Tag: giustizia

  • Rende, la poltrona “maledetta” che affossa i sindaci

    Rende, la poltrona “maledetta” che affossa i sindaci

    Non volano elicotteri né abbondano i posti di blocco, che funzionano soprattutto per le normali esigenze di controllo del traffico e della sua sicurezza.
    L’ultima volta che si è registrata un’abbondante presenza delle forze dell’ordine è stata a novembre 2012, nei giorni e nelle ore immediatamente precedenti l’arresto di Ettore Lanzino, primula per eccellenza della ’ndrangheta cosentina. A parte questo, Rende sembra la classica città tranquilla.
    Già: Rende non è Saigon né Chicago. Tuttavia, ciò non toglie che la città modello, raro esempio di sviluppo urbano in cui estetica ed efficienza, ordine e crescita sono state a lungo in equilibrio quasi perfetto, ha tanti problemi e ne genera altrettanti.

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    Ettore Lanzino, uno dei boss storici della ‘ndrangheta cosentina

    Il caso Manna

    Tengono banco nelle cronache le notizie sul recente provvedimento cautelare con cui il Tribunale del riesame di Salerno ha sospeso Marcello Manna, il sindaco di Rende, dall’esercizio dell’avvocatura per un anno.
    Ma questo provvedimento, per ora, è “platonico”: contro questa decisione del Riesame hanno fatto appello sia la Procura di Salerno, che per Manna aveva chiesto la detenzione cautelare in carcere, sia la difesa del sindaco, che ovviamente mira ad azzerare tutto.
    Non è il caso di entrare nel merito, perché su vicende delicate come questa non si ragiona come in curva sud. Anzi, è doveroso il massimo del garantismo.

    Il quinto amministratore sotto le lenti dei magistrati

    A livello giudiziario, la decisione del Riesame risulta molto “salomonica”: il gip ha rigettato la richiesta dei domiciliari perché, a suo giudizio, non sussistono esigenze cautelari. Detto altrimenti, perché Manna non scappa e perché non può più inquinare le prove, a favore e contro, che evidentemente sono già in saldo possesso degli inquirenti.
    Il merito, ovvero l’eventuale pronuncia sull’innocenza o meno del sindaco, non è assolutamente in discussione.
    Detto questo, Marcello Manna è il quinto amministratore di Rende finito sotto le lenti della magistratura. Si badi bene: nell’inchiesta della Procura di Salerno non c’è nulla che riguardi l’operato di Manna come sindaco. Però c’è un dato storico che proprio non si può tacere.

    Il boss e i due politici

    Quando fu arrestato Ettore Lanzino, Marcello Manna – che comunque faceva manifestazioni pubbliche coi Radicali ed era vicino a quell’area socialista a cavallo tra centrodestra e centrosinistra – non pensava alla carriera politica e, forse, non immaginava che sarebbe diventato sindaco di Rende.
    Ma si limitava a fare, con la provata bravura, il difensore di indagati e imputati eccellenti. Anche di Lanzino, che ha continuato a difendere quasi fino al 2018, quando fu rinviato a giudizio Sandro Principe.
    Con questo riferimento storico, non si vuol alludere a nulla. Al più, si coglie una coincidenza “suggestiva” troppo forte per passare in secondo piano.

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    Sandro Principe ha dominato la politica rendese per molti anni

    Il gotha nei guai

    L’inchiesta “Sistema Rende”, iniziata all’indomani dell’arresto di Lanzino, è esplosa nel 2016, con l’arresto di Sandro Principe, che fino a quel momento era comunque considerato un papà di Rende.
    Le accuse, che si focalizzavano sulle Provinciali del 2009, erano di corruzione elettorale, corruzione in atti amministrativi e concorso esterno in associazione mafiosa.
    Discorso simile per Umberto Bernaudo, sindaco di Rende dal 2006 al 2011 e Pietro Ruffolo, ex assessore della Giunta Bernaudo.
    Principe, è doveroso ricordarlo, è stato prosciolto dall’accusa di corruzione elettorale, Bernaudo e Ruffolo, invece, sono stati prosciolti da quella di corruzione in atti amministrativi.

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    Umberto Bernaudo, ex sindaco di Rende

    C’è un altro big di Rende coinvolto nella vicenda, sebbene non per fatti di mafia: è l’ex assessore comunale e consigliere provinciale Giuseppe Gagliardi, rinviato a giudizio “solo” per corruzione elettorale.
    In questa vicenda, c’è un’altra vittima, per fortuna solo dal punto di vista politico: Vittorio Cavalcanti, altro brillante avvocato e sindaco di Rende dal 2011 al 2013. La sua amministrazione, l’ultima di centrosinistra e l’ultima legata al carisma di Sandro Principe, naufragò mentre la Commissione d’accesso antimafia spulciava le carte del municipio.

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    Vittorio Cavalcanti è stato sindaco di Rende

    Chi tocca quella poltrona…

    Ricapitoliamo: Manna è sotto inchiesta per la vicenda del giudice Petrini, con l’accusa di corruzione in atti giudiziari, che non c’entra un bel niente con la sua attività amministrativa.
    Questo dato lo hanno colto benissimo anche i magistrati salernitani, che hanno applicato la misura cautelare solo alla professione e non al ruolo di sindaco, creando un paradosso apparente: gli impediscono di lavorare ma non di amministrare.
    Tutti gli altri, sono stati finora travolti dal ciclone giudiziario, sul quale è doveroso il garantismo perché finora non c’è alcuna sentenza che autorizzi a pensare altro.
    Fatto sta che, dal 2011 in avanti, la poltrona di primo cittadino di Rende è diventata “pericolosa”, non foss’altro perché porta un po’ sfortuna, e la città modello si è incamminata sulla via del declino.

    Peyton Place

    Più che Saigon, Rende sembra la Peyton Place del celebre romanzo scandalo di Grace Metallous: una cittadina in apparenza tranquilla, ma piena di scandali e contraddizioni.
    Secondo i bene informati, proprio a Rende hanno trovato rifugio varie “vedove bianche” (mogli di picciotti finiti sotto lupara bianca o al 41bis).
    I più maligni sussurrano altro, per fortuna al momento senza riscontri di rilievo: dietro tante fortune edilizie e aziendali vi sarebbero capitali non chiarissimi. Ma finora l’unico sospetto confermato riguarda i call center Blue Call, con sedi in Lombardia e a Rende, “scalati” dai clan reggini. Insomma, molte cose ardono sotto le ceneri ed è difficile dire in quante di esse la classe politica abbia responsabilità reali.

    Rende ha perso colpi

    Intanto, Rende, vive una situazione politica dura: non è in dissesto come la vicina Cosenza, ma ha comunque i conti a rischio. E soprattutto, corre pericoli forti, con una buona fetta di ex amministratori sotto torchio e col sindaco attuale finito comunque in un ciclone mediatico.
    Una situazione ben diversa rispetto al decennio scorso, quando Rende ancora dava le carte e sembrava essere diventata il perno dell’area urbana di Cosenza.
    Dopo di noi il diluvio? Ancora no, per fortuna. Ma stiamo ben attenti: dalle attività giudiziarie ancora in corso potrebbe scatenarsi la classica tempesta perfetta.

  • Delitto Vinci, non c’è pace tra gli ulivi

    Delitto Vinci, non c’è pace tra gli ulivi

    Il paradiso e l’inferno, la giustizia e l’ingiustizia. Figure retoriche e categorie abusate nel linguaggio comune si incrociano in maniera tremendamente concreta nell’omicidio di Matteo Vinci. Il suo paradiso, racconta la madre Sara, erano gli ulivi che lui stesso aveva piantato in un terreno a Limbadi, paese del Vibonese tristemente noto come feudo del clan Mancuso. Ed è proprio lì che ha trovato l’inferno quando, il 9 aprile del 2018, la Fiesta su cui era a bordo assieme al padre Francesco è saltata in aria dilaniandolo ad appena 42 anni.

    Il pestaggio di Francesco Vinci

    La giustizia, Sara Scarpulla e Francesco Vinci, la cercano nei Tribunali e continuano a invocarla dopo che la Corte d’Assise di Catanzaro, poco prima di Natale, ha condannato all’ergastolo coloro che sono ritenuti i mandanti dell’omicidio: Rosaria Mancuso, sorella di alcuni boss della cosca egemone, e il genero Vito Barbara. Per i presunti esecutori materiali è in corso il rito abbreviato mentre, sempre nell’ordinario, sono stati comminati 10 anni (a fronte dei 20 chiesti dall’accusa) a Domenico Di Grillo, 75enne marito di Rosaria Mancuso, accusato di un brutale pestaggio avvenuto nel 2017 contro il papà di Matteo, lasciato quasi esanime e con la mandibola fracassata davanti a quella campagna che i Mancuso/Di Grillo, secondo l’accusa, volevano prendersi a ogni costo.

    Tre ergastoli

    Gli ergastoli, ha commentato la mamma di Matteo affiancata dall’avvocato Giuseppe De Pace, «in realtà non sono due ma tre», perché va considerata anche la condanna inappellabile subita da suo figlio. Le motivazioni della sentenza sono molto attese: dovranno spiegare come sia possibile che un omicidio così efferato, commesso con un’autobomba e seguito a un pestaggio per la volontà ancestrale di dominio su un pezzo di terra, per di più nella roccaforte dei Mancuso e su ordine – stando alla sentenza di primo grado – di qualcuno che porta quel cognome, non sia ascrivibile a motivazioni, atteggiamenti, mentalità mafiose. L’aggravante è infatti caduta, ma ancora più sconcerto desta nei genitori di Matteo il fatto che da qualche giorno Di Grillo sia a casa sua.

    A pochi metri dai Vinci

    A pochi passi, qualche decina di metri, da dove Sara e Francesco Vinci continuano a fare i conti con il loro dolore, davanti a quegli occhi che hanno visto il figlio trovare una morta atroce, Di Grillo potrà ora scontare i domiciliari. La Corte d’Assise ha infatti accolto l’istanza presentata il 17 dicembre dai suoi difensori, Gianfranco Giunta e Francesco Capria, che hanno sostanzialmente posto tre questioni a tutela del loro assistito: l’età, le patologie di cui soffre, l’assoluzione per alcuni reati. Era infatti originariamente accusato di estorsione aggravata dal metodo mafioso e di tentato omicidio, mentre è stato condannato “solo” per armi e lesioni gravi.

    Infermità accertate

    Dei 10 anni che gli sono stati inflitti per il delitto Vinci dalla stessa Corte che lo ha poi scarcerato ne ha trascorso in carcere già quasi 3 e mezzo, dunque un terzo della pena. Le sue «accertate infermità», secondo gli avvocati, sono una valida ragione per farlo tornare a casa, «potenzialmente aggravata dalla condizione carceraria attuale anche in combinazione letale con il virus covid19 che ancora circola». Nell’istanza vengono elencate 8 patologie e viene descritta una situazione «molto severa e rischiosa anche in virtù dell’età avanzata e della pessima condizione psicofisica».

    Vittime e carnefici

    È dunque contenuta in poche righe la giustizia dei tecnicismi legali e si materializza in poche decine di metri l’ingiustizia della realtà. Ci sono i diritti costituzionalmente garantiti anche al peggiore degli assassini e c’è il dovere dello Stato di rendere almeno la verità a una madre e un padre costretti, per il resto dei loro giorni, a convivere con la condanna peggiore che possa esserci al mondo. È su questo confine labile, sottile e forse impercorribile da chi non conosce certi dolori, che si consuma il dramma di Limbadi. Dove le vittime sono condannate a stare accanto ai carnefici e tutto – la giustizia e l’ingiustizia, il paradiso e l’inferno – sembra destinato a trasformarsi nel suo contrario.

  • Amantea, l’ex regina del Tirreno dove anche la normalità sembra un miraggio

    Amantea, l’ex regina del Tirreno dove anche la normalità sembra un miraggio

    Era una regina del Tirreno, bella e capricciosa. Dal dopoguerra ai primi anni ’80, quando Paola e Torremezzo ne presero il posto, Amantea era anche la spiaggia dei cosentini, che vi arrivavano in tre quarti d’ora attraverso la vecchia, scassatissima “via del mare”, che passa per Potame, alle pendici del Monte Cocuzzo. Ancora: Amantea, specie negli anni ’70, era piuttosto “avanti”: parrebbe che Coreca, al riguardo, vanti il primato dei primi topless, esibiti con generosità, va da sé, dalle “forastìere”.
    La mafia? C’era senz’altro, ma era poca cosa: fece giusto scalpore, il 13 maggio 1981, il triplice omicidio di Francesco Africano, Emanuele Osso e Domenico Petrungaro, avvenuto nel contesto – particolarmente tragico – della guerra tra i clan Perna-Pranno e Pino-Sena.

    Ma il grasso colava e copriva molte cose, comprese alcune forme di sviluppo urbanistico, iniziate prima della “legge Galasso” ma che dopo sarebbero state censurate, più che dagli uomini dalla natura: ci si riferisce al lungomare, costruito attorno alla vecchia “rotonda”, e all’urbanizzazione della costa nei pressi della foce del fiume Oliva e di Campora San Giovanni. Su queste opere, va detto, sarebbe piombata la vendetta del mare, nella duplice forma delle ondate e dell’erosione, che, in particolare, ha divorato un bel tratto della scogliera di Coreca.
    Ma il presente di Amantea va oltre le peggiori dietrologie. La regina, dopo essere stata detronizzata, ha le rughe.

    Le rughe della regina

    Queste rughe sanno più di malattia che di fisiologico invecchiamento. Lo rivela il decreto con cui, il 30 giugno 2021, la Presidenza della Repubblica ha deciso di prorogare su indicazione del prefetto di Cosenza, il commissariamento della cittadina tirrenica.
    Un dato colpisce in maniera particolare: insediatisi nel 2020, i commissari prefettizi erano riusciti sì e no ad approvare i rendiconti del 2016 e del 2017, relativi cioè all’ultima fase dell’amministrazione Sabatino, e si redigono tuttora i rendiconti del biennio successivo.
    I risultati di questa prima, importante attività finanziaria sono già micidiali: certificano un debito che oscilla tra i 27 e i 30 milioni di euro. Su scala, queste cifre ricordano non poco il dissesto di Cosenza. Vediamo come.

    Il municipio di Amantea
    Il municipio di Amantea

    Amantea, che ha circa 13mila e rotti abitanti, dovrebbe pareggiare il Bilancio con più o meno 12 milioni di euro. Ciò basta a far capire come il debito, gestibile o fisiologico in città più grandi, possa risultare micidiale e quindi ripiombare la città nel dissesto.
    Il problema, come per il capoluogo, è soprattutto il mancato incasso dei tributi comunali, relativi alla rete idrica, alla Tari e alla Tasi, che sfiora percentuali da capogiro, che si attestano attorno al 60%.
    Ma c’è di peggio: molti esercenti e residenti non ricevono le tasse da circa due anni e tutto lascia pensare che il default, il secondo in meno di 10 anni sia un’ipotesi quasi certa.
    Di fronte a questo disastro, la ’ndrangheta, che pure c’è e condiziona tantissimo, potrebbe non essere il male principale.

    Tutto mafia è?

    La prima emersione giudiziaria dei retroscena amanteani è nell’ordinanza di “Omnia”, la maxi operazione antimafia condotta nel 2007 dalla Dda contro i Forastefano di Cassano. Cosa curiosa per un’inchiesta gestita dai Carabinieri del Ros, il nome di Franco La Rupa, all’epoca dei fatti (2005) sindaco di Amantea, vi appare grazie a una velina della Digos, che lo tampinava da tempo: secondo i poliziotti, La Rupa trescava con Antonio Forastefano, detto “il Diavolo”, per ottenerne l’appoggio nelle Amministrative regionali a cui partecipava in quota Udeur.

    Franco La Rupa
    Franco La Rupa

    In seguito alle accuse di Omnia, La Rupa finì in galera e subì un procedimento che, tra vicende alterne, è terminato nel 2018 con la sua condanna definitiva a cui è seguita l’interdizione dai pubblici uffici e l’applicazione della sorveglianza speciale.
    I problemi di La Rupa non finiscono qui: nel 2007 l’ex sindaco finì in un altro guaio grosso, assieme a un suo ex sodale, Tommaso Signorelli, suo compagno di avventura fino al 2004. Ci si riferisce all’operazione “Nepetia”, in cui era emersa l’eccessiva vicinanza dei due amministratori al boss Tommaso Gentile.

    Per amor di verità, occorre ricordare che La Rupa e Signorelli sono risultati prosciolti dal processo Nepetia. Ma ciò non è bastato, evidentemente, al Prefetto e alla Commissione d’accesso, che menzionano i due a più riprese nella relazione inviata al ministro dell’Interno sulla base di un assunto: la loro vicinanza ai clan resterebbe comunque provata, anche a dispetto delle assoluzioni. Di più: a dispetto degli “omissis” La Rupa e Signorelli restano riconoscibilissimi, anche perché i loro nomi sono associati alle ultime elezioni amministrative, svoltesi nel 2017, in cui entrambi hanno avuto ruoli di primo piano. Signorelli come candidato sindaco e La Rupa come organizzatore della lista civica di Mario Pizzino, risultato vincitore e poi commissariato.
    Lo diciamo con tutto il garantismo possibile: quando la polvere è troppa, non la si può più nascondere.

    Il disastro che viene dal passato

    A settembre è franata una strada che collega il centro storico di Amantea alla marina. E non è stato possibile intervenire in alcun modo, anche perché il municipio era già con le pezze al sedere: sono rimasti otto funzionari, tre dei quali prossimi alla pensione e uno “a scavalco”, cioè che lavora non solo per Amantea. Il grosso dei servizi è appaltato, inoltre, a cooperative e aziende esterne e i fondi scarseggiano.
    Il grande buco finanziario emerge tra il 2016 e il 2017, quando salta la maggioranza della sindaca Monica Sabatino, sostenuta dal Pd e vicina a Enza Bruno Bossio, e il Comune finisce in commissariamento.

    Monica Sabatino
    Monica Sabatino

    La sindaca Sabatino, tra l’altro figlia dello storico ragioniere del municipio, non presenta la relazione finale del suo mandato. Ciò spiega il successivo immobilismo di Pizzino, che scarica agevolmente ogni responsabilità sui predecessori. E spiega come mai i conti di Amantea somiglino un po’ troppo a quelli dell’Asp di Reggio Calabria. Cioè risultino misteriosi e, in buona parte “orali”. Ma il disastro risulta enorme e ha più responsabili. Soprattutto, non può essere imputato alla sola Sabatino e al solo Pizzino.
    Occorre un ulteriore passo indietro. Cioè al dramma politico e alla tragedia umana di Franco Tonnara.

    Morire col tricolore

    Tonnara è il classico sindaco del “dopo”. È stato l’amministratore che si è dovuto far carico del post La Rupa. Proveniente anche lui dalla Dc, Franco Tonnara si candida nel 2006 contro una coalizione guidata dal superbig ex scudocrociato Mario Pirillo e da La Rupa. Vince ma paga dazio: nella sua giunta c’è Tommaso Signorelli, già sodale dell’ex sindaco. Come già accennato, Signorelli finisce nell’inchiesta Nepetia e il Comune subisce lo scioglimento nel 2008.

    Per fortuna dura poco: l’anno successivo Tonnara e i suoi vincono il ricorso al Consiglio di Stato e vengono reintegrati con tante scuse e un cospicuo risarcimento. La giunta Tonnara si ripresenta nel 2011 e rivince a man bassa. Ma l’ebrezza dura poco, perché il sindaco muore poco dopo di un brutto tumore allo stomaco e Amantea torna al voto nel 2014, dopo tre anni di reggenza del vicesindaco Michele Vadacchino. Vince la Sabatino e tutto il resto è storia nota. O quasi.

    Coppole e debiti

    Potrebbe essere una scena degna di un film di Cetto La Qualunque: durante la campagna elettorale del 2017, Pizzino ringrazia dal palco Franco La Rupa. La Rupa, spiega la relazione del prefetto, si sarebbe dato dato un gran da fare per organizzare la lista che porta Pizzino alla vittoria. Anzi, si è dato da fare un po’ troppo: la lista si chiama “Azzurra”, proprio come le liste che ha organizzato nei suoi anni d’oro. Ancora: nell’aiutare a compilarla, l’ex sindaco non sarebbe andato troppo per il sottile. Infatti, pende a suo carico un’inchiesta per intimidazione, in cui è rimasto coinvolto anche Marcello Socievole, un consigliere di maggioranza costretto alle dimissioni nel 2018.

    Mario Pizzino
    Mario Pizzino

    Tuttavia, questi non sono i problemi principali, perché, come si apprende ancora dalla relazione del Prefetto, il Bilancio resta un’entità virtuale e il Comune continua a non incassare. In particolare, varie aziende e cooperative non pagano i tributi. A scavare un po’ più a fondo, ci si accorge che in alcune di queste lavorano o hanno ruoli importanti persone imparentate con i boss di Amantea e altri personaggi, legati a loro volta ai clan di Lamezia e Gioia Tauro.

    Non è il caso di approfondire oltre, perché si rischia di scrivere intere pagine di storia criminale. Che però non basterebbero a spiegare perché una cittadina una volta ricca e aperta sia finita in un declino così profondo e, probabilmente, con poche vie d’uscita.
    La ex regina si prepara al voto per la prossima primavera. Ancora non è dato capire chi si sacrificherà per sanare un disastro nato in lire a fine ’90 e poi esploso in euro.
    Nel frattempo, il territorio è presidiato in continuazione dai Carabinieri ed è pieno di poliziotti in borghese. Come se non bastasse, gli elicotteri dell’Arma sorvolano di continuo la città, che sembra vivere un paradossale coprifuoco.
    Gli anni ’80 sono lontani e irrecuperabili. Ma, in queste condizioni, anche la normalità sembra un miraggio.

  • Licio e i suoi fratelli: grembiuli di Calabria dalla P2 alle inchieste di Cordova

    Licio e i suoi fratelli: grembiuli di Calabria dalla P2 alle inchieste di Cordova

    «Massone e me ne vanto!». Così, all’indomani dell’affaire P2, mentre le istituzioni erano ancora scosse dalla scoperta dell’elenco sequestrato a Licio Gelli, Costantino Belluscio, allora deputato del Psdi, gelò Montecitorio.
    Dato assai particolare, Belluscio figurava iscritto in massoneria a Roma (dove risiedeva e dove aveva fatto una carriera notevole al fianco di Giuseppe Saragat, di cui era l’uomo ombra) e non nella sua Calabria, dov’era sindaco di Altomonte.

    Quanti erano i calabresi iscritti alla P2? Dalle liste esaminate dalla Commissione d’inchiesta presieduta da Tina Anselmi, ne risultano tredici, oltre Belluscio. Sono tutti professionisti senza ruoli di primo piano: il catanzarese Carmelo Cortese, i cosentini Paolo Bruno, Antonio Cangiano, Antonio Messina, Italo Aloia, Domenico Fiamengo e i reggini Domenico De Giorgio, Franco Morelli, Carlo Satira, Giuseppe Strati, Aurelio Tripepi, Umberto Giunta, Giuseppe Arcadi.

    L’affaire Loizzo

    L’unica “vittima” calabrese dello scandalo P2 fu il cosentino Ettore Loizzo, che già all’epoca era massonissimo, ma non piduista. Loizzo, di cui era più che nota l’appartenenza alla Libera Muratoria, aveva anche un ruolo importante nel Pci, per conto del quale fu consigliere comunale a Cosenza. La sua è una vicenda nota, riemersa di recente in seguito alla riedizione di Confessioni di un gran maestro (Cosenza, Pellegrini 2021), il libro contenente l’intervista dell’ex gran maestro aggiunto del Goi al giornalista Francesco Kostner.

    Ettore Loizzo
    Ettore Loizzo

    Loizzo fu costretto ad abbandonare il Partito comunista da Fabio Mussi, che all’epoca era segretario regionale del partito di Berlinguer e subì la pressione fortissima, politica e mediatica, di Italo Garraffa, che allora guidava la sezione cosentina del Pci.
    Al riguardo, occorre ricordare che lo Statuto del Partito comunista dell’era Berlinguer non contemplava (a differenza di quelli della Dc, del Msi e del Psi) alcuna incompatibilità tra appartenenza alla massoneria e militanza comunista.
    Anche per questo motivo, il venerabile calabrese rilasciò alcune dichiarazioni pesanti, che alludevano a un soggetto ben preciso: la ’ndrangheta.

    A proposito di Paul Getty

    «Data la mia posizione massonica, in circostanze particolari, i dirigenti del mio ex partito spesso mi hanno chiesto una mano», affermò Loizzo nell’intervista-fiume. E precisò: «Fui contattato in occasione del rapimento del giovane Paul Getty. Le indagini, secondo gli investigatori, portavano in Calabria: una pista che venne seguita anche con il contributo della massoneria».

    John Paul Getty III
    John Paul Getty III

    Non è dato sapere cosa sia riuscito a fare di concreto Loizzo nell’affaire Getty. Ma una sua frase sibillina chiarisce alcuni punti: «Se si sforzasse di pensare alle ramificazioni della nostra Istituzione, in Calabria come in ogni altra parte d’Italia, e quindi alla rete di contatti sulla quale, attraverso i Fratelli, essa è in grado di contare…». Non serve aggiungere altro. Per il momento.

    Il segreto di Pulcinella

    Un dettaglio fa pensare che molte cose della P2 siano il classico segreto di Pulcinella. Infatti, a Licio Gelli si dedicò molto il giornalista dell’Espresso Roberto Fabiani, che scrisse nel ’78 I Massoni in Italia, un libro dossier pieno zeppo di informazioni e di imbeccate, ricevute da un piduista assai particolare: l’ex capo dell’Ufficio affari riservati Federico Umberto d’Amato.

    L’inchiestona di Cordova

    Torniamo alla Calabria e veniamo al presente. Pochi mesi fa il Tribunale civile di Reggio Calabria ha rigettato una richiesta di risarcimento danni avanzata dall’ex procuratore capo di Palmi Agostino Cordova nei confronti del Grande Oriente d’Italia.
    Il fatto, in sé secondario (il Tribunale si è limitato a ritenere legittime le critiche fatte dal gran maestro Stefano Bisi all’operato di Cordova), ha riaperto vecchie polemiche mai sanate sull’inchiesta che, a inizio anni ’90, scosse la Calabria e fece tremare l’Italia.
    Ciò che resta di quest’inchiesta, finita praticamente in nulla, è una mole enorme di materiali informativi. E di nomi, che tuttora girano in rete.

    Stefano Bisi
    Stefano Bisi
    La Calabria che conta(va)

    Nel 1992, quando Tangentopoli non era ancora scoppiata e mentre la mafia alzava il tiro della sua sfida allo Stato, l’indagine di Cordova finì sulla stampa d’inchiesta e di controinformazione.
    Un dossier di Franco Giustolisi, pubblicato dall’Espresso il 22 novembre di quell’anno, traboccava di nomi che contavano. Si parla dei superbig democristiani Riccardo Misasi, Bruno Napoli e Leone Manti. Ma soprattutto, si parla di socialisti, molti dei quali hanno tuttora ruoli importanti nella vita politica calabrese: Sandro Principe, Saverio Zavattieri e Leopoldo Chieffallo.

    Agostino Cordova
    Agostino Cordova

    Questi e altri nomi furono “cantati” a Cordova da Angelo Monaco, un medico socialista di San Mango d’Aquino e destarono una fortissima impressione. Soprattutto perché l’inchiesta di Palmi riprendeva il filone dei rapporti “proibiti” tra mafia e massoneria.
    Quello dell’Espresso non fu il solo dossier: anche Avvenimenti (un settimanale nato dall’esperienza dell’Ora di Palermo, di cui ereditava la redazione) aveva pubblicato, circa un mese prima, una lunga requisitoria di Laura Cortina e Michele Gambino sulle disavventure del dottor Monaco, da cui prese il via l’inchiestona.

    Il tritacarne

    In ritardo storicamente su tutto, la Calabria rischiava di anticipare Tangentopoli. L’inchiesta di Cordova, a ripercorrerla col senno del poi, sembrava guardare in due direzioni. Da un lato, con la sua affannosa ricerca dei legami tra logge e ’ndrine, il procuratore di Palmi ripercorreva itinerari fatti negli anni precedenti dai magistrati siciliani e dalla Commissione d’Inchiesta sulla P2. Dall’altro lato, tuttavia, l’inchiesta sulla presunta massomafia si proponeva come raccordo di altre operazioni giudiziarie pesantissime. Ci si riferisce all’assassinio di Ludovico Ligato, all’inchiesta sulle tangenti a Reggio, in cui fu coinvolto Manti, e ad altri affari poco chiari, che finirono in nulla.

    Sandro Principe
    Sandro Principe

    Così fu per Riccardo Misasi, nei confronti del quale la Procura di Reggio chiese l’autorizzazione a procedere per associazione a delinquere di stampo mafioso e corruzione. E così fu per Sandro Principe, all’epoca sottosegretario dei governi Amato e Ciampi, che venne indagato da Cordova per presunti brogli elettorali a suo favore nella Piana di Gioia Tauro. Nel caso di Principe, la vicenda assunse toni grotteschi: la Camera negò a ripetizione la richiesta di autorizzazione a procedere di Cordova e la stessa Procura di Palmi propose alla fine l’archiviazione. Anche sulla base di una considerazione: Principe aveva preso pochissimi voti nella Piana. Solo un fesso, cosa che l’ex sottosegretario non è, si sarebbe esposto per un bottino così magro. Analoghi risultati giudiziari per Misasi: rifiuto dell’autorizzazione a procedere e quindi archiviazione.

    Niente grembiuli per i big?

    E l’appartenenza dei due big alla massoneria? Non risulta dalle carte giudiziarie né dagli elenchi sequestrati al Goi, alcuni dei quali continuano a girare in rete. Stesso discorso per Saverio Zavettieri, che di massoneria non ha mai parlato. L’unico ad avere un ruolo confermato in massoneria è Chieffallo. Ma questa militanza non è collegata a nessuna ipotesi giudiziaria. Restano le dichiarazioni di Monaco, seppellite nelle macerie dell’inchiesta.

    Torniamo a Loizzo. Il venerabile cosentino, si trovò al vertice del Goi in qualità di “reggente” assieme a Eraldo Ghinoi dopo che il gran maestro Giuliano Di Bernardo, altro superconfidente di Cordova, aveva mollato il Goi per fondare la Gran Loggia Regolare d’Italia. Di Bernardo, proprio qualche anno fa, si prese una vendetta postuma nei confronti di Loizzo. L’ex gran maestro del Goi, aveva dichiarato che Loizzo gli avrebbe confidato che su 32 logge calabresi ben 28 sarebbero state infiltrate dalla ’ndrangheta. Ma un ex notabile del Goi ha smentito queste dichiarazioni: è il cosentino Franco Chiarello, che all’epoca della reggenza di Loizzo era segretario regionale del Goi e adesso è animatore della Federazione delle Logge di San Giovanni, una comunione massonica indipendente.

    Giuliano Di Bernardo
    Giuliano Di Bernardo

    «Consultai più volte gli elenchi e posso dire di non avervi mai trovato nomi sospetti». E ancora: «Come mai Di Bernardo ha parlato solo 25 anni dopo quell’inchiesta e a cinque anni di distanza dalla scomparsa di Loizzo?». Infine: «Loizzo non stimava affatto Di Bernardo, anzi: lo trovava poco affidabile e antipatico. Perché avrebbe dovuto fargli quelle confidenze?».
    Interrogativi senza risposte anche questi. Ma probabilmente il “mistero” massonico è fatto di questi e altri equivoci, che si trascinano da un decennio all’altro e da inchiesta a inchiesta.

  • Delitto Losardo, quella pista poco battuta che porta in Tribunale

    Delitto Losardo, quella pista poco battuta che porta in Tribunale

    Quando Rosina Gullo e Giannino Losardo si sposarono lui era tornato in Calabria da poco. Era la metà degli anni ’50 ed era riuscito farsi trasferire dalla Pretura piemontese a cui era stato assegnato al Tribunale di Paola. Era di Cetraro, dunque era tornato a casa. Ma probabilmente non sapeva cosa lo aspettava. Non solo dentro quegli uffici, ma anche fuori, sulla strada che lo vide cadere vittima, 33 anni dopo, di un agguato mafioso che fu ricondotto al clan del «re del pesce» Franco Muto. Giannino, all’epoca consigliere comunale del Pci e segretario capo della Procura paolana, venne ucciso la sera del 21 giugno 1980, 10 giorni dopo l’omicidio di Peppino Valarioti. Rosina è morta un paio di settimane fa. E non ha mai avuto giustizia per suo marito.

    Sostegno a intermittenza

    Al suo funerale, il 16 dicembre scorso, a Fuscaldo non c’era molta gente. In prima fila il sindaco di Cetraro, Ermanno Cennamo. Quando facciamo il suo nome a Giulia Zanfino, giornalista freelance e autrice del docufilm Chi ha ucciso Giannino Losardo, lei racconta che prima delle elezioni Cennamo era molto disponibile nel metterla in contatto con le amministrazioni locali che avrebbero potuto patrocinare il suo lavoro d’inchiesta. Una volta eletto sindaco, però, è «scomparso». Solo dopo che Zanfino ha parlato di questo in un’intervista alla Tgr Rai lui ha dichiarato «la totale volontà della sua amministrazione di sostenere» il docufilm.

    Giulia Zanfino con il ciack prima di una scena del suo docufilm
    Giulia Zanfino con il ciack prima di una scena del suo docufilm
    Una pista da battere

    Losardo era uno strenuo oppositore della mafia e della malapolitica. Quando morì accorsero a Cetraro anche Enrico Berlinguer e Pio La Torre. La politica, la lotta al malaffare e all’ascesa criminale dei Muto – la cui pescheria al porto di Cetraro era il simbolo del suo potere sul territorio – sono state sempre le piste privilegiate per chi ha indagato sul delitto. Il processo è però finito in una bolla di sapone e, oggi, chi come Zanfino insegue tracce da anni si è convinto che un’altra pista è stata sottovalutata. Quella della corruzione nella Procura di Paola, un luogo in cui la rettitudine di un funzionario come Losardo non poteva che essere un ostacolo alla gestione disinvolta di questioni legate agli affari più redditizi sul Tirreno cosentino.

    Uno scatto sul set del docufilm sul delitto Losardo
    Uno scatto sul set del docufilm sul delitto Losardo

    «Secondo me può essere la vera chiave per arrivare, prima o poi, alla verità», dice la regista, che confessa di aver scovato la trascrizione di un’intercettazione nella cassetta di sicurezza che Losardo aveva in Procura. Riguarda una telefonata «interessante», rispetto a questa pista, tra Muto e un noto avvocato.

    Insieme per la verità

    Il progetto – fotografia di Mauro Nigro, tra gli attori Giacinto Le Pera (Losardo) e Francesco Villari (Muto) – ha vinto un bando della Calabria Film Commission. Nato da un’idea di Francesco Saccomanno e prodotto dall’Associazione Culturale ConimieiOcchi (produzione esecutiva OpenFields), ha il patrocinio della Commissione parlamentare antimafia, oltre che il sostegno dei Comuni di Paola, Acri, Casali del Manco, fondazione Carical, Parco Nazionale della Sila, Proloco di Acri, Colavolpe, BCC Mediocrati.

    Il clima a Cetraro

    Zanfino ha intervistato i compagni di Losardo che hanno subìto, negli anni, minacce e soprusi. «Ancora oggi – racconta – a Cetraro c’è un clima di terrore». Ne ha avuto esperienza diretta assieme a Nigro a settembre del 2020: l’unica volta in cui si è esposta con la telecamera a Cetraro, è andata a un seggio elettorale vicino a casa di Muto. Ha chiesto a chi andava a votare se si ricordasse di Losardo ed è stata presa a male parole da una donna che le urlava contro che «Losardo lo dovevamo lasciare dov’era…».

    In un’altra occasione aveva chiesto a un’associazione locale di intercedere con un gruppo di pescatori, con la scusa di documentare le espressioni dialettali con cui conducevano le trattative per la vendita del pesce, affinché li filmasse. Ma anche in quel caso ha incontrato problemi.

    Il fascino del male

    Tra le interviste del docufilm c’è quella a Tommaso Cesareo, oggi assessore nella giunta Cennamo (il più votato alle elezioni del 2020) che non nasconde di aver frequentato in passato gli esponenti del clan. «Con loro – dice Cesareo – potevi permetterti di entrare ai night, nelle discoteche… rappresentavano il potere. E queste cose più che biasimarle io devo ammettere che mi affascinavano. Un errore madornale – aggiunge mostrandosi pentito – che io mi sono portato dietro per anni». Ma racconta anche che «tutta Cetraro era amica di Muto».

    Colpiscono le parole di Leonardo Rinella, pm nel processo che si celebrò a Bari, per «legittima suspicione», perché quando a Cosenza provavano a interrogare Muto in aula succedeva il finimondo. Nel processo erano coinvolti anche Cesareo, il padre Carlo e il fratello Giuseppe – mentre un altro fratello, Vincenzo, è il direttore sanitario accusato di fare tamponi ad amici, parenti e «pure ai gatti». Nello stesso procedimento pugliese finirono accusati l’allora procuratore capo di Paola Luigi Balsamo (omissione in atti d’ufficio) e il sostituto “anziano” Luigi Belvedere (interesse privato in atti d’ ufficio e falso). Per tutti – magistrati, mafiosi e presunti killer – alla fine arrivò l’assoluzione.

    Un processo da spostare

    «La fase istruttoria – racconta Rinella a Zanfino – la svolgemmo in Calabria. Colpiva l’inframittenza continua che il sostituto Belvedere aveva in tutti i processi, anche quelli che non lo riguardavano. Poi c’era la debolezza del procuratore capo. Una brutta Procura della Repubblica. C’era anche stato un altro caso, fuori dal processo Muto, di un magistrato, Fiordalisi, che era stato sottoposto a inchiesta disciplinare. Non avemmo una buona impressione e capimmo perché il processo difficilmente si sarebbe potuto celebrare con successo a Paola. Direte che neanche a Bari ha avuto successo… avete ragione. Ma, onestamente, non mi sento colpevole».

    Ernesto Orrico interpreta il sostituto procuratore Belvedere
    Ernesto Orrico interpreta il sostituto procuratore Belvedere
    Ombre sul tribunale

    Il quadro emerge con chiarezza inquietante da una relazione disposta dal Ministero della Giustizia nel 1991. A scriverla, dopo una lunga inchiesta, fu il «magistrato ispettore» Francantonio Granero. Un lavoro meticoloso che restituisce una realtà giudiziaria in cui i veri «padroni» sarebbero stati l’allora presidente del Tribunale William Scalfari e i due sostituti, Belvedere e Fiordalisi. Del primo vengono ricostruite le attività da «imprenditore di fatto» in società, di cui faceva parte il figlio e in cui non mancavano nomi noti della politica e delle professioni, che costruivano complessi alberghieri con miliardi di finanziamenti pubblici.

    Nel dossier Granero si raccontano dispetti e ripicche tra pm e polizia giudiziaria, ma anche di magistrati con la passione per le auto sportive e gli assegni a vuoto (il figlio di Belvedere ne emise per oltre due miliardi in una vicenda a cui Granero collega il suicidio di un direttore di banca). E di imprenditori amici come Francesco Venturapadre della (per poco) candidata alle passate Regionali Antonietta – che metteva soldi suoi per coprire i debiti del magistrato. Lo stesso magistrato che, per dirne una, pretendeva di avere solo per sé, per andare al bar, un posto auto in piazza riservato alla polizia. Mentre il collega, per dirne un’altra, chiedeva un prestito da 20 milioni di lire a un perito – all’epoca impegnato nel processo sull’omicidio Scopelliti – che era indagato in un’inchiesta di cui lo stesso magistrato era titolare.

    Gli amici

    Per non parlare delle considerazioni sulla gestione delle procedure fallimentari, delle amministrazioni controllate e del giro di commissari giudiziari e consulenti. E per finire con l’avvocato Granata, presidente dell’Ordine e a lungo vicepretore onorario, che era intimo amico di Losardo e che ne raccolse le ultime parole. Quando Giannino era morente, secondo la ricostruzione del pm Rinella, Losardo «chiese solo ed esclusivamente di Granata». Il quale però secondo il magistrato «non lo volle rivelare, chiudendosi in silenzi assurdi» e sostenendo che Losardo avesse solo farfugliato qualcosa di irrilevante.

    Ai suoi soccorritori, mentre lo portavano in ospedale, Giannino disse che erano stati «gli amici» e che «tutta Cetraro» sapeva chi gli aveva sparato. A distanza di oltre 40 anni gli assassini restano impuniti. Qualche magistrato ha fatto carriera e qualche altro è morto tra onori di Stato. E la sorveglianza speciale, misura che per un periodo è stata data a Franco Muto, la si vorrebbe imporre a chi lotta per difendere diritti e beni comuni.

  • Sorveglianza attivisti, la Orrico (M5S) chiede la revoca al ministro

    Sorveglianza attivisti, la Orrico (M5S) chiede la revoca al ministro

    Dove finisce il diritto al dissenso e inizia la sua repressione? A Cosenza se lo sono chiesti in tanti nelle ultime settimane dopo le richieste di ammende e misure di sorveglianza speciale per alcuni attivisti locali che la Questura ha richiesto. Prima le multe ai passeggiatori sediziosi, o presunti tali. Poi quelle ai giovani protagonisti di alcune battaglie non violente in difesa della sanità pubblica. La questione della “camminata” era già sul tavolo del ministro Lamorgese grazie alla lettera che le ha inviato il direttore de I Calabresi. Ora la titolare del dicastero degli Interni però dovrà dire qualcosa sulla vicenda di fronte ai deputati.

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    Vittoria Morrone (a sinistra), insieme a Simone Guglielmelli e Jessica Cosenza, i due giovani per cui la Questura ha chiesto misure di sorveglianza speciale

    L’interrogazione parlamentare

    La parlamentare Anna Laura Orrico, infatti, ha deposito un’interrogazione parlamentare in merito alla questione. In una nota stampa della stessa pentastellata, si legge:  «Vorrei capire – dice Orrico – e perciò mi appello al Ministro Lamorgese, che tipo di agibilità democratica vige in città, se, cioè, le prerogative costituzionalmente garantite di attività politica e sindacale, se i diritti civili e se il dissenso sono divenuti dei privilegi riservati a pochi fortunati oppure se è ancora possibile goderne ed esercitarli liberamente».

    Non sono gli attivisti i nemici della collettività

    «Non credo che – sottolinea la Orrico – in una terra piagata dalla criminalità organizzata, dai diritti negati, e talvolta calpestati, da una classe dirigente spesso assente o, addirittura, collusa i principali nemici della collettività, indicati finanche come socialmente pericolosi, possano essere additati fra chi denuncia pubblicamente le terribili condizioni in cui i calabresi vivono e le relative responsabilità politiche».

    Misure per solito riservate ai mafiosi

    L’ex sottosegretario ai Beni culturali cita anche l’intervento di Zerocalcare che ha preso una posizione netta, solidarizzando con gli attivisti (due studenti universitari) sottoposti a misure di sorveglianza speciale.
    La deputata del M5S ha chiesto al Ministro dell’Interno «se queste misure di prevenzione, che comportano gravissime restrizioni della libertà personale, pregiudizievole per le attività di studio e lavoro dei destinatari, solitamente riservate ai mafiosi, non debbano essere revocate».

    La solidarietà di Zerocalcare agli attivisti cosentini nel mirino della Questura
    La solidarietà di Zerocalcare agli attivisti cosentini nel mirino della Questura
  • Regione Calabria: la guerra dei mandarini per la poltrona da 240mila euro

    Regione Calabria: la guerra dei mandarini per la poltrona da 240mila euro

    Nell’imbarazzante classifica dei privilegi di politici e papaveri di Stato, la Regione Calabria non fa certo distinzione. Quella dei burocrati che guadagnano quanto un Presidente della Repubblica sembra essere una caratteristica trasversale dal Nord al Sud del Paese. E il personale che occupa gli scranni più alti della Cittadella regionale si pone in piena continuità con i pari grado del resto d’Italia nell’usufruire a man bassa della generosità del settore pubblico.

    Va da sé che tutti questi soldi e privilegi solletichino gli appetiti di molti. E, spesso, dal momento che sedie per tutti non ce ne stanno, chi resta col cerino in mano le prova tutte per accasarsi sulle comode e ben retribuite poltrone regionali. Dunque non stupisce il fermento che si registra ai piani alti della Cittadella in vista della nuova infornata di nomine dirigenziali che andranno a comporre il nuovo spoils system regionale dopo la schiacciante vittoria del centrodestra di Roberto Occhiuto.

    Scontro in tribunale

    Non è un caso che lo scorso 15 dicembre ci sia stata la prima udienza della causa avviata dal “superdirigente” Maurizio Priolo (ex segretario/direttore generale del Consiglio regionale) contro colei a cui è stata affidata la reggenza del doppio incarico a capo della burocrazia regionale: la dirigente di ruolo Maria Stefania Lauria. Priolo si è rivolto ai giudici ritenendo «del tutto illegittima» la nomina di Lauria, «avvenuta senza alcuna valutazione comparativa dei dirigenti interni al ruolo del consiglio regionale e senza fornire alcuna motivazione della scelta compiuta». Questa procedura non gli avrebbe consentito di concorrere per la poltrona «nonostante vantasse requisiti e competenze maggiori rispetto a quelle dell’assegnataria dell’incarico».

    Maurizio Priolo
    Maurizio Priolo
    Centinaia di migliaia di euro in ballo

    Punti di vista argomentati in un ricorso di una trentina di pagine dai legali dell’ex capo della burocrazia. Ora toccherà al giudice Valentina Olisterno della sezione Lavoro del Tribunale di Reggio Calabria valutare la fondatezza dei rilievi di Priolo e decidere se la nomina di Stefania Lauria sia stata legittima o meno. Di mezzo c’è anche un discreto gruzzoletto: l’ex segretario sostiene di aver perso quasi 10mila euro al mese di guadagni dopo la “retrocessione”. E, oltre alla carica, vuole indietro pure quelli. Erano praticamente 120mila euro a settembre, quando Priolo ha presentato il ricorso. Ma – precisano i suoi legali – bisognerà calcolare la cifra finale al momento in cui Lauria sarà eventualmente destituita. Quindi, come minimo, la somma potrebbe raddoppiare.

    Il dirigente che non dovrebbe esserlo

    L’udienza, dopo la costituzione delle parti, è stata infatti rinviata al prossimo 22 settembre 2022. Qualcosa, però, è già filtrata. L’avvocato della Regione, Angela Marafioti, ha chiesto tutta la documentazione inerente l’inquadramento di Priolo nei ruoli del personale del Consiglio regionale per sollevare una eccezione di nullità del rapporto di lavoro. Quello che l’ex segretario/direttore generale non ha forse messo adeguatamente in conto, infatti, è che lui stesso, non avendo mai partecipato ad un concorso pubblico per occupare poltrone in Regione, nel tempo è stato fatto oggetto di una serie di interpellanze e mozioni arrivate fin dentro l’aula di Montecitorio.

    Un caso arrivato in Parlamento

    La Uil – Fpl ha dedicato alla sua vicenda una intera conferenza stampa per chiedere al consiglio regionale su quali basi giuridiche si fonda il suo mantenimento in servizio. Un dubbio sorto in Regione già nel 2013, quando l’allora segretario generale Nicola Lopez evidenziò «anomalie che sostanziano delle palesi illegittimità» nell’arrivo di Priolo in Cittadella. Non gli risposero che la situazione era legittima, ma che esistevano «altre situazioni soggettive analoghe».

    Qualche dubbio sulla vicenda, da consigliere d’opposizione, lo aveva anche Mimmo Tallini, che chiese lumi a riguardo. Poi, divenuto presidente del Consiglio regionale, era stato proprio lui a scegliere Lauria come capo della burocrazia. Nel 2017, invece, è stata la deputata grillina Federica Dieni a rivolgere una interrogazione a risposta scritta all’allora ministro Madia sul “caso Priolo”.

    Tallini e Lauria
    Mimmo Tallini e Stefania Lauria

    Dieni citava una delibera della Corte dei conti – la 143/2014 del 17 febbraio 2015 – che censura la prassi della mobilità dalle società controllate dalla Pubblica amministrazione nei ranghi della PA. Anche la Consulta ha più volte censurato le leggi regionali «che consentono i meccanismi di reinternalizzazione attraverso il passaggio da impiego privato (società partecipata) a quello pubblico (Ente territoriale) aggirando l’articolo 97 della Costituzione».

    La scalata della Regione

    Quest’ultima occorrenza sembrerebbe calzare a pennello al caso del grand commis calabrese. Maurizio Priolo, figlio dell’ex consigliere regionale (e attuale presidente dell’associazione degli ex consiglieri) Stefano, inizia infatti la sua folgorante carriera nel Consorzio per l’area di sviluppo industriale della provincia di Reggio Calabria il 14 settembre 1998. Il 1 aprile 2010 viene inquadrato nella dotazione organica del Consiglio regionale della Calabria. E da quel momento non si ferma più.

    Malgrado la fragilità giuridica della sua posizione, diventa segretario e direttore generale del Consiglio regionale nel 2015. Un ruolo a cui si sovrappongono nel tempo anche quelli di dirigente ad interim del Settore Tecnico e delle aree funzionali “Assistenza Commissioni”, “Relazioni Esterne, Comunicazione e Legislativa”, “Gestione” e quelli di responsabile anti corruzione e responsabile della trasparenza. Un potere in Regione degno di un oligarca che adesso dovrà passare al vaglio di un Tribunale per capire se l’interregno di Maurizio Priolo sia giunto o meno al capolinea.

    (ha collaborato Michele Urso)

  • «La Questura faccia un passo indietro», Cosenza pronta a mobilitarsi

    «La Questura faccia un passo indietro», Cosenza pronta a mobilitarsi

    Cosenza sarà più sicura se due ragazzi non violenti e impegnati per la tutela di diritti costituzionali saranno costretti a rientrare a casa prima delle 21? A firmare ogni giorno in questura o chiedere – come criminali matricolati ma senza un reato preciso contestato a loro carico, solo un carattere «ribelle» – il permesso a un magistrato per spostarsi? Il fatiscente centro storico della città uscirà dal suo stato di abbandono se chi prova a riportare attenzione sul degrado si vede infliggere multe salate per una passeggiata? In fondo sta tutto in queste tre domande il senso dell’assemblea pubblica che ha animato il Palazzo della Provincia. Anche perché di senso, altrimenti, in quello che sta accadendo sembra essercene veramente poco.

    Un passo indietro

    Tanta gente nel Salone degli Specchi, altrettanta all’esterno dell’edificio, collegata via radio o sui social per esprimere solidarietà agli attivisti locali che nei giorni scorsi sono finiti nel mirino della Questura cittadina. Un inno al libero pensiero e al dissenso, contrapposto a una repressione apparsa eccessiva ai più e che ha suscitato non poco scalpore. Altrettanto abbondanti sono state le parole spese durante l’incontro di ieri sera, un fiume di interventi e messaggi di solidarietà. Ma, soprattutto, di inviti alla Questura a fare un passo indietro.

    Quello che sta accadendo d’altra parte, come ricordato da Vittoria Morrone di Fem.in in apertura, «non è normale». Sembra piuttosto «un attacco politico» a chiunque abbia o voglia avere «una coscienza critica». Gli attivisti per cui è stata richiesta la sorveglianza speciale o quelli multati per la passeggiata – parola del docente Andrea Bevacqua – sono invece persone che lottano per concetti come «partecipazione, democrazia, comunità».

    La meglio gioventù

    Ragazzi che, come hanno ricordato la docente Unical Maria Francesca D’Agostino e il ricercatore Giancarlo Costabile, hanno pronunciato «parole in cui tutti ci siamo riconosciuti» denunciando lo stato della sanità calabrese. E che hanno fatto «con la schiena dritta in una terra di disgraziati e di complici, proteste in maniera pacifica e democratica ridestando coscienze sopite e battendosi per diritti costituzionali come lavoro, sanità, abitazione».

    Quello che è successo «è molto grave», ha sottolineato Antonella Veltri, del Centro anti violenza Roberta Lanzino. Anche perché riguarda «giovani che debbono rappresentare il presente, non il futuro», ha sostenuto il segretario provinciale della Cgil, Pino Assalone. La Questura farà il fatidico passo indietro? Difficile prevederlo.

    Una mobilitazione a gennaio

    Lo hanno comunque chiesto a gran voce l’assessore rendese Elisa Sorrentinodi Palazzo dei Bruzi invece non si è visto nessuno nonostante la solidarietà espressa da Franz Caruso nei giorni scorsi, ai “passeggiatori” quantomeno – e la parlamentare pentastellata Anna Laura Orrico. La prima ha parlato di un «errore marchiano» delle forze di polizia invitandole a tornare sui propri passi. La seconda ha definito «la meglio gioventù, una boccata d’ossigeno per la nostra città e la Calabria» i destinatari dei provvedimenti repressivi auspicando un lieto fine.

    Vittoria Morrone (a sinistra), insieme a Simone Guglielmelli e Jessica Cosenza, i due giovani per cui la Questura ha chiesto misure di sorveglianza speciale
    Vittoria Morrone (a sinistra), insieme a Simone Guglielmelli e Jessica Cosenza, i due giovani per cui la Questura ha chiesto misure di sorveglianza speciale

    Fatto sta che ai cosentini – e non solo, durante l’assemblea è arrivato un messaggio anche da Medici senza Frontiere Italia – quanto accaduto non va proprio giù. E presto potrebbe arrivare il bis della più celebre manifestazione in favore di chi dissente che Cosenza abbia mai ospitato, quella post G8 del 2001. A preannunciarla, in chiusura, proprio uno degli attivisti nel mirino della Questura: «Siamo in una terra che non garantisce  alcun diritto se non sotto ricatto e la Questura decide di perseguire chi prova a far politica dal basso. Va difesa l’agibilità democratica di questa città, crediamo serva una grande mobilitazione a gennaio».

     

  • Quei magistrati calabresi trasferiti, sospesi e arrestati

    Quei magistrati calabresi trasferiti, sospesi e arrestati

    Trasferiti, sospesi, ridimensionati, in qualche caso finiti addirittura in manette. Non ci sono solo i magistrati protagonisti dell’indagine interna del Csm per l’affaire Palamara nella storia recente dei togati dei distretti giudiziari calabresi inciampati in problemi con la giustizia. In alcuni casi, trasferimenti e punizioni derivano da “incompatibilità ambientali” sorte tra magistrati. In altri le indagini alla base dei provvedimenti disciplinari sono naufragate in richieste di archiviazione presentate dalla stessa accusa. E in diverse circostanze gli approfondimenti degli investigatori hanno smascherato un vero e proprio sistema di corruzione giudiziaria.

    Il mercato delle sentenze

    Come nel caso di Marco Petrini, il giudice della Corte d’Appello di Catanzaro arrestato dai magistrati di Salerno (competenti per territorio) nel gennaio del 2020, sospeso dalle funzioni dal Csm e condannato in primo grado a 4 anni e 4 mesi di reclusione per corruzione in atti giudiziari. Una classica storia di malaffare quella scovata dai finanzieri di Crotone che individuarono una serie di personaggi – tra cui Mario Santoro, un medico in pensione ex dipendente dell’Asp di Cosenza – che avrebbero stipendiato il giudice per aggiustare, in secondo grado, una serie di processi penali finiti, in prima battuta, con condanne pesanti. Un sistema che tornava buono anche per ritoccare le misure di prevenzione reale come sequestri e confische di beni.

    Il filone che coinvolge anche il sindaco di Rende

    Un vero e proprio suq di sentenze di cui si è tornato a discutere, stavolta davanti ai giudici d’Appello salernitani, lo scorso venerdì con l’inizio del processo in secondo grado. In attesa di definizione poi – i pm di Salerno hanno chiuso le indagini nell’ottobre scorso – il secondo filone dell’inchiesta. Coinvolge, oltre all’ex giudice Petrini, anche il sindaco di Rende Marcello Manna, che secondo l’ipotesi dell’accusa avrebbe corrotto Petrini per ottenere in appello l’assoluzione del boss Francesco Patitucci (di cui Manna era legale) che era invece stato condannato in primo grado a 30 anni per l’omicidio di Luca Bruni.

    L’ex procuratore aggiunto Vincenzo Luberto
    L’ex sostituto procuratore aggiunto della Dda, Vincenzo Luberto

    Sullo stesso piano anche la posizione dell’ex procuratore aggiunto nella distrettuale antimafia di Catanzaro, Vincenzo Luberto, sotto processo a Salerno con l’ipotesi di corruzione, falso, omissione e rivelazione di segreto d’ufficio assieme all’ex parlamentare Ferdinando Aiello. Trasferito dalla commissione disciplinare del Csm alle mansioni di giudice civile al tribunale di Potenza, Luberto, secondo l’accusa, avrebbe ricevuto dall’ex parlamentare una serie di pagamenti per viaggi di lusso tra il 2018 e il 2019, in cambio di un suo sostanziale asservimento alle richieste avanzate dall’ex deputato.

    Secondo quanto ricostruito dai magistrati campani (competenti territorialmente sui colleghi del distretto della Corte d’Appello di Catanzaro), Luberto avrebbe informato l’ex parlamentare rispetto alle indagini ai suoi danni, omettendo poi di iscriverlo al registro degli indagati quando le notizie via via raccolte dagli investigatori lo avrebbero richiesto. Accuse sempre rispedite al mittente dall’ex aggiunto catanzarese il cui processo è attualmente in corso.

    Il trasferimento di Lupacchini

    Fece molto rumore anche un altro intervento del Consiglio superiore della Magistratura sui togati del distretto catanzarese: il trasferimento dell’ex procuratore generale Otello Lupacchini, spedito a Torino senza compiti direttivi e con perdita di tre mesi d’anzianità per avere criticato, durante un’intervista televisiva, il procuratore capo Nicola Gratteri all’indomani della maxi retata di Rinascita Scott. Apice di un rapporto fortemente conflittuale tra i due magistrati, l’intervento del Csm arrivò, su sollecitazione dei consiglieri in quota Magistratura Indipendente e Area, per verificare se esistessero i presupposti per un trasferimento per incompatibilità ambientale.

    L’ex procuratore generale di Catanzaro, Otello Lupacchini
    Quel post su Facciolla

    Magistrato di lungo corso – fu protagonista delle indagini sulla banda della Magliana e sul fronte del contrasto alla lotta armata nera e rossa – Lupacchini è finito davanti alla disciplinare del Csm per un’intervista video in cui lamentava il mancato coordinamento dell’ufficio retto da Gratteri con il suo, e definendo le indagini dell’antimafia catanzarese come «evanescenti». Tra i capi di “incolpazione” all’ex Pg del capoluogo, anche un post Facebook con cui Lupacchini sosteneva una campagna on line in favore di Eugenio Facciolla, ex Procuratore capo a Castrovillari, trasferito dal Csm in seguito ad un’indagine aperta nei suoi confronti dalla Procura di Salerno. Incolpazione poi caduta davanti al Plenum del Csm che nelle settimane scorse, ha reso definitivo il trasferimento di Lupacchini a Torino.

    L’arresto del Gip di Palmi

    E se nel distretto giudiziario centrosettentrionale le acque restano ancora agitate per gli inevitabili strascichi delle vicende penali che hanno coinvolto magistrati importanti, nel reggino bisogna tornare un po’ indietro nel tempo per trovare precedenti così pesanti. Nel 2011 furono i magistrati della distrettuale antimafia di Milano ad arrestare Giancarlo Giusti – all’epoca Gip a Palmi e con alle spalle un procedimento della disciplinare del Csm (da cui uscì assolto) per alcuni incarichi commissionati sempre agli stessi professionisti – nell’ambito di una maxi inchiesta sugli interessi del clan Valle – Lampada in Lombardia.

    Sui giornali finirono i soggiorni milanesi pagati dal boss al magistrato di origine catanzarese (con corredo di tutto il campionario voyeuristico su gusti sessuali e goderecci) e Giusti, condannato in via definitiva a 3 anni e 10 mesi di reclusione, non resse il colpo, togliendosi la vita pochi giorni dopo la lettura della sentenza.

    Intercettato mentre passava notizie al boss

    E fu sempre l’antimafia milanese, con l’inchiesta Infinito, a stringere le manette ai polsi di Vincenzo Giglio, all’epoca presidente della Sezione misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria. Un arresto clamoroso per un magistrato considerato, all’epoca, tra i più intraprendenti del distretto reggino: protagonista di innumerevoli manifestazioni antimafia ed esponente di rilievo di Magistratura Democratica, l’ormai ex magistrato fu intercettato dagli investigatori mentre sul divano della sua casa reggina, passava notizie riservate al boss Giulio Lampada, che di quel salotto era un frequentatore abituale.

    Una storiaccia che coinvolse anche l’ex consigliere regionale Francesco Morelli e che costò all’ex giudice una condanna a quattro anni e 5 mesi di reclusione ed a un risarcimento, stabilito dalla Corte dei conti pochi mesi fa, di oltre 50 mila euro nei confronti del ministero della Giustizia per il terrificante danno d’immagine provocato.

  • Lucano visto dai giudici: l’accoglienza? «Solo per trarre profitto»

    Lucano visto dai giudici: l’accoglienza? «Solo per trarre profitto»

    Il frantoio e le carte d’identità, le case dell’albergo diffuso e quelle dei migranti, gli ammanchi di denaro e le gare di solidarietà: ci sono tre anni di “progetto Riace” dentro il monumentale faldone della sentenza Xenia. Migliaia di intercettazioni, decine di controlli, cinque diverse relazioni prefettizie e due anni di dibattimento serrato con (più) di un occhio alla forte pressione mediatica che l’indagine ha sollevato sin dalle prime battute. Una mole di materiale imponente che i giudici del Tribunale di Locri sgranano con puntigliosità per costruire le basi di una sentenza pesantissima su un sistema d’accoglienza che si sarebbe trasformato in un mezzo «solo per trarre profitto» e senza «nessuna connotazione altruistica, né alcunché di edificante».

    Un sistema collaudato

    Una ricostruzione durissima che, basandosi sulla gestione economica dei vari progetti (Sprar, Cas e Msna), demolisce l’idea stessa dell’intero “sistema Riace”, o almeno di quello degli ultimi tre anni. Altro non sarebbe stato che «un sistema che si basava su una piattaforma organizzativa collaudata e stabile che si avvaleva dell’esperienza e della forza politica che Lucano possedeva». Ed è proprio sulla figura dell’ex sindaco, e sui suoi comportamenti anche durante il dibattimento, che il presidente Fulvio Accursio punta l’indice. Secondo il giudizio di primo grado infatti, Mimmo Lucano sarebbe a capo di «un’organizzazione tutt’altro che rudimentale che rispettava regole ben precise a cui tutti puntualmente si assoggettavano».

    Modello o illusione?

    Secondo la ricostruzione dei giudici, il gruppo avrebbe attirato verso Riace buona parte dei disperati che arrivavano in Italia, solo per tornaconto personale. Da una parte lo stesso Lucano, che avrebbe agito oltre che per interesse, anche «a beneficio della sua immagine pubblica». Dall’altra i suoi sodali che lo avrebbero aiutato a mettere in piedi “l’illusione Riace”, per poter saccheggiare i fondi dei progetti d’accoglienza. L’equazione tracciata dal tribunale di Locri è semplice: più migranti ci sono in paese, più soldi arrivano. E più i numeri possono confondersi, più il gruppo ne può approfittare.

    Il contesto ignorato

    Un’equazione da cui però manca la variabile umana, il contesto dentro cui si è sviluppata l’intera vicenda: nessun accenno all’emergenza che inondava di richiedenti asilo e varia umanità disgraziata, il piccolo centro jonico; nessun riferimento alle decine di persone ospitate oltre i numeri consentiti, in abitazioni vere, proprio per soddisfare le richieste di Prefettura e ministero dell’Interno né ai tanti risultati raggiunti nel rilancio del paesino abbandonato dai suoi stessi abitanti.

    Condanna raddoppiata

    Associazione a delinquere, falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio e truffa: 21 i reati contenuti in 10 capi d’accusa (sui 16 totali in cui era stato coinvolto) alla base della condanna dell’ex primo cittadino che è invece stato assolto dalle ipotesi di concussione e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Dieci capi d’accusa divisi in due, differenti, ordini di reati che sono alla base della condanna per Lucano. Due ordini di reati la cui «sommatoria dei segmenti di pena comporta la condanna alla pena complessiva di anni 13 e mesi 2».

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    I giudici del Tribunale di Locri pronunciano la sentenza di condanna nei confronti di Mimmo Lucano

    Secondo i calcoli del collegio locrese quindi, da una parte si deve considerare l’associazione a delinquere con tutti i delitti individuati durante il processo e che sono da considerarsi in continuità, dall’altra gli altri reati legati agli abusi d’ufficio e alla falsità ideologica, anche questi da considerarsi in continuità. Ed è sommando questi due distinti «disegni criminosi» che il presidente Fulvio Accursio dispone la condanna a 13 anni e due mesi, praticamente il doppio di quanto richiesto dall’accusa che quelle stesse ipotesi di reato, le aveva invece considerate come un unico insieme.

    Nessuna attenuante

    Una condanna a cui, scrive ancora il tribunale nelle motivazioni della sentenza, per due ordini di motivi, non vanno conteggiate neanche le attenuanti generiche. Da una parte il fatto che Lucano si è sottratto ad interrogatorio durante il dibattimento limitandosi a due dichiarazioni spontanee, e dall’altra, nonostante si parli di un imputato incensurato, non «vi è alcuna traccia dei motivi di particolare valore morale o sociale per i quali egli avrebbe agito, essendo invece emerso… che le finalità per cui egli operò per oltre un triennio non ebbe nulla a che vedere con la salvaguardia degli interessi dei migranti».

    Lucano: «Rifarei tutto»

    Un giudizio impietoso che ha provocato l’immediata reazione dello stesso Lucano che, in trasferta in Emilia Romagna, ha rilanciato la sua battaglia. «Rifarei tutto, anche più forte di prima – ha dichiarato Lucano a margine di una manifestazione organizzata in suo sostegno – ci sono tante contraddizioni e il giudice mi ha condannato dicendo che pensavo al futuro, ma sono cose non vere. Il modello Riace è stato un modello di libertà e di rispetto dei diritti umani».

    La battaglia continua

    Dello stesso tenore anche le dichiarazioni dei difensori dell’ex sindaco, Giuliano Pisapia e Andrea Daqua: «Dopo la lettura approfondita delle motivazioni, siamo ancora più convinti dell’innocenza di Mimmo Lucano. Queste infatti contrastano con le evidenze processuali emerse in un dibattimento durato oltre due anni. I giudici poi – dicono ancora gli avvocati – in contrasto anche con una sentenza delle sezioni unite di Cassazione sull’uso delle intercettazioni telefoniche, negano la verità sullo stato di povertà dell’ex sindaco, confermata invece da tutti i testimoni e le acquisizioni documentali. Contrasteremo nel merito i singoli capi d’imputazione e le argomentazioni dell’accusa e del Tribunale, a partire da quelle sui reati più gravi: associazione a delinquere e peculato».