche la carta d’identità che l’ex sindaco rilasciò a un bambino di una manciata di mesi e alla sua mamma: documento senza il quale il bambino non avrebbe potuto accedere alle cure mediche di cui necessitava (cure garantite dalla Costituzione) che per Lucano rappresenta una bandiera, ma che per la giustizia italiana invece, resta solo un illecito amministrativo.
Dalla copertina di Fortune ad un’aula del tribunale di Locri, dalle continue richieste d’aiuto arrivate dalla Prefettura durante la crisi di Lampedusa, all’accusa di «ricerca e di mantenimento a tutti i costi del potere politico»: è prevista per giovedì la sentenza su Mimmo Lucano, l’ex sindaco ideatore del “modello Riace”, trascinato in giudizio con accuse pesantissime (rischia una condanna a 7 anni e 11 mesi di reclusione) e protagonista di quella che da più di venti anni è bollata come “emergenza” immigrazione.
E così, ad una manciata di ore dal silenzio elettorale – Lucano è capolista alle regionali tra le fila del candidato presidente Luigi de Magistris – arriverà la parola fine, almeno in primo grado, per un processo «che non è e non vuole essere – disse il Procuratore capo di Locri D’Alessio in fase di requisitoria – un processo politico» ma che, per usare le parole dell’ex primo cittadino di Milano e avvocato difensore di Mimmo “il curdo” Lucano, Giuliano Pisapia, certamente assomiglia «a un caso di accanimento non terapeutico» nei confronti di un modello di integrazione, operativo dal 1998 e studiato, per la sua unicità, nelle università di mezzo pianeta.
Le accuse
Sono 27 gli imputati del procedimento Xenia, considerati, a vario titolo, come cardini di un sistema nato per caso con l’arrivo sulle coste di Riace, nell’autunno del 1998, di un barcone carico di disperati curdi, e cresciuto negli anni fino a diventare un “caso” internazionale. Lucano viene arrestato dalla Guardia di finanza all’inizio di ottobre del 2018 con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e fraudolento affidamento del servizio di raccolta della spazzatura, nell’ambito di un’inchiesta più vasta che uscì fortemente ridimensionata dal vaglio del giudice per le indagini preliminari.
Il Gip infatti rigettò le accuse più pesanti ipotizzate dai magistrati locresi (associazione a delinquere, concussione, truffa ai danni dello Stato e malversazione) definendo la gestione del denaro arrivato a Riace come «disordinata ma senza illeciti». Un giudizio severo (e correlato di numerose critiche sulla superficialità delle indagini) a cui nel tempo si sono aggiunte le sentenze del tribunale del Riesame, della corte di Cassazione e della corte dei Conti che hanno ulteriormente smontato buona parte dell’ipotesi accusatoria. Pronunciamenti che però non convinsero il Gup Monteleone che, disponendo il giudizio, dopo 7 ore di camera di consiglio e 4 udienze preliminari, resuscitò le accuse più pesanti, a partire dall’ipotesi di associazione a delinquere e abuso d’ufficio.
A giudizio un modello
Ora, a distanza di tre anni da quell’arresto salutato con soddisfazione dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, sarà la Corte guidata dal neo presidente del Tribunale Fulvio Accursio a decidere sulla sorte degli imputati e, di conseguenza, sul modello Riace. Un modello rappresentato dai Pm come «l’opposto dello spirito dell’accoglienza; un sistema che ha attirato congrui finanziamenti e che è caratterizzato da una “mala gestio” che vede come parte lesa i migranti stessi».
Non aveva usato mezzi termini il Procuratore D’Alessio, nel descrivere l’ipotesi dell’accusa: da una parte la difesa del procedimento «che non ha nulla di politico, né nella sua genesi, né nel sul sviluppo successivo ma che ha avuto una eco mediatica molto difficile da sostenere», e dall’altra la “demolizione” di ciò che aveva portato il piccolo centro jonico al centro dell’attenzione mondiale per il suo modello di integrazione “controcorrente”. «Qui l’accoglienza è stata mitizzata. Il denaro arrivava cospicuo, ma ai migranti finivano solo le briciole perché tutto veniva gestito mirando al consenso personale per coltivare le proprie clientele elettorali – diceva ancora D’Alessio – personalmente auspico che Riace possa tornare al centro dell’attenzione del mondo intero per l’accoglienza, ma non sulle spalle di tutte queste persone “portate dal vento”».
La difesa
«È un santo o un diavolo? Io credo che sia solo un uomo che ha messo la sua vita a disposizione dell’umanità. Un uomo senza un soldo, che viveva con l’aiuto economico del padre e che ha rinunciato a candidature sicure al Parlamento italiano e a quello europeo per restare fedele ai suoi ideali». Si potrebbe compendiare in queste poche parole il senso dell’arringa di Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano e avvocato di Lucano che più volte, difendendo l’ex sindaco ha posto l’accento sul senso stesso del sistema Riace.
Giuliano Pisapia
«Un sistema che durante il mio mandato di sindaco – ha detto ancora Pisapia – portò Riace ad accogliere 100 immigrati sbarcati a Lampedusa negli stessi giorni in cui la mia città, Milano, ne accoglieva solo 20, perché un conto è parlare di leggi, codici e opportunità, e un conto è dare una risposta nel momento del massimo bisogno per evitare il disastro. Era la Prefettura a dare a Lucano le liste con i migranti da accogliere. E ora si imputa a Lucano di non averli allontanati, ma chi può davvero pensare che Mimmo potesse cacciarli dal paese? Loro non volevano andarsene e Mimmo non voleva cacciarli. La Prefettura era a conoscenza di questa situazione».
Un finale da scrivere
Nelle parole di Pisapia e Daqua – arrivate in aula mentre sulle coste della Locride si vive l’ennesima emergenza sbarchi con migliaia di disperati arrivati negli ultimi due mesi – rivive il progetto che trasformò Riace da borgo in fin di vita a centro di integrazione, capace di ripopolare la scuola e le strade di un paese che si era negli anni desertificato. Un progetto creato da Lucano «perché credeva in quell’idea che sta scritta nella nostra Costituzione e non per la ricerca del potere» ha detto ancora Pisapia che, citando Calamandrei, ha ricordato alla Corte che «un giudice è anche uno storico, nel senso che scrive la storia». Una storia che, in un modo o in un altro, troverà conclusione giovedì.
C’è un aspetto particolare delle vicende della ex Legnochimica, finora non preso in considerazione dagli inquirenti: i malati e i morti di tumore.
Non poteva essere altrimenti per più ragioni. Innanzitutto, la tardiva istituzione, qui in Calabria, dei registri tumori, gli unici strumenti da cui è possibile estrarre statistiche e dati apprezzabili. E, magari, ricavare indizi e prove.
In seconda battuta, ha pesato non poco l’evoluzione delle normative sull’ambiente. Per capirci, fino all’85, l’anno in cui fu approvata la legge Galasso, il concetto di ambiente quasi non era definito a livello normativo. E, fino al 2015, anno in cui è stato codificato il reato di disastro ambientale, non esisteva una regolamentazione penale precisa e coerente sui danni all’ambiente. Tradotto in parole povere, molti comportamenti scorretti e dannosi, sono stati sanzionati solo a partire dalla seconda metà degli anni ’80. Prima, chi ha potuto ha fatto danni in relativa tranquillità e con la coscienza a posto: la legge lo permetteva.
Questo è un capitolo quasi non scritto della storia industriale italiana, che vale anche per Legnochimica, un’azienda piemontese specializzata nella produzione di pannelli in ledorex, che svolse il grosso della propria attività a Rende dai primi anni ’70 all’inizio del millennio.
Difficile attribuire in maniera incontrovertibile i quasi settanta tumori, verificatisi tra gli ex dipendenti dell’azienda e gli abitanti delle zone adiacenti, alle attività industriali della fabbrica di legname per mobili. Soprattutto, questa attribuzione potrebbe non avere un’efficacia legale forte: cioè non darebbe luogo a incriminazioni e risarcimenti.
E allora, perché raccontare questa storia? Perché i malati e i morti ci sono ed è doveroso seminare almeno dei dubbi.
I numeri crudi
Focalizziamoci sulla zona: attorno a ciò che resta della ex Legnochimica, che fino al 2006 è stata il cuore pulsante della zona industriale di Rende, ci sono via Settimo e Cancello Magdalone, due aree discretamente popolate (poco più di cinquecento abitanti).
Chi ci vive fa i conti tutti i giorni con il puzzo terribile che emana dai tre laghi artificiali superstiti e dalle scorie dello stabilimento, che finché funzionò diede lavoro a centinaia di persone. Ma piange anche le morti dei propri cari o soffre per le loro malattie.
I malati di tumore accertati fino al 2016 sono sedici. A questi si devono aggiungere altri dodici casi, avvenuti negli ultimi cinque anni. La conta macabra non finisce qui, perché si contano circa quaranta casi, molti dei quali mortali, tra gli ex dipendenti.
Il dato più impressionante resta quello degli abitanti dell’area: via Settimo “cinge” letteralmente l’ex stabilimento e Cancello Magdalone ne dista poco meno di un chilometro in linea d’aria.
Le testimonianze
Tra le ultime ad andarsene, c’è Ada Occhiuto, un’anziana contadina (78 anni) scomparsa a fine 2016 per un tumore ai polmoni. «Io non ho mai fumato», aveva raccontato prima di morire, né il suo tumore poteva essere riconducibile ad altro. Ma nei suoi ricordi c’è una suggestione forte: «Abbiamo sempre vissuto qui, io e i miei familiari. Anzi, parte dei terreni su cui sorse Legnochimica erano di nostra proprietà». Nel suo caso, c’è “solo” la vicinanza all’area sospetta. Che non è poco.
Adriana Ranieri, che abita a Cancello Magdalone, lotta da anni con due tumori al seno piuttosto invasivi, che l’hanno costretta a una mastectomia e a più sedute di chemio. Il tumore al seno può legare poco con l’inquinamento industriale? Forse.
Ma può assumere un altro significato se lo si inserisce come si deve in una casistica ben fatta. A via Settimo, invece, abitava Eva Iorio, scomparsa nel 2013 per un tumore al Pancreas. Eva era vicina di casa d un’altra Adriana Ranieri.
Il caso di quest’ultima è particolare: nel 2008 ha perso suo marito, Luigi Marchese, fulminato in due mesi da un tumore al pancreas, dopo aver perso suo padre, Umberto Ranieri, ucciso da un tumore alla vescica nel lontano ’99. Un’ulteriore testimonianza importante è quella di Immacolata Greco, anche lei residente a via Settimo, che ha perso suo marito Francesco Amato, che se n’è andato a fine novembre 2008 per un altro tumore al pancreas.
Incidenza sospetta
Questi casi, che abbiamo ricostruito attraverso le testimonianze dirette e le cartelle cliniche, hanno due tratti inquietanti: sono tutti tumori alle parti molli e tre di essi riguardano il pancreas. In altre parole, sono neoplasie compatibili con l’inquinamento industriale. In particolare, dà nell’occhio il numero di tumori al pancreas, che arriva a cinque. Un numero piuttosto alto per una patologia rara e sin troppo vistoso per il fatto che si è verificato nella stessa zona.
Al riguardo, risulta incisiva la testimonianza di Carolina Niglio, medico di famiglia che ha diagnosticato vari di questi casi: «Ne certificai tre in meno di sei anni e quest’incidenza mi apparve sospetta, tant’è che ne informai il mio caposervizio». Con pochi risultati: era la fine degli anni ’10 e mancava il registro tumori. Che non è risolutivo neppure oggi, visto che è stato istituito nel 2015 ed è aggiornato al 2010.
Per quel che riguarda gli altri casi, l’incidenza alle parti molli resta impressionante: ci sono un tumore all’intestino e almeno otto al polmone, non riconducibili al tabagismo.
Gli ex lavoratori
Un indizio in più proviene da Umberto Ranieri, di cui si è già parlato. Umberto, tra le varie, è stato dipendente dell’ex stabilimento.
Proprio tra gli ex lavoratori il tumore ha imperversato alla grande, con circa quaranta casi. Inoltre, la loro vicenda ha un appiglio giudiziario, per quanto minimo: la Corte di Cassazione ha certificato, nel 2014, la presenza di attività ed elementi inquinanti nell’ex stabilimento, a partire dai capannoni in eternit, smaltiti nella seconda metà degli anni ’10, per finire all’uso di resine e solventi industriali, scaricati tutti nelle vasche di decantazione (i famigerati laghetti artificiali) e, da lì, penetrati nel suolo e nelle falde a grande profondità, come ha certificato lo studio redatto dal geologo e accademico Gino Mirocle Crisci, ex rettore dell’Unical e perito della Procura di Cosenza nell’inchiesta sulla ex Legnochimica.
Un’ultima testimonianza importante è quella di Antonio Stellato, arzillo ex caldaista di Legnochimica, che ha lavorato per l’azienda dal ’69 alla sua chiusura.
Stellato, autore di molte denunce pubbliche assieme all’associazione Crocevia e al comitato Romore, ha raccontato più volte alcuni aspetti non proprio edificanti dell’attività dell’ex stabilimento. «Fino agli anni ’80 sversavamo i rifiuti della lavorazione direttamente nel Crati. Ma continuammo a farlo anche dopo» e a dispetto della normativa, nel frattempo approvata.
Come? «Li mettevamo nelle vasche ma poi, nottetempo, aprivamo i canali di collegamento che comunque finivano nel Crati».
E gli ex dipendenti? «Circa una quarantina di loro si sono ammalati in maniera grave e molti non ci sono più». Anche in questi casi le cartelle cliniche sono agghiaccianti: tumori alle parti molli, che hanno cancellato persone in pochi mesi e flagellano i sopravvissuti.
Un messaggio per il futuro
Il numero complessivo di malati e morti, circa sessantotto, è piuttosto alto. Specie per una Regione come la Calabria, che ha sempre avuto un livello di industrializzazione piuttosto basso.
Al netto delle statistiche, resta un bisogno di verità, invocata a gran voce dai residenti, dai familiari delle vittime e dalle associazioni ambientaliste.
Se questa verità dovesse arrivare, sarebbe l’ennesimo paragrafo della parte oscura dello sviluppo industriale, quella in cui si racconta di come, per decenni si siano barattate la salute e la sicurezza con lo sviluppo e col lavoro.
Un racconto a futura memoria che, in quanto tale, non può essere inutile.
È una storia che comincia 30 anni fa e che coinvolge i Servizi segreti, le loro fonti confidenziali e alcuni boss della ‘ndrangheta. E che testimonia come vadano certe cose in Italia. La prima parte si intreccia tra la Calabria e Roma e comincia negli anni ’90, quando le notizie e i riscontri raccolti dagli 007 cominciano a rivelare cose che farebbero impallidire il più spregiudicato degli allarmisti. Sono messe nero su bianco nelle carte custodite negli archivi del Parlamento.
La seconda parte si svolge al Nord ed è invece tutta concentrata tra il 2018 e il 2021. Riguarda un boss passato attraverso diverse inchieste che ha conservato, o forse consolidato, il suo carisma, ma che nonostante la sua esperienza criminale si fa beccare a dirigere un traffico losco e condannato a 20 anni nel giro di pochi mesi. Ogni storia di ‘ndrangheta è storia di “tragedie” e faide. In questo caso i “malandrini” non si tradiscono solo tra di loro, con le scorie tradiscono e avvelenano la terra che sta sotto i loro piedi e quelli che la abitano.
Affari di famiglie
Reggio Calabria, agosto 1994. Informatori definiti «di settore» e «non in contatto tra di loro» riferiscono «notizie confidenziali» che, alla luce delle «prime verifiche», risultano «sufficientemente attendibili» e «foriere» di «interessanti sviluppi». Un uomo dei Servizi segreti descrive in questi termini, alla Direzione del Sisde di Roma, quanto ha appreso dai suoi informatori circa un presunto traffico internazionale di scorie radioattive in mano alla ‘ndrangheta.
Si parla di un summit ad Africo tra il “Tiradritto” Giuseppe Morabito e «altri boss mafiosi del luogo»: in cambio di una partita di armi sarebbe giunta «l’autorizzazione» a scaricare in quella zona «un quantitativo di scorie tossiche e presumibilmente anche radioattive che dovrebbero arrivare dalla Germania, contenute in bidoni metallici trasportati a mezzo di autotreni». Si parla anche di un presunto traffico di «uranio rosso».
Reggio Calabria, ottobre 1994. I primi riscontri «info-operativi» sono «incoraggianti». Gli informatori «habent riferito» dell’esistenza di «parecchie» discariche di rifiuti tossici. Oltre che in zone aspromontane, si troverebbero «nella cosiddetta zona delle Serre (Serra S. Bruno, Mongiana ecc.) nonché nel Vibonese». I Servizi scrivono che «in quella zona la “famiglia” Mammoliti, la competente per territorio, avrebbe occultato rifiuti tossico-radioattivi lungo gli scavi effettuati per la realizzazione del metanodotto.
Via mare e via terra
Le scorie «proverrebbero dall’est europeo per mare e per terra con le seguenti modalità: canale via mare prenderebbe il via da porti del Mar Nero, dove le navi interessate oltre che scorie, imbarcherebbero droga, armi e clandestini provenienti dall’India e dintorni; il trasporto gommato proverrebbe da paesi del Nord Europa su tir anch’essi utilizzati per il trasporto di droga e armi». In altre informative si parla dei fratelli Cesare e Marcello Cordì che, già nel 1992, avrebbero gestito un traffico di rifiuti tossici finiti nei canali dei metanodotti nel territorio di Serrata.
Si conclude, dopo aver sentito anche alcuni magistrati, che «tra la Calabria e il Nord d’Italia vi sono decine di discariche abusive, parte già individuate» in cui ci sarebbero «circa settemila fusti di sostanze tossiche». Si cita il comune di Borghetto, nel Savonese, e poi i luoghi della Calabria, «per la maggior parte grotte», in cui ci sarebbero le discariche di veleni: «Grotteria, Limina, Gambarie, Canolo, Locri, Montebello Jonico (100 fusti), Motta San Giovanni, Serra San Bruno (CZ), Stilo, Gioiosa Jonica, Fabrizia (CZ)». Vengono menzionate le famiglie De Stefano, Piromalli e Tegano. Tutte le segnalazioni vengono girate al Ros. Risultano coinvolte ben sei Procure della Repubblica.
I dossier desecretati
Roma, maggio 2014. Il governo Renzi desecreta molti atti contenuti nei dossier della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin. Al loro interno compaiono riferimenti ai casi delle «navi dei veleni» e agli uomini chiave dei presunti traffici di scorie radioattive tra l’Africa e mezza Europa. È in queste carte che sono contenuti i riferimenti alle discariche radioattive che secondo gli 007 in riva allo Stretto esisterebbero in Calabria.
I dossier vengono fuori dopo vent’anni, migliaia di cittadini si allarmano e si mobilitano pure gli amministratori locali. Partono gli incontri in Prefettura con comitati civici e sindaci che arrivano a coinvolgere i vertici dell’Arpacal, l’Azienda regionale per la protezione dell’ambiente. Che, in autunno, assieme al Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri avvia il progetto “Miapi”.
Si tratta di un monitoraggio delle aree potenzialmente inquinate e per l’individuazione di siti contaminati con l’ausilio di dati telerilevati grazie ad un sensore “Airbone” ancorato ad un elicottero geo-radar. Le attività di ricerca vengono completate e viene trasmesso un hard disk contenente il data base, in formato shapefile, aggiornato al 28 febbraio 2015. Quei dati però ancora oggi sono un mistero, non sono mai stati resi di dominio pubblico.
Lombardia, Italia, A. D. 2021
Lecco, febbraio 2021. È l’altra parte della storia: più recente, distante geograficamente ma sempre e comunque collegata alla Calabria. Finisce in modo molto diverso. Scatta l’operazione “Cardine – Metal money”: diciotto cittadini italiani (dieci in carcere ed otto agli arresti domiciliari) sono accusati di associazione mafiosa, associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti, frode fiscale, autoriciclaggio, usura ed estorsione.
Al centro di tutto c’è un uomo che per gli inquirenti è il boss indiscusso della ‘ndrangheta nel Lecchese. Si chiama Cosimo Damiano Vallelonga e il prossimo 30 settembre compirà 73 anni. Li “festeggerà” in carcere, non è certo la prima volta che gli capita. È già stato coinvolto in diverse inchieste, da “La notte dei fiori di San Vito” di metà degli anni ’90 alla maxioperazione “Infinito” del 2010. È considerato il successore di Franco Coco Trovato, suo coetaneo che già dagli anni ’90 sconta diversi ergastoli al 41 bis.
Vallelonga è originario di Mongiana, uno dei paesi delle Serre vibonesi indicato nelle carte del Sisde come luogo di presunto deposito di scorie radioattive. Quando i capibastone della sua zona d’origine entrano in conflitto nella sanguinosa “faida dei boschi” viene chiamato in causa per tentare di fare da paciere tra le famiglie in guerra. Nella ‘ndrangheta lombarda chi ha la dote del Vangelo lo chiama «compare Cosimo» e spesso gli chiede di intervenire per dirimere questioni e affari spinosi.
Vent’anni di carcere
Milano, settembre 2021. I giudici del Tribunale meneghino, nell’aula bunker di San Vittore, condannano Vallelonga a vent’anni di carcere, più di quanto avessero chiesto nei suoi confronti i pm della Procura antimafia milanese. È l’esito con rito abbreviato dell’inchiesta “Cardine-Metal money” sull’impero del boss originario di Mongiana. Nell’inchiesta gli investigatori della Guardia di finanza di Lecco non ricostruiscono solo estorsioni, società cartiere, truffe e frodi, ma scoprono anche un traffico da 10mila tonnellate di rottami e rifiuti radioattivi.
L’aula bunker di San Vittore a Milano
L’indagine non riguarda solo la Lombardia ma si estende anche a Liguria ed Emilia Romagna. Vallelonga, una volta scontate le condanne precedenti, avrebbe «ripreso i contatti e rivitalizzato il sodalizio mafioso, non solo attraverso autonome condotte criminali ma anche ricevendo presso il suo ufficio all’interno di un negozio sito nella Brianza lecchese altri esponenti della ‘ndrangheta ed imprenditori locali, sia per l’erogazione di prestiti a tassi usurari sia per organizzare il reinvestimento dei proventi delle attività illecite nell’economia legale».
Vallelonga avrebbe diretto «un’imponente attività di traffico illecito di rifiuti posta in essere attraverso imprese operanti nel settore del commercio di metalli ferrosi e non ferrosi». Ci sarebbe dietro anche un giro di fatture false per circa 7 milioni di euro. E un carico di rifiuti radioattivi: 16 tonnellate di rame trinciato proveniente dalla provincia di Bergamo e sequestrato dalla Polizia Stradale di Brescia nel maggio 2018.
Uno degli ultimi rapporti del progetto dell’InterpolI-Can, International Cooperation against ndrangheta documenta come la criminalità organizzata calabrese sia l’unica a essere presente nei cinque continenti del pianeta. E per presenza, non si intende certo una presenza sporadica o silente. Nei territori di tutto il globo, la ‘ndrangheta riesce a fare affari prettamente illeciti, quali il traffico di droga e di armi. Ma anche a inquinare l’economia apparentemente legale, con il riciclaggio in settori quali l’edilizia, la ristorazione, le strutture ricettive o il gioco d’azzardo. In alcuni luoghi riescono a eleggere anche i sindaci.
Alla conquista dell’Europa
Fu, soprattutto, la strage di Duisburg del Ferragosto 2007 a dimostrare la presenza pervasiva e pericolosa delle ‘ndrine nel cuore dell’Europa. Ma nel Vecchio Continente, la ‘ndrangheta faceva affari da diversi anni. Sfruttando anche una legislazione in larga parte inadeguata a contrastarla. Numerosi Paesi europei continuano infatti a fare ostruzionismo rispetto alle richieste di Strasburgo, che da oltre un decennio chiede di estendere ai Paesi membri il reato di associazione mafiosa, per poter contrastare le mafie in maniera globale. E non sono bastate nemmeno le pressanti richieste di Europol ed Eurojust.
La ‘ndrangheta è presente sostanzialmente nei principali Paesi dell’Unione Europea. A partire dalla Germania della strage di Duisburg. A Singen, la polizia tedesca è riuscita anche a intercettare la riunione di un locale, che si svolgeva con le medesime modalità della casa madre calabrese. Il Baden-Württemberg come se fosse Platì o Isola Capo Rizzuto. E poi la Francia, dove, da sempre, sono di casa alcuni dei clan più importanti. Si pensi ai De Stefano e alla loro colonizzazione di Antibes, in Costa Azzurra. Ma anche la Spagna, dove, negli anni, hanno trovato rifugio numerosi importanti latitanti. Da ultimo, l’arresto del boss Domenico Paviglianiti, catturato ad agosto a Madrid.
Il porto di Rotterdam
Giacomo Ubaldo Lauro negli anni ’70 e ’80 era un boss di primissimo livello della ‘ndrangheta. Poi, divenuto collaboratore di giustizia, ha raccontato di come, già oltre quarant’anni fa, smerciasse chili di droga nei Paesi Bassi. Proprio lì, dove le cosche sono riuscite a infiltrare anche il mercato dei fiori, vero vanto dello Stato frugale. Rotterdam e Anversa, del resto, sono da sempre porti aperti per le ‘ndrine. Esattamente come se ci trovassimo a Gioia Tauro. «L’uso sempre maggiore di spedizioni tramite container che fanno affidamento ai porti ad alto traffico di Anversa, Rotterdam e Amburgo hanno consolidato il ruolo dell’Olanda come punto di transito», si legge nel recente rapporto stilato sui traffici di droga dall’Europol.
Il rapporto “Cocaine Insights” dell’Europol specifica inoltre come lo scorso anno, i sequestri complessivi di cocaina ad Anversa siano stati pari a 65,6 tonnellate. Le cosche egemoni sono proprio quelle che, da anni, controllano il territorio calabrese. Dai Bellocco di Rosarno, ai Nirta-Strangio di San Luca.
Il Regno Unito
Discorso a parte merita il Regno Unito. Lì, in maniera per adesso molto sottovalutata, le mafie riciclano miliardi e miliardi di sterline. Nella City di Londra, cuore pulsante della Borsa, broker della ‘ndrangheta si muovono già da anni. In maniera piuttosto incontrollata. «Il Regno Unito rappresenta da sempre, per la criminalità mafiosa, un’area di interesse per riciclare denaro, utilizzando società finanziarie e attività imprenditoriali» scrive la DIA in una recente relazione semestrale.
La City di Londra
«Dalla Brexit un assist per le mafie» diceva qualche anno fa il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. Un rapporto del 2019 della National Crime Agency britannica sosteneva che ben 100 miliardi di euro di capitali illeciti venissero “lavati” nella City di Londra.
Le inchieste “Vello d’oro” e “Martingala”, condotte congiuntamente dalle Dda di Firenze e Reggio Calabria avrebbero aperto degli squarci di luce. Attraverso società cartiere nel Regno Unito e in altri Paesi, le cosche realizzavano attività di riciclaggio e di reimpiego di capitali illeciti.
Le “zone franche”
Spostandoci verso Est, il barbaro omicidio del giornalista Jan Kuciak ha dimostrato come i gruppi calabresi fossero molto forti e radicati in Slovacchia. Il giornalista stava proprio indagando sugli affari di alcuni imprenditori della provincia di Reggio Calabria, i Vadalà, e su alcuni incroci pericolosi con la politica nazionale. In luoghi del genere, la ‘ndrangheta continua ancora a muoversi con grande disinvoltura.
In questi luoghi, prevalentemente le cosche riciclano denaro. Proprio grazie a queste relazioni oscure con il potere. Le attività predominanti sono quelle dell’edilizia e della ristorazione. Ma anche quelle dei vizi: e, quindi, le strutture ricettive di fascia alta, le rivendite di auto di lusso, il giro di prostituzione. Una nuova frontiera, recentemente documentata, è quella della formazione, con gli interessi nella gestione di corsi per il conseguimento di attestati professionali e di studio.
All’interno del Vecchio Continente vi sono, notoriamente, alcune nazioni che sono dei veri e propri “porti franchi” per gli affari delle cosche. È il caso di Malta. Nella piccola isola britannica, le cosche riciclano denaro e sono assai attive, soprattutto con riferimento al gioco d’azzardo. Sono le indagini “Gambling” e “Galassia” a fotografare la situazione di un Paese che spesso si gira dall’altra parte. E che permette ancora eclatanti omicidi, come quello della giornalista Daphne Caruana Galizia. Nel Lussemburgo, poi, le cosche della Locride avrebbero messo in piedi già da tempo una fitta rete per gestire il riciclaggio di denaro sporco.
Il Medio Oriente
E poi ci sono i corridoi e i canali tradizionali. Traffico di hashish ed eroina che riguarda anche la Grecia, rotta di passaggio verso le coltivazioni di papavero del Medio Oriente. Ma anche i rapporti con i gruppi criminali dei Balcani per quanto concerne il traffico di droga e armi. Recentemente, l’ha dimostrato l’inchiesta “Magma”, condotta dalla Dda di Reggio Calabria. All’inizio dell’anno è stato anche estradato in Italia Ardjan Cekini, considerato il referente dei Bellocco nei Balcani.
Ruolo sempre crescente, poi, quello degli albanesi nel mercato della droga. Come testimonia, peraltro, il rapporto stilato dall’Europol. Ma, assicurano gli inquirenti, non si può parlare di una perdita del monopolio da parte delle ‘ndrine, ma di una maggiore forza degli albanesi (rispetto ad altri gruppi) di dialogare con la ‘ndrangheta per questo tipo di business.
Già da metà degli anni ’90, inoltre, è noto il ruolo del consulente finanziario Sebastiano Saia. Costui sarebbe, da sempre, uomo di riferimento di uno dei più grandi narcotrafficanti della storia, Pasqualino Marando. Conosciuto in tutto il mondo, Marando sarebbe riuscito a entrare in contatto con il broker turco della droga, Paul Waridel, proprio grazie a Saia. Così, dunque, Marando avrebbe allargato i propri orizzonti. Già in quel periodo smerciava droga non solo in Sud America, ma anche in Medio Oriente, grazie ai rapporti con la famiglia pakistana Hafeez.
Saia, catanese, capace di relazionarsi con mondi diversi anche grazie al suo basso profilo. Una vita da romanzo, sparsa in giro per il globo. Nel corso degli anni, verrà catturato anche a Londra. Tra il 2015 e il 2016 si sposta prima in Turchia e poi in Grecia dove viene arrestato ancora una volta per truffe internazionali. Scagionato totalmente nel 2018, fa perdere le sue tracce.
L’America
Scomparso nel 2001 nell’ambito della faida di Platì, Pasqualino Marando avrebbe per anni fatto affari di droga con tutto il Sud America. Insieme a Bruno Pizzata, ma, soprattutto, a Roberto Pannunzi, il “Pablo Escobar italiano”, sono considerati i più grandi broker del narcotraffico di tutti i tempi. Ma l’elenco potrebbe essere pressoché infinito. È recentemente venuta a galla, con catture e fughe rocambolesche, la caratura criminale del boss Rocco Morabito, detto “Tamunga”, divenuto signore incontrastato in Uruguay dalla nativa Locride.
L’arresto di Roberto Pannunzi, il “Pablo Escobar italiano”, in Colombia
In generale, le cosche di ‘ndrangheta, da sempre, dialogano da pari a pari con i cartelli della droga del Sud America. Dalla Colombia al Messico, passando per il Brasile. Ma non c’è Stato latinoamericano in cui le ‘ndrine non abbiano messo radici. Gli uomini di ‘ndrangheta sono considerati infatti i più affidabili. Anche per l’esiguo numero di collaboratori di giustizia al proprio interno. Grazie a questo ermetismo e alla enorme liquidità economica, le ‘ndrine hanno scalzato nei rapporti di forza Cosa Nostra. Che, invece, fino agli ’80 faceva la parte del leone.
Situazione simile anche negli Stati Uniti. Dove ormai Cosa Nostra recita un ruolo più marginale rispetto al passato. Scrive la DIA in un suo rapporto: «Non ultimo, avrebbe concorso a questo ridimensionamento anche la pressione esercitata da altre organizzazioni per il controllo del territorio, in particolare della ‘ndrangheta, che si starebbe sostituendo ai rivali siciliani nel controllo del traffico e dello spaccio di stupefacenti. Allo stesso tempo, la ’ndrangheta sarebbe altrettanto attiva nel riciclaggio e nel reimpiego di capitali illeciti».
Il Nuovo Mondo, del resto, è quello che, forse, nasconde meno segreti sull’infiltrazione delle cosche sul territorio. Vecchi ormai quasi di un secolo i rapporti tra la ‘ndrangheta e le famiglie mafiose emigrate oltreoceano. Secondo quanto messo nero su bianco dalla DIA, negli ultimi anni le cosche della Locride sarebbero in grande espansione soprattutto nello stato di New York e in Florida.
Negli ultimi anni sono state in particolare le operazioni “New Bridge” e “Columbus” a dimostrare la pervasività delle ‘ndrine sul territorio a stelle e strisce. A essere colpite, tra le altre, le cosche Ursino, Morabito in contatto la storica famiglia mafiosa dei Gambino e sempre alla ricerca di nuove alleanze per il traffico di droga. Era un ristorante del Queens, a New York, la base operativa delle cosche. Il ristorante era gestito da un calabrese incensurato, Gregorio Gigliotti, originario di Serrastretta, nel Catanzarese. Un business, quello di cocaina (soprattutto) in cui erano coinvolti anche gli Alvaro, che avevano allargato gli orizzonti fino al Costa Rica.
E poi c’è il Canada. In principio fu il “Siderno Group of Crime”. Decenni fa, ormai, i Commisso, storica cosca sidernese, spostarono molti dei propri interessi nel Paese dell’acero. Il meccanismo è sempre quello della riproduzione delle dinamiche locali su territori lontani. Le locali di ‘ndrangheta canadesi fornivano appoggi funzionali alla “casa madre”, per trafficare droga e riciclare denaro. In particolare, i carichi di cocaina prodotta in Colombia viaggiano attraverso il Venezuela. Per arrivare poi negli USA e in Canada. Tutte dinamiche cristallizzate nell’inchiesta “Crimine 2”, ma anche “Acero Connection-Krupy” e “Typograph–Acero bis”.
La ‘Ndrangheta in Africa
Terzo Mondo a chi? Anche l’Africa è un territorio in grande crescita per quanto concerne gli interessi di tipo ‘ndranghetista. Già nell’inchiesta “Igres” emerse il ruolo del narcos Vito Bigione, uomo potentissimo in Namibia, capace di svolgere il ruolo di anello di congiunzione tra narcos sudamericani, Cosa Nostra e ‘ndrangheta. Parliamo di fatti avvenuti tra il 2001 e il 2002. Quindi, sostanzialmente, vent’anni fa.
Ancor prima, il collaboratore di giustizia Francesco Fonti, “santista” della Locride, aveva reso importanti dichiarazioni sui traffici di armi, ma, soprattutto, di rifiuti tossici e radioattivi tra Italia e Somalia. Siamo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 quando la ‘ndrangheta avrebbe avuto un ruolo importante. Tutto si incastra nel periodo della missione umanitaria “Restore Hope”. Vicende inquietanti, di intrighi internazionali, che si intrecciano anche con l’uccisione dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a Mogadiscio. E con la morte sospetta del capitano di corvetta, Natale De Grazia, ufficiale della Marina Militare di Reggio Calabria, morto in circostanze sospette proprio mentre indagava sulle “navi dei veleni”.
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin
Negli anni gli affari si sono evoluti e anche i territori diversificati. Vi sono per esempio tracce importanti degli affari della ‘ndrangheta in Costa d’Avorio. Un’inchiesta di IRPI (Investigative Reporting Project Italy) dimostrò come il potente imprenditore dei rifiuti nel Lazio, Manlio Cerroni, si muovesse molto bene tra Senegal e Costa d’Avorio. Luoghi dove, ulteriormente crescente era ed è il ruolo dei calabresi. Appena pochi mesi fa, a maggio, tre persone sono state arrestate su mandato della Procura della Repubblica di Locri. L’accusa è quella di corruzione internazionale nei confronti di funzionari della Costa d’Avorio e trasferimento fraudolento di valori. L’ipotesi investigativa è quella che tutto potesse celare un interesse delle cosche nell’estrazione dell’oro. Dietro le compagini societarie ricostruite dagli inquirenti, infatti, troverebbe posto anche un soggetto considerato contiguo ai Marando di Platì.
Recentemente, inoltre, alcuni collaboratori di giustizia hanno anche parlato dell’interesse della ‘ndrangheta per il coltan, che viene estratto in ingenti quantità nella Repubblica Democratica del Congo. Si tratta di un minerale preziosissimo, fondamentale, come è noto, per la fabbricazione dei cellulari.
L’Asia e l’Oceania
Ovviamente, tali, enormi, disponibilità finanziarie trovano spessissimo sponda importante in territori incontrollati o paradisi fiscali, quali Cipro, Singapore, Panama, Nuova Zelanda, Bahamas, Svizzera, Spagna, Austria. O, ancora, a Dubai, Isola di Man, Cayman e Seychelles. Non è un caso, infatti, che l’ex deputato di Forza Italia, Amedeo Matacena, considerato vicinissimo alle cosche, stia trascorrendo la propria latitanza dorata proprio a Dubai.
E questi affari portano direttamente anche alla collaborazione tra cosche calabresi e triadi cinesi. Difficile, quasi impossibile, ricostruire i rapporti dei clan in Paesi così chiusi. Governati da dittature o simil dittature. È il caso della Russia, per esempio. Ma anche, evidentemente della Cina. Gran parte del coltan, infatti, finisce sul territorio dello stato della Grande Muraglia. E lì le organizzazioni criminali si spartiscono gli ingenti profitti. Gruppi criminali agguerriti, in cui sarebbe riuscita a insinuarsi anche la ‘ndrangheta, per quanto concerne il mercato delle armi.
Ma la vera avanguardia sotto il profilo degli affari è Hong Kong. Lì, già dal 2014, vennero documentati gli affari del boss Giuseppe Pensabene, detto “Il Papa” del broker italo-svizzero Emanuele Sangiovanni. Secondo quanto emerso dalle indagini, in conti segreti di istituti finanziari della città-Stato asiatica sarebbero arrivati diversi milioni di euro appartenenti ai clan calabresi. C’è poi una recentissima indagine sul conto delle cosche crotonesi, in particolare sui clan Mannolo e Grande Aracri. Stando alle ricostruzioni della Guardia di Finanza, vi sarebbe anche un’operazione da circa 400mila euro effettuata tramite la filiale di Hong Kong della banca HSBC.
Oltre alle disponibilità economiche, la vera forza della ‘ndrangheta è rappresentata dalle relazioni. In tutti gli stati del mondo dove è presente e dove incide, può contare su una fitta rete di professionisti, di broker, insospettabili “colletti bianchi”. Una delle nazioni più emblematiche, da questo punto di vista, è l’Australia. Lì, attraverso l’immigrazione avvenuta negli scorsi decenni, la ‘ndrangheta è riuscita a ricreare quasi una seconda Calabria. Numerosi gli episodi criminali, anche fatti di sangue che celano la mano delle ‘ndrine. Nel 2016, per esempio, venne ucciso il boss Pasquale Barbaro. Non a San Luca. Né a Cetraro. Ma a Sidney.
Il boss Pasquale barbaro, ucciso a Sidney
In Australia, la ‘ndrangheta ha una forza così grande da riuscire anche a eleggere i politici. Un caso su tutti, quello di Domenico Antonio Vallelonga, per tutti Tony Vallelonga. Sindaco dal 1997 al 2005 della cittadina di Stirling, popoloso sobborgo di Perth, la capitale del Western Australia. Avrebbe rivestito un ruolo di vertice nel locale di appartenenza. È stato esponente di vari consigli regionali e presidente di importanti associazioni locali, di comitati comunitari e di alcune associazioni di cittadini italiani. Un recordman, eletto per ben quattro mandati. Anche con percentuali plebiscitarie. Originario di Nardodipace, in provincia di Vibo Valentia, Vallelonga viene intercettato dai Carabinieri, all’interno della lavanderia “Ape Green”, centro nevralgico della cosca Commisso di Siderno.
Perché è proprio questo uno dei segreti che consente alla ‘ndrangheta di essere presente (e incidere) sui cinque continenti. Mai perdere il contatto con la “casa madre” calabrese.
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