Tag: giustizia

  • Mimmo Lucano, il modello Riace? Per i giudici era «arrembaggio»

    Mimmo Lucano, il modello Riace? Per i giudici era «arrembaggio»

    «Lenti deformanti», «visioni» del processo «da lontano», «fughe in avanti»: sono numerose le pagine che i giudici del Tribunale di Locri dedicano alle tesi difensive che gli avvocati di Mimmo Lucano (e le migliaia di persone che hanno manifestato in tutta Italia all’indomani della condanna) hanno sostenuto durante il processo che ha visto l’ex sindaco di Riace condannato a 13 anni e 2 mesi di reclusione e ad una serie di risarcimenti record nell’ambito del processo Xenia.

    Persecuzione politica? No, «arrembaggio»

    Tesi che sostenevano «una presunta persecuzione di natura politica» che di fatto, scrivono i giudici nelle 904 pagine di motivazioni della sentenza di primo grado, «si dimostrerà essere del tutto inesistente». Nella sostanza, il modello Riace sarebbe stato solo fumo negli occhi per nascondere «un arrembaggio» fatto di «meccanismi illeciti e perversi, fondati sulla cupidigia e sull’avidità».

    Virtù e vizi

    Usano parole pesantissime i togati locresi che, pur ammettendo «l’integrazione virtuosa e solidale che nei primi anni veniva senz’altro praticata su quel territorio, ove si era riusciti mirabilmente a dare dignità e calore a uomini e donne venuti da terre remote» puntano l’indice «sulla sottrazione sistematica di risorse statuali e della Ue» che avrebbe messo in secondo piano l’accoglienza stessa, rimasta «in forma residuale e strumentale… così alimentando gli appetiti di chi poteva fare incetta di quelle somme senza alcun a forma di pudore».

    E alla guida di questo gruppo – sono 27 in tutto gli imputati – ci sarebbe Mimmo Lucano che avrebbe costruito «un sistema clientelare che gli ruotava attorno» e che «lo sosteneva politicamente, con fedeltà assoluta, ben sapendo che quell’appoggio che essi gli fornivano – di cui egli aveva spasmodica necessità e che, peraltro, costituiva l’unico criterio tramite il quale essi erano stati prescelti – era ampiamente ricambiato da forti ritorni di natura economica».

    Senza un soldo

    Parole durissime che rappresentano una pietra tombale su un progetto durato più di venti anni e che aveva portato Riace fuori dall’immobilismo in cui versava, impoverita e abbandonata dai suoi stessi abitanti. E poco importa, se di soldi a Lucano non ne sono stati trovati in tre anni di indagini. Per i giudici di Locri si tratta di «un falso mito».

    L’ex sindaco, scrivono, «è stato molto accorto nell’allontanare da sé i sospetti dell’essere stato autore del sistematico accaparramento di risorse pubbliche» e quindi «nulla importa che l’ex sindaco sia stato trovato senza un euro in tasca – come orgogliosamente egli stesso si è vantato di sostenere a più riprese – perché ove ci si fermasse a valutare questa condizione di mera apparenza, si rischierebbe di premiare la sua furbizia, travestita da falsa innocenza».

    Modello o menzogna?

    In sostanza, mette nero su bianco il presidente Fulvio Accurso, l’intero modello Riace si sarebbe trasformato in una grossa menzogna: menzogna era l’integrazione, menzogne erano i bimbi nella scuola riaperta e le case abbandonate nuovamente vissute. Menzogne create da Lucano «per alimentare l’immagine di politico illuminato che egli ha cercato di dare di sé ad ogni costo». Menzogne, annota il giudice sgambettando l’onda popolare da mesi schierata in sostegno dell’imputato Lucano, condivise «da tanta gente che non ha voluto vedere quanto sussisteva a suo carico nel processo»

  • Sistema Palamara, il ruolo dei Pm di Castrovillari e Paola

    Sistema Palamara, il ruolo dei Pm di Castrovillari e Paola

    Hanno «trasgredito le regole» e «prodotto una grave lesione dell’affidamento che l’ordinamento e la collettività necessariamente devono riporre in coloro che sono chiamati a svolgere quella funzione costituzionalmente prevista». Le motivazioni della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura con cui vengono sospesi 5 ex membri togati dello stesso Csm – due dei quali in forza a tribunali calabresi – ripercorrono il filo della cena del maggio 2019 all’hotel Champagne di Roma, quando si decisero le sorti del successore di Giuseppe Pignatone alla Procura di Roma.

    In lizza per quella nomina, ballavano, tra gli altri, i nomi di Francesco Lo Voi, a capo della procura di Palermo, Giuseppe Creazzo, Procuratore capo a Firenze con un passato importante nella trincea di Palmi e Marcello Viola, procuratore generale nel capoluogo Toscano, che fu indicato come favorito.

    Due magistrati in forza ai tribunali calabresi

    I cinque togati finiti davanti alla disciplinare – Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli, Gianuigi Morlini e i “calabresi” Luigi Spina ex Pm a Castrovillari e Antonio Lepre ai tempi sostituto procuratore a Paola – assieme all’ex presidente dell’Associazione nazionale Magistrati, Luca Palamara, all’ex ministro Lotti e al parlamentare dem Cosimo Ferri, furono intercettati dal trojan installato dagli investigatori che indagavano sul cosiddetto “sistema Palamara”, mentre in una saletta appartata di un albergo romano, decidevano di una delle nomine più pesanti in seno a tutta la Magistratura italiana.

    Le motivazioni della sezione disciplinare del Csm

    Decisioni che sarebbero state prese su input dell’ex presidente dell’Anm che avrebbe agito per motivi di vendetta e interesse personale. Il capo del presunto gruppo di potere in grado di movimentare le nomine dei magistrati come fossero pedine su una scacchiera è stato riconosciuto in Palamara. Che è stato già radiato dalla magistratura e sotto processo a Perugia con l’ipotesi di corruzione. La commissione disciplinare del Csm ha certificato nelle oltre 100 pagine di motivazioni di come i cinque togati sospesi dalla funzione agissero «per interferire in segreto sulla libera formazione del convincimento dei componenti del Csm rimasti estranei alla discussione, come pure dei candidati al posto di Procuratore della Repubblica di Roma, in riferimento a loro eventuali revoche delle domande presentate».

    Il pm considerato «longa manus» di Palamara

    Ritenuto «pienamente responsabile» di quanto gli viene imputato, l’ex pm di Castrovillari Luigi Spina in quota Unicost, è stato sospeso per 18 mesi dalle funzioni di magistrato. È considerato dal tribunale disciplinare come «longa manus» di Luca Palamara. Sarebbe lui, sottolineano i magistrati «ad avere maggiore intensità di rapporti con il dottor Palamara, con il quale manifesta una piena e consapevole comunione di intenti».

    E sarebbe sempre Spina che – aveva detto in sede requisitoria il procuratore generale Gaeta – si può individuare come «l’uomo di fiducia in grado di veicolare all’interno del Consiglio i suoi desiderata». Tutte mosse, in questo quadro desolante passato alla storia come “mercato delle nomine”, che sarebbero state messe in opera asservendosi «alle intenzioni di chi aveva un concreto interesse nella scelta dell’organo requirente presso il quale era stato indagato e imputato».

    «Adesione agli illeciti propositi» 

    «Piena partecipazione e effettiva e consapevole adesione agli illeciti propositi» ci sarebbe stata anche da parte di Antonio Lepre, pm in forza al tribunale di Paola ed ex consigliere Csm in quota Magistratura Indipendente, sospeso per 18 mesi dalla funzione. Secondo i giudici della disciplinare, nel comportamento di Lepre, che era relatore per la nomina del nuovo procuratore capo di piazzale Clodio, «era evidente non solo la consapevolezza e volontà di adottare un comportamento connotato da un notevole grado di scorrettezza, ma anche di agire, peraltro in violazione dell’obbligo di segreto e del dovere di riserbo, turbando deliberatamente la trasparente e libera formazione della volontà dell’organo al quale apparteneva».

  • Antigone a Cosenza, dove serve il permesso per difendere il centro storico

    Antigone a Cosenza, dove serve il permesso per difendere il centro storico

    Ci sono notizie che nel frastuono mediatico colpiscono (e feriscono) per la loro insensata enormità. Udite! Udite! A Cosenza, i promotori di una passeggiata organizzata per sensibilizzare l’opinione pubblica sui crolli che minacciano palazzi antichi e interi isolati del centro storico dovranno rispondere davanti alla legge di “adunata non autorizzata”. Hanno violato le disposizioni ministeriali! Non hanno comunicato per iscritto alle autorità competenti le loro “subdole” intenzioni! Pertanto, il codice li minaccia; e arriva la salatissima sanzione pecuniaria.

    La bellezza oltraggiata di Cosenza vecchia

    Il cuore di Cosenza, il suo bellissimo centro storico, edificato nel corso di oltre 25 secoli, versa in condizioni disastrose, nel totale disinteresse dei più, e se un drappello di volenterosi si permette di passeggiare tra le macerie, senza aver chiesto il nulla osta alle autorità costituite, viene sanzionato. Stupore, sdegno, amarezza!
    Qualsiasi visitatore che, anche occasionalmente, abbia risalito Corso Telesio verso il teatro Rendano sfiorando la cattedrale; o abbia contemplato, dalla sommità del Castello svevo, il panorama della città; o ancora da Palazzo Arnone abbia ammirato le case e i palazzi che dalla riva del Crati scalano, in molteplici filari, la china del colle fino alla Rocca, ebbene, questo “forestiero” sa che Cosenza è uno straordinario deposito di storia e di cultura da salvaguardare a tutti i costi. Eppure, eppure c’è chi pensa che sarebbe meglio non parlarne. Nascondere il disastro e rimuovere le macerie nascondendole nell’inconscio e nella frenesia della cosiddetta “modernità”. Chiunque voglia parlarne può farlo “liberamente” ci mancherebbe, ma solo dopo aver chiesto il permesso in carta bollata.

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    Il centro storico di Cosenza
    L’oblio delle radici culturali di Cosenza

    Questo increscioso episodio meriterebbe di essere seppellito da una sonora risata se non fosse il sintomo di un preoccupante oblio delle radici culturali della città che si fa bella alle luci di Corso Mazzini, mentre trascura e abbandona a se stesso il suo cuore antico. La modernità ormai fa rima solo con comodità e stupidità. Tutto ciò che non è a portata di mano, che non è disponibile all’istante viene giudicato scomodo e quindi condannato a morire di stenti in nome del progresso.

    Si straparla di sostenibilità e di transizione ecologica e si lascia la città antica al chiasso e ai veleni dei tubi di scappamento, ai crolli annunciati, ai topi e al degrado. Un traffico sconclusionato e caotico cavalca il lastricato delle antiche strade del borgo mentre la collettività, anziché insorgere e chiedere a voce alta che si faccia qualcosa, si gira dall’altra parte e guarda a valle dove il Crati si perde in una periferia anonima e senza qualità; in attesa che il progresso si faccia vivo. Ma invano.

    Il ridicolo ci mette lo zampino

    C’è da chiedersi cosa direbbe Bernardino Telesio vedendo la sua città a tal punto trascurata. Anzi snaturata. O il suo coetaneo Giovanni Battista Amici il primo a mettere in discussione il sistema tolemaico e i cui studi sui moti e i corpi celesti influenzarono Copernico prima e Galileo Galilei poi. O ancora Alfonso Rendano pianista celebre in tutta Europa nell’età d’oro delle Società dei concerti. Tutto questo glorioso passato potrebbe tacitamente affondare nelle acque del Crati – divenuto ormai il fiume dell’oblio – se il ridicolo non ci avesse messo lo zampino con il clamore di una notizia strepitosa. I facinorosi passeggiano nel centro storico.

    La casa crolla ma serve il permesso per salvarla

    È proprio vero! La tragedia si ripresenta sempre come farsa, per il semplice motivo che il torto si appoggia sempre sulle stesse fissazioni formali che nascondono la solita sete di potere. Secondo questa fissazione burocratica la legge scritta e comandata viene prima della legge di natura e del comune sentire. La casa crolla, ma per salvarla bisogna chiedere il permesso.

    Questa è la legge di Creonte, l’usurpatore. Coloro che si preoccupano della propria città, che si impegnano e denunciano lo “stato delle cose”, per cercare almeno di salvare il salvabile, hanno nel loro cuore lo stesso sentimento di Antigone per il fratello morto in battaglia e condannato da un potere cieco e insensibile a restare insepolto. Tutti devono vedere il cadavere di una città che si oppone alla legge di Bengodi. L’agire di Antigone è mosso da un sentimento di pietas che non ha argomenti da offrire alla violenza del diritto. Le sue parole rimandano alla legge non scritta della cura e della pietà.

    Crolli nel centro storico di Cosenza
    Cittadini schiavi dell’insensibilità

    Perché una terra nobilissima che quotidianamente sperimenta sulla propria pelle la violenza dell’illegalità non alza la voce per chiedere che le amministrazioni si prendano cura dei beni comuni? Beni archeologici, storici, paesistici! Perché il solipsismo consumistico ha trasformato così tanti cittadini in schiavi dell’insensibilità e dell’egoismo maligno. Perché se un manipolo di anime buone e buoni cittadini cerca di interpretare il disagio urbano risalendo i vicoli da Piazza dei Valdesi verso Piazza Piccola, viene multata? Così, nel totale disordine simbolico del potere, si fa strada la voce muta della legge cieca.

    Nel regno di Creonte Antigone, la disobbediente viene condannata a morire di fame e di stenti in una caverna. È colpevole di aver provato pietà per il corpo senza vita del fratello. Creonte decide che nessuno debba vedere la sua fine. Quando però il tiranno, messo alle strette dalle parole di Tiresia e dalle proteste del coro della sua gente cerca, in extremis, di riparare al delitto contro la sua stessa casa, troverà la casa vuota e Antigone senza più vita.

    Giuliano Corti

  • L’archeologa scomoda che blocca il cemento sui ruderi romani

    L’archeologa scomoda che blocca il cemento sui ruderi romani

    Gli epiteti che Giovanni Giamborino le riserva, parlando con altre persone, non sono riferibili. E guardando a cosa emerge da questa incredibile vicenda – raccontata da I Calabresi in altri due articoli – si capisce anche il perché. Lui è una delle figure chiave dell’inchiesta “Rinascita-Scott” perché è considerato un faccendiere del superboss Luigi Mancuso. Lei è un’archeologa oggi in pensione che, fino a quando e come ha potuto, ha tentato di impedirgli di ricoprire di cemento i resti di una villa e di una strada romana nel centro di Vibo Valentia. Il cemento della ‘ndrangheta, almeno secondo la Dda di Catanzaro, alla fine ha però avuto la meglio sulla gloriosa storia di cui la città che fu Hipponion e Monteleone fa vanto. E che è stata calpestata nell’indifferenza di quasi tutti. Non di Maria Teresa Iannelli, rivelatasi un osso duro anche per chi, grazie ad amici e «fratellini», era abituato a vedersi aprire ogni porta.

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    Una parte dello stabile in costruzione sui resti di epoca romana
    Il maggiore del Ros Francesco Manzone ha spiegato in Tribunale che lei rappresentava un problema «insormontabile» per Giamborino. Perché? Cosa ha pensato leggendo le cronache di quell’udienza?

    «Non ricordo di avere conosciuto il maggiore Manzone, ma, a giudicare da quello che ha dichiarato, credo che abbia compreso appieno la vicenda dell’edificio realizzato da Giamborino. In effetti, già nel 1987, quando da tempo ero l’archeologo responsabile di Vibo Valentia, la Soprintendenza Archeologica della Calabria era intervenuta con vari provvedimenti di sospensione dei lavori.

    Nello stesso anno, alla luce degli importanti resti rinvenuti, è stato emanato un decreto di vincolo archeologico che, per quello che ne so, è tuttora in vigore. Per anni, nonostante il vincolo, Giamborino, e prima di lui la madre, hanno chiesto ripetutamente l’autorizzazione a costruire ottenendo categorici dinieghi. Evidentemente la fermezza e il rigore delle risposte hanno determinato la giusta convinzione dell’impossibilità di ottenere quanto richiesto».

    Avrà letto anche le intercettazioni che testimoniano il tenore dei contatti tra Giamborino e due archeologi, Mariangela Preta e Fabrizio Sudano. Se lo sarebbe aspettato?

    «Conosco da tempo la dottoressa Preta che, per qualche tempo, ha partecipato ad alcune campagne di scavo da me dirette. Come ho fatto con altri giovani colleghi, ho dato anche a lei la possibilità di introdursi all’archeologia. Ma successivamente ho interrotto ogni rapporto perché è venuta meno la stima necessaria. Il dottor Sudano è stato mio collega di Soprintendenza solo per pochi anni a ridosso del mio pensionamento. Con lui ho instaurato pochi rapporti formali. In ogni caso quanto ho appreso dall’articolo mi lascia profondamente sconcertata».

    L’incontro tra Giamborino, Sudano e Famiglietti monitorato dai militari del Ros
    In che modo aveva provato a fermare i lavori che Giamborino stava facendo su quelle antiche vestigia? Perché non ci è riuscita?

    «Fin dall’inizio dei lavori di sbancamento che hanno portato alla luce importanti reperti, la Soprintendenza era intervenuta con vari provvedimenti di sospensione dei lavori, che, però, il Comune ha ritardato a notificare, nonostante le mie sollecitazioni, consentendo così il parziale sbancamento dell’area. La presenza del vincolo e i dinieghi a costruire hanno, per molti anni, salvaguardato l’area.

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    Il palazzo costruito sui resti di una villa romana
    E poi cosa è successo?

    Nel 2015 il Soprintendente pro tempore mi ha informata della sua intenzione di concedere l’autorizzazione. Più volte le ho illustrato, anche con note interne, la notevole importanza archeologica di quell’area nell’ambito della città greco-romana, tant’è che l’autorizzazione è stata subordinata allo scavo delle pareti non ancora sbancate.

    Infine, il rinvenimento delle monumentali arcate medievali e del tratto di strada romana realizzata con grossi basoli, mi aveva fatto ben sperare in un ulteriore diniego a costruire. So che le attività di scavo sono proseguite anche dopo il mio pensionamento avvenuto il 1 maggio 2015. Quanto al non essere riuscita a fermare la realizzazione del fabbricato, mi sembra evidente che il mio parere di semplice funzionario sia stato superato a livello gerarchico».

    Che valore storico poteva avere quel sito ricoperto dal cemento?

    «Per farne comprendere la valenza storico archeologica basta dire che nella realtà urbana di Vibo, dove lo strato medievale si sovrappone a quello romano e questo a quello greco, dopo anni di ricerche a cominciare dall’Orsi (1921) fino ai nostri giorni, non si era mai trovato un asse viario di età romana che consentisse di conoscere, anche se parzialmente, l’impianto urbano romano».

    In quegli anni sentiva la pressione di Giamborino e degli ambienti (politica, massoneria, burocrazia) da cui secondo gli inquirenti avrebbe tratto vantaggi?

    «Le pressioni dei vari ambienti sono state fortissime e costanti in tutto il periodo in cui sono stata responsabile di Vibo Valentia. Ma la mia personale risposta, sostenuta dal Soprintendente che più a lungo ha diretto l’Ufficio (dottoressa Elena Lattanzi), è stata sempre molto risoluta e convinta. Affermando la prevalenza dell’interesse dello Stato e la priorità della tutela».

    Lei ha passato anni ad eseguire scavi e a dirigere diversi musei calabresi. A Vibo ha trovato un ambiente diverso rispetto alle sue altre esperienze?

    «Purtroppo la situazione descritta per Vibo si riproponeva, talvolta anche con maggiore esasperazione, anche nelle altre località e sedi museali di cui sono stata responsabile (vedi Rosarno)».

    3/fine

  • Un palazzo sui resti romani? Nella Vibo dei massoni si può fare

    Un palazzo sui resti romani? Nella Vibo dei massoni si può fare

    La grande storia calpestata, ricoperta di cemento e connivenze, passa per i contatti imbarazzanti tra un presunto faccendiere del clan Mancuso, Giovanni Giamborino, e alcuni archeologi con cui avrebbe avuto una certa confidenza e da cui avrebbe ricevuto più di un consiglio per ottenere l’ok ai lavori di un palazzo costruito ricoprendo una strada e una villa di epoca romana [LEGGI QUI LA PRIMA PARTE]. Succede – è successo – a Vibo, piccolo capoluogo calabrese considerato da molti una capitale di affari e intrecci non proprio trasparenti. Se lo siano o meno quelli al centro di questa vicenda spetta ai giudici stabilirlo, ma ciò che emerge dalle carte di “Rinascita-Scott” è quantomeno sorprendente per tanti cittadini che conoscono per esperienza diretta le lungaggini e le pastoie burocratiche cui si va incontro, magari giustamente, quando si ha a che fare con vincoli e Soprintendenze.

    La firma mancante

    Per Giamborino non era così: il finale della piccola storia di cui è protagonista è noto e non è per niente lieto. È riuscito a ottenere l’autorizzazione che cercava dopo aver messo in moto conoscenze e «amicizie» che vanno anche oltre i rapporti intrattenuti con Fabrizio Sudano, all’epoca funzionario della Soprintendenza e oggi al vertice dello stesso organismo che ha competenza su Reggino e Vibonese, e Mariangela Preta, archeologa che ha collaborato da esterna con la Soprintendenza e che oggi dirige il Polo museale di Soriano. Né Preta né Sudano sono indagati, ma gli inquirenti osservano come si dedichino all’iter che interessa a Giamborino. Che a un certo punto rischia di allungarsi perché serve una firma di Gino Famiglietti, già alto dirigente del Ministero e per un periodo anche alla guida della Soprintendenza calabrese, che però non è sempre nella regione e ha tante cose di cui occuparsi.

    Cambio della guardia, progetto sbloccato

    «Ma cerco di arrivarlo io a questo, a questo pagliaccio … perché io lo arrivo, a Roma lo arrivo non è che non lo arrivo…», dice il presunto faccendiere riferendosi proprio a Famiglietti. Che poi riesce effettivamente a incontrare proprio nel suo cantiere dopo aver contattato, in una triangolazione che ricorre spesso nelle intercettazioni, sia Preta che Sudano. L’alto burocrate non rimane però alla guida della Soprintendenza della Calabria. E dopo la sua sostituzione Giamborino riesce ad ottenere, tramite «interessi nonché interventi criminali e di soggetti appartenenti alla massoneria vibonese – scrive il Rosquanto non potrebbe legalmente avere: lo sblocco del progetto e la prosecuzione dei lavori».

    «Mi hanno detto che è un fratellino»

    Preta gli dice al telefono di essere a conoscenza di tutto: «Io so tutto e so anche una notizia più bella … che Famiglietti si è levato dalle palle …(ride) … te lo dico proprio in francese…». La guida della soprintendenza passa a Salvatore Patamia (anche lui non indagato), la cui nomina viene accolta con una certa soddisfazione. Preta rassicura Giamborino dicendo che «la firma» è questione di giorni e che non c’è più bisogno di mettere in mezzo terze persone. Ma l’impiegato pensa comunque a una sua personale corsia preferenziale: «Io ho il modo perché è intimo amico di un mio carissimo amico Patamia». E per chiarire il concetto dice: «Adesso m’hanno detto che è un fratellino, capito, quindi io già mi ero mosso e non ci sono problemi». Aggiungendo: «Se tu hai bisogno di questo qua, non ci sono problemi hai capito?». Preta risponde ridendo: «Questo è il dato in più che ci serve».

    Il compasso, uno dei più noti simboli massonici
    Il Gran Maestro

    Quando un’altra persona gli chiede chi fosse il «carissimo amico» Giamborino risponde che si tratta di «don Ugo». Secondo gli inquirenti è Ugo Bellantoni, inizialmente indagato ma poi uscito pulito dall’inchiesta con un’archiviazione, già responsabile dell’ufficio tecnico del Comune di Vibo e Gran Maestro Onorario del Grande Oriente d’Italia-Palazzo Giustiniani. Secondo la Dda sarebbe lui a procuragli un appuntamento con Patamia al Parco Scolacium di Roccelletta di Borgia. Mentre ci va, Giamborino scherza con la persona che è con lui in auto: «Lo vedi quanto sono precisi la massoneria? Quanto conta… La massoneria è come la maffia … (ride) …». L’incontro viene in realtà rinviato all’indomani, ma ciò che conta è il risultato: in pochi mesi, da gennaio a maggio 2016, Giamborino risolve i suoi problemi e arriva l’agognata firma sul progetto di variante.

    Cemento sui resti romani

    Se ci fossero dubbi sulle intenzioni dell’impiegato rispetto ai resti di epoca romana è lui stesso a spazzarli via: «Una volta che io vado là… Con mezzi… E sopra mezzi… Che devo vedere di nascondere già quelle muraCon quella cazzo di strada… Buttare il solaio… Per fare i lavori là…». E ancora: «La getto là sotto e apparo con la brecciadi modo che non si veda la strada che siccome deve venire la Soprintendenza… di modo non la vede per niente quella strada (…) Una volta che togliamo la strada poi dieci cm di terra dobbiamo togliere e la gettiamo là dentro stesso e le pietre le buttiamo là dentro … li mettiamo da un lato no? E dall’altro lato riempiamo di terra … poi … e poi gli gettiamo 4 5 6 carrettate di breccia per completarlauna volta che gli metto la breccia glielo copriamo là sotto e non vedono niente poi … vedono tutto paro loro … hai capito?».

    I resti di epoca romana catalogati

    «Ho paura della Sopritendenza»

    Nella stessa proprietà, conferma Giamborino, ha trovato «quella strada del 300una strada del 300… oggi ho buttato un muro… se mi beccano mi fanno rovinato… mi rompeva il cazzo quel cazzo di muro mi stavano sui coglioni… e l’ho buttato… adesso ho paura della soprintendenza». Commentando le tante tracce di storia che emergono in quella parte di Vibo l’impiegato dice che lì «c’è il tesoro più importante del mondo… è documentato e tutto… e infatti questo qua… qua dovevano fare un palazzo è stato fermo… è fermo da cinquant’anni… il mio da trenta… questo da cinquanta… io sono riuscito a svincolarlo… nessuno gl’altri sono riusciti a svincolarlo…».

    L’archeologa scomoda

    Per lui, come raccontato dal maggiore del Ros Francesco Manzone nell’aula bunker, c’era solo un unico, grande ostacolo. Una professionista, Maria Teresa Iannelli, che allora era responsabile della Sovrintendenza. «Per 25 anni non mi ha dato retta, non mi ha neanche ricevuto», dice sdegnato. E lei fino a poco prima di andare in pensione si è sempre messa di traverso, non ha mai dato autorizzazione per consentire che il cemento ricoprisse le tracce della grande storia. Ma il presunto faccendiere dei Mancuso è riuscito lo stesso ad aggirare l’ostacolo risalendo le gerarchie dei Beni culturali. «Io tramite Roma … Tramite il ministero … Tramite tutti … Sono riuscito a parlare con loro …».

    2/continua

  • Cemento sui resti romani, le intercettazioni che imbarazzano la Soprintendenza

    Cemento sui resti romani, le intercettazioni che imbarazzano la Soprintendenza

    La piccola storia vibonese che passa velocemente per le cronache locali è piena di episodi su tombaroli che, nascosti di giorno nei garage o nottetempo in qualche giardino, scavano buche e cunicoli in cerca di reperti archeologici da trafugare. Stavolta i resoconti di giudiziaria restituiscono invece una vicenda all’incontrario: un presunto factotum di potenti boss che nasconde, sotto una colata di cemento e collusioni, dei resti di epoca romana di grande valore storico. Per costruire in pieno centro a Vibo, in area vincolata, un palazzone in stile moderno con appartamenti e spaziosi magazzini da piazzare sul mercato.

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    Il palazzo costruito sui resti di una villa romana
    Il cemento tra le pieghe di Rinascita Scott

    L’episodio era quasi passato inosservato a dicembre del 2019 tra le pieghe dell’imponente mole di documenti dell’inchiesta “Rinascita-Scott” ma, di recente, l’ha riportato alla luce un investigatore dei carabinieri già in servizio al Ros di Catanzaro. Deponendo in aula bunker durante il maxiprocesso istruito dal pool di Nicola Gratteri, il maggiore Francesco Manzone – scrive il giornalista Pietro Comito su LaC raccontando l’udienza – dice che il suo reparto aveva allestito «un vero e proprio Grande fratello» attorno agli uomini di fiducia del superboss Luigi Mancuso. Uno di questi è il presunto faccendiere al centro della vicenda: Giovanni Giamborino, considerato uno ‘ndranghetista battezzato nella frazione Piscopio e cugino dell’ex consigliere regionale Pietro. Per la Dda è un elemento chiave dell’intera inchiesta: avrebbe un ruolo di primo piano negli affari e nelle strategie della cosca che da Limbadi domina il Vibonese e non solo.

    La storia sotto quel cemento
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    Una parte dello stabile in costruzione sui resti di epoca romana

    Il palazzone moderno è suo: ne avrebbe messo insieme la proprietà unendo più particelle, fin dagli anni ‘80, grazie ai soldi di tre fratelli ai vertici della famiglia Mancuso (Antonio, il defunto Pantaleone «Vetrinetta» e, appunto, Luigi, il «supremo»). Sotto quel cemento ci sono i resti di una strada e di una villa romana che Giamborino ha ricoperto, pur essendo un luogo sottoposto a vincolo archeologico, grazie ad una successione impressionante di presunte connivenze che passa per la Soprintendenza, coinvolge massoni di alto rango e, dal Comune di Vibo, arriva fino ai palazzi ministeriali. A raccontarlo, stavolta, non sono i pentiti, ma lo stesso factotum che, pur essendo un semplice impiegato comunale, dimostra di avere conoscenze ben addentrate nel mondo dei colletti bianchi. E non sapendo di essere intercettato, ne parla moltissimo.

    L’incontro con il soprintendente

    A partire da gennaio 2016 Giamborino si muove per ottenere dalla Soprintendenza archeologica l’approvazione di una variante «necessaria» per completare i lavori e poter vendere almeno parte del fabbricato. Il Ros monitora tanti contatti tra Giamborino e Mariangela Preta, archeologa «di fiducia dell’impresa» che effettua i lavori, e con un funzionario all’epoca in servizio alla Soprintendenza di Reggio, Fabrizio Sudano. Sia Preta che Sudano non sono indagati. La prima oggi dirige il Polo museale di Soriano e spesso ha collaborato da esterna con la Soprintendenza, il secondo dal 15 novembre scorso è il nuovo soprintendente per la città metropolitana di Reggio Calabria e la provincia di Vibo Valentia, mentre nei mesi precedenti era stato alla guida di quella di Cosenza e, ad interim, anche di quella di Catanzaro e Crotone.

    Il rapporto tra Giamborino e Sudano

    Dai brogliacci dell’inchiesta depositati agli atti del processo emerge quello che per gli inquirenti è un «rapporto di confidenza» tra Giamborino e Sudano, in una triangolazione di contatti che coinvolge quasi sempre anche Preta. A un certo punto serve una firma da parte di un alto burocrate del Ministero dei beni culturali che, in quel momento, ricopre anche l’incarico di soprintendente della Calabria. Si tratta di Gino Famiglietti. È Preta a spiegare a Giamborino che ruolo abbia, suggerendogli anche di chiamare Simonetta Bonomi – oggi soprintendente del Friuli Venezia Giulia – che «lo conosce».

    I resti di epoca romana catalogati
    «Vado e trovo Franceschini, il ministro proprio»

    Il passaggio che va fatto con Famiglietti rischia però di comportare un’ulteriore perdita di tempo, allora Giamborino dice alla stessa Preta che «se ci sono problemi vado e chiama a Franceschini…vado e trovo Franceschini». Il presunto fedelissimo di Luigi Mancuso, quindi, non nasconde l’intenzione di rivolgersi «ad amicizie» non meglio specificate «in modo – annotano gli inquirenti – da poter raggiungere gli uffici ministeriali». Lo ribadisce parlando con il titolare dell’impresa di costruzioni: «Io faccio salti mortali, io se questo qua non me la firma giovedì, io in settimana salgo a Roma…ah ah io vado e trovo a Franceschini, il ministro proprio…non è che mi mancano le cose, o mi mancano le amicizie».

    Serve un’autorizzazione per quel cemento

    A un certo punto nei colloqui con Sudano spunta addirittura una relazione redatta da Giamborino, o da chi per lui, che il funzionario, garantisce, avrebbe fatto propria. «Allora ti mando quella carta – dice Giamborino – finta che l’hai fatta tu la relazione». Il funzionario risponde: «Questa mandamela che mi serve…». Aggiungendo: «Quella la faccio mia, che io faccio l’istruttoria come se ho notato la differenza del progetto e le cose positive sono queste…io più di quello…». In seguito Sudano ribadisce: «La relazione che ha fatto, che hai fatto tu, che ha fatto non lo so l’ingegnere, sulle cose positive rispetto al progetto vecchio, l’ho fatta già mia, che gliela spiego io, molte cose non gliele spiegherò neanche, comunque non ti preoccupare che faccio in modo da farti avere un ok».

    1/continua

  • Natale De Grazia: 26 anni senza verità e giustizia

    Natale De Grazia: 26 anni senza verità e giustizia

    Ventesei anni anni senza verità. Con tanti dubbi, tanti sospetti. Qualche certezza. Ma nessuna verità. Sicuramente nessuna verità giudiziaria. Ma nubi oscure, misteri inquietanti, anche per quanto concerne quella storica. Moriva 26 anni fa, il 13 dicembre 1995, in circostanze mai chiarite, il Capitano di Fregata della Marina Militare Italiana, Natale De Grazia. Reggino e punta di diamante del pool investigativo che, proprio nella città dello Stretto, stava indagando sulle cosiddette “navi dei veleni”. Le imbarcazioni che, attraverso un accordo tra criminalità, faccendieri e pezzi deviati dello Stato, sarebbero state affondate al largo delle coste calabresi. Con il proprio carico di rifiuti tossici e radioattivi.

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    La nave Jolly Rosso arenata sulla spiaggia di Amantea
    Fine di un’inchiesta

    Quel pool che, dopo la misteriosa morte di De Grazia, si sfalderà. E con esso, dissolte anche tutte le speranze investigative di far luce su quello che, fin da subito, era apparso come un sistema enorme. Fatto di connivenze tra criminalità e strutture parastatali. E che si allungava ben oltre la Calabria, ben oltre l’Italia, con traffici internazionali di scorie e armi. Proprio quegli affari su cui, probabilmente, indagavano anche i giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi in Somalia nel marzo 1994. Appena un anno e mezzo prima,  rispetto alla morte di Natale De Grazia, avvenuta a Nocera Inferiore, a neanche metà di quel viaggio, forse decisivo per l’inchiesta, che doveva portarlo fino al porto di La Spezia. Snodo cruciale delle inquietanti rotte delle “navi dei veleni”.

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    Ilaria Alpi e Milan Hrovatin
    Uno che sapeva leggere una mappa nautica

    Si indaga su navi affondate e De Grazia è un marinaio, uno che il mare l’ha sempre amato. È l’unico, di fatto, che sa leggere una mappa nautica. E con le proprie indagini riesce a restringere il campo dei possibili affondamenti dolosi a una trentina di episodi. Indagini delicatissime che hanno fatto affiorare il coinvolgimento dei Servizi Segreti negli strani viaggi di navi che avrebbero avvelenato i mari calabresi. Ma, tra depistaggi, pedinamenti, fughe di notizie e, dopo la morte di De Grazia, prepensionamenti, tutto il pool – coordinato dal magistrato Francesco Neri – prende strade diverse. E la storia non imboccherà mai la strada della verità.

    Squarci di luce

    Nessuna verità giudiziaria. Men che meno storica. Solo, di tanto in tanto, qualche flash di verità. Veloce e fugace come un lampo. Ma non per questo non abbagliante. Come accade con la conclusione dei lavori della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti, presieduta dall’avvocato Gaetano Pecorella, di qualche Legislatura fa. Conclusioni che chiamano in causa una perizia che attesterebbe come De Grazia, a bordo di quell’auto che corre nella notte per raggiungere La Spezia, non sarebbe morto di morte naturale. L’ennesimo di tanti, tantissimi, viaggi per provare ad accertare la verità sulla motonave Rosso, spiaggiata ad Amantea anni prima, e sulle altre navi che, con i propri carichi nocivi, avrebbero avvelenato i mari calabresi. L’ultimo viaggio.

    “Cause tossiche”

    Nella propria relazione, l’esperto non farebbe altro che confermare i sospetti che anche i profani hanno sempre alimentato sul decesso di un uomo sano e costantemente monitorato, per via della sua attività militare: “Si trattava di soggetto in giovane età, in buona salute, senza precedenti anamnestici deponenti per patologie pregresse, che conduceva una vita attiva e, come militare in servizio, era sottoposto alle periodiche visite di controllo dalle quali non sembra siano emersi trascorsi patologici” è scritto nella relazione. Il perito lo scrive chiaramente, parlando di “cause tossiche”.

    Secondo le conclusioni del perito della Commissione Ecomafie, però, “l’indagine tossicologica non è più ripetibile, e quindi il caso, dal punto di vista medico legale deve essere, ad avviso del sottoscritto, considerato chiuso”.

    Una pagina che contiene i dati di un esame istologico eseguito sul corpo di Natale De Grazia

    L’intrigo internazionale

    Non solo il terreno, non solo il mare. Ad essere stato avvelenato, dunque, sarebbe stato anche il Capitano De Grazia. Da sempre, la sua famiglia, ma anche i gruppi ambientalisti (Legambiente su tutti) si battono per ricercare la verità. Un uomo “normale” chiamato a fronteggiare, senza tirarsi indietro, sistemi criminali molto più grandi.

    Il lavoro della Commissione Ecomafie presieduta da Pecorella fu importante non solo per l’inquietante conclusione sulla morte di De Grazia. Ma anche per una capillare ricerca di indizi e prove sul business delle “navi dei veleni”. Dalle audizioni dei compagni di viaggio di De Grazia, passando per le sconvolgenti rivelazioni fatte dal prefetto Giorgio Piccirillo, direttore dell’Aisi (l’Agenzia d’informazione e sicurezza interna), che, nel corso della propria audizione nel luglio 2011 ha depositato due note dei Servizi Segreti, che già nel 1992 fornivano particolari circa l’interessamento delle cosche di ‘ndrangheta nello smaltimento illecito delle scorie. Come abbiamo raccontato alcune settimane fa.

    Il giallo delle autopsie

    Il documento agli atti della Commissione Ecomafie mina duramente le conclusioni cui si arrivò con due distinte autopsie, che individuarono in un “arresto cardiocircolatorio” la causa della morte di De Grazia. Verrebbe messa in dubbio, dunque, la conclusione che De Grazia sia morto per cause naturali. E quindi cresce l’inquietante sospetto che l’ufficiale sia stato ucciso, avvelenato, probabilmente per le indagini portate avanti. Come sostenuto, da tempo, dalla famiglia e dagli ambientalisti. Nel corso degli anni sono stati almeno quattro gli accertamenti medico-legali effettuati sul corpo esanime del Capitano De Grazia.

    I primi due saranno stilati, a distanza di diversi mesi, dalla dottoressa Simona Del Vecchio. Una doppia autopsia affidata allo stesso medico legale: sarà questa una delle maggiori contestazioni. Proprio la perizia medico-legale della dottoressa Del Vecchio svolta sul corpo senza vita di De Grazia, “non corrisponde alla verità scientifica” secondo i nuovi accertamenti.

    Un esame svolto, per la prima volta, il 19 dicembre 1995, sei giorni dopo il viaggio verso La Spezia. Un esame lungo in cui la dottoressa Del Vecchio darà atto della negatività degli esami chimico-tossicologici concludendo in maniera certa: “Può ricondursi a una morte di tipo naturale, conseguente a una insufficienza cardiaca acuta, inquadrabile più specificatamente nella fattispecie della morte improvvisa. La morte improvvisa è un evento repentino ed inatteso, caratterizzato dal fatto che il soggetto passa da una condizione di completo benessere o almeno di assenza di sintomi alla morte in un arco di tempo inferiore alle 24 ore”.

    “La morte improvvisa dell’adulto”

    Nel suo primo scritto, la dottoressa Del Vecchio parla di “morte improvvisa dell’adulto”, che troverebbe origine in un’ischemia del miocardio, con successive gravi turbe del ritmo cardiaco. Ma Natale De Grazia è una persona giovane, non ha neanche quarant’anni. È un militare, ed è soggetto a frequenti visite mediche. In cui non ha mai riscontrato alcun tipo di patologia cardiaca.

    Questa la spiegazione della dottoressa Del Vecchio: “Il meccanismo di molte morti improvvise cardiache è costituito da uno stato di instabilità elettrica da ipossia cronica, cosicché un aumento delle richieste metaboliche del cuore, in conseguenza di uno sforzo fisico ovvero di un’intensa emozione, ma anche una condizione di permanente tensione emotiva e di allarme conseguente all’espletamento di attività professionali particolarmente impegnative, delicate e rischiose, fonte di enormi responsabilità (come nel nostro caso) può determinare uno stato di stress continuo che alla fine precipita la situazione cardiaca”.

    La stessa conclusione di un anno e mezzo prima

    Il 23 aprile 1997, un anno e mezzo dopo la morte di De Grazia, la dottoressa Del Vecchio (insieme ad altri eminenti professori universitari) verrà nuovamente incaricata dalla Procura della Repubblica. Con il compito di eseguire “ulteriori accertamenti chimico-tossicologici per la ricerca di sostanze tossiche e/o velenose, nonché approfondisca altresì quant’altro utile ai fini delle indagini, volte a verificare la causa del decesso”.

    Il frontespizio della relazione medico-legale sulla morte del Capitano De Grazia

    E anche in questo caso, le considerazioni medico-legali escluderanno “la presenza di sostanze tossiche di natura esogena nei campioni esaminati”. Negativa risulterà anche la ricerca di arsenico nei capelli (per la verifica di un’eventuale intossicazione cronica) e nel fegato (per la verifica di eventuale intossicazione acuta). La conclusione è la medesima di un anno e mezzo prima: “Si ritiene, anche alla luce delle ulteriori indagini di laboratorio eseguite che la causa della morte del Capitano De Grazia Natale sia da ricondurre ad un evento naturale tipo “morte improvvisa dell’adulto”, come già ci esprimemmo in merito nella precedente relazione di consulenza tecnica medico-legale affidataci”.

    La perizia incaricata dalla famiglia De Grazia

    In mezzo tra le due perizie, interverrà la perizia di parte della famiglia De Grazia, redatta, dal dottor Alessio Asmundo. Il quale, pur partendo da presupposti totalmente diversi, con riferimento, soprattutto, alle condizioni dell’apparato cardiaco menzionate dalla dottoressa Del Vecchio, arriverà a una conclusione simile. “Si deve concludere, quindi, che la morte di De Grazia Natale rappresenta caratteristico accidente cardiaco improvviso per insufficienza miocardia acuta da miocitosi coagulativa da “superlavoro” in soggetto affetto da cardiomiopatia (dilatativa) da catecolamine” scrive.

    De Grazia sarebbe morto, dunque, per cause naturali. Un arresto cardiaco dovuto al troppo lavoro, al troppo stress derivante dalle proprie indagini. Una “verità” che resta in piedi, nonostante le polemiche, per molto tempo.

    L’ultima perizia

    Quindici anni dopo arriverà l’ultima perizia, la quarta. Quella che, pur considerando “l’indagine tossicologica non più ripetibile” a causa del tanto, tantissimo, tempo trascorso, allo stesso tempo solleverà seri dubbi sulle cause “non naturali” della morte.

    La medaglia del presidente della Repubblica

    A distanza di ventisei anni dalla scomparsa in pochi credono alla reale possibilità che De Grazia, un uomo in piena forma, di neanche quarant’anni, sia morto per cause naturali. Nonostante l’enorme stress cui sarebbe stato sottoposto. L’ipotesi più accreditata (ma allo stesso tempo mai provata) è che l’ufficiale, con i propri accertamenti, sia finito in mezzo storie oscure e inquietanti.

    Come è facile percepire, peraltro, dalle motivazioni con le quali il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, conferirà la medaglia d’oro alla memoria dell’ufficiale: “Il Capitano di Fregata Natale De Grazia ha saputo coniugare la professionalità, l’esperienza e la competenza marinaresca con l’acume investigativo e le conoscenze giuridiche dell’Ufficiale di Polizia Giudiziaria, contribuendo all’acquisizione di elementi e riscontri probatori di elevata importanza investigativa per la Procura della Repubblica di Reggio Calabria. La sua opera di Ufficiale di Marina è stata contraddistinta da un altissimo senso del dovere che lo ha portato, a prezzo di costante sacrificio personale e nonostante pressioni e atteggiamenti ostili a svolgere complesse investigazioni che, nel tempo, hanno avuto rilevanza a dimensione nazionale nel settore dei traffici clandestini e illeciti operati da navi mercantili”.

  • Persone scomparse, in Calabria sono più di cinquemila

    Persone scomparse, in Calabria sono più di cinquemila

    Dal 1974 allo scorso anno le persone scomparse in Calabria sono più di 5mila: 3500 di origini straniere, tra maggiorenni e minorenni. Si tratta di dati presenti nel Report del commissario straordinario del Governo pubblicato a fine 2020. In quello che fotografa invece il primo semestre del 2021 sono 238 gli individui di cui non si ha più traccia. E oggi, 12 dicembre, si celebra proprio la Giornata nazionale dedicata alle persone scomparse.

    In Calabria nei primi 6 mesi del 2021

    Un allontanamento volontario da casa, oppure da un istituto o da una comunità, disturbi psicologici, sottrazione da parte del coniuge o di un familiare, essere vittime di un reato: quando una persona scompare, in genere sono questi i motivi prevalenti. Delle 238 persone scomparse in Calabria nei primi sei mesi del 2021, 177 sono stranieri e 61 italiani. I minori stranieri scomparsi sono 150 (solo 13 ritrovati), mentre quelli italiani sono 20 (sedici mancano all’appello).

    In maggioranza sono stranieri

    In Calabria dal 1974 al 2020 sono state presentate ben 9270 denunce di persone scomparse, 4251 sono state ritrovate e 5019 di cui non si sa più nulla. I dati si riferiscono a cittadini di ogni età sia italiani sia stranieri. Ma gli stranieri, soprattutto migranti, ancora da ritrovare dal 1974 allo scorso anno, sono più della metà: 3457 per l’esattezza. Afghani e magrebini guidano la triste classifica delle persone scomparse al Sud. I dati calabresi del 2021, calcolando lo stesso semestre, sono maggiori rispetto all’anno scorso ma inferiori rispetto al 2019. Il 2020 con la pandemia e la ridotta capacità di spostamento ha fatto registrare un drastico calo dei numeri.

    Approvato il Piano provinciale a Reggio e Catanzaro

    Dopo la divulgazione dei dati da parte del Governo, Maria Teresa Cucinotta e Massimo Mariani – rispettivamente prefetti di Catanzaro e Reggio Calabria – hanno presieduto un tavolo tecnico durante il quale è stato discusso e approvato il nuovo Piano provinciale di intervento coordinato per la ricerca delle persone scomparse. Aggiornato con le recenti indicazioni del commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, ha come base “il rinnovamento e l’incremento della prontezza operativa e della capacità di risposta di chi opera sul territorio, richiamando le strategie di intervento e le risorse umane e strumentali a disposizione”.

    Il caso dell’ex prete di Catanzaro scomparso nel 2019

    Massimo Torregrossa ha 51 anni quando sparisce. Da allora lo cercano inquirenti, parenti e amici, grazie anche all’associazione Penelope. Ma di lui non si sa più nulla. Molto conosciuto a Catanzaro dove era sacerdote. Conosce una donna, decide di lasciare l’abito talare e sposarsi. La moglie all’epoca frequentava la facoltà di Medicina ed aveva 17 anni in meno dell’ex prete. La storia d’amore tra i due prosegue per circa 10 anni ma poi arriva la crisi e la decisione di separarsi. Poco dopo questa scelta l’ex prete sparisce nel nulla. Era il 13 agosto 2019. I primi ad accorgersi della sua scomparsa sono i colleghi della fondazione dove lavorava. Dopo due anni i familiari e gli amici non credono all’allontanamento volontario, né all’ipotesi di suicidio e stanno cercando di tenere aperta l’inchiesta giudiziaria opponendosi alla richiesta di archiviazione degli inquirenti. Le sue ricerche comunque proseguono a prescindere dagli esiti giudiziari.

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    Migranti sbarcati a Roccella in attesa sulla banchina del porto
    Scomparsi o hanno solo lasciato l’Italia?

    Gli stranieri che si allontanano dai centri di accoglienza presentano maggiori difficoltà sotto il profilo della ricerca e del possibile ritrovamento, per il fatto che molti considerano l’Italia come Paese di transito e raggiungono poi altre nazioni, soprattutto del Centro e Nord Europa. Per quanto riguarda i minori, sia italiani sia stranieri, il dossier sottolinea che sono in corso studi e iniziative particolari da intraprendere per arginare un problema così difficile da affrontare. Dal primo gennaio 2007 al 30 giugno 2021 il quadro generale sul fenomeno conta un totale di 197.114 denunce di scomparsa, 145.782 ritrovamenti e 51.332 scomparsi ancora da ritrovare.

  • Migranti come schiavi, sotto inchiesta la moglie dell’ex prefetto anti Lucano

    Migranti come schiavi, sotto inchiesta la moglie dell’ex prefetto anti Lucano

    È durato poco più di due anni e mezzo l’interregno di Michele Di Bari al comando del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero degli Interni, organo che si occupa di gestire tutti, o quasi, i migranti nel nostro Paese. L’ex Prefetto di Reggio e Vibo ha presentato alla ministra Lamorgese le proprie dimissioni. Pochi minuti prima le agenzie avevano battuto la notizia dell’indagine costata a Rosalba Livrerio Bisceglia – moglie di Di Bari – un provvedimento di obbligo di dimora e l’obbligo di firma alla Pg.

    Il tribunale di Foggia
    Il tribunale di Foggia

    Secondo le accuse della procura di Foggia la donna, proprietaria di un’azienda agricola in Puglia, si sarebbe rivolta ad un uomo di origine gambiana per il reclutamento di alcuni operai, risultati poco più che schiavi e vittime di quel sistema di caporalato e sfruttamento del lavoro che accomuna il nord della Puglia al sud della Calabria. «Sono dispiaciuto moltissimo per mia moglie che ha sempre assunto comportamenti improntati al rispetto della legalità. Mia moglie – ha dichiarato Di Bari comunicando il suo passo indietro – insieme a me, nutre completa fiducia nella magistratura ed è certa della sua totale estraneità ai fatti contestati, confidando che presto la misura dell’obbligo di dimora sarà revocata».

    Foggia come Rosarno

    C’è dell’ironia nelle dimissioni dell’ex Prefetto di Reggio che, completamente estraneo all’indagine, è caduto per “opportunità politica” proprio a causa di un’inchiesta che affonda le radici in quel sistema di mancata integrazione e semi schiavitù che, da prefetto calabrese, lo ha visto protagonista di tante pagine della cronaca recente. Sbarcato in riva allo Stretto nel 2016 Di Bari può “vantare” un curriculum fatto di 19 commissioni d’accesso spedite in altrettanti comuni del reggino, con uno score di 18 commissariamenti per mafia ottenuti, praticamente un record.

    Ma è con i migranti che Di Bari si fa notare, guadagnandosi sul campo il posto nella cabina di regia del Viminale mantenuto fino a venerdì. I carabinieri di Manfredonia hanno individuato nella baraccopoli della “ex pista” di Borgo Mezzanotte lo slum dove i migranti vittima di caporalato protagonisti della vicenda foggiana trovavano rifugio. Uno slum praticamente identico a quello sorto alle spalle del porto di Gioia Tauro all’indomani della rivolta del 2010 e che la Prefettura guidata da Di Bari fece sgomberare in favore di telecamera durante una visita dell’allora titolare del Viminale, Matteo Salvini.

    Le tendopoli di San Ferdinando

    Uno sgombero reso necessario dalle condizioni disumane in cui erano costretti i migranti ospitati (e nel quale trovò la morte, tra gli altri, anche Becky Moses, la donna nigeriana costretta dai decreti sicurezza ad abbandonare i progetti di Riace, e arsa viva nella baracca dove aveva trovato rifugio). E che si dimostrò praticamente inutile, visto che a distanza di qualche giorno, una nuova tendopoli, autorizzata dalla stessa Prefettura, fu installata 500 metri più in là, in uno dei tanti slot vuoti del deserto post atomico della zona industriale del porto di Gioia.

    Da Riace a Roma

    E se a Rosarno era stato necessario l’utilizzo delle ruspe per radere al suolo la baraccopoli della vergogna, a Riace furono gli ispettori inviati dalla Prefettura di Di Bari, a smantellare il progetto di accoglienza ideato dall’ex sindaco Mimmo Lucano. Progetto che di quello che succedeva a Rosarno rappresentava l’esatta antitesi. Sono almeno cinque le relazioni che i funzionari reggini hanno stilato, a partire dal 2016, sul modello di integrazione e accoglienza che tra mille difficoltà aveva portato Riace, minuscolo e semi spopolato paesino dello Jonio reggino, all’attenzione di mezzo pianeta.

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    Mimmo Lucano

    E se in una delle relazioni – sulla quale si è basata parte dell’indagine della guardia di finanza – si sottolineavano le tante criticità legate alla gestione del denaro, in un’altra – a lungo “impantanata” negli uffici della Prefettura reggina da cui è riemersa solo dopo una formale denuncia – si certificava la capacità propositiva e inclusiva di un “modello” capace di ripopolare con profughi e richiedenti asilo, un centro abbandonato dai suoi stessi abitanti a loro volta migrati lontano in cerca di maggiore stabilità. Un modello ormai sepolto dai 13 anni di condanna inflitti all’ex sindaco dal tribunale di Locri, ma che era stato già minato dalla progressiva serrata dei progetti d’accoglienza. Serrata in cui Di Bari recitò un ruolo da protagonista.

    La “maledizione di Lucano”

    Di Bari non è l’unico funzionario finito – seppure di riflesso – nel tritacarne di un’indagine sui migranti in seguito alla chiusura dei progetti di Riace. Per uno strano caso del destino infatti anche altri due funzionari sono rimasti invischiati in altrettante indagini a pochi mesi dalla chiusura del paese dell’accoglienza. Come nel caso di Salvatore Del Giglio, che di una di quelle relazioni prefettizie fu estensore e che finì indagato dalla Procura di Palmi per una presunta relazione falsa legata ai progetti d’accoglienza a Varapodio, sul versante tirrenico d’Aspromonte. O come nel caso di Sergio Trolio – che nel processo locrese fu uno dei testimoni dell’accusa come ex tutor dei servizi Sprar – finito indagato dalla Procura di Crotone per una serie di presunte truffe legate proprio al mondo dei migranti.

  • Centro storico, anche Caruso si unisce alla protesta: «La Questura ci ripensi»

    Centro storico, anche Caruso si unisce alla protesta: «La Questura ci ripensi»

    La stangata inflitta a Stefano Catanzariti, Roberto Panza e Roberto Martino, colpevoli secondo la Questura di Cosenza di aver organizzato una passeggiata pacifica tra le macerie del centro storico fa sempre più rumore. In difesa dei tre, che hanno ricevuto una multa da quasi 1.200 euro ciascuno, si schiera anche il neo eletto sindaco Franz Caruso.

    Anche il sindaco prende posizione

    «La libertà di manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita, reca in sé, come diretta conseguenza, che anche la libertà di esprimere il proprio dissenso goda della medesima tutela«. Caruso, da buon politico, ribadisce «il pieno rispetto delle decisioni assunte dalle autorità preposte e nella convinzione che la giustizia debba fare il suo corso». Poi però viene fuori l’avvocato penalista che è in lui e non gira troppo intorno alla questione: «Non posso fare a meno di esprimere una posizione di garanzia a favore della libertà di manifestazione del pensiero e quindi anche di quella tesa ad esprimere il proprio dissenso».

    «In una società democratica come la nostra – prosegue il sindaco – sarebbe impensabile censurare aprioristicamente i contributi alla discussione ed alla riflessione, soprattutto quando, come nel caso specifico, siano finalizzati a richiamare pacificamente l’attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni su questioni e problematiche che riguardano aree degradate e bisognevoli di interventi». Infine, l’invito a ragionare meglio sulla decisione augurando ci sia un passo indietro. «Per come rappresentati, non mi pare che i fatti del luglio scorso possano in qualche modo integrare ipotesi di reato. Auspico, pertanto, che vi sia la volontà degli organi preposti a riconsiderare i comportamenti degli attivisti e a rivedere i provvedimenti adottati nei loro confronti».

    La solidarietà di decine di associazioni

    Quello di Caruso non è il solo attestato di solidarietà arrivato a Catanzariti, Panza e Martino. Già ieri oltre 40 tra associazioni, movimenti e partiti locali avevano diramato una nota per esprimere la loro vicinanza dopo la sanzione draconiana voluta dalla Digos bruzia.
    «È una solidarietà totale perché il provvedimento mira a punire l’attivismo civico e sociale che in questo frangente specifico si concretizza con una pratica molto diffusa. La passeggiata di quartiere, infatti, è una delle tecniche – pacifiche – di facilitazione della partecipazione, un modo per sensibilizzare ed educare alla cittadinanza attiva, per coltivare i valori della Costituzione italiana.

    Il provvedimento merita una riflessione attenta da parte di tutta la società civile cosentina perché crea un precedente preoccupante. Si punisce l’attivismo e si criminalizza la solidarietà. Il centro storico di Cosenza oggi versa in una situazione devastante dal punto di vista urbanistico e sociale. Denunciarne lo stato di abbandono e degrado in cui versa non può essere punito!
    Punire chi oggi pratica con metodi pacifici la partecipazione e la riflessione oltre che le buone prassi solidaristiche non può meritare questo trattamento».

    Questi i firmatari del comunicato:
    • Radio Ciroma«
    • ANPI Provincia di Cosenza ” Paolo Cappello “
    • La Terra di Piero
    • Arci APS Cosenza
    • Ass. di volontariato San Pancrazio
    • Ass. di volontariato Santa Lucia
    • Associazione “Dossetti”
    • Associazione di volontariato “MorEqual”
    • Galleria d’arte indipendente autogestita (GAIA)
    • Arci Red
    • Coessenza
    • Summer school ‘Abitare l’inabitabile’
    • R-accogliere Soc. Coop. Soc.
    • Cosenza in Comune
    • Strade di casa Soc. Coop. Soc.
    • Associazione Bernardina Barca Onlus
    • Prendocasa
    • Centro Sociale Rialzo
    • Auditorium Popolare
    • Fem.in cosentine in lotta
    • Comitato Piazza Piccola
    • Federazione Provinciale Rifondazione Comunista
    • Forum Ambientalista Calabria
    • Oncomed
    • CSV 89
    • Progetto Azadì
    • Aula studio liberata
    • Consulta pari opportunità e diritti umani comune di Rende
    • USB Cosenza
    • Cobas telecomunicazioni Cosenza
    • S.P.Arrow
    • Friday for Future Cosenza
    • Comitato Rivocati Riforma
    • Associazione Niki Aprile Gatti Onlus
    • Skalea solidale
    • Progetto Meridiano
    • Comitato di quartiere Villaggio Europa
    • ASD Ceep Villaggio Europa
    • Lav Romanò
    • Fronte Gioventù Comunista Cosenza
    • Sinistra italiana Cosenza
    • Ass. Insieme
    • SeminAria culture
    • Ass. Culturale Prometeo
    • I giardini di Eva
    • MEDIterraneanMEDIA.