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  • Rigel, Jolly Rosso, Cunsky: così si affossano le inchieste sulle “navi dei veleni”

    Rigel, Jolly Rosso, Cunsky: così si affossano le inchieste sulle “navi dei veleni”

    «Il dato che risulta evidente è che la magistratura non è stata adeguatamente supportata per affrontare indagini così complesse sia per l’oggetto sia per l’estensione territoriale, trattandosi di traffici transazionali». Qualche anno fa, la Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti, presieduta da Gaetano Pecorella, arrivò a questa inquietante conclusione. Lo fece dopo mesi, anni, di indagini. Di acquisizioni documentali. Di audizioni. Tutto per provare a riaprire qualche file ormai archiviato sulle oscure vicende delle “navi dei veleni”. Che, come abbiamo visto, intrecciano i propri tragici destini con la Calabria. Ma anche con l’Africa. Rendendo tutto un grande, gigantesco, affare internazionale.

    «Ragioni inconfessabili”

    In queste vicende parlano più i morti dei vivi. Sul grande business di rifiuti e armi degli anni ’80 e ’90 tutti i diretti interessati o semplici sospettati, hanno sempre mantenuto riserbo o, nel migliore dei casi, vaghezza. Nomi che abbiamo imparato a conoscere. Da Giorgio Comerio a Giancarlo Marocchino. E, allora, parlano molto di più i morti. I giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi in Somalia. Ma anche il capitano della Marina Militare, Natale De Grazia. Morto in circostanze misteriose proprio mentre indagava su questi traffici.  Dopo la sua morte, di fatto, non vi sarà più una vera, compiuta, inchiesta su queste vicende.

    Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

    E la Commissione Ecomafie lo scrive chiaramente: «Ne è un esempio significativo l’indagine portata avanti dalla procura circondariale di Reggio Calabria, che poteva contare sull’apporto di un gruppo investigativo composto da pochi uomini, seppur qualificati [..] È ovvio che in un contesto siffatto un ruolo necessariamente predominante lo abbiano avuto i servizi di sicurezza. Si tratta del loro privilegiato campo d’azione, quello cioè in cui è necessario agire in modo determinato, e imbastire una fitta rete di relazioni funzionali ad avere consapevolezza degli accadimenti e quindi funzionale alla possibilità di interagire con essi. Sembra però che la dedotta “ignoranza ufficiale” dei servizi di sicurezza in ordine a vicende che di per sé appaiono come assai sospette: morte del Capitano De Grazia, spiaggiamento della motonave Jolly Rosso, debba necessariamente ascriversi o ad uno svolgimento di tale attività in modo non esauriente o negligente, ovvero a ragioni inconfessabili, non necessariamente illecite».

    Doppi, tripli e quadrupli giochi

    Sul ruolo dei Servizi ci siamo soffermati molto in queste settimane. Un ruolo tuttora mai chiarito. E che, proprio per questo, alimenta dubbi e scenari inquietanti su cui solo di rado si apre qualche squarcio di luce. C’è un percorso, una rotta, infatti, che lega Trapani a Reggio Calabria. C’è, soprattutto, un nome, quello di Aldo Anghessa, un uomo dei servizi segreti che partecipa, negli anni, a diverse operazioni di intelligence. Negli anni ’80, per ordine della procura di Massa Carrara, finisce anche in carcere. Sospettato di essere vicino al clan siciliano dei Minore. Un’ipotesi accusatoria mai verificata. E, quindi, nessun processo.

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    Il giornalista Mauro Rostagno

    Il nome di Anghessa compare dunque a Trapani, ma anche a Reggio Calabria. Tutte faccende che risalgono proprio agli anni ’80. Commercio di armi nel filone siciliano, mentre in Calabria si sarebbe occupato di traffici di scorie radioattive. Secondo alcune fonti, le presunte compravendite di armi in cui sarebbe stato coinvolto Anghessa sarebbero le stesse scoperte dal giornalista Mauro Rostagno, ucciso dalla mafia il 26 settembre 1988 a causa di tanta curiosità.

    La «lobby affaristico-criminale»

    Agli atti della Commissione Ecomafie, vi sono anche le audizioni di alcuni dei membri del pool di cui Natale De Grazia era la punta di diamante. Uno di questi membri, un carabiniere, afferma che Anghessa sarebbe entrato in contatto con il pm titolare del fascicolo, Francesco Neri. Al magistrato avrebbe prospettato la possibilità di poter dare un contributo fondamentale alle investigazioni: «Anghessa, fece intendere – siamo nella prima fase – che era disponibile a segnalare a noi l’arrivo di una nave contenente rifiuti radioattivi. L’avrebbe fatto per gentilezza, come forma di confidenza. Era noto che Aldo Anghessa avesse praticato traffici simili, non in relazione ai rifiuti, ma alle armi».

    Nel periodo della sua detenzione, Anghessa qualcosa la dice. Lo spione considerato vicino ai clan (ma mai condannato), parla dei traffici delle navi dei veleni che riguardano soprattutto la Calabria. Anghessa conferma diversi sospetti: «A partire dal 1987 è attiva in Italia una lobby affaristico-criminale che gestisce le seguenti attività: traffico di rifiuti tossico-nocivi e radioattivi, stupefacenti, armi, titoli di Stato falsificati e materiali strategici nucleari».

    Inattendibile

    Ma i riscontri bollano Anghessa come inattendibile. Un ciarlatano, insomma. Tempo dopo, però, lo stesso carabiniere racconta di essere stato protagonista di un episodio: «Un bel giorno, mentre mi stavo prendendo un caffè, si è presentato un signore che mi ha detto: “Io sono il collaboratore di Aldo Anghessa: volevo avere notizie”. Gli ho risposto che non lo conoscevo e che, se avesse voluto, era lui che avrebbe dovuto venire da me, che io non avevo niente da dirgli. Questo è il tentativo che hanno fatto per agganciarmi. La mia definizione che aveva mezzi e uomini a disposizione deriva da questo contatto che avevo ricevuto».

    “Alfa Alfa”. Sarebbe stato questo il nome in codice di Aldo Anghessa nei Servizi: «In quella circostanza – dice ancora davanti alla Commissione Ecomafie – capii che c’era troppo movimento alle spalle di questo personaggio: nonostante gli arresti domiciliari uomini, telefoni, macchine a disposizione».

    Ultimo atto: la Cunsky

    Inattendibile Anghessa. Inattendibile, come abbiamo già visto, Francesco Fonti. Il “santista” della ‘ndrangheta della Locride che, fin quando parla di strutture criminali, di reati comuni e di ‘ndrangheta pura, viene creduto. Quando allarga il suo racconto alle “navi dei veleni” depotenzia, quasi automaticamente, la portata delle sue dichiarazioni.

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    L’ex procuratore nazionale antimafia Piero Grasso

    Il colpo finale alla sua credibilità arriva dalla vicenda della nave Cunsky, affondata al largo di Cetraro. Fonti dichiarerà di aver affondato personalmente la nave, facendola colare a picco con un’esplosione di tritolo. Ma dopo una serie di indagini, curate, in particolare, dall’allora assessore regionale all’Ambiente, Silvio Greco, il ministro Stefania Prestigiacomo, unitamente al Procuratore Nazionale Antimafia, Piero Grasso, “chiuderanno il caso”. Tutti uniti nel dichiarare che il relitto investigato in quei mesi altro non era che un residuato bellico. Eppure alcune immagini sembravano chiare circa i fusti sospetti contenuti nella stiva.

    L’ennesimo intreccio

    Un destino comune. Il caso si chiude, proprio come quelli su cui indagava De Grazia. La Cunsky come la Rigel o la Jolly Rosso. Ma anche stavolta sono molti ad alimentare dubbi sulla bontà degli accertamenti svolti dal Ministero. Accertamenti che non coinciderebbero affatto con quelli dall’assessore Greco e dal procuratore di Paola, Bruno Giordano. Oggi deceduto. Ma in quel periodo tra i pochi a provare a mettere nuovamente a sistema i dati che si conoscevano sulle “navi dei veleni”. Non ci riuscirà. Il caso Cunsky verrà chiuso in fretta e furia. Lasciando molti dubbi.

    Soprattutto sulle coordinate. Ritenute non corrispondenti. Il Governo, infatti, incaricherà l’armatore Pietro Attanasio, con la sua Nave Oceano, di effettuare i rilievi. Rilievi che smentiranno quelli disposti dalla Regione, riportando anche all’attenzione la presunta vicinanza di Attanasio al noto avvocato inglese David Mills. Noto perché coinvolto nel processo di corruzione in atti giudiziari in cui l’ex premier Silvio Berlusconi è stato “salvato” dalla prescrizione. Lo stesso Mills, peraltro, a detta di un rapporto di Greenpeace del 1997 sarebbe stato legato in rapporti d’affari con l’ingegner Giorgio Comerio.
    L’ennesimo intreccio. Vero o reale. Ma che alimenta la coltre di sospetti. Che in queste vicende è ancora oggi più fitta che mai.

  • Troppe inchieste su di loro, i sindaci non ci stanno più

    Troppe inchieste su di loro, i sindaci non ci stanno più

    I principali reati contestati ai sindaci sono abuso d’ufficio, peculato, voto di scambio, corruzione, falso in atto pubblico. Finire un mandato senza un processo a proprio carico sembra ormai un caso più unico che raro: a ritrovarsi indagati per l’allagamento di un sottopasso, una mancata manutenzione stradale o per un bimbo che si fa male a scuola è un attimo.

    L’Anci ha lanciato una petizione a tutela dei primi cittadini che chiede al Parlamento di rivedere il Testo unico degli enti locali.
    Più della metà dei sindaci calabresi ha aderito all’iniziativa nazionale (212 su 404).

    CLICCA QUI PER L’ELENCO DEI SINDACI CALABRESI CHE HANNO FIRMATO LA PETIZIONE

    «Non chiediamo immunità o impunità – è scritto nell’appello – ma domandiamo: possono i sindaci rispondere personalmente e penalmente di valutazioni non ascrivibili alle loro competenze? Possono essere condannati per aver fatto il loro lavoro?».
    Alla petizione Anci hanno aderito tutti i sindaci dei capoluoghi di provincia. E ad eccezione di Maria Limardo (Vibo Valentia) e Francesco Voce (Crotone), eletti di recente, tutti gli altri portano sulle spalle procedimenti giudiziari importanti.

    Reggio Calabria: Falcomatà

    Un anno e dieci mesi di reclusione: è la condanna chiesta dai pm della Procura di Reggio Calabria nei confronti del sindaco Giuseppe Falcomatà. Il reggino è imputato per abuso d’ufficio e falso nel processo su presunte irregolarità nelle procedure di affidamento del Grand Hotel Miramare. Al centro del processo, l’affidamento di uno dei palazzi storici della città all’imprenditore Paolo Zagarella. Il Comune aveva assegnato la gestione a Zagarella dopo che quest’ultimo, durante la campagna elettorale del 2014, aveva concesso i suoi locali per la segreteria di Falcomatà. Secondo l’accusa, sindaco e assessori avrebbero violato «i doveri di imparzialità, trasparenza e buona amministrazione».

    Falcomatà
    Il sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà

    Per i pm, i membri della Giunta hanno adottato una delibera con la quale «statuivano l’ammissibilità della proposta proveniente dall’associazione Il Sottoscala» mentre avrebbero dovuto predisporre un bando pubblico. Gli imputati hanno spiegato che la delibera era un atto di indirizzo. Ma per la Procura «non c’era nessun atto di indirizzo, ma un atto di immediata concessione: il gioiello di famiglia si era trasformato in un affare di famiglia. Non è stata mala-gestio, ma una gestio finalizzata a raggiungere un determinato obiettivo e il sindaco è stato il regista». La sentenza è prevista per il 19 novembre.

    Catanzaro: Abramo

    Doppia inchiesta per il sindaco di Catanzaro. Sergio Abramo è imputato per abuso d’ufficio nel processo Multopoli relativo ai presunti illeciti legati all’annullamento di contravvenzioni per le violazioni del Codice della strada che coinvolge anche Mimmo Tallini. Per il primo cittadino nei giorni scorsi è arrivata la richiesta di assoluzione. Per l’ex presidente del Consiglio Regionale, invece, la richiesta di condanna è di un anno e sei mesi. La sentenza è prevista il 12 novembre.

    È di corruzione, invece, l’ipotesi di reato contestata al sindaco sulla gestione dei pontili mobili nel porto di Catanzaro Lido. Abramo, giunto al suo quarto mandato, è accusato di aver intascato un’indebita somma di denaro tramite il nipote allo scopo di favorire nella realizzazione delle opere l’imprenditore Raoul Mellea, titolare della Navylos.

    Cosenza: Occhiuto

    Un processo dietro l’altro per l’ormai ex primo cittadino di Cosenza, Mario Occhiuto. È stato rinviato a giudizio per l’inchiesta “Piazza sicura” che nell’aprile del 2020 portò al provvedimento di sequestro preventivo di Piazza Bilotti per gli atti che riguardavano la procedura di collaudo dei lavori di riqualificazione e rifunzionalizzazione ricreativo- culturale dell’opera, compresa la realizzazione del parcheggio interrato. Lavori per un investimento di oltre 15,7 milioni di euro, di cui quasi 12 di finanziamento pubblico e 3,7 a carico di privati. Le accuse agli imputati vanno dal falso ideologico alla turbata libertà della scelta del contraente e rivelazione del segreto di ufficio fino al falso materiale commesso dal pubblico ufficiale in atti pubblici e mancanza del certificato di collaudo.

    Occhiuto è stato prosciolto invece da ogni accusa nell’ambito dell’inchiesta “Passepartout” condotta dalla Procura di Catanzaro su presunte irregolarità in alcuni appalti nel territorio di Cosenza, tra cui quelli relativi alla realizzazione della metropolitana leggera e del nuovo ospedale.
    Risulta iscritto nel registro degli indagati e dovrà rispondere di truffa ai danni del Comune, falso e peculato per la vicenda legata ai rimborsi per missioni mai effettuate. Al centro, le spese sostenute tra il 2013 e il 2016 per una serie di missioni istituzionali (biglietti aerei, ristoranti…) rimborsate da Palazzo dei Bruzi che però non si sarebbero mai svolte. La Corte dei Conti, inoltre, lo ha condannato in primo grado ritenendolo colpevole di un danno erariale da circa 260mila euro relativo agli emolumenti del suo staff.

    Occhiuto
    Mario Occhiuto
    L’assessorato sospetto

    Sul capo di Mario Occhiuto infine pende un procedimento per associazione a delinquere transnazionale. L’ex primo inquilino di Palazzo dei Bruzi, è stato rinviato a giudizio dal Gup del Tribunale di Roma, nell’ambito dell’inchiesta condotta dal pm Alberto Galanti, sui rapporti tra il sindaco, l’ex ministro per l’ambiente Corrado Clini e la sua compagna Martina Hauser, componente della giunta di Palazzo dei Bruzi nella prima parte della consiliatura del 2011.
    Secondo l’accusa, Mario Occhiuto avrebbe ricevuto ingenti finanziamenti per realizzare progetti esteri cofinanziati dal ministero dell’Ambiente, in qualità di architetto e in cambio Occhiuto avrebbe nominato assessore della sua prima giunta proprio la compagna di Clini, Martina Hauser.

    L’altra sponda del Campagnano: Manna

    Non è riconducibile alla sua attività di amministratore locale il procedimento a carico di Marcello Manna, sindaco di Rende. L’accusa contestata dal pm all’avvocato Manna, già presidente della Camera penale di Cosenza, è corruzione in atti giudiziari. Il magistrato inquirente ha firmato e fatto notificare l’avviso di conclusione delle indagini preliminari contestando al giudice Petrini di aver ricevuto da Manna 5000 euro al fine di decretare l’assoluzione, in secondo grado di giudizio, del boss di Rende, Francesco Patitucci, dalla imputazione di concorso nell’omicidio di Luca Bruni, reggente dell’omonimo clan di Cosenza, assassinato nel gennaio del 2012 alla periferia di Rende.

    Manna ha sempre respinto ogni accusa. Agli atti d’inchiesta è allegato un filmato girato dalla Guardia di finanza nel quale si vede il penalista cosentino dare una cartella al giudice. Sul contenuto della cartella le dichiarazioni rese dagli indagati sono discordi e inconciliabili.

    I piccoli comuni

    Non importa se l’ente amministrato è grande o piccolo, i reati non fanno distinzione. Peculato, falso ideologico e abuso d’ufficio sono i reati contestati a Vincenzo Rocchetti, primo cittadino di Guardia Piemontese, in provincia di Cosenza. Rocchetti è coinvolto in un’inchiesta sulla gestione delle procedure di assegnazione di un’abitazione di edilizia popolare.
    Il tribunale del Riesame di Catanzaro ha confermato invece l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria nei confronti del sindaco di San Nicola Arcella, Barbara Mele, facendo decadere le accuse di collusione e turbativa d’asta.

    Lieto fine

    Il mostro in prima pagina sempre e chissenefrega se poi non lo era. Capita infatti che dopo decenni i sindaci vengano assolti e con fatica tentano di ripulire la loro immagine. Assolta dall’accusa di concorso in associazione mafiosa l’ex sindaco di Corigliano, Pasqualina Straface, nell’ambito dell’inchiesta Santa Tecla che aveva portato allo scioglimento del consiglio comunale. Per Straface da poco si sono aperte le porte del Consiglio regionale.

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    Pasqualina Straface

    La Cassazione ha riabilitato anche il sindaco di Cassano, Gianni Papasso. La suprema Corte ha chiarito che non è stato lui il responsabile dello scioglimento del precedente consiglio comunale. Decisione che gli ha permesso di candidarsi alla guida della città – con successo – per la terza volta.

    Dopo sette anni è finito anche il calvario di Carolina Girasole. L’ex sindaca di Isola Capo Rizzuto è stata assolta dalla Corte di Cassazione, che ha confermato le sentenze del Tribunale di Crotone e della Corte d’Appello di Catanzaro. Si è conclusa così una vicenda giudiziaria scaturita dall’operazione Insula, coordinata della Direzione Distrettuale Antimafia del capoluogo calabrese.

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    Carolina Girasole

    Eletta nel 2008 a capo di una coalizione di centrosinistra, Girasole era stata arrestata e posta ai domiciliari nel dicembre del 2013, insieme al marito, Franco Pugliese, e ad altre 11 persone. L’accusa era: voto di scambio politico-mafioso, turbativa d’asta e abuso d’ufficio. Sulla donna, l’ombra dei legami con la cosca Arena, che – secondo i magistrati della Dda di Catanzaro – l’avrebbe aiutata a diventare sindaca per ottenere favori nella gestione dei beni confiscati, con l’intento di restarne in possesso.

    Fuori dal carcere

    Dopo sette mesi esatti dall’arresto del 19 dicembre 2019 nell’ambito dell’operazione Rinascita-Scott, Gianluca Callipo, ex sindaco di Pizzo è tornato in libertà. La sesta sezione della Corte di Cassazione ha infatti annullato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere accogliendo il ricorso presentato dai suoi avvocati. ll primo cittadino, secondo l’accusa, avrebbe tenuto «condotte amministrative illecite».

    Così facendo avrebbe favorito la ‘ndrangheta garantendo benefici ad alcuni indagati nella gestione di attività imprenditoriali. Amaro lo sfogo di Callipo, ex presidente Anci Calabria: «Ho imparato che non basta essere onesti e rispettosi della legge per essere sempre considerati tali. Ho imparato che ogni azione, anche la più rigorosa e ligia al dovere, può essere travisata e diventare una “colpa” da dover spiegare».

    Chi spera ancora: Lucano

    Un nuvola nera sul modello Riace. Condannato in primo grado a 13 anni e due mesi di reclusione nel processo “Xenia” sui presunti illeciti nella gestione dei migranti, l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano che dovrà anche restituire 500mila euro di finanziamenti ricevuti dall’Unione europea e dal Governo. La pena inflitta a Lucano è quasi il doppio di quella chiesta dalla pubblica accusa (7 anni e 11 mesi).

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    Mimmo Lucano

    Lucano era imputato di associazione per delinquere, abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. «Questa è una vicenda inaudita. Sarò macchiato per sempre per colpe che non ho commesso. Mi aspettavo un’assoluzione», ha detto Lucano a commento della sentenza. «Grazie, comunque, lo stesso – ha aggiunto – ai miei avvocati per il lavoro che hanno svolto. Io, tra l’altro, non avrei avuto modo di pagare altri legali, non avendo disponibilità economica». Tra i legali di Lucano, Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano.

    L’eterno dilemma

    «Ogni volta che un sindaco firma un atto rischia di commettere abuso d’ufficio. Se non firma, rischia l’omissione di atti d’ufficio», ha commentato di recente il presidente nazionale Anci, Antonio De Caro. Fare o non fare, questo è il problema per l’amministratore pubblico. Una riforma del ruolo dei sindaci che chiarisca definitivamente le responsabilità personali, professionali, giuridiche e anche economiche probabilmente è necessaria.

  • Catanzaro, le mille ombre e la “profezia” di Ilda la rossa

    Catanzaro, le mille ombre e la “profezia” di Ilda la rossa

    Catanzaro, la città del vento, è difficile da descrivere con la retorica del mondo di mezzo. Di sicuro a quello di sotto non si dedicano mai grossi sforzi interpretativi: l’area Sud, i ghetti di viale Isonzo e dell’Aranceto, i “fortini” rom tutti droga e cavalli di ritorno. In mezzo, al massimo, ci si potrebbe collocare l’oceano umano che ogni giorno entra ed esce dai palazzi della burocrazia, dagli ospedali, dalla Prefettura, dalla Provincia e ovviamente dalla Cittadella della Regione.

    È l’esercito degli uffici e del disbrigo pratiche, il terreno su cui prospera la coltivazione intensiva di amicizie e clientele. Ciò che sta sopra, invece, sfugge alle definizioni. L’area grigia, il sistema, i salotti. Tutto già detto, tutto poco efficace per chi conosce quella parte di città che un tempo esprimeva un’oligarchia di cui, oggi, è rimasto ben poco, se non il blasone di certi licei come il “Galluppi” e il “Siciliani”.

    La lettera profetica

    La città del velluto la racconta in poche righe una lettera che oggi suona come una profezia. L’ha ricevuta, da qualcuno che ha preferito non firmarsi, la magistrata più famosa d’Italia. Di Ilda Boccassini oggi fanno discutere i giudizi più o meno edificanti sugli ex colleghi e le rivelazioni più o meno opportune sul suo passato. Ma tra le pagine della sua biografia c’è pure un capitolo dedicato alla Calabria che si intreccia con i tormenti che hanno attraversato e attraversano la giustizia italiana.

    È verso la fine del libro La stanza numero 30 – Cronache di una vita che la Rossa parla di ‘ndrangheta e di borghesia mafiosa. Ricorda la telecamera nascosta che per prima ha rivelato i riti di iniziazione in Lombardia e definisce la “zona grigia” non come entità unitaria ma realtà complessa. È il mafioso a cambiare volto e parole a seconda che abbia davanti il politico, l’imprenditore, il commercialista, l’avvocato, il medico, il poliziotto. E infiltrazione è un termine «fuorviante», spesso è il borghese a cercare il mafioso, al Nord più che in Calabria.

    Nessuno spiraglio di legalità

    Poi c’è la giustizia, con la g minuscola, e i casi finiti male di magistrati come Vincenzo Giglio e Giancarlo Giusti. Il primo fu coinvolto e condannato in una sua inchiesta milanese sul clan Lampada, il secondo si è suicidato nel marzo del 2015 mentre scontava ai domiciliari la condanna per concorso esterno divenuta da poco definitiva. Boccassini si chiede che aria si respiri oggi in Calabria e ammette quanto la risposta sia «difficile», specie provando a darla «a mille chilometri di distanza». È a questo punto che pubblica la lettera anonima ricevuta a gennaio del 2012. Un catanzarese la ringrazia per lo squarcio aperto dalla sua inchiesta – all’epoca ne fu coinvolto un consigliere regionale, Franco Morelli – ma pensa che lei «non può fare tutto». Che nella sua città «i bagliori di luce non arrivano» perché è «priva di spiragli di legalità».

    I salotti

    Si tratta di poche righe che restituiscono in maniera disarmante l’amarezza e il senso di impotenza di un cittadino non certo sprovveduto. Uno che non abita il mondo di sotto, ma anzi mostra di avere dimestichezza con l’alta borghesia. «Questa è la storia di una città che rappresenta uno spazio vuoto», scrive. Una città in cui «l’illegalità è un’istituzione», in cui «non si capisce cosa sia la mafia, semplicemente perché la mafia è tutto». Parla, l’anonimo catanzarese, di intercettazioni che un colonnello dei carabinieri rivelerebbe a un noto avvocato e che vengono usate «per ricatti o per affari».

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    Il viadotto Bisantis illuminato nell’oscurità a Catanzaro

    Non solo: menziona anche un notaio che «traffica opere d’arte false e poi a lui stesso viene chiesto di autenticarle», nel cui studio «gravitano i “cutresi”». Immancabile anche il politico che «si accompagna con galeotti» che «fanno la campagna elettorale», anzi «la impongono». I salotti di questi personaggi sono «riempiti dalla città “bene”, imprenditori e giudici compresi». E quanti non sono invitati, osserva, «aspirerebbero a esserlo».

    Ombre a tutti i livelli

    Da questo j’accuse premonitore sono trascorsi dieci anni e nel frattempo qualcosa è cambiato. Diverse cose si sono rivelate per come venivano descritte e qualche spiraglio si è aperto anche in santuari degli affari prima ritenuti impenetrabili. Nicola Gratteri può piacere o meno – Boccassini cita anche il caso di Vincenzo Luberto, suo ex procuratore aggiunto accusato di aver asservito la propria funzione a un ex parlamentare – ma dalle inchieste della sua Procura, al di là dei risvolti che ne determinano la solidità nelle aule giudiziarie, emerge uno spaccato inquietante di entrambi i mondi. In qualche modo, insomma, si sono accesi i riflettori anche sulle fenditure più ombrose degli ambienti altolocati e delle periferie degradate.

    Ghetti, Chiesa e cultura

    Una donna ha raccontato, dal di dentro, che all’Aranceto lo spaccio è h24, che si fanno anche i turni di notte e che i clienti sanno che al terzo piano si vende la cocaina mentre per il kobret bisogna citofonare al quarto. Ecco: questa è la stessa città di chi i ghetti li ha creati con una mano mentre con l’altra curava gli interessi di certe dinastie imprenditoriali.

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    Un’immagine dell’operazione Drug Family che ha condotto a 31 arresti nel quartiere Aranceto di Catanzaro

    È la stessa città in cui l’Arcidiocesi è finita al centro di un caso senza precedenti e la Chiesa non si mostra certo lontana da tentazioni e proiezioni affaristiche. Ed è la stessa città del teatro Politeama e del Comunale, delle mille rassegne culturali e del policlinico universitario. La città da cui tanti giovani e brillanti “cervelli” sono quasi costretti a scappare e in cui, però, ci sono eccezioni come la carriera lampo di Fulvio Gigliotti, lo «sconosciuto professore – il copyright è di Luca Palamara – uscito per magia» dal voto online del M5S grazie al quale è arrivato a sedere nel Csm.

    Giudici e clan

    È la città dei Gaglianesi e degli zingari, clan considerati minori, se non vere e proprie propaggini delle ‘ndrine di Cutro e Isola Capo Rizzuto, ma che votano e fanno votare. È la città in cui sono esplosi i casi dei giudici Marco Petrini e Giuseppe Valea, ben visti e stimati prima che uno fosse condannato in primo grado per il giro di «soldi, vino, champagne, prestiti, favori e corruzione, regali, gamberoni, casse di vino, assegni in bianco e ancora denaro» negli uffici della Corte d’Appello in cui era presidente di sezione.

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    Il giudice Marco Petrini

    O che l’altro subisse l’interdizione per un anno perché accusato di aver avuto «un approccio infedele alla funzione pubblica esercitata» tanto da autoassegnarsi alcuni fascicoli, da presidente del Tribunale del Riesame, e decretare l’esito di ricorsi e scarcerazioni senza neanche consultare – ha segnalato la Procura guidata da Gratteri e hanno confermato alcuni suoi stessi colleghi – gli altri membri del collegio.

    La città che cambia

    È la città dei tre colli e delle tre V (la terza, dopo vento e velluto, è appannaggio di San Vitaliano), la cui ormai mitologica funicolare veniva percorsa a piedi nel 1913 da Filippo Tommaso Marinetti. Cento anni dopo Catanzaro non sembra più tanto futurista. E non è più nemmeno quella mirabilmente raccontata nel 1967 da Gianni Amelio nel corto tv “Undici immigrati”, non a caso criticatissimo dall’élite che fu, ma ritrova oggi rari momenti comunitari forse solo nell’ironia di spettacoli come quelli di Ivan ed Enzo Colacino.

    È la città in cui il mondo di sopra è ormai riempito, più che dalle massosuggestioni di «nobili istituzioni» e «architettonici lavori», dall’ossessione dei soldi. Ed è il luogo in cui sorge la Cittadella, che potrebbe rappresentare il simbolo della Regione del futuro oppure diventare l’ennesima cattedrale del (e nel) nulla, un enorme non-luogo che assurge a simbolo di quello «spazio vuoto» e grigio che è il cuore stesso della Calabria.

  • Cavalli morti, roghi e… post: quando il sindaco è nel mirino

    Cavalli morti, roghi e… post: quando il sindaco è nel mirino

    Casse vuote, dipendenti ridotti al lumicino, pochi finanziamenti e margini di manovra minimi: tra onori (pochi) e oneri (molti), fare il sindaco è diventato uno sporco lavoro che qualcuno deve pur fare. Se ne staranno accorgendo i nuovi 82 primi cittadini eletti nell’ultima tornata del 3 e 4 ottobre. Amministratori di piccoli centri, sotto i 5mila abitanti o poco più, fatta accezione per Siderno e Cosenza.

    Grandi o piccoli i comuni le rogne sono le stesse per tutti. Sia per il sindaco di Brognaturo, con le sue 670 anime da gestire, che per quello di Cosenza che ne ha 100 volte tante a cui rendere conto. Tutti possono prendere decisioni impopolari. E, specie a queste latitudini, le reazioni a quelle scelte non sono le più rassicuranti.

    Amministratori nel mirino

    Nel primo semestre del 2021, in Calabria sono stati denunciati 30 atti intimidatori nei confronti di amministratori locali. Uno in più rispetto al primo semestre del 2020 e già circa il 50% in più rispetto al 2019. Numeri importanti che, però, non sono sufficienti a insidiare il primato del 2016. All’epoca furono ben 113 amministratori a subire intimidazioni.

    I dati, regione per regione, sulle intimidazioni agli amministratori pubblici italiani negli ultimi anni

    La spiegazione del Viminale a questa costante crescita di intimidazioni alla Pubblica amministrazione, sta nell’indebolimento delle condizioni economiche di vita, soprattutto delle fasce più deboli della popolazione, causato dalla pandemia e dall’esasperazione popolare che questa avrebbe generato. E che si sarebbe riversata sulle istituzioni più prossime ai cittadini.
    Secondo dati aggiornati al 2021 a subire intimidazioni sono stati 11 sindaci, 10 consiglieri comunali, 3 assessori, un commissario straordinario e quattro amministratori di altri enti locali.

    Tempi moderni e tradizioni antiche

    Nel 2021 la Calabria si attesta al secondo posto tra le regioni per numero di intimidazioni in relazione alla popolazione residente: un caso e mezzo ogni 100mila abitanti.
    La matrice delle intimidazioni è ancora principalmente ignota. A seguire in questa particolare classifica, le ragioni collegabili a tensioni sociali o politiche, questioni di natura privata o di criminalità comune. Solo all’ultimo posto viene denunciata la matrice legata alla criminalità organizzata.

    Cambiano i tempi e si aggiornano anche le minacce. Ormai non arrivano più solo tramite la classica lettera anonima, adesso viaggiano su web e social network veicolate da troll e profili fake. Seguono le aggressioni verbali, le scritte sui muri, l’utilizzo di armi da fuoco o l’invio di munizioni.
    E per onorare la fama della Calabria terra di solide tradizioni, tra gli espedienti utilizzati per “comunicare disappunto” trova ancora posto la testa sgozzata di qualche animale educatamente risposta in una scatolina di cartone chiusa a dovere e consegnata comodamente a domicilio. Non avrà i like di un post su Facebook, ma vuoi mettere l’effetto?

    Cosenza su tutte

    La provincia con il maggior numero di amministratori intimiditi è Cosenza con il 42% del totale dei casi censiti (Fonte Report Amministratori sotto tiro/ Avviso Pubblico 2020).
    A Scalea due persone hanno aggredito il consigliere Renato Bruno al termine di una seduta del Consiglio comunale. A Paola e San Nicola Arcella sono andate a fuoco le auto di due dipendenti comunali. Stessa sorte per le auto di un ex consigliere regionale di Amantea. A Corigliano Rossano ignoti hanno più volte squarciato le gomme all’automobile del sindaco Stasi. A Cetraro l’automobile di Cinzia Antonuccio, coordinatrice del servizio di raccolta rifiuti del Comune, è stata incendiata nel corso di una notte. La sindaca di Lattarico, Antonella Blandi ha ricevuto una lettera dal contenuto inequivocabilmente intimidatorio: «Se vuoi che i tuoi figli tornino a casa dall’asilo nido, fai lavorare chi non ha da mangiare».

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    Mario Occhiuto e altri sindaci della provincia durante una protesta all’ingresso dell’ospedale di Cosenza

    Tra i sindaci che hanno fatto spesso ricorso allo strumento della querela per minacce ricevute anche sui social, c’è l’ormai ex primo cittadino di Cosenza Mario Occhiuto. Memorabili le sue invettive contro gli “odiatori”: in pratica tutti coloro che osavano criticare la sua linea politica.
    Tra i tanti, un post di minaccia con l’invito a gettare un candelotto di dinamite contro casa sua è stato pubblicato sul profilo Facebook di Occhiuto da un profilo con il logo dei Cinquestelle.

    «Sono questi – commentava l’allora sindaco – i risultati scellerati di coloro i quali alimentano di continuo un clima di odio e di violenza nei confronti di chi ha il compito di amministrare, di scegliere e decidere. Denuncerò alle autorità competenti tali insulsi comportamenti, che sono la conseguenza di campagne mirate di delegittimazione e del populismo sfrenato e dell’ignoranza».

    Di mezzo anche i parenti morti

    Dodici i casi censiti in provincia di Reggio Calabria. Intimidazione ai danni dell’assessore all’Agricoltura ed al Turismo del Comune di Oppido Mamertina, Antonio Corrone: colpi di arma da fuoco contro la vetrata del suo studio. Incendiata a Roccella Jonica l’auto di Vincenzo Garuccio, amministratore di Jonica Multiservizi, società interamente pubblica che opera nella gestione dei servizi della città. Analogo trattamento un mese più tardi per due veicoli del Comune utilizzati per la raccolta differenziata. Emergono da un’inchiesta condotta dalla locale Direzione Distrettuale Antimafia intimidazioni nei confronti del sindaco di Locri Giovanni Calabrese, in merito ad interessi dei clan sulle attività economiche al cimitero. In questo caso la minaccia fa pendant col tema: o ti pieghi o non ritroverai le spoglie dei tuoi parenti.

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    Il cimitero di Locri

    Otto casi in provincia di Vibo Valentia. A Filandari doppio atto intimidatorio ai danni dell’assessore Giuseppe Antonio Artusa. Dopo aver esploso alcuni colpi d’arma da fuoco all’indirizzo della saracinesca del garage della sua abitazione, provocando danni alla vettura che si trovava all’interno, ignoti hanno dato fuoco ad una seconda automobile parcheggiata all’esterno. A Parghelia è stato colpito l’assessore alla Cultura, Gabriele Vallone: la sua auto è stata oggetto di un atto vandalico. Ad aggravare la situazione un messaggio minatorio dattiloscritto lasciato sul mezzo. A Tropea è finito nel mirino un agente della Polizia locale: danneggiata l’auto di proprietà e inserito al suo interno un biglietto minatorio.

    Cinque cavalli morti, incendi e cartucce

    Sette casi in provincia di Crotone. Una lunga scia di minacce ha visto protagonisti gli amministratori di Roccabernarda. Apripista Francesco Coco, ex sindaco ed attualmente consigliere comunale di opposizione, già oggetto di intimidazioni nel 2018. Col favore delle tenebre, ignoti hanno incendiato la sua autovettura e hanno ucciso cinque cavalli di sua proprietà. Successivamente è finito sotto tiro il sindaco Nicola Bilotta: una bottiglia incendiaria lasciata davanti alla sua abitazione e una busta con due cartucce di fucile sul parabrezza della macchina. A Cirò Marina, l’auto di Paolo Lo Moro, segretario generale del Comune, gestito da una commissione straordinaria a causa dello scioglimento dell’Ente per infiltrazioni mafiose, è andata distrutta in seguito ad un incendio.
    Quattro intimidazioni registrate in provincia di Catanzaro. A Tiriolo è andata a fuoco l’auto dell’assessore allo Sport Domenico Paone.

    Più denunce, meno infiltrazioni

    Mentre aumentano le denunce di atti intimidatori, diminuiscono i casi di scioglimento per infiltrazioni mafiose degli Enti locali. Dal 1991 ad oggi in Calabria sono stati sciolti per mafia 127 Comuni, otto procedimenti sono stati annullati e 23 archiviati.
    Nei primi sei mesi del 2021 in Calabria si contano “appena” quattro scioglimenti, pochi rispetto al record di 11 enti affidati ad una commissione straordinaria nel 2018. Si tratta di Simeri Crichi, Guardavalle (era già stata sciolta nel 2003), Rosarno e Nocera Terinese. Altrettanti avevano subito identica sorte nel 2020: Amantea (al secondo scioglimento), Sant’Eufemia d’Aspromonte, Cutro e Pizzo.

    Appalti pubblici, urbanistica, edilizia pubblica e privata sono i settori oggetto degli appetiti delle cosche per gli alti volumi d’affari prodotti. Settori resi permeabili dalla mancata trasparenza dell’azione amministrativa e da una burocrazia spesso compiacente e asfittica. Nell’ultima relazione sul tema, il ministero degli Interni evidenzia come un terzo dei comuni sciolti per infiltrazione mafiosa versi in condizioni di deficit finanziario. Al 31 dicembre 2020, in Calabria, 193 Comuni hanno dovuto dichiarare default. Sono, invece, attualmente in dissesto o riequilibrio quasi 7 Comuni calabresi su 10 (279 su un totale di 411).

  • Quante sono le navi dei veleni affondate? Le indagini di Natale De Grazia

    Quante sono le navi dei veleni affondate? Le indagini di Natale De Grazia

    «Deve sin d’ora sottolinearsi come questo approfondimento, teoricamente agevole in quanto erano state predisposte deleghe di indagine da parte del pubblico ministero procedente, si è rivelato nei fatti difficoltoso». L’incipit messo nero su bianco dalla Commissione Ecomafie alcuni anni fa è tutto un programma. Un programma di insabbiamenti, di trame oscure, forse anche di depistaggi.

    Le indagini di Natale De Grazia

    La Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti presieduta in quel periodo da Gaetano Pecorella (vicepresidente Alessandro Bratti) tentò di aprire qualche squarcio di luce sul lavoro del capitano di corvetta Natale De Grazia, morto in circostanze misteriose alla fine del 1995, mentre indagava sulle cosiddette “navi dei veleni”.

    De Grazia era entrato nel pool di investigatori messo insieme dal magistrato Francesco Neri. L’ipotesi inquietante su cui indagava la Procura di Reggio Calabria era un presunto affare internazionale che avrebbe visto un giro di “carrette del mare”, cariche di scorie nucleari da inabissare nel Mediterraneo. Anche al largo delle coste calabresi. Natale De Grazia indagava proprio su questo. Era l’elemento di spicco del pool. Quello più abituato ad andare per mare. E che conosceva meglio il mare. Il suo mare.

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    Il capitano Natale De Grazia

    «La documentazione acquisita, costituita da ben sei deleghe, alcune delle quali conferite specificatamente ai militari in missione, non si è rivelata risolutiva in quanto le deleghe in questione sono state formulate in modo alquanto generico. Non è noto se per ragioni precauzionali e di riservatezza o per lasciare ampio margine di manovra agli ufficiali di polizia giudiziaria. Neppure chiarificatrici sono state le dichiarazioni rese sul punto da quegli stessi ufficiali che parteciparono alla missione in questione. Contraddittorie, infine, sono state le informazioni acquisite dagli altri investigatori impegnati nell’indagine».

    Più volte la relazione parlerà di misteri, contraddizioni e passaggi per certi versi inspiegabili sull’ultimo viaggio di Natale De Grazia. Quello verso La Spezia. Per indagare sul conto di una nave, la Latvia. Una di quelle “carrette del mare”. O, meglio “navi dei veleni”.

    Quante sono le navi dei veleni?

    La Latvia è una delle sospette “navi dei veleni”. Non la più famosa. Rigel. Rosso (ex Jolly Rosso). E, più recentemente, Cunsky. Questi alcuni dei nomi più noti. Quella relazione di qualche anno fa della Commissione Ecomafie rende un po’ più solidi alcuni dei sospetti già paventati da anni dalle associazioni ambientaliste. Legambiente, su tutte.

    Secondo un dossier di Legambiente, infatti, gli affondamenti sospetti di navi, tra il 1979 ed il 2000, sarebbero 88. E tutto nasce, nel 1994, proprio da una denuncia dell’associazione ambientalista alla magistratura reggina sull’interramento di rifiuti in Aspromonte. Si formerà così un pool di investigatori, composto, tra gli altri, dal pm Francesco Neri e dal capitano Natale De Grazia, che, ben presto, allarga i propri orizzonti.

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    Nell’inchiesta portata avanti dal pool un nome ricorrente è proprio quello dell’ingegner Giorgio Comerio. Quello che, come abbiamo visto, aveva predisposto un progetto per l’insabbiamento nei fondali soffici di “penetratori” carichi di scorie. Un uomo da romanzo, lo abbiamo definito. Il nome di Comerio si incrocerebbe con quello di una delle navi più tristemente famose: la Rosso. Il sospetto di molti è che la motonave della linea Messina fosse una delle “navi dei veleni” che dovevano affondare con il loro carico di morte. E che solo un curioso disegno del destino la fece spiaggiare sulla spiaggia di Formiciche, ad Amantea. È il 14 dicembre del 1990. Comerio, infatti, negli anni si sarebbe interessato all’acquisto della motonave. Una trattativa, quella con gli armatori Messina, che non si concretizzerà, ma che, secondo gli inquirenti, poteva, in qualche modo, ricollegarsi al presunto traffico di scorie radioattive.

    La seconda è una motonave affondata al largo delle coste calabresi, la Rigel. E sarebbe stato ancora una volta il capitano Natale De Grazia a scoprire il collegamento. Nel corso di una perquisizione all’interno dello studio dell’ingegnere, infatti, De Grazia avrebbe trovato un’agenda, con una strana scritta alla data 21 settembre 1987: «lost the ship». La frase, tradotta, significa «la nave è persa». Comerio smentirà sempre ogni possibile collegamento, ma il 21 settembre 1987, ci sarà solo una nave “persa”. La Rigel. Fatta colare a picco, dolosamente, a largo di Capo Spartivento, in provincia di Reggio Calabria. In quella stessa perquisizione all’interno dello studio di Comerio (ma anche in questo caso l’ingegnere smentirà) il capitano De Grazia ritroverebbe anche delle carte che avrebbero a che fare con la Somalia e la morte della giornalista Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin.

    Il ruolo dei Servizi

    Un uomo da romanzo. Noir, evidentemente. Giorgio Comerio, infatti, secondo alcune fonti, avrebbe anche ospitato in un appartamento, forse non di sua proprietà, a Montecarlo l’evaso Licio Gelli. Altro nome che, con la sua P2, si lega ad alcune delle storie più inquietanti e drammatiche della storia d’Italia.

    Vicende oscure. In cui, in un modo o nell’altro, sarebbero entrati i Servizi Segreti. Con il Sismi il pm Neri, titolare del fascicolo, avrebbe avuto una interlocuzione costante. Sia per la richiesta di informazioni e documenti su Comerio sia, più in generale, su tutti i temi oggetto di inchiesta. Dal traffico di rifiuti radioattivi a quello di armi e agli affondamenti di navi, solo per fare qualche esempio.

    Nelle 308 pagine scritte da Pecorella e Bratti emerge inoltre come il Sismi, nel solo 1994, avesse speso ben 500 milioni di lire per i servizi d’intelligence connessi al problema del traffico illecito di rifiuti radioattivi e di armi. Ma, secondo diverse fonti e testimonianze, la presenza dei Servizi non sarebbe stata solo corretta e leale. Nel corso delle tante audizioni ascoltate dalla Commissione, infatti, sarà prospettato un ulteriore ipotetico interessamento dei Servizi all’indagine svolta dal dottor Neri attraverso il controllo delle attività poste in essere dalla Procura e dagli ufficiali di polizia giudiziaria.

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    Il centro Enea di Rotondella in Basilicata

    Una di queste audizioni è quella del colonnello Rino Martini, del Corpo Forestale dello Stato. Elemento prezioso nelle indagini, soprattutto con riferimento alle presunte attività illecite che ruotavano attorno alla centrale ENEA di Rotondella, in Basilicata: «In quel periodo, si verificarono due episodi. Per una settimana siamo stati filmati da un camper parcheggiato di fronte alla caserma in cui operavo. Una sera in cui erano stati invitati anche altri magistrati, avevamo deciso di recarci in una bettola sul Maddalena, che non è frequentata da nessuno durante la cena perché è aperta solo di giorno, e dieci minuti dopo il nostro arrivo attraverso una strada nel bosco è arrivata un’altra autovettura e si sono presentati a cena due ragazzi di trent’anni, che hanno lasciato la macchina nel parcheggio».

    Poi, la scoperta: «Siamo usciti per primi e, attraverso due sottufficiali dei Carabinieri di Reggio Calabria presenti, dalla targa dell’autovettura siamo risaliti al proprietario: il Sisde di Milano. Non ho altri episodi da raccontare. Certamente, c’era un controllo».  

    La fonte anonima

    Gli inquirenti, quindi, si sarebbero scontrati contro un muro di gomma. Con la costante idea di essere spiati. Un’idea che emerge dalle testimonianze raccolte dalla Commissione Ecomafie. Un’idea che, dicono le persone a lui vicine, aveva anche Natale De Grazia. Che muore in circostanze sospette. Proprio mentre sembrava vicino alla verità. O, almeno, a una parte di essa.

    Agli atti della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti che qualche anno fa si occupò della vicenda vi è anche una fonte anonima. Che parla proprio di quell’ultimo viaggio di De Grazia: «[…] il capitano De Grazia doveva venire a La Spezia a conferire con me e con [OMISSIS] con riferimento ad un’altra nave, la Latvia, ex nave del KGB sovietico che era ormeggiata a fianco di una struttura della marina militare nell’area del San Bartolomeo. Poi, questa nave è stata monitorata. […] Questa nave era stata poi acquistata da una società fatta a La Spezia, non ricordo il nome ma non è difficile recuperarlo, […] È stata ormeggiata alcuni mesi sulla diga foranea a La Spezia. […] questa nave […] era stata acquistata da una società costituita da alcuni industriali e altri di La Spezia […]».

    Quel viaggio di Natale De Grazia, dunque, aveva un’importanza strategica nell’indagine. Perché la Latvia non era meno importante, nel presunto sistema criminale, rispetto a Rosso o Rigel. E sembrava nascondere molti più segreti di quanto si potesse immaginare. Infine, dal racconto della fonte anonima:«Non poteva prendere il mare, era smantellata e priva di equipaggio. Poi, improvvisamente, questa nave dopo la costituzione di questa società che aveva recuperato questa nave come rottame, ha preso il largo trainata da un rimorchiatore che credo fosse turco ed è arrivata in Turchia. Voci dicevano che fosse stata riempita, non riempita, ma che fosse stato immesso del materiale particolare sulla nave prima della sua fuoriuscita dalla rada di La Spezia».

  • “Miramare”, chiesto un anno e 10 mesi di reclusione per il sindaco Falcomatà

    “Miramare”, chiesto un anno e 10 mesi di reclusione per il sindaco Falcomatà

    Un anno e dieci mesi di reclusione. Questa la richiesta formulata dai pm Walter Ignazitto e Nicola De Caria nei confronti del sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà. Il processo è quello sul cosiddetto “Caso Miramare”, con cui la Procura reggina persegue il presunto affidamento diretto dell’ex albergo di lusso effettuato dalla Giunta Comunale alla semisconosciuta associazione “Il Sottoscala”.

    Gli imputati e le richieste dell’accusa

    Secondo l’accusa, tale «regalo» sarebbe stato effettuato in virtù del rapporto di amicizia tra Falcomatà e il noto imprenditore reggino Paolo Zagarella. Questi è ritenuto il dominus della compagine associativa. Nel corso del suo esame in aula, Falcomatà ha definito Zagarella solo «un buon conoscente». Ma sarebbe notorio, a Reggio Calabria, il rapporto datato tra i due. E consolidato attraverso diverse serate danzanti nelle discoteche più “in” della città.

    Ma il pm Ignazitto è stato netto: «Il ‘Miramare’ doveva andare a un amico del sindaco: Paolo Zagarella. Non solo non si è astenuto, ma è stato il vero registra dell’operazione». Tuttavia, mano “leggera” nella richiesta: un anno e dieci mesi, considerando lo stato di incensuratezza.

    Per tutti gli altri, la Procura ha chiesto un anno e otto mesi di reclusione. Oltre a Falcomatà e a Zagarella sono imputati anche l’ex segretario generale del Comune, Giovanna Acquaviva, l’ex dirigente Maria Luisa Spanò, l’assessore in carica ai Lavori Pubblici e candidato al Consiglio regionale, Giovanni Muraca, e gli ex assessori Saverio Anghelone, Armando Neri, Patrizia Nardi, Giuseppe Marino, Antonino Zimbalatti e Agata Quattrone.
    Per tutti, quindi, la Procura di Reggio Calabria ha richiesto la condanna.

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    Un momento dell’udienza di oggi a Reggio Calabria
    I fatti contestati

    Al centro dell’inchiesta, la delibera della Giunta comunale con cui l’Amministrazione affidava all’imprenditore Paolo Zagarella, titolare dell’associazione “Il Sottoscala”, la gestione temporanea del noto albergo Miramare. Da tempo chiuso.

    L’affidamento della gestione della struttura di pregio, notissima in città, sarebbe avvenuto in maniera diretta a Zagarella. Questi, infatti, è uno storico amico del sindaco Falcomatà e gli avrebbe anche concesso, in forma gratuita, i locali che avevano ospitato la segreteria politica nella campagna elettorale che porterà l’attuale primo cittadino alla schiacciante vittoria sul centrodestra nella corsa verso Palazzo San Giorgio.

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    L’ex Hotel Miramare a (Reggio Calabria

    Una delibera, quella del 16 luglio 2015, che sarebbe stata approvata a maggioranza con l’assenza dell’allora assessore, Mattia Neto. Che infatti non verrà coinvolto nell’inchiesta del pm Walter Ignazitto. Ma secondo alcune testimonianze raccolte nel corso del dibattimento, l’associazione “Il Sottoscala” avrebbe avuto la disponibilità dell’immobile di pregio anche prima della votazione della delibera.

    «Con Zagarella, Falcomatà aveva un debito di riconoscenza» hanno detto i pm Ignazitto e De Caria. Per questo, quindi, il “Miramare” sarebbe stato affidato all’associazione “Il Sottoscala” dietro cui si celava (seppur senza cariche formali) Zagarella. Questi, esperto di feste e serate danzanti, avrebbe dovuto realizzare eventi e, quindi, intascare soldi, nell’immobile di pregio comunale.

    Tra le persone escusse, che sosterranno tale versione, anche l’allora sovrintendente per i Beni archeologici della Regione Calabria, Margherita Eichberg. Impegnata con una sua collaboratrice nel sopralluogo di un immobile limitrofo al “Miramare” avrebbe sorpreso Zagarella e alcuni operai intenti a fare dei lavori all’interno della struttura. «Si tratta di un processo sul modo in cui deve intendersi la funzione pubblica, con imparzialità e trasparenza» hanno detto i pm Ignazitto e De Caria.

    La grande accusatrice

    Unica a scegliere il rito abbreviato, l’allora assessore comunale ai Lavori Pubblici, Angela Marcianò. È già stata condannata, in primo grado, a un anno di reclusione.  Già collaboratrice del procuratore Nicola Gratteri, Marcianò, dopo l’esplosione del caso (politico e giudiziario) diventerà la grande accusatrice di Falcomatà.

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    Angela Marcianò durante l’ultima campagna elettorale

    Marcianò ha sempre dichiarato di essersi schierata contro l’assegnazione del “Miramare” a Zagarella. Ma dagli atti dell’indagine (tra cui diverse chat WhatsApp), emergerebbe in realtà solo un tardivo tentativo di intervenire per la modifica dell’atto. Accusa ancor più grave, quella mossa dalla Marcianò, è quella di risultare presente (e, quindi, con voto favorevole alla delibera) nel verbale della riunione di Giunta. Quando, invece, a suo dire, l’avrebbe abbandonata in aperta polemica con il provvedimento che si voleva adottare.

    Alle elezioni del settembre 2020, si candiderà anche a sindaco, in piena contrapposizione con il giovane sindaco del Partito Democratico. Otterrà un buon risultato, classificandosi terza tra i candidati alla carica di primo cittadino. Ma al momento dell’insediamento in Consiglio Comunale subirà il provvedimento di sospensione spiccato dal prefetto, proprio a causa della condanna nel “caso Miramare”.

    Verso la sentenza

    Giuseppe Falcomatà è considerato uno degli esponenti più emergenti del Pd calabrese. Ora, però, rischia un pericoloso passo falso, poco più di un anno dopo la riconferma come sindaco di Reggio Calabria. I fatti contestati, però, si riferiscono al suo primo mandato. Quelli dopo gli anni del “Modello Reggio” di Giuseppe Scopelliti e lo scioglimento per contiguità con la ‘ndrangheta del Consiglio comunale.

    Un avvio difficile, accidentato, in cui il primo obiettivo è capire se e come evitare il dissesto economico-finanziario. Ma uno dei primi atti dell’Amministrazione Falcomatà è quello di eliminare il Miramare dai beni di proprietà del Comune in vendita. Così come voluto dalle Amministrazioni di centrodestra prima e dalla terna commissariale poi.

    La tesi della difesa

    La difesa di tutti gli imputati è stata quella di voler rilanciare quello che, unanimemente, viene considerato uno dei “gioielli di famiglia” della città. E che tale affidamento (poi saltato, per via del putiferio politico e giudiziario) non avrebbe comportato alcun esborso per l’Ente. Ma, anzi, una possibilità di rilanciare la struttura a “costo zero” con eventi di vario genere.

    Tesi che, evidentemente, non sembrano aver convinto i pm Ignazitto e De Caria, che hanno formulato le richieste di condanna: “Il ‘gioiello di famiglia’ trasformato in un affare di famiglia’ con palesi violazioni di legge” hanno detto infine i pm.

    Adesso la girandola delle arringhe difensive. Con la sentenza per Falcomatà&co che dovrebbe arrivare il 19 novembre. E, in caso di condanna, potrebbe far scattare la sospensione dovuta alla “Legge Severino”. Facendo piombare la città in una fase politica tutta da decifrare.

  • Torturato in Pakistan, clandestino per Reggio: la Cassazione dice no

    Torturato in Pakistan, clandestino per Reggio: la Cassazione dice no

    Gli uccidono il fratello durante le Comunali in Pakistan nel 2015, lui denuncia tutto ma viene rapito, torturato e “convinto” a ritrattare. Ma la notte stessa scappa e arriva poi fino in Calabria, che però gli nega asilo politico. Ora la Cassazione ha accolto il suo ricorso prospettando un lieto fine per l’odissea di questo quarantenne di origini pakistane, almeno dal punto di vista della sicurezza personale.

    Asilo politico

    L’uomo, infatti, aveva visto respingere per ben due volte la richiesta di protezione internazionale tramite l’asilo politico. In Italia è garantita a chi è riconosciuto lo status di rifugiato, ossia a colui che per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha cittadinanza (o dimora abituale – nel caso di soggetti apolidi) e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese.

    L’arrivo in Calabria

    Il 40enne era arrivato in Calabria nel 2015 dopo mille peripezie e si era subito attivato per chiedere lo status di rifugiato cercando al contempo di integrarsi, studiando italiano e lavorando ogni qual volta ne ha avuto l’occasione. Le diffidenze delle istituzioni italiane in merito sono certamente dovute non tanto all’alto numero di richieste, quanto ai numerosi tentativi di aggirare le normali procedure “inventando” storie di sana pianta per cui, purtroppo, a volte “paga il giusto per il peccatore”.

    Ma la Cassazione ha accolto il suo ricorso rinviando ad altra sezione d’Appello che ora dovrà seguire le indicazioni degli ermellini e concedere l’agognato e meritato status di rifugiato al 40enne, che è riuscito a provare la sua tragica storia, tanto assurda da sembrare quasi finta. E invece era tutto drammaticamente vero.

    Due no da Reggio

    La corte d’Appello di Reggio Calabria aveva confermato la sentenza con cui il Tribunale locale aveva già respinto le domande di protezione internazionale o umanitaria del pakistano. Quest’ultimo aveva dichiarato di essere perseguitato da appartenenti a un partito politico del suo Comune di residenza nella regione del Punjab in Pakistan. L’uomo, quale sostenitore del Partito popolare, era finito nel mirino di una banda criminale che appoggiava la fazione politica opposta alla sua, ossia quella in cui militava il fratello.

    Ostaggio degli assassini del fratello

    Nelle elezioni comunali del 2015 aveva collaborato infatti alla campagna elettorale del fratello, rimasto poi ucciso in un agguato da parte di un commando armato che fiancheggiava il partito contrario al suo. A seguito di questa barbara e feroce esecuzione, il 40enne muratore pakistano aveva debitamente denunciato i tragici avvenimenti alla polizia locale e ai giudici della sua regione (come da allegata copia della denuncia, munita di traduzione e consegnata ai giudici italiani). Per questo, dopo il funerale, lo avevano rapito, imprigionato per tre giorni, minacciato di morte – con tanto di fratture a una spalla – nel tentativo di convincerlo a ritirare la denuncia.

    In fuga verso l’Italia

    E lui aveva promesso di farlo solo per conseguire la liberazione, ma in realtà voleva denunciare anche questa seconda aggressione. I suoi familiari, però, gli avevano consigliato di non farlo, continuando le pressioni degli aguzzini affinché ritirasse la denuncia. E così il 40enne aveva deciso di fuggire.

    La mattina dopo la liberazione si presenta alla polizia e ritira la denuncia. Ma la notte stessa, capendo che la sua permanenza in Pakistan sarebbe stata troppo rischiosa dopo gli avvenimenti, scappa e fa perdere le sue tracce anche ai familiari per tutelarli e “tranquillizzare” la banda che aveva ucciso il fratello su altre sue possibili denunce.

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    Osama Bin Laden, ideatore degli attentati dell’11 settembre 2001

    In Pakistan esistono forze di polizie e di giustizia che operano in zone dove le bande criminali a sfondo politico e religioso continuano ad avere il loro peso nella vita dei cittadini. Non dimentichiamo che Osama Bin Laden è stato catturato e ucciso proprio in Pakistan. Dopo mille traversie il 40enne era riuscito finalmente ad arrivare in Italia. Si sentiva finalmente al sicuro e voleva lasciarsi alle spalle questa brutta storia, convinto di aver messo al sicuro anche la sua famiglia grazie proprio alla fuga improvvisa.

    Nel dubbio, meglio non rischiare

    Non pensava forse di dover combattere altre battaglie, stavolta giudiziarie, per farsi riconoscere come rifugiato. Ma la Cassazione già da tempo sta fissando parametri molto rigidi ad entrambe le parti, richiedenti e tribunali. Ai primi non basta più dichiarare storie incredibili per accedere a questo tipo di benefici. I tribunali e le commissioni regionali, a loro volta, non possono respingere le richieste di asilo politico senza eseguire approfondimenti. E nel dubbio o nell’impossibilità di arrivare a fonti certe sui vari racconti il principio da seguire è sempre in direzione della tutela dei diritti e della salvaguardia della vita e della salute.

    Il ribaltone degli ermellini

    I giudici di primo e secondo grado non avevano creduto fino in fondo al racconto del pakistano e comunque ritenevano cessato il pericolo dopo il ritiro della denuncia. Di ben altro avviso la Suprema corte, che nella sentenza dei giorni scorsi ha accolto il ricorso dell’uomo sottolineando che «la motivazione della sentenza impugnata non può dirsi raggiungere quella soglia del minimo costituzionale sindacabile in sede di legittimità. Si impone quindi la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio del procedimento, per un nuovo esame, alla corte d’appello di Reggio Calabria in diversa composizione». Il 40enne può tirare il meritato sospiro di sollievo e attendere con fiducia lo status di rifugiato che gli spetta dopo la pronuncia chiara e precisa degli ermellini.

    Vincenzo Brunelli

  • Lamezia: Gratteri, Minoli e sceicchi tra discariche e diossina

    Lamezia: Gratteri, Minoli e sceicchi tra discariche e diossina

    Al “sogno” industriale degli anni ’70, prospettato dopo i fatti di Reggio in concomitanza con la Liquichimica di Saline Joniche e il Centro siderurgico di Gioia Tauro, oggi si è sostituita la Hollywood calabrese, gli “studios” della Film Commission guidata da Giovanni Minoli. Ma non solo. Nell’area industriale di Lamezia Terme sulle ceneri di un call center hanno realizzato la mega aula bunker di “Rinascita-Scott”. E sempre lì, grazie a ingenti capitali privati, dovrebbe sorgere, ma per ora è tutto solo sulla carta, un waterfront da 2.300 posti barca e da oltre 500 milioni di euro, da intitolare a uno sceicco della famiglia reale del Bahrain, Mohamed Bin Abdulla Bin Hamad Al-Khalifa.

    Disastri a terra e in mare

    Il vero simbolo di quest’area, però, resta il pontile, lungo 600 metri e in parte crollato in mezzo al mare. Doveva servire da attracco per le navi (mai arrivate) dell’impianto chimico della Società italiana resine, nel 2012 si è sbriciolato facendo finire nelle acque del Tirreno miscele di Pcb (policlorobifenili) e diossine. L’area è tuttora interdetta alla balneazione e rappresenta lo sbocco a mare di questi 1000 ettari di pianura al centro della Calabria. Potevano essere votati all’agricoltura e al turismo sostenibile e, invece, da anni sono famigerati solo per veleni e disastri ambientali che puntualmente emergono dalle inchieste della magistratura.

    Quasi 10mila tonnellate di rifiuti

    Ci lavora, in coordinamento col procuratore Salvatore Curcio, una giovane pm, Marica Brucci, che viene dalla “Terra dei fuochi”. Una battuta sulle sue origini campane ha generato mesi fa un equivoco durante un Forum sui rifiuti: in realtà non ha mai detto che la Calabria e Lamezia sono la «nuova Terra dei fuochi». Ma ha comunque tratteggiato alcune dinamiche inquietanti emerse dalle sue indagini calabresi che le hanno fatto tornare alla mente le cronache della sua regione.

    “Waste Water” è una di queste: secondo il perito Giovanni Balestri – anche lui si è occupato di casi come le ecoballe di Giugliano e la discarica dell’ex Cava Monti di Maddaloni – nell’area industriale lametina, in uno stabilimento finito sotto sequestro, sarebbe avvenuto l’abbandono incontrollato di 9700 tonnellate di rifiuti e da lì sarebbe partito uno sversamento di reflui industriali sui terreni e nei canaloni che sfociano a mare.

    Anni e anni di sequestri

    La Procura lametina, che ha difficoltà anche a trovare in Comune la mappatura del sistema fognario di quell’area, sta passando al setaccio tutte le attività produttive e ne sta venendo fuori, operazione dopo operazione, uno stillicidio di accuse per crimini ambientali a cui la comunità locale è pressoché assuefatta. Giusto per restare agli ultimi mesi, a giugno c’è stato un sequestro da 24 milioni di euro e a maggio un altro da 2. Entrambi riguardano aziende che secondo gli inquirenti sversano e scaricano illecitamente rifiuti industriali.

    Waste-Water-Lamezia
    Una delle immagini diffuse dagli inquirenti in occasione dell’operazione Waste Water

    A Ferragosto sequestro anche per il depuratore a cui si collegano diversi Comuni, compreso quello di Lamezia. Nello stesso stabilimento di “Waste Water”, nel settembre del 2013, si è verificata l’esplosione di un silos costata la vita a tre operai. Ancora prima, a novembre del 2010, sono state sequestrate cinque aziende per una discarica non autorizzata di 15mila mq di fanghi di depurazione e cumuli di lana di vetro.

    Tonnellate di rifiuti tra gli ulivi

    La stessa Brucci ha condotto “Quarta copia”. L’inchiesta ha rivelato un traffico di rifiuti che passava per Campania e Lombardia e aveva il suo terminale proprio tra la città delle terme e Gizzeria. Partita da Lamezia e poi passata per competenza alla Procura distrettuale di Catanzaro, questa indagine ha già portato alla condanna in primo grado (pene da uno a quattro anni) di cinque persone.

    Sono considerate responsabili di un traffico di rifiuti sfociato nell’interramento di tonnellate di materiale inquinante anche in terreni vicini a coltivazioni di ulivo. Uno dei siti lametini utilizzati per questo scopo è stato letteralmente “tombato” di rifiuti ad appena 500 metri da un’altra ex discarica realizzata vicino all’alveo di un fiume e tuttora non bonificata. Su alcune delle persone ritenute al centro del traffico sono emersi collegamenti con potenti clan della Locride.

    Scatole vuote

    La pratica sempre in voga di mettere la polvere sotto il tappeto si intreccia con scatole societarie vuote – ma inserite all’Albo dei gestori ambientali – utilizzate per traffici loschi, misteriosi incendi negli impianti, falle nei controlli, aziende che fatturano milioni di euro con attività di grande impatto e che risparmiano proprio sulla prevenzione ambientale. Anche questo hanno rivelato le indagini partite dai roghi di rifiuti avvenuti nel Nord Italia. È emerso come alcune società regolari venissero utilizzate come schermo per nascondere traffici di rifiuti stoccati abusivamente e abbandonati in capannoni ufficialmente dismessi.

    Il giro bolla

    I metodi più usati sono quelli dei trasbordi da camion a camion e del “giro bolla”, un passaggio fittizio di documenti. Le società in regola acquisiscono formalmente i rifiuti senza però mai scaricarli dai camion. Il contenuto dei cassoni viene poi classificato come «non rifiuto». E con un nuovo documento di trasporto arriva nei luoghi di abbanco abusivo. Sul business incombe l’interesse della ‘ndrangheta e spesso nelle pieghe degli strumenti normativi si inseriscono imprenditori organici ai (o teste di legno dei) clan con ditte che, magari anche spostando la loro sede legale, riescono a ottenere un appalto dopo l’altro.

    Un «collaudato sistema»

    La relazione semestrale della Dia cita “Quarta copia” e parla di un «collaudato sistema che si occupava di riempire di rifiuti provenienti anche dalla Campania in capannoni abbandonati nel Nord Italia, interrandone altri in una cava dismessa nell’area di Lamezia Terme su terreni di proprietà di soggetti risultati contigui alla cosca Iannazzo». La stessa cosca a cui una donna lametina «ricorre per l’apertura di un conto corrente presso un istituto bancario locale».

    conto_corrente

    Capitava, infatti, che ci fossero da superare delle resistenze che il rappresentante di una delle aziende coinvolte aveva trovato in una banca di Lamezia. Ma dopo alcuni contatti telefonici con la figlia di un esponente di rilievo del clan il conto corrente che non si riusciva ad aprire viene subito aperto. La stessa intestataria ne è quasi sorpresa e dice al compagno: «Hanno fatto una forzatura».

    Candido come la candeggina

    Proprio grazie alla connivenza dell’area grigia dei professionisti i trafficanti di rifiuti legati alla ‘ndrangheta entrano nelle aziende del Nord e finiscono per appropriarsene. «L’azienda è nostra – è una frase rivolta a un imprenditore brianzolo e intercettata – metteremo a capo un nome candido come la candeggina». Quando serve vengono evocati «i cristiani di Platì e San Luca», ma poi si è capaci di guardare ben oltre il Pollino.

    «Abbiamo sequestrato – ha spiegato la pm milanese Silvia Bonardi, che ha condotto un’indagine sugli stessi trafficanti denominata “Feudo” – alcuni documenti che attestano come uno degli arrestati per suo conto stesse esportando senza autorizzazioni materiale plastico in Turchia». Un altro dei trafficanti coinvolti, originario della Locride, «detiene quote di un cementificio in Tunisia, ha grossi interessi in Germania e in alcune intercettazioni ammette di avere un canale pressoché illimitato per conferire spazzatura nell’inceneritore di Düsseldorf».

  • Mala Pigna, nella Piana rifiuti speciali con valori di 6000% oltre la norma

    Mala Pigna, nella Piana rifiuti speciali con valori di 6000% oltre la norma

    Grazie alla complicità di diversi professionisti, la ‘ndrangheta avrebbe mantenuto la titolarità di un’azienda confiscata fin dal 2007. Ma, soprattutto, avrebbe nascosto il vasto e nocivo giro di rifiuti ferrosi, che sarebbero andati a inquinare anche i territori della Piana di Gioia Tauro. Sono in tutto 29 le misure cautelari disposte dal Gip di Reggio Calabria nell’ambito dell’inchiesta “Mala pigna”, curata dalla Dda reggina ed eseguita dai Carabinieri Forestali. Diciannove tra arresti e arresti domiciliari e 10 provvedimenti di obbligo di presentazione all’Autorità Giudiziaria.

    I rilievi sui terreni con valori altissimi minerali e idrocarburi

    Il blitz dei Carabinieri Forestali ha portato anche al sequestro di cinque società operanti nel settore dei rifiuti per il valore complessivo di un milione e seicentomila euro. Il provvedimento è stato eseguito nelle province di Reggio Calabria, Catanzaro, Cosenza, Ravenna, Brescia e Monza-Brianza.

    Giancarlo Pittelli di nuovo in carcere

    L’inchiesta è coordinata dal procuratore capo, Giovanni Bombardieri, dall’aggiunto Gaetano Paci, e dai sostituti Gianluca Gelso, Paola D’Ambrosio e Giorgio Panucci. Un’inchiesta che apre scenari inquietanti sullo stato di inquinamento del territorio. Ma che, ancora una volta, scoperchia le numerose complicità di cui possono godere i clan. In primis quella che vedrebbe protagonista Giancarlo Pittelli.

    La conferenza stampa dell’operazione “Mala Pigna”. Terzo da sinistra il procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri

    L’attività dell’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia viene definita dal procuratore Bombardieri “a tutto tondo” al servizio della cosca Piromalli di Gioia Tauro. Pittelli è già coinvolto nell’inchiesta “Rinascita-Scott”, curata dalla Dda di Catanzaro, retta da Nicola Gratteri. Nel maxi-processo alla ‘ndrangheta, gli inquirenti gli contestano di essere un elemento di congiunzione tra l’ala militare dei clan e la massoneria deviata. In particolare, la potente cosca Mancuso. Da sempre, in contatto anche con i Piromalli.

    Dopo mesi di detenzione, era da poco ritornato a casa agli arresti domiciliari. Ma è stato nuovamente condotto in carcere. Anche nell’inchiesta “Mala pigna”, il ruolo di Pittelli si staglia come quello di professionista in rapporti di grande affinità con la ‘ndrangheta.

    L’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia, Giancarlo Pittelli

    sarebbe stato al servizio della potente cosca Piromalli di Gioia Tauro, veicolando messaggi dal carcere verso Rocco Delfino, considerato uomo di spicco della cosca e referente di Pino Piromalli, detto “Facciazza”, e del figlio Antonio Piromalli. Delfino, insieme ad altri complici, avrebbe aggirato la normativa antimafia, promuovendo un’associazione volta al traffico illecito di rifiuti mediante la gestione di aziende fittiziamente intestate a soggetti terzi ma riconducibili a se stesso e alla sua famiglia.

    I professionisti al servizio del clan

    Secondo le indagini, la ‘ndrangheta si sarebbe schermata dietro società apparentemente “pulite”. Con un amministratore legale privo di pregiudizi penali e di polizia, che aveva tutte le carte in regola per poter ottenere le autorizzazioni necessarie alla gestione di un settore strategico, qual è quello dei rifiuti speciali. Così si potevano intrattenere rapporti contrattuali con le maggiori aziende siderurgiche italiane. Contrattare l’importazione e l’esportazione di rifiuti da e per Stati esteri. Nonché aspirare all’iscrizione in white list negli elenchi istituiti presso la Prefettura.

    Addirittura, Rocco Delfino continuava a gestire la “Delfino s.r.l.”, che gli era stata confiscata fin dal lontano 2007. Questa ditta era diventata un’azienda di schermatura per le attività illecite dei fratelli Delfino. Fondamentale il ruolo di professionisti compiacenti e asserviti. In particolare, un ruolo fondamentale è rivestito dagli amministratori designati dall’Agenzia Nazionale dei beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata. Nonché di professionisti, come avvocati, consulenti, commercialisti ed ingegneri ambientali. Costoro prestavano per la stessa l’azienda opera di intelletto, con metodo fraudolento e sotto la direzione dei Delfino.

    Dalle intercettazioni raccolte emergerebbero le gravi condotte messe in atto dai professionisti a cui gli inquirenti contestano il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Nell’elenco figurano amministratori giudiziari (e poi esponenti dell’Agenzia Nazionale per i Beni Confiscati) come Giuseppe Antonio Nucara e Alessio Alberto Gangemi. E poi, la commercialista Deborah Cannizzaro. Ma anche l’ingegner Giuseppe Tomaselli, che avrebbe avuto un ruolo per quanto concerne gli interramenti e l’inquinamento ambientale.

    Valori oltre il 6.000% rispetto alla norma consentita

    È inquietante ciò che avrebbero scoperto i consulenti nominati dalla Procura. Nella zona limitrofa all’azienda di Delfino (e, fittiziamente, dei Piromalli) i dati inquinanti raggiungerebbero picchi altissimi. Tassi che la ‘ndrangheta sarebbe riuscita a occultare proprio attraverso perizie di comodo, volte a celare ciò che invece era avvenuto.

    Secondo l’inchiesta, infatti, autocarri aziendali partivano dalla sede della società con il cassone carico di rifiuti speciali, spesso riconducibili a “Car Fluff” (rifiuto di scarto proveniente dal processo di demolizione delle autovetture) e giungevano in terreni agricoli posti a pochi metri di distanza, interrando copiosi quantitativi di rifiuti, anche a profondità significative. Gli accertamenti eseguiti avrebbero quindi dimostrato l’interramento di altri materiali, quali fanghi provenienti presumibilmente dall’industria meccanica pesante e siderurgica. Tali terreni agricoli, a seguito degli interramenti ed a cagione di essi, risultavano gravemente contaminati da sostanze altamente nocive.

    In particolare, le analisi disposte dalla Dda di Reggio Calabria avrebbero dimostrato come lo zinco fosse presente con valori sette volte superiori a quanto previsto dalla legge. Una presenza crescente per il rame, segnalato con un tasso di dodici volte superiore al consentito. Il piombo saliva fino a cinquantasette volte rispetto alla norma. E, ancora, gli idrocarburi raggiungevano picchi del +4.200% rispetto alle soglie. In alcuni casi i valori sono arrivati al 6.000% sopra la soglia di guardia. Per l’accusa, esiste il concreto ed attuale pericolo che le sostanze inquinanti possano infiltrarsi ancor più nel sottosuolo determinando la contaminazione anche della falda acquifera sottostante.

    «Faccendiere di riferimento della ‘ndrangheta»

    Il capo d’imputazione a suo carico dipinge Giancarlo Pittelli come un soggetto totalmente a disposizione della cosca Piromalli. L’ex senatore di Forza Italia avrebbe veicolato informazioni dall’interno all’esterno del carcere tra i capi della cosca Piromalli detenuti al 41 bis. “Facciazza” e suo figlio Antonio Piromalli avevano necessità di comunicare con il loro avamposto, Rocco Delfino, e avrebbero usato proprio Pittelli per farlo.

    «Uomo politico, professionista, faccendiere di riferimento, avendo instaurato con la ‘ndrangheta uno stabile rapporto sinallagmatico» è scritto nelle carte d’indagine. Pittelli si sarebbe attivato in favore di Delfino per la revisione del procedimento di prevenzione nei confronti della società in confisca Delfino s.r.l., pendente dinanzi al Tribunale di Catanzaro Sezione Misure di Prevenzione, con l’intento di “influire” sulle determinazioni del Presidente del Collegio al fine di ottenere la revoca del sequestro di prevenzione. Ad accusarlo è Marco Petrini, il giudice arrestato per corruzione in atti giudiziari che ha iniziato a “vuotare il sacco” rispetto al sistema di mazzette in cui si sarebbe mosso. Mettendo in mezzo anche Pittelli.

    Ma dalle intercettazioni emerge anche la volontà di Delfino di raggiungere l’ex ministro degli Esteri, Franco Frattini. Delfino avrebbe interpellato Pittelli per un procedimento amministrativo davanti al Consiglio di Stato.  Frattini, comunque, è totalmente estraneo alla vicenda. «Nell’occasione – è scritto nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip – Delfino chiedeva a Pittelli se ci fosse una qualche possibilità di influire sulle determinazioni del giudice Frattini, al fine di assicurarsi il buon esito di un ricorso. Pittelli – scrivono sempre i magistrati – dopo aver rivolto nei suoi confronti frasi dal contenuto offensivo, rispondeva negativamente in quanto il dottore Frattini, inconsapevole della vicenda di cui parlavano gli interlocutori, non si sarebbe prestato a favore del Delfino».

  • Navi dei veleni, la rotta della morte tra Somalia e Calabria

    Navi dei veleni, la rotta della morte tra Somalia e Calabria

    Territori da sempre in guerra e per questo incontrollati. L’Iraq e la Somalia da un canto. La Calabria, dall’altro. Guerre diverse, evidentemente. Ma lo stesso destino di vaste aree dove poter mettere in atto alcuni traffici illeciti. Sicuri che, soprattutto in quegli anni ’80-’90, tutto sarebbe rimasto sotto traccia. Avvolto nell’ombra e nel silenzio.

    Ilaria Alpi e Natale De Grazia: destini incrociati

    Iraq e Somalia sono anche i Paesi che incrociano il proprio destino con le indagini portate avanti sul traffico di scorie radioattive dai magistrati di Matera e Reggio Calabria. E incrociano i loro destini (e le loro tragiche fini) anche Ilaria Alpi e Natale De Grazia. Due persone che – in luoghi diversi e con modalità diverse – probabilmente seguivano le stesse tracce.

    Documento desecretato in merito a Ilaria Alpi e Milan Hrovatin

    Muoiono a distanza di un anno e mezzo. Ilaria Alpi, giornalista del TG3, uccisa il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio, in Somalia. Con lei, trucidato anche l’operatore, Milan Hrovatin. Natale De Grazia muore in circostanze sospette il 13 dicembre del 1995, a Nocera Inferiore. Entrambi indagavano sulle cosiddette “navi dei veleni”. Carrette del mare. Imbottite di rifiuti tossici. Di scorie radioattive e nucleari.

    Navi che a volte giungevano fino all’Africa. Per scaricare in quei luoghi abbandonati il proprio carico di morte. Altre volte, invece, venivano fatte colare a picco al largo delle coste calabresi.    

    Il capitano Natale De Grazia
    L’ingegner Giorgio Comerio

    Un nome ricorrente è quello di Giorgio Comerio. Nel corso di una perquisizione nella sua abitazione a Garlasco, infatti, il pool di investigatori comandato dal capitano Natale De Grazia troverà un fascicolo con la scritta “Somalia”. In quella cartella, secondo quanto riferito, si sarebbe trovato del materiale riguardante la morte di Ilaria Alpi. Un certificato di morte o un lancio di agenzie. Le testimonianze sono discordanti. E il dubbio resta.

    La Somalia, quindi, entra a pieno titolo tra le rotte “calde” per il traffico di scorie radioattive. Le regioni del Nord Africa, infatti, sembrano essere la sede privilegiata di destinazione dei rifiuti altamente tossici. Il tema, dunque, è quello delle “navi a perdere”, in cui un ruolo fondamentale sarebbe stato giocato dall’ingegner Giorgio Comerio. Con la sua ODM, avrebbe progettato (e secondo qualcuno realizzato) un sistema di smaltimento di scorie radioattive nei fondali soffici e profondi.

    Documento desecretato in merito alla Oceanic Disposal Management

    Ingegnere con sede operativa a Garlasco, nel 1993 fonda la Oceanic Disposal Management (ODM), una società registrata alle Isole Vergini Britanniche. La ODM, con sede a Lugano, ma con diramazioni a Mosca e in Africa, si occupa di qualcosa di molto particolare. Dello smaltimento delle scorie nucleari. Con la ODM Comerio ha un progetto: inabissare le scorie radioattive in acque dai fondali profondi e soffici, inserendole all’interno di grossi e pesanti penetratori. Questi, arrivando a pesare fino a duecento chili, una volta sganciati in mare, acquisterebbero una velocità tale da permettere la penetrazione nei fondali. Una proposta respinta da tutti gli Stati a cui l’ingegnere si rivolgerà. Almeno ufficialmente.

    Le indagini su Comerio e la sua ODM

    Ma secondo qualcuno Comerio avrebbe potuto mettere in piedi il proprio progetto in maniera autonoma. Secondo Legambiente, infatti, «Comerio e i suoi soci avrebbero gestito, dietro il paravento dei “penetratori”, un traffico internazionale di rifiuti radioattivi caricati su diverse “carrette” dei mari fatte poi affondare, dolosamente, nel Mediterraneo».

    Documento desecretato dove compare il nome di Giorgio Comerio

    La vita di Giorgio Comerio è piuttosto avventurosa. Negli anni ’80 partecipa alla battaglia delle isole Falkland tra Inghilterra e Argentina. Iscritto alla Loggia di Montecarlo, sarebbe un elemento legato ai servizi segreti. Anche se lui smentirà sempre fermamente. Maria Luigia Giuseppina Nitti è la compagna dell’ingegnere dal 1986 al 1992. Nel 1995 ai carabinieri che indagano sui presunti traffici di rifiuti radioattivi dichiara: «Verso la fine del nostro rapporto mi esternò di appartenere ai servizi segreti. A seguito di attentati terroristici avvenuti in quel periodo in Italia, nella primavera del 1993, si assentò dicendo che era stato convocato per collaborare alle indagini». Ma anche in questo caso, per Comerio queste sarebbero tutte stupidaggini.

    Altro documento desecretato dove compare il nome di Giorgio Comerio

    Di Comerio parla anche quel Carlo Giglio, la fonte “Bill”, che ha raccontato alcuni dettagli, mai verificati giudiziariamente, su quegli anni. Giglio racconta di presunti rapporti con gli stabilimenti Enea di Rotondella (Matera) e Saluggia (Vercelli), che per anni saranno sospettati per un eventuale coinvolgimento nei traffici di scorie: “Non vi è dubbio che il Comerio ha avuto rapporti diretti con l’Enea se intendeva smaltire rifiuti radioattivi in mare (…) Addirittura nella strategia dell’ente si sta cercando di eliminare ogni prova o traccia di rapporti tra il Comerio ed altri dirigenti dell’ente. Il Comerio infatti ha offerto all’ente i suoi servigi circa lo smaltimento in mare dei rifiuti radioattivi”.

    Il pool di investigatori di Natale De Grazia perquisisce l’abitazione di Comerio, a Garlasco. E ritrova un serie molto lunga di dati: «Agende, video-tape, dischetti magnetici, fascicoli relativi alla commercializzazione del progetto Euratom (DODOS) trafugato a detto ente (centro Euratom di Ispra) clandestinamente dal Comerio stesso (…) Veniva sequestrata anche numerosa corrispondenza (e fotografie) di incontri con rappresentanti governativi della Sierra Leone per ottenere l’autorizzazione a smaltire in mare rifiuti radioattivi». È in quell’occasione che sarebbe stata anche recuperata la documentazione riferibile alla morte di Ilaria Alpi.

    La rotta somala

    Ed è qui che si incrociano le indagini di Ilaria Alpi e Natale De Grazia. Un personaggio chiave sarebbe Giancarlo Marocchino. È lui uno dei primi a intervenire sul luogo del delitto di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. È uno degli ultimi a vedere il materiale di lavoro che Ilaria Alpi portava con sé. Che poi scomparirà nel nulla.

    Ilaria Alpi e Milan Hrovatin

    Marocchino, secondo alcune risultanze, avrebbe gestito un traffico di rifiuti in Somalia. Uomo molto influente in Somalia, attivo in una serie di affari e attività a Mogadiscio. Acquisendo un grande potere economico e militare: «Chiunque voglia andare in Somalia e rimanere vivo, segnatamente a Mogadiscio, deve farsi proteggere da lui» dirà in un’audizione uno dei magistrati che indagherà sull’imprenditore.

    Ancora dall’audizione: «Marocchino, da decenni operante con buon successo a quanto pare in Somalia, una realtà difficile nella quale credo che si debba essere bravi a operare, ma anche ad avere qualche forma di copertura istituzionale, sopravviveva benissimo. (…) Questo signore, in quel periodo e a mano a mano nel corso di quell’anno o due che seguimmo l’indagine, portava avanti la costruzione di un suo porto nella zona di El Man che avveniva sotto gli occhi di tutti in una zona che aveva poche insenature naturali. Una costa abbastanza piatta, formata a un certo punto da un serie di moli. I container erano posizionati tatticamente in modo perpendicolare alla linea litoranea di spiaggia. Riempiti, si dice, con inerti e protetti dall’erosione e dalla furia del mare, da montagne di macigni posti intorno».

    All’ombra del Partito Socialista

    Affari che si sarebbero mossi all’ombra del Partito Socialista dell’epoca. Come racconta la Commissione parlamentare sul duplice delitto Alpi-Hrovatin. Quel Giampiero Sebri, per anni uomo di grande rilievo e vicino a Bettino Craxi. Sebri definisce così Marocchino: «Era un nostro uomo, uomo di fiducia si intende, chiaramente, per quanto riguarda i traffici di rifiuti tossici-nocivi e anche traffici d’armi».

    Marocchino ha sempre definito calunnie tali affermazioni. E non ha mai subito procedimenti giudiziari concernenti tali accuse. Dichiarazioni, quelle di Sebri, messe nero su bianco in atti parlamentari ufficiali. Ma che non troveranno sbocco giudiziario. Ed è una costante di queste storie.  Un altro personaggio particolare è, in tal senso, quel Guido Garelli, pugliese, ma ammanicato con mezzo mondo. Al pubblico ministero Francesco Basentini, un giorno Garelli dirà di essere stato ammiraglio di un non meglio precisato esercito dell’Autorità Territoriale del Sahara Occidentale. E dignitario di un servizio d’intelligence che avrebbe operato nell’interesse del Regno Unito. Con base a Gibilterra. Garelli è in possesso di tripla cittadinanza: jugoslava, italiana e del Sahara Occidentale. È testimoniato in atti giudiziari come entrasse a Camp Darby senza bisogno di particolari permessi. Camp Darby è una base militare statunitense in Italia, nel territorio comunale di Pisa. Sarebbe considerata dalla US Army il distaccamento militare più importante d’Europa. Il più grande arsenale Usa all’estero.

    Un uomo in contatto con i servizi segreti italiani, con quelli statunitensi e con quelli africani. Dopo la morte di Ilaria Alpi, Guido Garelli finisce anche in carcere a Ivrea per ricettazione. Nel periodo in cui è detenuto, rilascia alcune dichiarazioni piuttosto interessanti: «Ilaria Alpi ha toccato il segreto più gelosamente custodito in Somalia, lo scarico di rifiuti pagato con soldi e armi da non meno di vent’anni. La regia di tutto questo è appannaggio dei servizi d’informazione coinvolti in quello che è sicuramente il business più redditizio del momento. Non mi riferisco solo al Sismi e al Sisde. Vi sono anche gli organismi omologhi dei Paesi che hanno “usato” vari Stati dell’Africa per smaltire porcherie».

    Le dichiarazioni di Francesco Fonti

    Di Marocchino parlerà anche il collaboratore di giustizia. Francesco Fonti. Oggi deceduto. Fonti dichiara di averlo conosciuto a Milano nel 1992. Il collaboratore, infatti, ricorda l’interesse della ‘ndrangheta nel traffico di rifiuti radioattivi. Tutto avrebbe inizio nel 1982 su iniziativa di Giuseppe Nirta che, all’epoca, era il boss del territorio di San Luca. Nirta ne avrebbe dunque parlato con Fonti facendo i nomi di alcuni importanti uomini politici dell’epoca che gli avrebbero proposto di stoccare bidoni di rifiuti tossici. E di occultarli in zone della Calabria da individuare.

    A quel punto, sempre secondo il collaboratore, vi sarebbero stati diversi summit in cui avrebbe partecipato il gotha della ‘ndrangheta. Dagli Iamonte di Melito Porto Salvo ai Morabito di Africo. In seguito a questi incontri, tra i luoghi scelti per gli interramenti, verrebbe esclusa la Calabria. Nella primavera del 1983 Fonti sarebbe stato poi mandato a Roma da Sebastiano Romeo, nel frattempo succeduto a Nirta, per incontrare Giorgio De Stefano. Si tratterebbe dell’avvocato Giorgio De Stefano, considerato un’eminenza grigia della ‘ndrangheta. Ritenuto elemento di collegamento tra l’ala militare delle ‘ndrine e i mondi occulti. Servizi Segreti e massoneria.  

    Secondo il collaboratore, De Stefano disse che il posto ideale per interrare i rifiuti tossici all’estero era la Somalia. E gli avrebbe organizzato un incontro con Pietro Bearzi, allora segretario generale alla Camera di commercio per la Somalia. Questi avrebbe garantito il suo aiuto. Anche Craxi – a detta del pentito – sarebbe stato al corrente della cosa. Ma non avrebbe seguito il tutto personalmente. Lasciando che se ne occupassero i servizi segreti. Alla domanda del pubblico ministero sul perché non avesse parlato prima di queste vicende, la risposta di Fonti è stata che non se ne era ricordato essendo tantissime le vicende da lui vissute.

    Anche per questo, probabilmente, Fonti sarà infine dichiarato del tutto inattendibile.