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  • Cemento à gogo, la Corte costituzionale boccia il Piano Casa della Regione

    Cemento à gogo, la Corte costituzionale boccia il Piano Casa della Regione

    Tutelare il paesaggio e l’ambiente non pare interessare granché alla Regione, meglio il cemento. La prova? L’ultimo Piano Casa approntato dalla Cittadella, impugnato dal Governo e bocciato dalla Corte costituzionale poche settimane fa. Le ragioni dello stop sono appena uscite sul Burc. E dimostrano ancora una volta l’impegno dei nostri legislatori a tenere alto il nomignolo della Calabria. Che, già sommersa dall’edificazione selvaggia, rischiava di essere seppellita sotto un ulteriore strato di cemento grazie all’introduzione di norme edilizie all’insegna del “liberi tutti”.

    Dialogo interrotto

    La legge regionale oggetto del contendere era la numero 10 del luglio 2020, ma la questione affonda le sue radici nel tempo. La Calabria, infatti, non è in grado da anni di dotarsi di un Piano paesaggistico regionale, come previsto invece dal Codice dei Beni culturali e, appunto, del Paesaggio. L’unico passo in avanti in tal senso risale al 2016. All’epoca il Consiglio approvò il Quadro territoriale regionale a valenza paesaggistica (QTRVP) a seguito di un’interlocuzione col Mibact avviata quattro anni prima.
    Il dialogo col ministero, obbligatorio in base agli accordi tra le parti, si è interrotto però. E, quattro anni dopo, la neoeletta maggioranza di centrodestra ha deciso di mettere mano alla materia in autonomia infichiandosene dei patti con Roma. E del fatto che l’ultima parola su paesaggio e ambiente spetti al Governo e non agli enti locali.

    Nuove deroghe ai vecchi vincoli

    Cosa hanno deciso, invece, in Calabria? Di legiferare in (ulteriore) deroga agli strumenti urbanistici vigenti, modificando (al rialzo) i limiti relativi agli ampliamenti volumetrici e quelli legati alle variazioni di destinazione d’uso e del numero di unità immobiliari. E gli impegni circa una pianificazione condivisa, il corretto inserimento degli interventi edilizi nel contesto paesaggistico, la tutela del paesaggio prevista anche dalla Costituzione, la necessità di una programmazione unitaria sul territorio nazionale? Chissenefrega.

    La Cittadella aveva dato il via libera ad ampliamenti volumetrici fino al 30% per gli immobili esistenti, introdotto deroghe all’altezza massima dei nuovi edifici, la possibilità di riposizionare diversamente quelli demoliti e da ricostruire. Tutto al di fuori di ogni criterio di pianificazione paesaggistica «da concordare necessariamente e inderogabilmente con lo Stato».

    Via al cemento, il paesaggio non conta

    Così quest’ultimo ha impugnato la norma, ritenendo «palese l’intento del legislatore regionale di stabilizzare nel lungo periodo la previsione di interventi edilizi in deroga agli strumenti urbanistici, che erano, invece, stati introdotti come straordinari». La conseguenza? «Accrescerne enormemente il numero e renderne “costante l’estraneità […] rispetto all’alveo naturale costituito dal piano paesaggistico”».

    Come si è difesa la Regione? Sostenendo che il ricorso del Governo peccasse di eccessiva genericità e indeterminatezza. E affermando che la concertazione con i ministeri competenti fosse obbligatoria soltanto in caso di beni e aree tutelate. I giudici, però, hanno smontato punto per punto questa linea. E sottolineato al contrario che, avendo siglato la Cittadella un protocollo nell’ormai lontano 2009 che stabiliva l’obbligo di dialogare con lo Stato in tema di paesaggio per arrivare alla stesura del Piano regionale, cambiare le carte in tavola come se gli accordi non esistessero è illegittimo.

    A quando il Piano?

    Pacta sunt servanda, i patti si rispettano: la massima latina vale ancora oggi. E il Consiglio regionale della Calabria non poteva non tenerne conto, svalutando peraltro principi costituzionalmente garantiti, per autorizzare colate di cemento extra. Le modifiche introdotte, infatti, avrebbero finito per «danneggiare il territorio in tutte le sue connesse componenti e, primariamente, nel suo aspetto paesaggistico e ambientale». Una lesione, a detta dei magistrati, ancora più fuori luogo alla luce della «circostanza che, in questo lungo lasso di tempo non si è ancora proceduto all’approvazione del piano paesaggistico regionale». Tutto sbagliato, tutto da rifare.

  • Palazzo di giustizia, la figuraccia dello Stato a Reggio

    Palazzo di giustizia, la figuraccia dello Stato a Reggio

    11 marzo 2011. Giuseppe Scopelliti è presidente della Giunta Regionale da poco più di un anno. E dichiara: «Confermo anche l’impegno assunto durante la mia sindacatura. Il nuovo Palazzo di Giustizia di Reggio Calabria porterà il nome di Antonino Scopelliti». Sono passati oltre dieci anni da quell’annuncio. E l’inaugurazione del palazzo di giustizia di Reggio Calabria resta una chimera.

    L’appalto e l’incompiuta

    Il palazzo di giustizia è l’incompiuta per eccellenza a Reggio Calabria. L’opera più importante, per mole, per investimenti, ferma da anni. A circa il 75% dello stato di avanzamento. E che rischia di essere inaugurato (quando accadrà) già vecchio.
    Il progetto del nuovo Tribunale era stato approvato nel maggio 2004 per un importo di quasi 88 milioni di euro. Lavori affidati alla Bentini Spa di Faenza, che aveva vinto l’appalto del Comune fissando l’offerta a un ribasso di quasi il 20% rispetto ai concorrenti.
    Un appalto da poco più di 50 milioni di euro che, in oltre 17 anni di lavori, ha già visto quasi raddoppiare i costi, a causa di varianti e ritardi.

    La denuncia del presidente del Tribunale

    Reggio si è ormai abituata a convivere con quella struttura mastodontica mai inaugurata. Dà il benvenuto a chi arriva dallo svincolo autostradale principale: quello che porta al centro cittadino. Negli ultimi giorni è stata la presidente del Tribunale, Mariagrazia Arena, a fare una grave denuncia pubblica sullo stato di abbandono della struttura: «L’incuria del nuovo palazzo di Giustizia di Reggio Calabria è causata o dall’incapacità di risolvere i problemi o, cosa più grave, dalla mancanza di vero interesse a risolvere i problemi».

    Mariagrazia Arena, presidente del Tribunale di Reggio Calabria
    Mariagrazia Arena, presidente del Tribunale di Reggio Calabria

    I lavori, infatti, sono fermi da tempo. Si è lavorato fino all’inizio del 2013. Quelli sono gli anni del commissariamento del Comune per contiguità con la ‘ndrangheta, avvenuto nell’ottobre 2012. I commissari chiamati a riportare decoro e legalità nell’amministrazione reggina restano inermi. Lavori bloccati a causa di un contenzioso da 38 milioni di euro tra il Comune e la Bentini. Con gli operai in cassa integrazione. E poi, inevitabilmente e inesorabilmente, licenziati. Ci pensa la prima Amministrazione di Giuseppe Falcomatà ad avviare il concordato fallimentare. Ma lo stato dei lavori non cambia.

    L’ombra della ‘ndrangheta

    In mezzo, come spesso accade, le infiltrazioni della ‘ndrangheta. Anzi, le presunte infiltrazioni della ‘ndrangheta. Perché l’inchiesta “Cosmos”, curata dalla Dda di Reggio Calabria sosteneva di aver scoperto l’opera di vessazione del potente clan Libri sulla ditta Bentini. Secondo le indagini, la cosca si era accaparrata il servizio mensa e tavola calda per i dipendenti del Cedir e gli operai della Bentini. Ma già in primo grado il boss Pasquale Libri sarà assolto dall’accusa.

    Dovrà invece aspettare l’Appello, Edoardo Mangiola considerato il collettore di una raffinata forma di estorsione perpetrata in danno della “Bentini Spa”. Piuttosto che ricorrere al classico metodo della “mazzetta”, i Libri avrebbero realizzato l’attività di infiltrazione attraverso la stipula di contratti di fornitura di servizi. Con cui avrebbero imposto le proprie prestazioni in regime di assoluto monopolio. Nonché attraverso la somministrazione controllata di forza lavoro con l’imposizione di operai.

    La carenza di aule

    E così gli uffici giudiziari di Reggio Calabria si trovano nel paradosso di essere dislocati in almeno tre sedi. C’è il Centro Direzionale, dove si trova la sede della Procura della Repubblica e dei tribunali, penali e civili. Poi le strutture di Piazza Castello, con la Procura Generale e il vecchio palazzo dove si trovano le aule d’udienza. Infine l’aula bunker.

    Il Tribunale, che tratta tutti i processi di criminalità organizzata del Distretto, è ospite in un immobile comunale dove quotidianamente si devono fare i salti mortali per celebrare le udienze perché le aule sono insufficienti. E in condizioni spesso non decorose: troppo fredde d’inverno, veri e propri forni da maggio in avanti.

    Gli uffici della Procura della Repubblica non fanno eccezione. Chiunque li abbia visitati, non può non aver notato la caratteristica, più unica che rara, di dover attraversare i bagni per potersi spostare tra i vari corridoi. Con le stanze dei magistrati chiuse da porte leggerissime, attraverso le quali un orecchio attento può anche carpire alcuni dei delicati e riservati discorsi fatti all’interno.

    Il fallimento dello Stato

    La gravità della situazione, quindi, torna alla ribalta con la denuncia del presidente Mariagrazia Arena. Le parole del magistrato vanno oltre l’aspetto logistico della situazione: «A Reggio Calabria, dove è presente una criminalità organizzata che manifesta plasticamente il proprio potere economico e il controllo del territorio, – ha sottolineato Arena – il cittadino che vede questo palazzo perché dovrebbe riporre fiducia e affidamento nella giustizia? E se non ripone fiducia nella giustizia, perché mai dovrebbe rispettare le leggi dello Stato?».

    Anche e soprattutto perché quella struttura dovrebbe essere il simbolo della giustizia, della lotta alla criminalità organizzata, in un territorio vessato dalla ‘ndrangheta. Ma anche perché, quell’immobile dev’essere intitolato e dedicato al giudice Antonino Scopelliti, magistrato sulla cui uccisione non è mai stata fatta piena luce.

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    Il giudice Antonino Scopelliti, ucciso il 9 agosto del 1991

    Secondo Arena, quello del nuovo palazzo di Giustizia «è un problema intanto di immagine, di quello che lo Stato vuole davvero a Reggio Calabria, in un posto di frontiera». Se non si trova una soluzione, secondo la presidente Arena, il palazzo di Giustizia diventerà «il simbolo del fallimento dello Stato. Il Palazzo di Giustizia di Reggio è la scommessa che lo Stato deve giocarsi su Reggio Calabria. Se è capace di giocarsi questa scommessa, bene, sennò vorrà dire che lo Stato si è arreso».

    La toppa del Comune

    Dopo la denuncia della presidente Arena, l’amministrazione comunale di Reggio Calabria, che continua a patire le grane politiche dopo la condanna e la sospensione di Falcomatà, ha tentato di correre ai ripari. A intervenire, il consigliere comunale Carmelo Romeo, delegato municipale che in questi mesi si è occupato della vicenda del Palazzo di Giustizia dopo l’ennesimo stop dovuto alla rescissione forzata con l’impresa aggiudicataria dell’appalto.

    «Nella mattinata di oggi abbiamo ricevuto comunicazione dalla direzione generale del Ministero della Giustizia. Finalmente siamo pronti ad attivare il protocollo d’intesa con il Ministero per il completamento del Palazzo di Giustizia. Da lunedì saremo concretamente al lavoro per individuare la soluzione più adeguata a riattivare l’iter per l’ultimazione definitiva di un’opera che attende da lungo tempo di entrare in funzione», ha detto poche ore dopo il grido della presidente Arena.
    Che tempismo.

  • Piccoli don crescono: quei gran figli di ‘ndrangheta

    Piccoli don crescono: quei gran figli di ‘ndrangheta

    Qualcuno è convinto che la via maestra sia allontanarli dalla famiglia d’origine. Quei nuclei dove si cresce a pane e ‘ndrangheta. Qualcun altro considera questa pratica – peraltro ormai consolidata da alcuni percorsi istituzionali – una barbarie. Altri ancora, studiando il fenomeno ‘ndranghetistico, hanno parlato di “familismo amorale”, mutuando il concetto sociologico introdotto da Edward C. Banfield.

    Il tentativo di togliere acqua fresca e corrente al mulino della ‘ndrangheta tramite le nuove leve dei clan, è, fin qui, riuscito a fasi alterne. Le cosche possono contare su un esercito di giovani pronti a rischiare vita e carcere. Guidati da altri giovani, spesso figli e/o discendenti diretti dei vecchi capibastone. Nel frattempo deceduti o costretti al carcere da lunghe pene detentive.

    Giovane, ma già narcotrafficante

    L’ultimo caso noto è quello emerso nell’ambito della maxi-inchiesta della Dda di Reggio Calabria, “Nuova Narcos Europa”. Un blitz congiunto con le Dda di Milano e Firenze, volto a contrastare l’enorme business della droga gestito dalla potente cosca Molè. Un casato storico che, da sempre, si divide Gioia Tauro con l’altra celebre famiglia dei Piromalli. Proprio i dissidi con i Piromalli avrebbero causato, negli anni, un momento di difficoltà, di declino, da parte dei Molè. Dissidi e frizioni culminate con l’eliminazione, l’1 febbraio del 2008, del boss Rocco Molè. Ma la cosca, secondo gli inquirenti, sarebbe stata tutt’altro che in declino. Proprio le nuove leve avrebbero contribuito a far rialzare la testa al casato di ‘ndrangheta.

    Rocco Molè
    Il giovane Rocco Molè – I Calabresi

    Lo dice anche in un’intercettazione il giovane Rocco Molè, nipote omonimo del capo ‘ndrangheta assassinato. Appena 26 anni, ma sarebbe stato lui, insieme all’anziano nonno Antonio Albanese, il leader del sodalizio criminale. Il giovane Molè, intercettato, fa proprio riferimento ai fasti di un tempo. E al fatto che, una volta completata la rinascita, tutti sarebbero dovuti tornare a bussare alla loro porta. E che lui, nonostante la giovane età, si sarebbe ricordato di chi, negli anni, è rimasto fedele. Ma, soprattutto, di chi ha voltato le spalle. Così, quindi, i Molè hanno provato a rialzare la testa. Anche grazie ai rapporti con la potente famiglia Pesce di Rosarno e con i Crea di Rizziconi. Ma anche con la ‘ndrangheta del territorio vibonese.

    Il progetto “Liberi di scegliere”

    Il giovane Rocco Molè è stato per 3 anni, quando ancora era minorenne, a Torino in una struttura di recupero gestita da Libera nell’ambito del progetto “Liberi di scegliere” promosso dal Tribunale dei Minori di Reggio Calabria per il reinserimento nella società dei figli dei boss mafiosi. Si tratta di un percorso elaborato ormai diversi anni fa dall’allora presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, Roberto Di Bella. Protocollo di intesa tra vari Enti, anche governativi, Libera e la Chiesa, che si propone di aiutare e accogliere donne e minori che vogliono uscire dal circuito mafioso e promuovere una rete di protezione e di sostegno per tutelare e assicurare una concreta alternativa di vita ai minori e alle loro madri, provenienti da famiglie mafiose.

    Una pratica ormai consolidata, che, in diversi casi, ha dato frutti importanti. Sono più di 100 i minori coinvolti e circa 25 le donne andate via con i propri figli. Alla ricerca di un futuro diverso. Sebbene non siano mancate le polemiche circa la logica – secondo alcuni “militare” – di sottrarre i giovani alle famiglie di origine. Sottovalutando, sempre a detta dei detrattori, l’aspetto pedagogico, culturale e formativo che deve necessariamente avere la lotta alla ‘ndrangheta. Il giovane Molè – Roccuccio per tutti – era rientrato in questo programma proprio alla morte dello zio omonimo Rocco, assassinato nel 2008 nell’ambito di un conflitto interno con gli alleati storici Piromalli. Un recupero fallito, evidentemente.

    Malefix

    Scardinare i modelli ‘ndranghetistici non è affatto semplice. Soprattutto in famiglie che hanno fatto la storia della ‘ndrangheta. I Molè e i Piromalli sono tra questi. Ma la cosca che più di tutte ha contribuito a modernizzare la criminalità organizzata calabrese è, probabilmente, quella dei De Stefano. Con i suoi rapporti privilegiati con massoneria e servizi segreti. Con il potere, in generale. Ascesa e caduta di “Malefix” sono emblema di quel familismo amorale della ‘ndrangheta. Giorgio Condello Sibio, conosciuto a Reggio Calabria come “Giorgetto” o “Giorgino” ha capito ben presto che il cognome De Stefano, forse, può essere un biglietto da visita, un brand, più interessante. Anche e soprattutto a Milano, dove si era trasferito. Dove faceva la bella vita.

    Giorgio Condello Sibio
    Giorgio Condello Sibio con l’ex fidanzata Silvia Provvedi – I Calabresi

    Soggetto misterioso fin quando non verrà arrestato su mandato della Dda di Reggio Calabria. Balzato alle cronache dei giornali scandalistici per la sua relazione con la showgirl Silvia Provvedi, ex del paparazzo pregiudicato Fabrizio Corona ed ex partecipante del Grande Fratello Vip. I giornali di gossip lo definivano “imprenditore di origini calabresi, membro di una famiglia molto importante”. La “famiglia importante” era quella dei De Stefano. Giorgetto Condello Sibio, infatti, è il figlio naturale di don Paolino De Stefano, assassinato nel 1985 agli albori della seconda guerra di ‘ndrangheta. La madre di Giorgetto, Carmelina Condello Sibio, sarebbe stata l’amante di don Paolino, da cui avrebbe avuto tre figli.

    È quindi fratellastro dei più noti Carmine, Dimitri, ma, soprattutto, di quel Peppe De Stefano considerato al vertice dell’ala militare della ‘ndrangheta. In riva allo Stretto, Giorgetto/Giorgino aveva iniziato a essere troppo esposto. E così, la decisione di delocalizzare. E Milano, da sempre, per i De Stefano è una seconda casa. Basti ricordare i rapporti con il boss Franco Coco Trovato. Ma anche il boss Paolo Martino, cugino dei De Stefano e loro avamposto nel capoluogo lombardo.

    Il peso criminale

    Non solo bella vita, però. Stando alle indagini a suo carico, Giorgio Condello Sibio/De Stefano avrebbe avuto un ruolo molto importante nel dirimere le questioni interne al quartiere Archi, considerato una roccaforte della ‘ndrangheta reggina e non solo. Nelle conversazioni captate, il giovane De Stefano parla già da veterano e sottolinea come le spaccature tra i sodali – che iniziavano ad essere note nel sottobosco criminale reggino – avrebbero indebolito la cosca, facendola apparire più vulnerabile.

    Se Giorgetto/Giorgino ha ben capito, fin da subito, l’importanza del cognome De Stefano, c’è chi con cognomi importanti ci nasce. Proprio come in una monarchia, il peso criminale, nella ‘ndrangheta, ha anche un valore di discendenza diretta. Per questo Roccuccio Molè poteva gestire flussi di cocaina così enormi. Il 25 marzo 2020 – siamo quindi nel pieno del primo lockdown – in una masseria di Gioia Tauro sono stati rinvenuti e sequestrati oltre 500 kg di cocaina, suddivisi in panetti di 1 kg circa, alcuni dei quali marchiati con il logo “Real Madrid”, giunti nei giorni precedenti al porto di Gioia Tauro, occultati all’interno di un container commerciale. Tutta droga che avrebbe una firma chiara. Quella del giovane Rocco Molè.

    C’è chi il cognome se lo sceglie. E chi ci nasce. È il caso anche di Luigi Greco, figlio secondogenito del boss Angelo, soprannominato Lino. Una famiglia egemone a San Mauro Marchesato, nel Crotonese, che da tempo, però ha spostato il suo core business in Lombardia, a Milano. Proprio nel cuore della City Life, tra sfarzo e auto di lusso, gli inquirenti censiscono incontri e cene tra gli uomini di ‘ndrangheta e importanti imprenditori. Evidentemente per parlare di affari. Ma anche di politica.

    vincenzo macrì
    Vincenzo Macrì scortato nel viaggio dal Brasile all’Italia dopo l’estradizione – I Calabresi

    Nel 2017 viene invece arrestato in Brasile Vincenzo Macrì. Considerato elemento di spicco della cosca Commisso di Siderno, dedito al narcotraffico internazionale. Figlio di Antonio Macrì, classe 1904, leader carismatico, soprannominato per la sua caratura criminale “Boss dei due mondi”, particolarmente influente anche oltreoceano (Canada e Stati Uniti), il celebre don ‘Ntoni venne ucciso in un agguato a Siderno nel 1975, nell’ambito della prima guerra di ‘ndrangheta. Quel delitto sul campo di bocce, che era la sua passione, segnò la presa del potere da parte della nuova ‘ndrangheta dei De Stefano.

    ‘Ndrangheta e movida

    Da sempre legata ai De Stefano e originaria di Archi è la cosca Tegano. Cresciuta tra la prima e la seconda guerra di ‘ndrangheta grazie a boss del calibro di Giovanni Tegano, recentemente scomparso. Dopo il suo arresto, in seguito ad anni di latitanza, qualcuno, tra la folta folla fuori dalla questura di Reggio Calabria, gridava «uomo di pace». Proprio per testimoniare le sue capacità di mediatore. Per mantenere equilibri che, da sempre, sono la forza della ‘ndrangheta. Non la pensano così, evidentemente, i rampolli della cosca Tegano. Giovani, ma già con un curriculum criminale importante. Ma, soprattutto, ben visibile. Molesto. A fronte di una ‘ndrangheta che ha sempre amato rimanere sotto traccia. I “Teganini”. Così è soprannominato il gruppo di giovani del clan, che, negli anni, hanno seminato il panico nei locali della movida di Reggio Calabria.

    Mico Tegano
    Mico Tegano – I Calabresi

    Sì perché i giovani di ‘ndrangheta amano la movida. Proprio come Giorgio Condello Sibio/De Stefano. Ma se del figlio naturale di don Paolino, fino a poco tempo fa, non esistevano nemmeno foto sui social, i “Teganini” sono diversi. Soggetti come Mico Tegano, figlio del boss ergastolano Pasquale, o Giovanni Tegano, nipote omonimo del cosiddetto “uomo di pace”, fanno parte della ‘ndrangheta 2.0. Quella che si spalleggia sui social. Ma quella, soprattutto, che fa soldi con i nuovi modi di delinquere. Il gioco d’azzardo online, soprattutto. Come testimoniano le inchieste “Gambling” e “Galassia”. Ma, soprattutto, terrorizzano avventori ed esercenti dei locali più “in” di Reggio Calabria. Chiedendo, anzi, pretendendo, di non pagare. Oppure per una parola di troppo. Talvolta per uno sguardo. Molti di loro sono già dietro le sbarre.

    Chi va avanti e chi si ferma

    Ma è lungo l’elenco di figli che hanno proseguito le orme dei genitori. Da Rocco Morabito, figlio del boss Peppe Morabito, “il tiradritto” di Africo. A Peppe Pelle, figlio di don ‘Ntoni Pelle, che negli anni ha ricoperto anche il ruolo di capo crimine a Polsi. E, ancora, Antonio Piromalli, figlio del boss Pino Piromalli, detto “facciazza”, a sua volte fratello del celebre don Mommo Piromalli.

    Uno dei punti di forza della ‘ndrangheta – che la rende quindi anche più immune al fenomeno del pentitismo – è la sua struttura familiare. Ruoli che vengono acquisiti per discendenza. Casi emblematici sono quelli della cosca Mancuso. Una famiglia d’elite della ‘ndrangheta. Sebbene, negli anni, sia stata pesantemente colpita da indagini giudiziarie, non risulta indebolita. Proprio per la capacità di attingere sempre a nuove leve. Domenico Mancuso, 45 anni, figlio del boss ergastolano Peppe, alias “Mbrogghjia”, è stato recentemente condannato a oltre 20 anni di reclusione nel processo “Dinasty”, una delle indagini caposaldo contro i Mancuso.

    Ma c’è chi, all’interno di quella famiglia, cerca di spezzare la catena. È il caso di Emanuele Mancuso, figlio del carismatico boss Pantaleone, detto “l’ingegnere”. Si tratta del primo caso di pentimento all’interno della storica cosca di Limbadi, al centro di molti traffici criminali anche a livello internazionale. Emanuele Mancuso, tra l’altro, è il nipote di Rosaria Mancuso, accusata di essere stata la mandante dell’omicidio di Matteo Vinci, con una bomba collocata sotto la sua automobile. Una collaborazione storica, nell’ambito della quale, Emanuele Mancuso sta raccontando fatti e dinamiche criminali della sua famiglia, ma non solo.

    E non è l’unico. Anche Francesco Farao, oggi poco più che 40enne, ha deciso di passare dalla parte della giustizia. Figlio del boss ergastolano Giuseppe, racconta degli affari del clan crotonese. Con propaggini anche al Nord.
    Perché, da sempre, nella ‘ndrangheta chi collabora è considerato un infame. L’anello debole. Ma l’anello debole è anche quello più forte. Perché spezza la catena.

  • Falcomatà sospeso, rimpasto lampo per salvare la maggioranza

    Falcomatà sospeso, rimpasto lampo per salvare la maggioranza

    Come un sovrano che prova a salvare il salvabile con il nemico alle porte. A nascondere, magari bruciare, i documenti sconvenienti. Nelle ore antecedenti e successive alla condanna per il “caso Miramare”, Giuseppe Falcomatà ha fatto un po’ così. Il nemico non era alle porte. Ma il tempo stringeva comunque.

    La sospensione

    Alle 20.22 di ieri sera, sostanzialmente cinque ore dopo la sentenza pronunciata dal Tribunale, il prefetto di Reggio Calabria, Massimo Mariani, ha infatti comunicato la sospensione dalla carica del sindaco di Reggio Calabria. Poco dopo le 15, il Collegio presieduto da Fabio Lauria lo aveva condannato a un anno e quattro mesi per abuso d’ufficio. Punito per l’assegnazione diretta, senza un bando di evidenza pubblica, dell’ex albergo Miramare all’imprenditore Paolo Zagarella. Suo amico di vecchia data.

    Un provvedimento automatico, in forza della Legge Severino. Falcomatà, che è pure avvocato, già nel commento a caldo della sentenza lo dava per scontato. «L’Amministrazione andrà avanti», aveva però detto al folto numero di giornalisti presenti presso l’aula bunker di Reggio Calabria.

    La frenesia delle nomine

    Per questo si è adoperato parecchio. Circa un paio d’ore prima rispetto alla sospensione, Falcomatà, che, come è noto, è anche sindaco della Città Metropolitana, ha proceduto, da condannato in primo grado, alla nomina del nuovo vicesindaco metropolitano, Carmelo Versace. A essere colpito dalla sentenza (e, quindi, dalla Legge Severino) è infatti anche il fido avvocato Armando Neri, che, fino alla condanna, ha ricoperto il ruolo di vicesindaco metropolitano.

    Ma le nomine per Falcomatà erano un pensiero già da tempo.  Poco dopo le 14 (quindi sostanzialmente un’ora prima rispetto alla condanna) Falcomatà aveva già nominato il nuovo vicesindaco. Defenestrato in parte il professor Tonino Perna. Chiamato in pompa magna alcuni mesi prima, per dar lustro alla Giunta Comunale. Vicesindaco da esterno. Lui che aveva ricoperto ruoli importanti. Assessore con Renato Accorinti a Messina. Presidente del Parco Nazionale d’Aspromonte. Ma, soprattutto, intellettuale riconosciuto e apprezzato in città.

    Parzialmente defenestrato perché Perna resta in Giunta. Con qualche delega minore. Al suo posto, Paolo Brunetti. Maresciallo della Guardia di Finanza. Una nomina che fa discutere. Perché Brunetti, negli anni, è stato assessore alla Depurazione e, oggi, all’Ambiente e al Ciclo Integrato dei Rifiuti. Che, in una città che patisce una cronica carenza idrica e che, in alcune sue zone, è letteralmente sommersa dall’immondizia, non è di certo un buon biglietto da visita.

    E, sicuramente, non un motivo per una “promozione”.

    Alla ricerca di uno “yes man”

    Ma, soprattutto, Paolo Brunetti non è un esponente del Partito Democratico, il partito di Giuseppe Falcomatà. Brunetti, infatti, da qualche mese ha aderito a Italia Viva. Tra i pochi a scegliere il partito di Matteo Renzi. Che in altre province – non ultima quella cosentina, del renziano per eccellenza, Ernesto Magorno – ha cifre di iscritti poco lusinghiere.

    Cosa si cela dietro questa scelta? Di certo Perna, per la sua storia di antagonismo, non poteva essere definito uno “yes man”. Non dava quindi sufficienti garanzie sulla linea da seguire in questi mesi. Perché, allora, accettare questa manovra al ribasso? Peraltro, Falcomatà era un po’ a corto di fedelissimi in Giunta. Non solo Neri, ma anche Giovanni Muraca è stato condannato nel processo “Miramare”. Proprio quel Giovanni Muraca candidato del sindaco alle ultime consultazioni regionali.

    Brunetti non ha un profilo nemmeno paragonabile a quello di Perna. Ma, di certo, offre più garanzie sulla linea da seguire. Ma non è un esponente del Pd. E, con Italia Viva che, a livello nazionale, sembra sempre più appiattita sulle posizioni del centrodestra, questo potrebbe non essere troppo gradito.

    Gioco di equilibri

    Insieme a Nicola Irto, Giuseppe Falcomatà è sicuramente uno dei giovani politici emergenti del Partito Democratico. Che, come ha dimostrato la scelta non troppo convincente di Amalia Bruni come candidata alla presidenza della Regione, ha diversi problemi nel ricambio generazionale. Nonostante gli anni da sindaco di Reggio Calabria non siano stati particolarmente esaltanti, Falcomatà rimaneva comunque uno dei giovani esponenti democratici più apprezzati.

    La condanna, seppur di primo grado, segna ora una prima, vera, brusca frenata nella carriera politica di Falcomatà. Ma la scelta di non designare come sindaco facente funzioni un esponente del Pd, magari un esterno, potrebbe nascondere qualcosa di molto interessante sotto il profilo politico.

    Innanzitutto, dice qualcosa sui rapporti che il sindaco (sospeso) di Reggio Calabria potrebbe avere con il proprio partito. Nelle ore successive alla condanna, infatti, Falcomatà ha incassato la solidarietà dell’Anci. Persino del sindaco di Catanzaro, Sergio Abramo, già Forza Italia e oggi Coraggio Italia. Ma nessun leader del Pd è intervenuto.

    Ma, ancor più interessante, forse, sarebbe la necessità di tenere compatta la maggioranza. Che, con un Comune decapitato, si sarebbe potuta anche sfaldare. E questo Falcomatà non lo vuole. E proprio nell’ultima settimana, la maggioranza consiliare aveva mostrato qualche preoccupante scricchiolio. In Commissione, alcune mozioni presentate dai consiglieri di maggioranza non erano passate, anche a causa del “fuoco amico” di altri colleghi di partito e di coalizione. Che, uscendo dall’aula, avevano fatto mancare il numero legale.

    Insomma, l’obiettivo è chiaro: evitare una escalation pericolosa.

    Fine?

    Sì, perché Falcomatà sogna già il ritorno. Innanzitutto per il ricorso pendente davanti alla Corte Costituzionale sulla Legge Severino. E poi per la possibilità di impugnare (con successo) il provvedimento di sospensione. In passato, infatti, da Luigi De Magistris a Vincenzo De Luca, tanti sono stati i politici che hanno vinto la battaglia amministrativa. Ironia della sorte, gli unici a non impugnare la sospensione, nella storia, sono stati Silvio Berlusconi e Giuseppe Scopelliti.

    Falcomatà, quindi, potrebbe tornare in sella molto presto qualora decidesse di opporsi alla Legge Severino. Per questo serviva mantenere la maggioranza compatta. Lo scioglimento del consiglio comunale avrebbe portato a un commissariamento che, con i soldi del PNRR in arrivo, sarebbe stato esiziale sotto il profilo politico.

    Ancor di più pensando che, appena un anno fa, Falcomatà è riuscito a essere riconfermato sindaco solo al ballottaggio. Sebbene il centrodestra esprimesse un candidato della Lega oggettivamente poco gradito alla cittadinanza. Un ritorno al voto, quindi, potrebbe avere esiti molto incerti.

    Ma, al momento, nonostante alcune uscite nazionali (su tutte, quella di Matteo Salvini) l’ipotesi non sembra essere contemplata. Di certo, Giuseppe Falcomatà non si aspettava un percorso del genere. Lui, figlio di Italo Falcomatà, sindaco della Primavera Reggina. Lui che era stato eletto sindaco dopo gli anni del “Modello Reggio”. E dopo la vergogna nazionale dello scioglimento per contiguità con la ‘ndrangheta.

    Lui che doveva risollevare Reggio Calabria. E che è stato travolto, come tanti, dall’onda della giustizia.

  • “Miramare”: un anno e quattro mesi a Falcomatà. Il sindaco di Reggio sarà sospeso

    “Miramare”: un anno e quattro mesi a Falcomatà. Il sindaco di Reggio sarà sospeso

    Un anno e quattro mesi per il sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà. Un anno per l’ex segretario generale e per assessori ed ex assessori. Tutti condannati per abuso d’ufficio, ma assolti dal reato di falso. Per tutti la pena è stata sospesa.

    Questa la decisione, dopo diverse ore di camera di consiglio, del Tribunale di Reggio Calabria. Il Collegio presieduto da Fabio Lauria ha letto il dispositivo di sentenza intorno alle 15.15.

    La sentenza

    Si conclude così il processo di primo grado sul cosiddetto “Caso Miramare”. Celebrato per far luce sull’assegnazione, con affidamento diretto, che la Giunta Comunale di Reggio Calabria fece alla semisconosciuta associazione “Il Sottoscala”, dell’imprenditore Paolo Zagarella. Un’assegnazione che suscitò grande polemica politica e sociale in città. Perché Zagarella era unanimemente riconosciuto come un amico di vecchia data del sindaco.

    Secondo l’accusa, tale «regalo» sarebbe stato effettuato in virtù del rapporto di amicizia tra Falcomatà e il noto imprenditore reggino. Questi era ritenuto il dominus della compagine associativa. Nel corso del suo esame in aula, Falcomatà ha definito Zagarella solo «un buon conoscente». Ma sarebbe notorio, a Reggio Calabria, il rapporto datato tra i due. E consolidato attraverso diverse serate danzanti nelle discoteche più esclusive e alla moda della città.

    La dialettica tra accusa e difesa

    Da qui, dunque, l’assegnazione diretta. Senza un bando di evidenza pubblica. «Il sindaco Falcomatà non solo non si è astenuto, ma è stato il vero regista dell’operazione» aveva detto l’accusa nel corso della propria requisitoria.  I pubblici ministeri Walter Ignazitto e Nicola De Caria avevano chiesto un anno e dieci mesi di reclusione per il sindaco di Reggio Calabria. Al termine della propria requisitoria, i rappresentanti dell’accusa ritenevano il primo cittadino responsabile dei reati contestati.

    Per tutti gli altri, la Procura aveva chiesto un anno e otto mesi di reclusione ciascuno. Oltre a Falcomatà e a Zagarella erano imputati anche l’ex segretario generale del Comune, Giovanna Acquaviva, l’ex dirigente Maria Luisa Spanò, l’assessore in carica ai Lavori Pubblici e candidato al Consiglio regionale, Giovanni Muraca, e gli ex assessori Saverio Anghelone, Armando Neri, Patrizia Nardi, Giuseppe Marino, Antonino Zimbalatti e Agata Quattrone. Tutti puniti con un anno di reclusione ciascuno e la sospensione della pena.

    La requisitoria

    La requisitoria della Procura, il 22 ottobre scorso. In questo mese, le arringhe difensive hanno provato in tutti i modi a smontare il costrutto accusatorio. Sostenendo come non vi fosse dolo nella condotta degli imputati. Né alcun illecito profitto per Zagarella. Dato che uno dei punti su cui ha sempre puntato la difesa era il fatto che per il Comune di Reggio Calabria quella delibera (poi ritirata) non avrebbe portato alcun esborso per l’Ente.

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    L’ex Hotel Miramare a Reggio Calabria

    L’affidamento della gestione della struttura di pregio, notissima in città, sarebbe avvenuto in maniera diretta a Zagarella. Questi, infatti, è uno storico amico del sindaco Falcomatà. E gli avrebbe anche concesso, in forma gratuita, i locali che avevano ospitato la segreteria politica nella campagna elettorale. La prima, quella che porterà l’attuale primo cittadino alla schiacciante vittoria sul centrodestra nella corsa verso Palazzo San Giorgio

    L’inchiesta

    «Con Zagarella, Falcomatà aveva un debito di riconoscenza» hanno detto i pm Ignazitto e De Caria. Per questo, quindi, il “Miramare” sarebbe stato affidato all’associazione “Il Sottoscala” dietro cui si celava (seppur senza cariche formali) Zagarella. Questi, esperto di feste e serate danzanti, avrebbe dovuto realizzare eventi e, quindi, intascare soldi, nell’immobile di pregio comunale.

    Una delibera, quella del 16 luglio 2015, che sarebbe stata approvata a maggioranza con l’assenza dell’allora assessore, Mattia Neto. Che infatti non verrà coinvolta nell’inchiesta della Procura di Reggio Calabria. Ma secondo alcune testimonianze raccolte nel corso del dibattimento, l’associazione “Il Sottoscala” avrebbe avuto la disponibilità dell’immobile di pregio anche prima della votazione della delibera. Tra le persone escusse, che sosterranno tale versione, anche l’allora sovrintendente per i Beni archeologici della Regione Calabria, Margherita Eichberg. Impegnata con una sua collaboratrice nel sopralluogo di un immobile limitrofo al “Miramare” avrebbe sorpreso Zagarella e alcuni operai intenti a fare dei lavori all’interno della struttura.

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    Margherita Eichberg

    La Procura aveva ritenuto di sostenere la penale responsabilità di tutti gli imputati, solo con un minimo distinguo di pena. Ma, certamente, un ruolo maggiore – morale e materiale – era riconosciuto ai due fedelissimi di Falcomatà, l’assessore Armando Neri e l’assessore Giovanni Muraca. Quest’ultimo, nell’impostazione accusatoria, sarebbe stato colui il quale avrebbe, di fatto, consegnato a Zagarella le chiavi per avere la disponibilità del “Miramare”. Forse anche in tempi antecedenti alla delibera stessa, come dichiarato proprio da Eichberg e dalle sue collaboratrici.

    La condannata

    Unica a scegliere il rito abbreviato, l’allora assessore comunale ai Lavori Pubblici, Angela Marcianò. È già stata condannata, in primo grado, a un anno di reclusione.  Già collaboratrice del procuratore Nicola Gratteri, Marcianò, dopo l’esplosione del caso (politico e giudiziario) diventerà la grande accusatrice di Falcomatà. Marcianò ha sempre dichiarato di essersi schierata contro l’assegnazione del “Miramare” a Zagarella.

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    Angela Marcianò durante l’ultima campagna elettorale

    Ma dagli atti dell’indagine (tra cui diverse chat WhatsApp), emergerebbe in realtà solo un tardivo tentativo di intervenire per la modifica dell’atto. Accusa ancor più grave, quella mossa dalla Marcianò, è quella di risultare presente (e, quindi, con voto favorevole alla delibera) nel verbale della riunione di Giunta. Quando, invece, a suo dire, l’avrebbe abbandonata in aperta polemica con il provvedimento che si voleva adottare.

    Cosa accadrà adesso?

    Alle elezioni del settembre 2020, si candiderà anche a sindaco, in piena contrapposizione con il giovane primo cittadino del Partito Democratico. Otterrà un buon risultato, classificandosi terza tra i candidati. Ma al momento dell’insediamento in Consiglio Comunale subirà il provvedimento di sospensione spiccato dal prefetto, proprio a causa della condanna nel “caso Miramare”.

    Stessa sorte, adesso, potrebbe avvenire per Giuseppe Falcomatà è considerato uno degli esponenti più emergenti del Pd calabrese. Avrebbe così una brusca frenata l’epopea politica del figlio d’arte reggino. Figlio, infatti, del sindaco della “Primavera Reggina”, Giuseppe Falcomatà diventerà primo cittadino dopo gli anni del “Modello Reggio” di Giuseppe Scopelliti e lo scioglimento per contiguità con la ‘ndrangheta del Consiglio comunale.

    Ora, però, anche Falcomatà cade sotto i colpi di un’inchiesta giudiziaria. Con conseguenze politiche tutte da vedere. Il primo cittadino, infatti, sarà colpito dal provvedimento di sospensione del prefetto. Così come gli assessori in carica. Poi, si capirà se tutti decideranno di impugnare la decisione.

  • Reggio violenta: quei giovani cresciuti a “sciarre” e malandrineria

    Reggio violenta: quei giovani cresciuti a “sciarre” e malandrineria

    Risse a chiamata, violenze tra le mura domestiche, danneggiamenti e vandalismi. E poi furti e rapine, risalendo la scala della gerarchia del crimine fino al narcotraffico e all’associazione mafiosa. È un mondo complesso quello dei minori che finiscono nei guai con la giustizia: un mondo che, anche in Calabria, sta “ridefinendo” i propri confini, dopo il lungo periodo di “cattività” seguita allo scoppio della pandemia da Covid, sui binari di una violenza “gratuita” che vede i minori come protagonisti attivi e passivi. Quello che registrano le statistiche e che gli operatori della giustizia minorile (magistrati, avvocati, assistenti sociali, terapeuti) riscontrano ogni giorno, è infatti un preoccupante aumento dei casi di violenza “spicciola”, soprattutto tra coetanei.

    Le risse organizzate

    «La convivenza forzata e prolungata dovuta al Covid – filtra dalla procura minorile di Reggio Calabria – ha esasperato gli animi di tutti, e ha reso evidenti quei conflitti nascosti in tante famiglie. Dalla riapertura abbiamo riscontrato un sensibile aumento di aggressioni e violenze maturate all’interno delle mura domestiche ai danni dei più giovani. Violenze e aggressioni che poi si ripropongono anche fuori da casa». E così, nei fascicoli che transitano negli uffici del tribunale minorile reggino, si nota un preoccupante aumento di un fenomeno prima marginale: gli appuntamenti per le risse.

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    Il tribunale per i Minori di Reggio Calabria

    A volte basta pochissimo, uno sguardo a una ragazza, una parola sfuggita tra i denti, un tamponamento. Tutto può funzionare da detonatore, e una volta che la miccia ha preso fuoco fermarsi diventa molto complicato. Come nel caso della maxi rissa di Campo Calabro, prima periferia di Reggio Calabria. Lo scorso febbraio, la piazza centrale del paesino affacciato sullo Stretto, fu infatti teatro di un vero e proprio scontro tra due improvvisate bande di giovanissimi (quasi tutti minorenni).

    In quella occasione, una banale questione di cuore tra adolescenti aveva provocato uno tsunami partito con un appello in chat che aveva finito per coinvolgere diverse “comitive” che si erano presentate all’appuntamento a bordo di scooter e minicar con corredo di mazze e catene. Una sorte di sfida all’Ok Corral recitata tra lo sgomento dei residenti e finita con diversi contusi al Pronto Soccorso.

    Le “sciarre”

    E poi le sciarre nei bar, che a Reggio ormai esplodono con cadenza sempre più frequente. L’ultima in ordine di tempo, appena una manciata di giorni fa in occasione di Halloween: esplosa in un locale del centro ha finito per coinvolgere anche gruppi di persone che erano estranee alla vicenda ed è costata un ricovero con prognosi di 20 giorni per un ventenne colpito sul viso con una bottiglia rotta. E qualche giorno prima un’altra sciarra sul lungomare che vedeva coinvolti gruppi di giovanissimi, immortalati in un video diventato virale su youtube mentre si lanciano tavoli e suppellettili varie gli uni contro gli altri tra le urla dei passanti, che ha portato il sindaco della città a richiedere al Prefetto una riunione del comitato per l’ordine e la sicurezza.

    I figli di ‘ndrangheta

    E se le violenze “spicciole” tra minori si spingono oltre i confini consueti, in Calabria e in provincia di Reggio in particolare, dove l’oppressione delle consorterie di ‘ndrangheta pesa di più, una fetta dei reati che finiscono per coinvolgere i più giovani, riguarda quelli legati al crimine organizzato. Sono diversi infatti i casi di giovani, per lo più adolescenti, coinvolti, loro malgrado, nelle dinamiche criminali mafiose. Cresciuti a “Paciotti e malandrineria” spesso vengono inseriti fin da giovanissimi alla periferia della cosca, con compiti che però possono anche diventare importanti.

    Come nel caso di un adolescente di Palmi che qualche anno fa, con il resto dei parenti più prossimi blindati in galera da sentenze pesantissime per mafia, si ritrovò suo malgrado a fare il “lavoro” dei grandi. Era lui, avevano scoperto i carabinieri, che si era presentato ad un imprenditore cittadino chiedendo un “fiore” per i parenti in galera. Una “sottoscrizione” da 5000 euro per pagare gli avvocati e aiutare le famiglie dei carcerati per mafia. E fu sempre il ragazzo catapultato nel ruolo del boss ad aggredire il figlio minorenne dell’imprenditore che si era rifiutato di pagare il pizzo al clan.

    Nella rete dei clan

    Accanto ai “figli di ‘ndrangheta” poi – i minori che crescono in ambienti fortemente condizionati dalle dinamiche del crimine organizzato finendo spesso per rimanerne invischiati – gli operatori della giustizia minorile si sono trovati ad affrontare un rinnovato interesse delle cosche verso quei minori che non vengono da famiglie legate a doppio filo con il crimine organizzato, ma che galleggiano in un mondo fatto di disinteresse e solitudine.

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    Armi, munizioni e marijuana trovate a un minorenne nel quartiere Ciccarello

    È a loro, registrano gli inquirenti, che i boss si rivolgono per il lavoro sporco legato soprattutto al traffico di stupefacenti e ai danneggiamenti. «A volte – annotano amaramente gli investigatori – per coinvolgerli basta dimostrare un minimo interesse nei loro confronti. Farli sentire coinvolti in un progetto, seppure dalle dinamiche criminali». L’ultimo caso in ordine di tempo risale a pochi giorni fa: durante un blitz dei carabinieri a Ciccarello, popoloso quartiere della città dello Stretto, i militari hanno fermato un diciassettenne che custodiva due scacciacani a salve, una manciata di proiettili calibro 12 e della marijuana.

  • Pedofilia, gli orchi di Calabria nel dossier di Telefono Azzurro

    Pedofilia, gli orchi di Calabria nel dossier di Telefono Azzurro

    Abusi sessuali su minori e pedofilia, in aumento i dati relativi allo scorso anno per effetto dei vari lockdown dovuti alla pandemia, ma la Calabria risulta tra le regioni più virtuose da questo punto di vista. L’abuso sessuale è un fenomeno complesso e costantemente in evoluzione, il cui monitoraggio, spesso frammentario, non restituisce un quadro chiaro della situazione. Questo si deve soprattutto a due fattori: il web e la difficoltà di denuncia.

    Il dossier di Telefono Azzurro e Palazzo Chigi

    Il dossier di Telefono Azzurro, in collaborazione con il Dipartimento per le Politiche per la famiglia della Presidenza del Consiglio dei ministri, fotografa la situazione basandosi sui dati delle denunce e dei diversi monitoraggi effettuati lo scorso anno. Non tutte le segnalazioni e denunce passano attraverso Telefono Azzurro, che poi a sua volta segnala il caso alle autorità giudiziarie, ma anche direttamente da altri canali e forze dell’ordine. In ogni caso la differenziazione tra il web (online) e la vita reale (offline) è ormai parte integrante di qualunque dossier sul tema degli abusi sessuali sui minori, a testimonianza – l’ennesima – che i cambiamenti della tecnologia hanno modificato inesorabilmente anche i dati giudiziari e le analisi su certi fenomeni, oltre che la vita in generale.

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    Palazzo Chigi

    Non a caso la polizia postale da alcuni anni ha creato una sezione nazionale ad hoc, il Centro nazionale contrasto pedopornografia online, che grazie a un monitoraggio continuo focalizza l’attenzione sulla scoperta di siti e dinamiche che possano rappresentare fonte di pericolo nella navigazione dei più giovani. Una battaglia per cercare di prevenire, oltre che di contrastare, abusi sessuali sul web nei confronti dei minori, che si combatte a 360 gradi e su più fronti. Per quanto concerne i presunti responsabili dei casi di abuso sessuale online gestiti nel 2020, i dati mostrano come nel 58% dei casi ci sia di mezzo un estraneo mentre nel caso di abusi offline i responsabili sono nel 52,9% genitori o parenti.

    I dati sugli abusi, regione per regione

    Lo studio di Telefono Azzurro cataloga per regione di provenienza i casi di abuso sessuale offline gestiti sul territorio nazionale. Utilizzando questo criterio (l’informazione è disponibile per l’87,7% dei casi totali) emerge come nel 2020 le richieste d’aiuto arrivino in primo luogo dalla Lombardia (20%), dal Lazio (16%), dal Piemonte (10%), dall’Emilia Romagna (9%), dalla Campania (8%), dalla Liguria (8%) e dalla Sicilia (8%). Seguono il Veneto (5%) e la Toscana (3%). Le aree geografiche rimanenti, si legge nel documento, costituiscono una minoranza che va dal 2% (Abruzzo, Calabria, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna e Trentino-Alto Adige) all’1% (Puglia e Umbria) del totale.

    La Lombardia è in testa anche all’elenco delle regioni con più richieste d’aiuto per abusi sessuali subiti via internet. È da lì che proviene poco più di un caso su quattro: il 26% di quelli totali. Seguono l’Emilia Romagna (15,1%), la Campania (13,7%), il Veneto (11%) e il Lazio (8,2%). E poi, ancora, il Piemonte (5,5%), la Toscana (5,5%) e la Puglia (4,1%). Nel resto delle regioni si va dal 2,7% (Friuli-Venezia Giulia, Marche e Sicilia) all’1,4% (Calabria) delle richieste d’aiuto totali. Inoltre, l’1,4% delle richieste proviene dall’estero.

    Caccia agli orchi

    I dati apparentemente confortanti del report non fanno abbassare la guardia però a magistrati e forze dell’ordine calabresi. Tant’è che negli ultimi mesi non sono mancate le operazioni riguardanti la pedofilia e gli abusi sessuali, sia offline che online.

    Lo scorso 4 novembre i carabinieri di Rende hanno arrestato il nonno 62enne di due bimbe che sarebbero state abusate dal 2015. L’uomo è stato poi posto ai domiciliari dall’autorità giudiziaria.
    A Siderno nei mesi scorsi un 46enne è stato arrestato perché trovato in possesso di un migliaio di video di minorenni abusati sul suo computer dalla polizia postale, che lo stava seguendo già da alcune settimane.

    A maggio scorso la polizia ha arrestato un 73enne di Paola per abusi sessuali ai danni di due sorelle minorenni. In manette anche una coetanea dell’uomo: la nonna delle vittime, che pare fosse al corrente degli abusi. Gli anziani sono finiti ai domiciliari con l’accusa di prostituzione minorile e detenzione di materiale pedopornografico. L’indagine è scattata in seguito al tentato suicidio di una delle minori.

    A Catanzaro un’indagine della polizia postale della scorsa primavera ha portato all’arresto di tre individui (uno a Reggio Calabria) e all’iscrizione sul registro degli indagati di 119 persone e di un altro centinaio residenti in tutta Italia. In totale le forze dell’ordine hanno sequestrato 230 dispositivi informatici e hanno individuato circa 28mila immagini e 8mila video dai contenuti pedopornografici.

    Cosa fare in caso di abuso in Calabria

    Oltre alla prevenzione e alla repressione della pedofilia e degli abusi sui minori, che presuppongono la massima attenzione da parte di tutti per far emergere i singoli casi da denunciare poi alle autorità, il fronte relativo alla cura successiva dei traumi subiti dai minori anche in Calabria ha un grande peso. Segnaliamo solo due associazioni fra le tante presenti sul territorio per fornire una direzione sul da farsi, una laica e una cattolica: la Casa di Nilla a Catanzaro e l’associazione Meter a Lamezia.

    Don Fortunato Di Noto

    La prima è il centro specialistico della Regione per la cura e la tutela di bambini e adolescenti in situazioni di abuso sessuale e maltrattamento. Grazie al suo approccio multidisciplinare, si legge sul sito, è l’unico centro nel suo genere nell’Italia meridionale. La seconda, opera del siciliano don Fortunato Di Noto e con sedi anche altrove, è un punto di riferimento nella difesa dell’infanzia per tutta la Calabria.

  • Terme Luigiane, il Tar boccia i due Comuni: atti illegittimi

    Terme Luigiane, il Tar boccia i due Comuni: atti illegittimi

    Il Tar Calabria mette il primo punto fermo su quel gran pasticcio delle Terme Luigiane accogliendo il ricorso presentato dalla società Sateca contro le Amministrazioni comunali di Guardia Piemontese e Acquappesa.
    Dunque secondo il Tribunale amministrativo i Comuni «hanno impedito a Sateca l’esercizio del diritto previsto dalla clausola dell’accordo del 2019 e la prosecuzione dell’attività fino al subentro del nuovo sub-concessionario». Pertanto, «sono senz’altro illegittimi gli atti di esercizio del potere di autotutela pubblicistica posti in essere dai Comuni».

    Fin qui l’avvocatesca interpretazione dell’arcinota vicenda che ha visto contrapposte la società Sateca e i Comuni di Guardia e Acquappesa. L’ennesimo scandalo calabrese su cui si è giocata la solita partita a perdere tra personaggi politici schierati su fronti opposti ma accomunati tutti dalla fallimentare gestione del dossier “Terme Luigiane”.

    La stagione saltata

    Ma mettiamo sul piatto qualche cifra, dal momento che questa vicenda ha avuto conseguenze ben più sostanziose di un chiacchiericcio politico. L’impasse generata dal mancato accordo ha fatto saltare la stagione termale ed ha lasciato sul lastrico i 250 lavoratori dello stabilimento termale. E non è possibile quantificare con precisione quante prestazioni socio-sanitarie e servizi termali sono stati cancellati, quanti turisti sono stati indotti a cambiare destinazione e a quanto ammonta il danno prodotto agli oltre mille lavoratori dell’indotto che ruota attorno alle Terme Luigiane. Altrimenti, dati alla mano, avremmo la fotografia di un collasso socio-economico di proporzioni gigantesche.

    Le responsabilità di sindaci e Regione

    Un dato certo è che, di questo pasticciaccio, la politica porta un pezzo importante di responsabilità. I sindaci dei comuni di Guardia Piemontese ed Acquappesa, anzitutto, per avere pervicacemente, di fatto, provocato uno stallo nella vertenza certificato dalla fallimentare gestione della gara indetta per individuare il nuovo gestore dello stabilimento che non a caso è andata deserta. Un fallimento politico-amministrativo certificato adesso dalla pronuncia del Tar.

    Non meno grave è la responsabilità della Regione, proprietaria del solo sfruttamento delle acque termali (legge 40/2009) che non ha voluto – o non ha saputo – creare le condizioni affinché dal 2016, anno di scadenza della subconcessione, potesse essere messo a bando lo sfruttamento delle acque termali, eventualmente anche revocando la concessione ai Comuni alla luce delle continue inadempienze rispetto a scadenze e cronoprogrammi.

    Un voto in controtendenza

    Una disfatta su tutta la linea: le Terme Luigiane sono diventate l’emblema di una politica compiacente, inadeguata e irresponsabile che provoca danni, cancella posti di lavoro e non si preoccupa di rispondere del proprio operato.
    Per una degna conclusione di questa brutta storia, torniamo alle ultime Amministrative di ottobre. Perché nonostante tutto quello che è accaduto e il ruolo svolto nell’affaire delle Terme, il sindaco uscente di Guardia Piemontese, Vincenzo Rocchetti, si ricandida e viene rieletto a pieni voti.

  • Catanzaro: cosche, affaristi e istituzioni, gli intrecci dietro il sequestro del ponte

    Catanzaro: cosche, affaristi e istituzioni, gli intrecci dietro il sequestro del ponte

    «Spiccona un po’ di più, spiccona un po’ di più che diventa ruvido». Hanno tratti surreali alcune delle intercettazioni captate dagli investigatori durante le indagini che hanno portato al sequestro, con facoltà d’uso, del ponte Morandi di Catanzaro. E surreali sono i comportamenti di alcuni dei protagonisti dell’ennesimo scandalo legato agli appalti pubblici finiti nelle mani di imprenditori legati al crimine organizzato: manager che discutono della inadeguatezza dei materiali da usare sui cantieri e la cui unica preoccupazione «è che facciamo brutta figura», controllori che si accordano con i controllati per riscrivere informative di pg mentre puntano il trasferimento al Ministero, segretarie che diventano manager e che «magari ci facciamo assumere» dalla società che sulla carta dirigono.

    Tutti ingranaggi, sostengono i magistrati della Distrettuale antimafia di Catanzaro, agli ordini dei fratelli Sgromo, gli imprenditori catanzaresi da anni comodamente seduti alla tavola degli appalti che contano e che, grazie ad un complicato giro di società fantasma e compiacenti teste di legno a cui le stesse venivano di volta in volta assegnate, sarebbero riusciti a nascondere allo Stato, un gigante economico da 50 milioni di euro di fatturato annuo. E poi i Giampà e il senatore Ferdinando Aiello, e ancora il compianto Paolo Pollichieni e il maresciallo gdf infedele, in un baratro di affarismo famelico che si ripropone ogni volta uguale a se stesso.

    Sei le ordinanze di arresto disposte dal tribunale di Catanzaro. Le manette sono scattate per i due imprenditori e per una serie di loro collaboratori oltre che per un maresciallo della guardia di finanza attualmente in forza a Reggio. Gli indagati rispondono, a vario titolo, di intestazione fittizia di beni e associazione per delinquere aggravate dalle finalità mafiose, corruzione, autoriciclaggio, frode in pubbliche forniture e truffa.

    I lavori al Morandi

    Quella malta non piaceva proprio a nessuno. Non piaceva al rifornitore abituale dei materiali che aveva messo in guardia il cliente: «Fai una figura di merda, quel prodotto non funziona». Non piaceva a Gaetano Curcio, direttore tecnico della Tank (la società gestita dagli Sgromo che si occupa dei lavori di ristrutturazione al viadotto Bisantis e lungo la statale tra Lamezia e Catanzaro) che temeva quel prodotto «perché se non bagni bene il supporto si fessura».

    Non andava giù nemmeno al direttore dei lavori dell’Anas, Silvio Baudi, che dei lavori necessari per rendere migliore la resa del prodotto più scadente aveva paura: «non è che mi piaccia molto, meno di un centimetro non mi piace». E ovviamente, la malta Repar Tix – che la Tank aveva appena comprato in sostituzione del prodotto usato abitualmente ma molto più costoso – non piaceva agli operai che quel prodotto poi avrebbero dovuto usarlo sui cantieri: «L’abbiamo usato al Morandi, con questo materiale l’abbiamo fatto e casca tutto. Posso spicconare nu poco di più ma non va bene se mettete un altro tipo di materiale».

    A nessuno piaceva quella malta da utilizzare sui cantieri, raccontano le intercettazioni raccolte dagli investigatori, e tutti erano perfettamente consapevoli che non avrebbe reso come da progetto. Ma i soldi in azienda in quel periodo scarseggiano e la liquidità necessaria per rifornirsi della malta tradizionalmente utilizzata non c’è: inevitabile svoltare su un prodotto scadente ma decisamente più economico. D’altronde era stato lo stesso Sgromo a dare il via libera all’intera operazione «pur a conoscenza – scrive il Gip – della scarsa qualità del prodotto e dell’inopportunità di mischiare i prodotti».

    Un via libera che aveva cancellato tutti i dubbi. Sia nel direttore tecnico della Tank, che si affretta a presentare l’ordine di acquisto per il nuovo prodotto perché anche se «è una porcheria… è una questione finanziaria e il cantiere non si può fermare» e sia nell’ingegnere dell’Anas che, espresse le proprie perplessità, non fa una piega e firma l’ordine per 30 mila chili della malta che «aggrippa» premurandosi di promuoverne la consegna urgente.

    E così, nonostante la omogenea presa di coscienza della totale inutilità del prodotto, come da perfetto copione calabrese, nei lavori Anas per il risanamento strutturale di opere del lotto 5 Calabria (che comprendono anche il ponte simbolo del capoluogo e la bretella che collega Catanzaro con l’autostrada e l’aeroporto) ci finisce proprio la malta che non fa presa sulle superfici lisce. Tanto basta «spicconare un po’ di più. Tu spiccona un po’ di più che poi diventa ruvido».

    Il maresciallo e il senatore

    I fratelli Sgromo sono sotto la lente della Dda dal 2016. A febbraio, un’informativa della Guardia di Finanza, anche a seguito delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, li bolla come imprenditori di riferimento della cosca Giampà: per gli investigatori delle Fiamme gialle, gli Sgromo sono agli ordini de “u professora”.
    Consapevoli dell’interessamento dell’antimafia, i due fratelli cercano qualcuno tra le forze dell’ordine che lavorano al caso che li tenga informati e che, magari, riesca a intervenire in loro aiuto. L’uomo giusto, sostengono gli inquirenti, è il maresciallo Michele Marinaro, in forza alla Dia di Catanzaro ma smanioso di un trasferimento alla Presidenza del Consiglio dei ministri.

    È Paolo Pollichieni (il direttore del Corriere della Calabria deceduto due anni fa), raccontano gli screenshot finiti nell’indagine, che nel 2017 fornisce il nome di un investigatore «del posto» che lavora a quella indagine. Sgromo e Marinaro cominciano così a frequentarsi: sul piatto l’intervento direttamente sulle indagini che vale il tanto agognato trasferimento. E così mentre i fratelli Sgromo, nelle informative della Pg redatte da Marinaro si trasformano progressivamente da imprenditori legati al clan e accusati di associazione mafiosa, in imprenditori vessati dalla mafia e quindi imputabili del solo favoreggiamento per non avere denunciato, la carriera di Marinaro segue la rotta che ormai era stata tracciata.

    Ad occuparsene è Eugenio Sgromo in prima persona che da quel momento intensifica i propri rapporti con “Ferd”, inteso l’ex senatore Ferdinando Aiello che, annota il Gip «si è interessato per risolvere la questione che interessa il Marinaro, e cioè il suo trasferimento alla Presidenza del Consiglio». Un intervento che, ipotizzano gli investigatori, sblocca la situazione in pochi mesi. «Ho visto Ferdinando – scrive Sgromo al maresciallo – mi ha detto che ti hanno chiamato, ah che bella notizia, sono contento».

  • Giovanissimi alla sbarra, la Calabria ai vertici nazionali

    Giovanissimi alla sbarra, la Calabria ai vertici nazionali

    L’ultimo episodio arriva da Catanzaro, con la maxi operazione antidroga di pochi giorni fa nel quartiere Aranceto che ha visto coinvolto anche un minore. E va ad aggiungersi a un lungo elenco che fa della Calabria uno dei territori italiani a dare maggior lavoro ai servizi della giustizia minorile. Ad oggi, in base ai dati diffusi nei giorni scorsi dal Ministero della Giustizia, in tutta Italia hanno in carico circa 13mila tra minorenni e giovani adulti (da 18 a 25 anni). E di questi solo una piccola parte si trova in stato di detenzione. Della maggior parte di loro si occupano gli uffici di servizio sociale per i minorenni (Ussm), una modalità che consente, con provvedimenti disposti dal giudice, l’adozione di un progetto educativo costruito ad hoc sulle necessità e la personalità del minore.

    Gli imputati minorenni sono per il 70% italiani e per il 30% stranieri. Sia fra gli italiani che fra gli stranieri le percentuali di genere sono molto simili: oltre l’84% sono maschi e meno del 16% sono femmine. Nel caso dei maschi il 30,5% degli imputati ha fra i 14 e i 15 anni mentre il 69% ne ha 16 o 17. Fra le femmine le percentuali variano considerevolmente e osserviamo che le ragazze imputate con un’età fra i 14 e i 15 anni (40%) sono percentualmente più dei ragazzi e quelle imputate con un’età fra i 16 e i 17 anni (60%) sono percentualmente meno dei ragazzi.

    Esiti e tipologie di reati commessi

    I numeri più elevati riguardano i reati legati al mondo della droga in primis, seguiti da furti, rapine e lesioni personali. Ma sono in aumento anche i reati a sfondo sessuale e quelli legati alla pornografia minorile. In molti casi (22,14%) il pm ha esercitato anticipatamente l’azione penale, chiedendo al giudice, nel corso delle indagini preliminari, di pronunciarsi con una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. Ha invece richiesto il rinvio a giudizio nel 37% dei casi, e nel 6% dei casi è stato chiesto di procedere con un rito alternativo.

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    I dati calabresi

    In Calabria, tra cittadini italiani e stranieri, i minorenni e i giovani adulti presi di cui si occupa l’Ussm al 15 ottobre scorso sono circa mille, 962 per la precisione. A Catanzaro 220 presi in carico per la prima volta nel 2021 e 403 già in precedenza, per un totale di 623. A Reggio Calabria 134 presi in carico per la prima volta nel 2021 e 205 prima di quella data, per un totale di 339. Non ci sono presenze al momento nei centri di prima accoglienza. Se ne registrano, invece, 3 nelle comunità ministeriali, 16 nelle comunità private, 12 nell’Ipm di Catanzaro. Tutti gli altri (la maggior parte) sono seguiti o in strutture di altre regioni o presso le loro abitazioni.

    Catanzaro e Reggio ai piedi del podio

    I minori segnalati con un’età inferiore ai 14 anni sono il 6,23% sul totale dei minori nel 2017. Percentuale in diminuzione dal 2015, quando invece i minori di 14 anni segnalati erano l’8,33%. I numeri più alti si registrano a Roma, Bologna e Palermo e subito dopo questi grandi centri urbani viene la Calabria con le due città di Catanzaro e Reggio Calabria, che hanno tribunali per i minori e quindi monitorano i dati. Nei casi di reati commessi da minori e giovani adulti la prevenzione ovviamente è molto più importante di tutti gli altri interventi. Anche perché non si deve mai dimenticare che quando si parla di criminalità in Calabria si finisce prima o poi di parlare di ‘ndrangheta.

    Recidiva alta

    L’esame delle statistiche ufficiali rileva che i reati più diffusi sono quelli contro il patrimonio, quale il furto di autovetture o il furto in casa. Negli ultimi tempi si registra, comunque, un’evoluzione della tipologia di reato: diversi casi di spaccio di sostanze stupefacenti che confermano l’intreccio dei rom e della criminalità organizzata nella gestione del traffico di sostanze stupefacenti sul territorio. La tendenza alla recidiva di questi minori, è molto alta. Elevata è l’imputazione di concorso e la correità tra minori rom e a volte con rom giovani adulti. I casi in cui i minori stranieri sono per lo più soli sono infine quelli in cui risultano più esposti al rischio di coinvolgimento nelle attività criminali gestite dai gruppi delinquenziali locali.

    Quartieri a rischio

    I territori più interessati dal fenomeno della delinquenza minorile regionale sono vari ed alcuni lo sono più di altri. Una fetta grossa di utenza proviene dalla città di Cosenza e dalle zone vicine, in particolare dall’alto Jonio Cosentino (città di Corigliano Rossano e Cassano Jonio). È importante sottolineare che molti minori entrati nel circuito penale vivono nell’area dei quartieri a rischio, con situazioni di marginalità e scarsa presenza di servizi.

    Intrecci mafiosi

    L’attenzione maggiore richiesta all’Ussm di Catanzaro proviene dai territori di Lamezia Terme, Crotone e Vibo Valentia e in generale, inquadrando la delinquenza minorile in una visione a largo raggio, dove il fenomeno dell’estorsione legato all’opera della mafia è in considerevole aumento: diversi gli ingressi nei servizi di minori per estorsione, rapina e uso illegale di armi. Sono da segnalare anche vari casi di 416 bis provenienti dalla provincia di Reggio Calabria. Il territorio reggino è quello più segnato dalla presenza di minori appartenenti a contesti di criminalità organizzata di stampo mafioso, che si intrecciano con storie di marginalità e devianza.