Tag: giustizia

  • Anzio e Nettuno come l’entroterra calabrese: ‘ndrine alla conquista del litorale romano

    Anzio e Nettuno come l’entroterra calabrese: ‘ndrine alla conquista del litorale romano

    Anzio e Nettuno distaccamenti o succursali di Santa Cristina d’Aspromonte, nel Reggino, o Guardavalle, nel Catanzarese. I 65 arresti con cui la Dda e i carabinieri di Roma sono convinti di aver bloccato le mire delle cosche di ‘ndrangheta sul litorale a Sud a una sessantina di chilometri da Roma cristallizzano quanto, già da tempo, gli attivisti antimafia sostengono. Quel territorio, nel silenzio generale, è finito sotto la cappa dello strapotere ‘ndranghetista.

    L’indagine

    In carcere sono finite 39 persone, altre 26 agli arresti domiciliari. Tra i soggetti coinvolti, anche due carabinieri. La Dda di Roma contesta i reati di associazione mafiosa, associazione finalizzata al traffico internazionale di sostanze stupefacenti aggravata dal metodo mafioso, cessione e detenzione ai fini di spaccio, estorsione aggravata e detenzione illegale di arma da fuoco, fittizia intestazione di beni e attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti aggravato dal metodo mafioso.

    A condurre le indagini, Giovanni Musarò, per anni pm antimafia a Reggio Calabria e noto anche per aver riaperto, con successo, il “caso Cucchi”. Le investigazioni avrebbero dimostrato l’esistenza di una articolazione operante sul territorio dei comuni di Anzio e Nettuno, una locale di ‘ndrangheta “distaccamento” dal locale di Santa Cristina d’Aspromonte. Ma composta in gran parte anche da soggetti appartenenti a famiglie di ‘ndrangheta originarie di Guardavalle. Lì, infatti, i Gallace spadroneggiano da anni ormai, grazie alla propria forza di intimidazione e alle proprie relazioni. Proprio in tal senso, si inquadrano le perquisizioni effettuate dai carabinieri all’interno degli uffici comunali di Anzio e Nettuno.

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    Giovanni Musarò

    Affari e connivenze

    A capo della struttura criminale vi sarebbe Giacomo Madaffari, originario di Santa Cristina d’Aspromonte. Ma del nucleo ristretto farebbero parte anche diversi soggetti appartenenti alle storiche famiglie di ‘ndrangheta, originarie di Guardavalle. Dai Gallace ai Perronace, passando per i Tedesco.
    Nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere, il gip parla dell’esistenza di due “associazioni finalizzate al traffico di sostanze stupefacenti anche internazionale” con una “capacità di penetrazione nel tessuto economico e politico della zona di Anzio e Nettuno”. Il giudice sottolinea i solidi legami esistenti con taluni esponenti delle forze dell’ordine e politici locali nonché con altri clan delinquenziali.

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    Il piccolo centro di Santa Cristina d’Aspromonte

    «Ad Anzio abbiamo sbancato»

    «Ieri sera abbiamo vinto le elezioni». È una delle intercettazioni relative al sostegno elettorale del gruppo criminale ‘ndranghetista attivo ad Anzio. Il riferimento è alla tornata per le elezioni amministrative del 2018 quando a vincere fu Candido De Angelis. Che comunque non risulta indagato nel procedimento.
    Il giorno dopo la vittoria di De Angelis vengono captate «tre conversazioni di eccezionale valore probatorio rivelatrici del sostegno offerto dalle famiglie calabresi in favore di De Angelis», sottolinea il gip. «Ha sbancato proprio su tutti» un’altra intercettazione.

    Anzio vista dall’alto

    Il traffico di droga

    Sarebbero due, dunque, le associazioni a fare affari illeciti, soprattutto col Sud America. Una capeggiata da Giacomo Madaffari e l’altra da Bruno Gallace. Gli sviluppi investigativi, in particolare, avrebbero consentito di ricostruire l’importazione dalla Colombia e l’immissione sul mercato italiano di 258 kg di cocaina disciolta nel carbone. Una operazione avvenuta nella primavera del 2018, tramite un narcotrafficante colombiano. Le indagini del pm Giovanni Musarò avrebbero scoperto anche il progetto di acquistare e importare da Panama circa 500 kg di cocaina occultata a bordo di un veliero.

    I carabinieri infedeli

    Non solo traffici internazionali, ma anche il business locale dei rifiuti ad Anzio. Focus anche sull’abusiva gestione di ingenti quantitativi di liquami che sarebbero stati scaricati nella rete fognaria comunale attraverso tombini, realizzati nelle sedi delle aziende. Le attività economiche erano attive nei più svariati settori: ittico, panificazione, gestione e smaltimento dei rifiuti, movimento terra.
    La locale di ‘ndrangheta nel Lazio avrebbe potuto anche contare su due carabinieri, appartenenti ad una delle caserme del litorale. I due militari avrebbero rivelato informazioni riservate a favore dei clan.

    Come si muovono le mafie nel Lazio

    Da sempre, Roma è “città aperta”. Anche sotto il profilo criminale. Nell’area della Capitale, le realtà malavitose sono sempre state capaci di convivere. Sia sotto il profilo territoriale, che sotto il profilo affaristico. Quella realtà così fluida è già stata cristallizzata, alcuni anni fa, dal rapporto Mafie nel Lazio. Il documento sottolineava come «una delle caratteristiche delle tradizionali organizzazioni mafiose è proprio quella di saper instaurare stabili relazioni con imprenditori, professionisti, esponenti del mondo finanziario ed economico di cui si avvalgono per stipulare affari e realizzare investimenti, alimentando così quel circuito di relazioni che potenzia la loro operatività».

    In quel rapporto, curato da Edoardo Levantini e Norma Ferrara, si dedica grande spazio proprio al territorio interessato oggi dai 65 arresti. E le parole messe nero su bianco risultano quasi profetiche. «Il territorio di Anzio e Nettuno rappresenta un “laboratorio” dell’interazione storica fra clan appartenenti a diverse organizzazioni criminali di stampo mafioso». Già quello studio attestava la presenza e l’operatività dei Casalesi, dei Gallace, di sodalizi locali dediti al narcotraffico e all’usura. Così come di aggregazioni criminali formate da camorristi e malavitosi di Tor Bella Monaca. «Negli anni, hanno dimostrato tutta la loro pericolosità arrivando anche ad inquinare il consiglio comunale di Nettuno, come attesta lo scioglimento nel 2005» si leggeva.

    Il litorale romano depredato dalla ‘ndrangheta

    L’indagine odierna, dunque, mostra come le cosche di ‘ndrangheta abbiano scelto il litorale a Sud di Roma come luogo congeniale per i propri traffici. Ancora una volta. Sì, perché già negli scorsi anni le indagini testimoniarono la pervasività dei clan da quelle parti. Tra il 7 novembre 2018 e il 10 dicembre del 2018 tra Anzio e Nettuno il sequestro di 100 kg di cocaina e 957mila euro di proventi del traffico e dello spaccio.
    Un’inchiesta storica è quella definita “Gallardo” che colpì due organizzazioni criminali. Una di matrice camorristica operante a Roma e a Nettuno e l’altra legata alle cosche di ‘ndrangheta della provincia di Reggio Calabria. Le famiglie Filippone e Gallico, in particolare.

    Della presenza della ‘ndrangheta in quest’area si è occupata anche la Commissione parlamentare antimafia. Dalle conclusioni messe nero su bianco nel febbraio 2018: «In questi territori opera in particolare una locale di ‘ndrangheta riferibile al clan Gallace, originario di Guardavalle in provincia di Catanzaro. Il clan Gallace, insediato lì da almeno trent’anni, ha saputo intessere, negli anni, un reticolo di relazioni con esponenti della malavita locale sia nelle realtà di Anzio e Nettuno, sia nella realtà di Aprilia, sia nelle principali piazze di spaccio della capitale come San Basilio».

    Nei confronti dei Gallace, citati dalla Commissione parlamentare antimafia, la Corte d’Appello di Roma l’11 giugno del 2018 ha confermato le condanne per associazione mafiosa sul territorio di Nettuno: «A dimostrazione dell’operatività della famiglia Gallace nel territorio del litorale laziale si deve fare riferimento […] al sequestro dell’industriale di Pomezia Maurizio Gellini, avvenuto nel 1982, per la quale Agazio Gallace fu condannato».

    «Rompere il muro di omertà»

    Per le associazioni antimafia, che da anni denunciano la presenza dei clan sul territorio, si tratta quindi di una liberazione del territorio. «In questi territori si rileva una forte cappa di omertà che purtroppo pervade una “larga fetta” della popolazione», affermano Edoardo Levantini, presidente dell’associazione Coordinamento Antimafia Anzio/Nettuno e Fabrizio Marras, presidente di Reti di giustizia.
    «Ringraziamo i carabinieri di Roma e Latina e la DDA della capitale ed invitiamo tutti i cittadini vittime delle mafie a denunciare e a rompere il muro di omertà» concludono Levantini e Marras.

  • Cannabis e referendum, no della Corte Costituzionale

    Cannabis e referendum, no della Corte Costituzionale

    Dopo il no a quello sull’eutanasia, arriva un’ulteriore bocciatura della Corte Costituzionale, questa volta per il referendum sulla depenalizzazione della cannabis per uso personale. Proprio come per l’omicidio del consenziente, la Consulta ha ritenuto il quesito inammissibile, privando pertanto gli elettori della possibilità di esprimersi sulla materia nei prossimi mesi. Nonostante il poco tempo a disposizione per raccogliere le firme necessarie a proporre il referendum, i comitati erano riusciti nell’impresa a ritmi da record, soprattutto attraverso la raccolta online.

    Cannabis, lo stop al referendum della Corte costituzionale 

    La legittimità di quella raccolta era stata in discussione fino a pochi giorni fa, quando infine la Consulta l’aveva certificata. Nelle ore successive allo stop a quello sull’omicidio del consenziente, erano arrivati pareri positivi per quattro dei sei referendum sulla Giustizia. i giudici avevano ritenuto, infatti, ammissibili i seguenti quesiti:

    1. Abrogazione delle disposizioni in materia di incandidabilità
    2. Limitazione delle misure cautelari
    3. Separazione delle funzioni dei magistrati
    4. Eliminazione delle liste di presentatori per l’elezione dei togati del CSM

     

    La Corte Costituzionale, chiusa tra non poche polemiche la pratica sull’omicidio del consenziente, aveva  proseguito in Camera di consiglio l’esame sull’ammissibilità dei rimanenti quesiti referendari. E nel pomeriggio del 16 febbraio ha dato il suo via libera ai quattro referendum elencati poche righe più su. L’Ufficio Comunicazione della Consulta ha divulgato una nota specificando che i quesiti in questione «sono stati ritenuti ammissibili perché le rispettive richieste non rientrano in alcuna delle ipotesi per le quali l’ordinamento costituzionale esclude il ricorso all’istituto referendario»

    Le dichiarazioni di Giuliano Amato

    Per conoscere integralmente le ragioni dietro le decisioni della Consulta toccherà attendere ancora qualche tempo. Un primo assaggio di quelle relative alla cannabis, però, si può avere dalle dichiarazioni del presidente Giuliano Amato alla stampa: «Abbiamo dichiarato inammissibile il referendum sulle sostanze stupefacenti, non sulla cannabis. Il quesito è articolato in tre sotto quesiti ed il primo prevede che scompare tra le attività penalmente punite la coltivazione delle sostanze stupefacenti di cui alle tabelle 1 e 3, che non includono neppure la cannabis ma includono il papavero, la coca, le cosiddette droghe pesanti. Già questo sarebbe sufficiente a farci violare obblighi internazionali». La Corte Costituzionale fa sapere, infine, che, così come per gli altri quesiti al vaglio, la sentenza sarà depositata nei prossimi giorni.

     

     

     

     

  • Gli assassini del podere accanto

    Gli assassini del podere accanto

    Morire per un filare di olivi in più, per un pascolo conteso, per il confine di un podere spostato di una manciata di metri: non ci sono solo gli interessi del narcotraffico e del “controllo” del territorio a insanguinare le strade del reggino, anzi. Da tempo, con la sostanziale “pace” armata siglata dalle cosche del crimine organizzato che nel reggino, dopo l’esaurirsi degli ultimi rinculi delle guerre di ‘ndrangheta, hanno ridotto drasticamente l’abitudine di spararsi tra loro, le pagine di cronaca del territorio si sono colorate del nero degli omicidi tra familiari, vicini di casa o di terreno.

    «Qualche assassinio senza pretese» – cantava De André – maturato in un mondo antico, legato alla terra, agli animali, a quella “roba” verghiana che continua a dividere le famiglie e a provocare lutti. Un mondo che sembra non tenere conto del tempo che passa. E che riporta indietro agli scenari delle pagine di Saverio Strati e Corrado Alvaro, quando la legna di una quercia da abbattere o un vitello da portare al pascolo rappresentavano praticamente l’unica ancora di salvataggio per un futuro sempre incerto.

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    Lo scrittore di San Luca, Corrado Alvaro

    L’erba del vicino

    I tempi sono cambiati, ma per i fatti legati alla terra si muore ancora, e non solo per volere della ‘ndrangheta. Ultimo, in ordine di tempo, l’omicidio di Leo Romeo, morto per un colpo di fucile che lo ha colpito al collo in seguito ad una rissa con un suo cugino, Rosario Foti: una rissa, ha confessato il presunto autore dell’omicidio agli inquirenti, maturata sullo sfruttamento di un pascolo conteso tra le due famiglie. Teatro della vicenda, la piccola Gallicianò, gioiello semi-deserto della valle dell’Amendolea: è alla periferia del piccolo borgo che ricade nel comune di Condofuri che i dissidi tra i due parenti, storia di una paio di settimana fa, sono naufragati nell’omicidio.

    Da quanto emerso – il gip ha confermato il fermo del presunto assassino nei giorni scorsi – la lite tra i due andava avanti da tempo. Si era incancrenita a causa dello sfruttamento di un pascolo al confine tra le due proprietà. Pascolo che la vittima avrebbe utilizzato senza autorizzazione. Un omicidio maturato fuori dai contesti del crimine organizzato, anche se la vittima, un pastore di 42 anni, era stato in passato coinvolto, e infine assolto, in un’indagine della distrettuale antimafia che lo bollava come appartenente alla locale di Condofuri. Resta il mistero sull’arma, un fucile: l’omicida reo confesso ha raccontato agli inquirenti di averlo preso alla sua vittima e di averlo abbandonato accanto al corpo dopo la lite. Nessuno però lo ha mai ritrovato.

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    La valle dell’Amendolea

    «Poso il fucile e ti aiuto»

    Per una disputa sulla raccolta delle olive sarebbero invece morti Giuseppe Cotroneo e Francesca Musolino, marito e moglie di mezza età, dipendenti dell’Asp di Reggio, giustiziati nella campagne di Calanna, alle porte della città, da un loro parente, Francesco Barillà. I carabinieri lo hanno arrestato dopo un mese di indagini serrate.

    Secondo la ricostruzione degli inquirenti Barillà, anziano cugino delle vittime e loro vicino di casa, avrebbe discusso violentemente con la coppia – intenta a raccogliere le olive in un terreno di una terza persona, adiacente al podere del presunto omicida – prima di fare fuoco con il suo fucile da caccia registrato legalmente.

    Un duplice omicidio assurdo, commesso da un anziano incensurato che, per una manciata di olive, avrebbe aperto il fuoco sui suoi stessi parenti. Un blitz eseguito approfittando della momentanea assenza del figlio delle due vittime. Quella mattina era al lavoro con loro e si era allontanato per sistemare in auto parte delle cassette raccolte. E fu proprio al presunto omicida che il ragazzo, ironia della sorte, chiese aiuto quando si accorse della strage: un appello a cui Barillà rispose con un surreale «poso il fucile e torno».

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    Africo vecchio

    L’omicidio per qualche albero in più

    Un confine territoriale conteso sarebbe invece la causa dell’omicidio di Salvatore Pangallo, il giovane agricoltore ammazzato a colpi di fucile nella sua casa tra le campagne di Africo. Ad aprire il fuoco sarebbero stati Santoro e Pietro Favasulli, padre e figlio costituitisi ai carabinieri di Bianco dopo una caccia serrata durata tre giorni e, anche in questo caso, parenti del ragazzo ucciso. In quell’occasione, rimase gravemente ferito anche il padre di Pangallo, che durante lo scontro aveva provato a fare scudo al figlio con il suo corpo. Un epilogo tremendo per una lite che sembra andasse avanti da anni a causa di una linea di confine spostata di pochi metri. Una furia omicida che, secondo le ricostruzioni degli investigatori, sarebbe stata organizzata in anticipo dai due presunti omicidi che, dal loro parente a discutere di quel terreno, ci sarebbero andati armati di un fucile mai ritrovato dalle forze dell’ordine.

  • Giustizia, arriva il sì per quattro referendum: quesiti ammissibili

    Giustizia, arriva il sì per quattro referendum: quesiti ammissibili

    Dopo la bocciatura arrivata ieri per quello sull’eutanasia legale, arrivano i primi sì della Corte costituzionale a quattro dei sei referendum sulla Giustizia. La Consulta ha proseguito oggi, infatti, in Camera di consiglio l’esame sull’ammissibilità dei quesiti referendari. E ha dato il suo via libera per i quattro analizzati dopo quello sull’omicidio del consenziente. Gli italiani saranno chiamati a votare tra aprile e maggio sui seguenti temi:

    1. Abrogazione delle disposizioni in materia di incandidabilità
    2. Limitazione delle misure cautelari
    3. Separazione delle funzioni dei magistrati
    4. Eliminazione delle liste di presentatori per l’elezione dei togati del CSM

    Altri due referendum sulla giustizia

    L’Ufficio comunicazione della Consulta ha divulgato una nota in cui si spiega che «i quesiti sono stati ritenuti ammissibili perché le rispettive richieste non rientrano in alcuna delle ipotesi per le quali l’ordinamento costituzionale esclude il ricorso all’istituto referendario». Restano, dunque, ancora al vaglio della Corte altri due referendum che riguardano da vicino il mondo della Giustizia, in particolare quello sulla responsabilità civile dei magistrati. Da valutare, inoltre, l’ammissibilità del quesito che introdurrebbe la depenalizzazione della cannabis per uso personale.

     

     

     

  • Cannabis per uso personale, quel primato tutto calabrese

    Cannabis per uso personale, quel primato tutto calabrese

    Da sempre in Calabria le persone affette da patologie trattabili con la cannabis vivono un calvario senza fine. E nelle altre regioni la situazione non è migliore. La normativa proibizionista su coltivazione, vendita ed uso ricreativo finisce per penalizzare i pazienti che ne fanno richiesta. Tantissimi di loro aspettano di sapere cosa dirà stasera la Consulta sull’ammissibilità del referendum che vorrebbe far decidere agli italiani se introdurre o meno la possibilità di coltivare cannabis per uso personale.

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    Allo stesso modo, tantissimi e qualificati sono gli studi scientifici, tra i quali le ricerche condotte sin dagli anni Settanta dal medico Giancarlo Arnao, che sostengono l’efficacia dei preparati a base di canapa nel trattamento dei sintomi di gravi patologie come glaucoma, sclerosi multipla, Alzheimer, epilessia, traumi cerebrali ed ictus, sindrome di Tourette, glioblastomi, artride reumatoide, morbo di Crohn, colite ulcerosa. Inoltre è un efficace antiemetico in chemioterapia e coadiuvante nella terapia del dolore e nella stimolazione dell’appetito nell’AIDS.

    Cannabis, un primato tutto calabrese

    La Calabria vanta pure un singolare primato. È calabrese il primo paziente ad aver ottenuto in Italia il diritto di impiegare la preziosa infiorescenza per curarsi. Quella di Gianpiero Tiano è una battaglia estenuante, iniziata 30 anni fa. Nel 1992 rimase vittima di un terribile incidente stradale. Durante la lunga convalescenza, scoprì che il violento trauma gli aveva provocato una grave forma di epilessia. Aveva letto un articolo sulla cannabis come valida alternativa ai farmaci tossici. Decise così di provare assumendo dei quantitativi minimi e si rese conto che le infiorescenze della pianta funzionavano: le crisi epilettiche erano sparite. Già in quegli anni, però, le pene previste per chi la maneggiava erano altissime.

    Non potendo acquistarla, decise di coltivarla come prezzemolo, basilico e mentuccia. È noto che alle latitudini di Calabria la marijuana cresce rigogliosa. La conferma scientifica è arrivata pochi anni fa, quando uno studioso calabrese, il geologo Giovanni Salerno, ha realizzato un’accurata mappa dei siti calabresi ideali per la produzione di cannabis. All’epoca Gianpiero versò pochi semini nei vasi esposti alla finestra del balcone di casa, a San Giovanni in Fiore. Dal terreno spuntarono 6 germogli. Ma ben presto ricevette la visita dei carabinieri, forse allertati da qualche delazione. Così gli costarono care quelle piantine appena sbocciate. Finì in carcere, nonostante le sue precarie condizioni di salute.

    Cannabis e Giustizia, l’impresa di Mazzotta

    In primo grado il tribunale di Cosenza lo condannò. I giudici non ammisero che la documentazione presentata dalla difesa avesse valore probatorio. Ma in appello, difeso dal geniale e coraggioso avvocato Giuseppe Mazzotta, la sentenza ridusse la pena sospesa e per la prima volta riconobbe che Tiano aveva realizzato la minicoltivazione non per spaccio, bensì per un uso terapeutico. Quel testo era destinato a fare giurisprudenza. Negli anni successivi, innumerevoli sono state le sentenze assolutorie dei tribunali italiani nei confronti di persone che hanno deciso di coltivare in proprio, e per uso esclusivamente personale, la pianta tabù.

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    L’ingresso del tribunale di Cosenza

    Ottenuto un dispositivo non criminalizzante, a Gianpiero rimaneva però il problema di come approvvigionarsi della sostanza, vista la rigorosità della permanente normativa proibizionista. Si fece allora promotore di una battaglia civile. Scrisse lettere aperte ai parlamentari, nel 1999 fu tra i fondatori dell’associazione Cannabis terapeutica, trovò un valido sostenitore nel professore Andrea Pelliccia dell’università La Sapienza, che gli prescrisse l’uso dei preparati a base di THC, il principio attivo della cannabis.

    Nel 2001 presentò alle autorità competenti formale richiesta ed ottenne che il sistema sanitario importasse le infiorescenze da un’azienda olandese. Nel 2002, nel summit sulle droghe a Genova, insieme ad altri attivisti dell’associazione fu ricevuto dal ministro della Salute, Umberto Veronesi, e gli consegnò un libro bianco sul diritto negato di assumere cannabis ad uso terapeutico.

    Cannabis e appetito

    «Oggi – denuncia Gianpiero Tiano – mi sembra d’essere tornato al punto di partenza. Non c’è nessun neurologo che me la prescriva. Il medico di famiglia non ne vuole sapere. Conosco tanti altri pazienti calabresi che, come me, sono costretti a compiere clamorose azioni di protesta per tornare a sollevare il problema. Ritengo che i principali ostacoli al riconoscimento dell’uso terapeutico della cannabis derivino dagli interessi delle multinazionali farmaceutiche che per tutelare i loro famelici profitti, nella nostra regione pilotano medici, gruppi di pressione e apparati politici contrari a questa prospettiva.

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    «Una cura alternativa a base di cannabinoidi – prosegue Tiano – sarebbe competitiva nei confronti di altri costosissimi farmaci già impiegati per certe patologie. Inoltre, più difficile è ottenere la canapa, maggiori sono i profitti delle farmacie galeniche, le uniche abilitate a preparare i prodotti a base di cannabis. Per capire l’entità dei profitti, si pensi che nel biennio 2015 – 2017 tra Lamezia, Catanzaro e Crotone il costo di questi preparati è aumentato del 400%. Gli stessi consiglieri regionali che in anni passati sono stati promotori di iniziative politiche in Calabria si sono rivelati una delusione, un bluff. Volevano solo farsi pubblicità proponendo assurde spending review preventive, ma è chiaro che non avevano la minima intenzione di raggiungere un obiettivo che sarebbe prima di tutto sanitario». Dietro uno scontro in apparenza ideologico, dunque, si muovono ben altre manovre. È risaputo che la marijuana provoca appetiti non solo alimentari.

  • Mimmo Lucano al contrattacco: 140 pagine per ribaltare la condanna

    Mimmo Lucano al contrattacco: 140 pagine per ribaltare la condanna

    Una ricostruzione della realtà «macroscopicamente deforme rispetto a quanto emerso in udienza», un atteggiamento «aspro, polemico, al limite dell’insulto» e la preoccupazione di trovare Mimmo Lucano colpevole «ad ogni costo». Hanno ritmi sferzanti le argomentazioni utilizzate da Giuliano Pisapia e Andrea Daqua nelle quasi 140 pagine di richiesta d’appello alla sentenza con cui, in primo grado, il Tribunale di Locri ha “sepolto” l’ex sindaco di Riace, condannato nel settembre scorso a 13 anni e due mesi di reclusione.

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    La lettura della sentenza di condanna per Mimmo Lucano

    Una puntigliosa ricostruzione del lungo processo a carico di Mimmo “il curdo” Lucano, che prova a smontare, pezzo per pezzo, le monumentali motivazioni (oltre 900 pagine) con cui i giudici locresi hanno messo la parola fine a quel progetto di accoglienza integrata che aveva portato il piccolo paese jonico all’attenzione dei media internazionali. Nel fascicolo presentato in Appello, i legali di Lucano ribadiscono quanto espresso in udienza, sottolineando la totale estraneità del loro assistito alle accuse che lo hanno visto condannato per i reati di associazione a delinquere, falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio e truffa: 21 i reati in totale, contenuti in 10 capi d’accusa dei sedici originari.

    Pezzo per pezzo

    Sono tanti e dettagliati i punti che non tornerebbero nella sentenza di primo grado e che gli avvocati difensori sottolineano per sostenere l’innocenza di Mimmo Lucano. Punti che bollano la sentenza emessa dal giudice Fulvio Accurso come «in toto censurabile» e dalla cui lettura «matura la netta convinzione» che il giudicante «sia incorso in un palese errore prospettico che ha condizionato pesantemente il giudizio, restituendo una ricostruzione della realtà macroscopicamente deforme rispetto a quanto emerso in udienza».

    Incongruenze e errori che secondo Pisapia e Daqua avrebbero riguardato tutte (o quasi) le determinazioni della sentenza: dalle intercettazioni «utilizzate oltremodo» con un’interpretazione «macroscopicamente difforme dal suo autentico significato», al cambio in corsa del capo di imputazione da abuso d’ufficio a truffa aggravata, fino all’ipotesi di associazione a delinquere dove la sentenza «appare raggiungere il massimo livello di creatività». E poi le spinte all’accoglienza dell’ex sindaco che sarebbero state dettate dalla voglia di arricchirsi e dalla necessità di mantenere gli equilibri per continuare a guidare Riace da primo cittadino: tutte, mettono nero su bianco gli avvocati difensori «letture forzate, se non surreali, dei risultati intercettivi».

    Mimmo Lucano, un caso politico

    Travolto da una copertura mediatica imponente, il processo a Mimmo Lucano si è soffermato a lungo sul ruolo politico rivestito dall’ex sindaco. Dichiaratamente disobbediente e legato agli ambienti della sinistra radicale, Lucano ha riproposto attraverso il modello Riace un’idea diversa dell’accoglienza, nella stessa terra in cui gli slums di Rosarno e San Ferdinando riempiono le pagine della cronaca. Ed è proprio analizzando il ruolo politico di Lucano – e il conseguente utilizzo dei migranti per ottenere la rielezione, come ipotizzato dal Tribunale – che gli avvocati affondano il colpo.

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    Giuliano Pisapia

    Pisapia e Daqua sottolineano «le malevoli interpretazioni, le contraddizioni, il rovesciamento di senso, le enfatiche distorsioni» di un giudizio «preoccupato, più che a valutare gli elementi probatori forniti dall’istruttoria dibattimentale, a “dipingere” e “romanzare” la figura di Lucano. Dov’è lo scambio politico? – si chiedono gli avvocati nell’istanza di appello – Dove sono i voti di riscontro all’atteggiamento omissivo che Lucano avrebbe tenuto? Dov’è quella tanto ricercata (ma inesistente) ricchezza, quel vantaggio economico acquisito dal Lucano attraverso lo sfruttamento del sistema integrazione?».

    Ricostruzioni fantasiose

    Una sentenza pesantissima quella emessa dal Tribunale di Locri che ha, di fatto, raddoppiato la pena avanzata dalla Procura che in sede di requisitoria aveva chiesto la condanna a sette anni. Una sentenza che, scrivono ancora i difensori di Lucano si baserebbe su «ricostruzioni apodittiche e fantasiose» e che si rivolge all’imputato Lucano con «espressioni caratterizzate da una aggettivazione aspra, polemica, al limite dell’insulto», descrivendolo «coma una figura avida, infida, arrogante, una controparte da perseguire più che una persona da sottoporre a giudizio»

  • Caso Lucano, le “verità” al veleno di Palamara

    Caso Lucano, le “verità” al veleno di Palamara

    Di sicuro, nel recentissimo Lobby e Logge di Luca Palamara e Alessandro Sallusti, uscito per Rizzoli la scorsa settimana, ci sono alcuni vizi, non proprio leggeri: l’ansia di rivalsa e il desiderio di autodifesa dell’ex presidente dell’Anm più la proverbiale allergia del direttore di Libero nei confronti delle toghe.
    E tuttavia, le dichiarazioni al vetriolo dei due – che spesso vanno ben oltre il politicamente corretto – meritano una certa attenzione, per almeno due motivi: scombussolano un po’ le carte sulle questioni giudiziarie e, cosa più importante, si basano su fatti.
    Anche per quel che riguarda la Calabria, che emerge in questo libro-intervista soprattutto per quel che riguarda alcuni aspetti del processo a Mimmo Lucano, terminato con una condanna più commentata che analizzata.

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    La lettura della sentenza di condanna per Mimmo Lucano

    Il magistrato e l’ex sindaco

    Le dichiarazioni di Palamara, sul caso Lucano, sono piccanti e argomentate.
    All’ex magistrato romano non interessa la vicenda di Lucano in sé, ma solo come punto di partenza per polemizzare contro gli equilibri interni al potere giudiziario. Cioè gli assetti di potere di quello che lui, nel suo libro precedente, ha definito “Il sistema”.
    Infatti, su Lucano l’ex capo delle toghe è piuttosto garantista: «Pur nel pieno rispetto delle motivazioni dei giudici di Locri, depositate il 17 dicembre del 2021, non mi spiego una pena così alta viste le imputazioni contestate e il contesto nel quale le condotte dello stesso Lucano si sono verificate».

    Il vero bersaglio di Palamara è Emilio Sirianni, giudice della Corte d’Appello di Catanzaro, finito nei guai per via della sua amicizia per Lucano, in nome della quale si espose un po’ troppo, al punto di essere indagato dalla Procura di Locri e di subire un procedimento disciplinare davanti al Consiglio superiore della magistratura.
    Per onestà è doveroso ribadire che i fastidi giudiziari di Sirianni sono solo un ricordo, visto che il giudice catanzarese è stato archiviato a Locri e prosciolto dal Csm nel 2020, quindi oltre un anno prima che Lucano venisse condannato.

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    Emilio Sirianni

    Piange il telefono

    Tuttavia, ciò non toglie che certe affermazioni di Sirianni siano pesanti, come rilevano i magistrati di Locri nell’ordinanza di archiviazione dell’inchiesta sul loro collega: «il comportamento mantenuto è stato poco consono a una persona appartenente all’ordine giudiziario, peraltro consapevole di parlare con una persona indagata».
    Ma cos’ha detto di così pesante Sirianni?
    Innanzitutto, c’è una battuta piccantissima su Nicola Gratteri, “colpevole” di non aver difeso a sufficienza Lucano. In altre parole, Lucano era preoccupato del fatto che il procuratore di Catanzaro si era dimostrato tiepido sull’inchiesta di Locri, limitandosi a un banale: «Sarei cauto, bisogna leggere le carte», dichiarato in tv ad Alessandro Floris.

    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri
    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri

    Sirianni avrebbe cercato di rassicurare Lucano per telefono con un commento al peperoncino rivolto al magistrato antimafia più famoso d’Italia: «Lascialo stare, è un fascista di merda ma soprattutto un mediocre, un mediocre e ignorante».
    Addirittura alla ’nduja le dichiarazioni di Sirianni su un altro calabrese di peso: Marco Minniti, all’epoca ministro dell’Interno nel governo Gentiloni, che viene definito «uno pseudo comunista burocrate che ha leccato il culo a D’Alema per tutta la vita».
    Non entriamo nel merito di queste dichiarazioni, così come non ci è entrata la commissione disciplinare del Csm che ha prosciolto Sirianni perché ha detto quel che ha detto in privato e non in pubblico e quindi non ha discreditato la magistratura.

    Compagni in toga

    A essere pignoli, la frase più pesante del giudice di Catanzaro sarebbe quella in cui non ci sono parolacce ma tira in ballo un altro magistrato: Roberto Lucisano, presidente della Corte di Assise d’Appello di Reggio e compagno di Sirianni in Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe italiane.
    Sempre stando alle intercettazioni riportate in Lobby e Logge, Sirianni avrebbe detto a Lucano una cosa non troppo sibillina: «Ho parlato con Lucisano, il quale mi dice che la procura di Locri sta indagando ma che su questo Magistratura democratica farà una crociata». Non è proprio poco visto che, commenta Palamara, Lucisano, in virtù del suo ruolo, potrebbe essere giudice di Appello di Lucano.
    Ma l’ex magistrato evita i processi alle intenzioni e si sofferma, piuttosto, sull’aspetto ideologico della vicenda.

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    Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace condannato in primo grado

    Toghe rosse

    Un lungo virgolettato di un’altra intercettazione, riportato stavolta da Sallusti, chiarisce i motivi per cui Sirianni si è sbilanciato tanto nei confronti di colleghi ed esponenti di governo. E il diritto c’entra davvero poco.
    Ecco il passaggio, che sa più di Potere Operaio che di Anm: «Magistratura democratica è nata con una cultura della corporazione, dicendo: noi non siamo giudici imparziali, o meglio noi non siamo indifferenti, noi siamo di parte, siamo dalla parte, siamo dalla parte del più debole, perché questo è scritto nella Costituzione, non perché questa è una rivoluzione».

    Il commento di Palamara, che si riporta per dovere di cronaca, è piuttosto duro: «In questa intercettazione c’è tutto quello che ho vissuto nei miei undici anni alla guida del Sistema che ha governato la politica giudiziaria. L’egemonia culturale di sinistra che sovrasta la Costituzione, la partigianeria che interpreta la legge». Non è il caso di entrare nel merito di questa dichiarazione dell’ex magistrato, perché la vera notizia, in questo caso è un’altra.

    Uno scandalo inedito?

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    Luca Palamara

    La fornisce Palamara: «Strano che l’integrale di queste intercettazioni non sia mai uscito sui giornali, e ancora più strano che non siano mai arrivate al Csm, e non penso che sia stato un disguido delle poste». Dichiarazione sua, che spetta ai diretti interessati smentire.
    Ma è una dichiarazione che, se non smentita, autorizza le peggiori dietrologie. Ad esempio questa, sempre di Palamara: «Penso che quelle frasi gravemente scorrette nei confronti di importanti magistrati e politici avrebbero creato dei grattacapi non solo a lui ma a tutta la sinistra giudiziaria».
    Di sicuro queste dichiarazioni, che si prestano a tutte le strumentalizzazioni possibili, non aiutano a far chiarezza in una vicenda, quella di Mimmo Lucano, che richiede ben altra serenità.

  • Così l’Onorata Sanità calabrese nega il diritto alla salute ai cittadini

    Così l’Onorata Sanità calabrese nega il diritto alla salute ai cittadini

    La ricetta del presidente della Giunta Regionale, Roberto Occhiuto, è l’azienda unica per la sanità calabrese. Da sempre, un coacervo di accordi politici, di interessi della ‘ndrangheta, con i figli dei boss che sono diventati classe dirigente, una camera di compensazione dove la massoneria la fa da padrona.

    Il giudizio della Corte dei Conti sulla sanità calabrese

    La politica bipartisan, ormai da mesi, batte all’unisono: cancellare il debito sanitario calabrese. Per i proponenti, un passaggio necessario, azienda unica o meno, per auspicare una ripartenza. Per altri un colpo di spugna su anni di intrallazzi e ruberie. Che la pandemia da Covid-19 ha mostrato in tutta la sua drammaticità, con la Calabria spesso declassata da “zona bianca” a una condizione di limitazioni e restrizioni. Non già per il numero dei contagi, ma per la fatiscenza e l’inadeguatezza del suo sistema sanitario.

    Ora su quel buco, enorme, della sanità calabrese interviene anche la Corte dei Conti. I giudici contabili sostengono l’inattendibilità del deficit sanitario e la sua probabile sottostima: «Dall’esame dei risultati d’esercizio, relativi all’esercizio 2020, tutte le aziende del Ssr calabrese hanno chiuso in perdita, per un totale di -267 milioni 167mila euro. Le aziende del Ssr calabrese, nel periodo 2014-2019, non hanno rispettato la direttiva europea sui tempi di pagamento. Nel 2020 gli indicatori risultano ancora elevati, seppure, nella maggior parte dei casi, in leggera diminuzione. Con una media, per il 2020, di 159 giorni. La situazione debitoria delle Aziende sanitarie e ospedaliere ammonta complessivamente ad oltre 1 miliardo 174 milioni di euro».

    La mammella da spremere

    La sanità calabrese è, da sempre, una mammella da spremere senza fine per le cosche e per affaristi di vario genere. Non a caso, il settore – che avvolge il 70% del bilancio regionale – è commissariato da anni. E il debito più che miliardario. «Il ritardo con cui – è scritto nella relazione della Procura contabile – le aziende sanitarie e ospedaliere del Ssr calabrese effettuano i propri pagamenti determina ingenti interessi moratori che incidono negativamente sui risultati finanziari». Con riferimento al contenzioso, si legge ancora, «il totale ammonta ad oltre 481,21 milioni di euro e il totale degli accantonamenti ammonta ad oltre 51,89 milioni di euro. In definitiva sui costi del servizio sanitario calabrese continua a incidere fortemente il contenzioso con i correlati oneri aggiuntivi».

    Un sistema che non si regge in piedi

    La Procura regionale ha poi rilevato «svariate criticità». Permangono carenze di effettivo supporto alla struttura commissariale, carenze assunzionali, carenze nella gestione degli accreditamenti. E poi, una pesante situazione debitoria delle Aziende sanitarie, forti ritardi nei pagamenti e pignoramenti. Infine, gravi ritardi nell’approvazione del bilanci e insufficienza dei flussi informativi. Tutti questi fattori «contribuiscono a determinare l’enorme difficoltà a realizzare efficacemente il piano di rientro dal disavanzo che, infatti, da oramai oltre un decennio è rimasto pressoché immutato».

    In particolare – sostiene ancora la Corte dei Conti – «con riguardo al disavanzo totale 2020 […] si deve porre in evidenza che, seppure in lieve miglioramento rispetto all’anno scorso, non è certo un dato ottimistico perché, comunque, il deficit sanitario in oltre dieci anni si è ridotto di circa soli 13 milioni di euro (da oltre 104 ad oltre 91 milioni)». Giudizio negativo, poi, anche per i cosiddetti LEA, i livelli essenziali di assistenza: «Il punteggio per il 2019 è di 125. Di molto al di sotto della soglia (almeno tra 140 e 160) e molto meno del 2018 (162)».

    Il caso Reggio Calabria

    Il pur enorme deficit quantificato potrebbe addirittura essere sottostimato. Questo, soprattutto, a causa della situazione grottesca e paradossale dell’Asp di Reggio Calabria: «In primis ciò è legato alla situazione dell’Asp di Reggio Calabria, dove dal 2013 esiste una contabilità non fondata su documenti amministrativi». Questa “contabilità orale”, di fatto, «rende impossibile ricostruire il quadro debitorio dell’azienda». E non si parla di cifre di poco conto, ma di «una situazione debitoria potenzialmente dirompente, con passività che potrebbero toccare i 500 milioni».

    L’Asp di Reggio Calabria per anni avrebbe persino pagato per (almeno) due volte le stesse fatture a studi privati e cliniche convenzionate. Il risultato è un danno erariale di svariati milioni di euro fin qui accertati dalle indagini della Procura della Repubblica. Proprio alcuni mesi fa, sono state rinviate a giudizio quasi venti persone per le doppie fatture pagate dall’Asp in favore dello “Studio radiologico sas di Fiscer Francesco” di Siderno.

    Tra i rinviati a giudizio ci sono il legale rappresentante della clinica, ma anche funzionari dell’Asp, nonché l’ex direttore sanitario Salvatore Barillaro e quello amministrativo Pasquale Staltari. Ma, soprattutto, l’ex commissario straordinario dell’Asp, Santo Gioffrè. Proprio quel Santo Gioffrè che aveva evitato il doppio pagamento di una fattura da 6 milioni di euro alla clinica “Villa Aurora” denunciando tutto in Procura.

    I doppi pagamenti

    Le indagini, infatti, avrebbero permesso di constatare una duplicazione di pagamenti per oltre 4 milioni di euro. Soldi corrisposti dall’Asp reggina a favore dello studio radiologico privato, operante nel settore dell’erogazione di prestazioni diagnostiche ai pazienti in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale. Gli inquirenti si sono poi concentrati su una transazione, conclusa nel 2015 tra l’Asp ed il privato, che ha disposto il pagamento della somma di quasi 8 milioni di euro a saldo di crediti pregressi, presuntivamente vantati come non ancora riscossi.

    Oltre dieci anni di prestazioni sanitarie dichiarate non pagate dallo studio radiologico e poste a fondamento di diversi decreti ingiuntivi divenuti esecutivi a seguito della mancata opposizione dell’Asp reggina. Ma quelle somme erano state già liquidate per un ammontare complessivo di oltre 4 milioni di euro. Compresi interessi. Le indagini avrebbero quantificato in quasi due milioni e mezzo di euro le imposte non pagate.

    La ‘ndrangheta classe dirigente

    Anche così si spolpa la Sanità calabrese. Quella in cui la ‘ndrangheta si è fatta classe dirigente. Con i figli dei vecchi boss degli anni ’70 e ’80, che hanno conseguito lauree in Giurisprudenza e Medicina, soprattutto presso l’Università degli Studi di Messina. Per anni un vero e proprio feudo della ‘ndrangheta della Locride soprattutto. Affonda le sue radici nel mito la versione secondo cui i giovani esponenti dei clan della fascia jonica reggina sostenessero gli esami “con la pistola sul tavolo”. E un collaboratore di giustizia, negli anni, ha affermato: «Ci fu un periodo in cui l’Università di Messina era una sorta di dépendance di Africo Nuovo». Proprio l’Africo Nuovo di Peppe Morabito, il “Tiradritto”.

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    L’Università di Messina

    Del resto, è utile ricordare le risultanze emerse, alcuni anni fa, con la relazione di scioglimento per ‘ndrangheta dell’allora Asl di Locri. Agli atti la fitta ed intricata rete di rapporti di parentela o di affinità e frequentazione che legano esponenti anche apicali della criminalità organizzata locale a numerosi soggetti alle dipendenze dell’azienda. Alcuni dei quali con pendenze o pregiudizi di natura penale.

    Il delitto Fortugno

    Quelli sono gli anni del delitto del vicepresidente del Consiglio Regionale della Calabria, Franco Fortugno, assassinato il 16 ottobre del 2005 a Palazzo Nieddu del Rio a Locri. Le indagini sul suo omicidio e la parallela inchiesta “Onorata Sanità”, che porterà alla condanna definitiva dell’allora consigliere regionale Mimmo Crea, sveleranno un sistema inquietante. In cui, a prescindere dalle responsabilità penali accertate, sarebbero emerse relazioni molto strette e intense tra politica, imprenditoria, mondo delle professioni e ‘ndrangheta.

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    Francesco Fortugno

    Molti nomi, menzionati nelle migliaia di carte investigative, citati nelle infinite udienze davanti ai giudici, ricorrono e ricorrono. E continuano, ancora oggi, a ricoprire incarichi di grande rilievo in seno alla sanità reggina e calabrese. Non è un caso che a distanza di molti anni dalla relazione del prefetto Basilone sull’Asl di Locri, anche l’Asp di Reggio Calabria verrà commissariata per infiltrazioni della criminalità organizzata, con lavori per imprese non inserite nella white list della Prefettura o, peggio, colpite da interdittiva antimafia.

    Nessuno firma i bilanci di Cosenza

    Lo stesso discorso vale per un’altra importante Asp della regione, quella del capoluogo Catanzaro, anch’essa considerata di grande interesse per le cosche. E la situazione è grave anche all’Asp di Cosenza. Qui diversi manager della Sanità pubblica sono indagati per aver truccato i bilanci dell’Ente nel tentativo di far quadrare, almeno sulla carta, conti altrimenti molto più drammatici. L’ultimo consuntivo approvato – oggi nel mirino della Procura – risale ormai al 2017. Da allora otto commissari si sono alternati senza mettere la propria firma su quelli successivi. Anche a Cosenza doppie fatture e un contenzioso monstre non quantificato né gestito come si dovrebbe hanno generato una voragine finanziaria da centinaia di milioni di euro.

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    La sede dell’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza
    Massoni e legami politici: l’interrogazione parlamentare

    A Reggio Calabria o a Locri, un po’ ovunque la sanità è un coacervo di interessi. Anche e soprattutto a Cosenza. Ne è convinto il deputato Francesco Sapia, ex grillino duro e puro che, non accettando la svolta governativa dei 5 Stelle, è confluito ne L’Alternativa. Il parlamentare proprio in queste ore con un’interrogazione parlamentare ha chiesto «se il ministro dell’Interno non intenda promuovere l’accesso agli atti presso l’Asp di Cosenza».

    Sapia, peraltro, alla Camera siede proprio in Commissione Sanità.E non usa troppi giri di parole: «Primariati non autorizzati, anomala conservazione dei tamponi, proroghe allegre di contratti scaduti, sforamenti di bilancio, incompatibilità, parenti che lavorano insieme, ruoli svolti senza requisiti e procedure selettive pubbliche, carenze da Terzo mondo e gestioni incontrollate di presìdi salvavita. Questo squallore deve finire, non è più tollerabile».

    Il parlamentare pare essersi fatto un’idea ben precisa sulle possibili ragioni dietro i problemi elencati: «È urgente verificare se massoni e legami politici negli uffici abbiano condizionato o possano pregiudicare l’imparzialità amministrativa nell’Asp di Cosenza».

    Il buco nero dell’Asp di Cosenza

    Ma a cosa si riferisce, nello specifico, l’ex grillino? Da anni sono sempre più insistenti i dubbi sulla spesa farmaceutica e gli affidamenti illegittimi di incarichi a esterni. Con riferimento a questi ultimi, secondo quanto previsto dalla legge possono ammontare, al massimo al 50% di quella sostenuta nel 2009 per le stesse finalità. Ma negli scorsi anni si è andati ben oltre: dell’82% nel 2016 e del 76% nel 2017.

    Come per altre Asp calabresi, peraltro, anche all’Asp di Cosenza diventa un’impresa trovare le fatture. Agli atti emergono sei diverse società a responsabilità limitata che da tempo reclamano pagamenti dall’Asp cosentina. Circa 20 milioni di euro per un debito che sarebbe maturato a partire dal 2007. Il problema è che però negli uffici dell’Asp non esistono fatture che possano giustificare queste richieste esorbitanti. E da quelle che si trovano, molto spesso i pagamenti risultano già effettuati da anni.

    Le fatture che non si trovano

    Perché poi, ovviamente, nel disordine, nella negligenza, possono annidarsi anche tentativi di raggiro. E così, per anni, l’Asp di Cosenza è stata letteralmente assaltata da una lunga sfilza di società di factoring, pronte a vantare crediti (reali o presunti) nei confronti dell’Ente. «L’Azienda non è in grado di identificare con certezza la matrice sulla cui base i pagamenti vengono liquidati, questa situazione espone la stessa al rischio di remunerare più di una volta lo stesso importo per il medesimo debito», ha scritto tempo fa la Corte dei Conti. Tra fatture già pagate e altre scomparse, il buco nelle casse dell’Asp cresce a dismisura.

    Al 31 dicembre 2017 l’Asp di Cosenza aveva ben 541 milioni di euro di debiti. E le anticipazioni di cassa, che dovrebbero essere un’eccezione, sono diventate una regola. E, con il tempo, si sa, i debiti crescono. Nel 2005, infatti, l’Azienda Sanitaria di Cosenza aveva un debito di circa 3 milioni e mezzo di euro ereditato dall’ex As 1 di Paola legato a una condanna in tribunale. Nessuno ha pagato e quella somma è cresciuta a dismisura. Nel 2020 gli interessi pagati sulla cifra prevista inizialmente ammontavano a quasi 8 milioni e mezzo.

    La “favorita” dell’ex dg

    Ma Sapia parla anche di concorsi fatti ad hoc. Una inchiesta della Procura di Cosenza, infatti, sostiene come la procedura riguardante una donna abbia avuto un trattamento di favore, con un bando creato proprio per lei. E questo in forza della relazione sentimentale che avrebbe intrattenuto, per un determinato periodo, con l’ex direttore generale dell’Asp, Raffaele Mauro. Questa procedura le avrebbe fatto ottenere una promozione, senza averne avuto diritto.

    Alcune modifiche normative (inserite usando come stratagemma il pensionamento di un funzionario) sarebbero state inserite su misura proprio per favorire la “preferita” di Mauro. Tra le varie presunte e creative irregolarità, quella di non tenere conto dell’esperienza nel settore. E la donna, pur non avendo alcuna pregressa attività lavorativa (a dispetto degli altri candidati) nel settore in esame vince la selezione. Un artifizio che, sempre secondo i pm, sarebbe avvenuto grazie a una commissione compiacente, per non urtare la suscettibilità dell’allora dg.

    «Processate i commissari»

    Ma proprio quell’inchiesta – denominata, non a caso, “Sistema Cosenza” – afferma come la gestione allegra dell’Asp cosentina sia stata di fatto avallata dal silenzio (nel migliore dei casi) della Regione e dei commissari. A non opporsi a tutto questo, anche Massimo Scura e il generale Saverio Cotticelli, per i quali, proprio alcuni giorni fa, la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per i falsi bilanci dell’Asp.

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    Gli ex commissari massimo Scura e Saverio Cotticelli

    Secondo l’accusa, il buco di bilancio sarebbe stato occultato, omettendo, tra le altre cose, di riportare in bilancio le cifre del contenzioso legale che, da solo, ammonta ad oltre mezzo miliardo di euro. Bilanci, secondo i magistrati, palesemente falsi e che, nonostante le irregolarità e i pareri negativi del collegio sindacale, con riferimento al triennio 2015-2017 sono stati comunque approvati dagli organi di controllo istruttorio.

    Le ultime inchieste

    “Sistema Cosenza” non è l’ultima inchiesta che mette nel mirino la sanità calabrese. Praticamente tutte le procure calabresi hanno fascicoli aperti di una certa rilevanza. Nel marzo del 2021, un’altra operazione ha portato all’arresto di medici e dirigenti perché responsabili di essere affiliati alla cosca Piromalli, una delle più potenti della ‘ndrangheta. Secondo l’inchiesta “Chirone”, tramite alcune aziende il potente clan di Gioia Tauro si sarebbe aggiudicato gli appalti di fornitura dell’Asp di Reggio Calabria. Uno dei dirigenti coinvolti era proprio colui che aveva il compito di valutare il fabbisogno sanitario della provincia di Reggio ai fini della fissazione dei budget.

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    Nicola Paris

    E rischia il processo anche l’ex consigliere regionale della Calabria, Nicola Paris, eletto nel 2020 con la lista dell’Udc e arrestato nell’agosto scorso con l’accusa di corruzione. Secondo l’inchiesta “Inter Nos”, Paris avrebbe tentato di intervenire sull’allora presidente f. f. della Regione, Nino Spirlì. A che scopo? Sollecitare il rinnovo contrattuale per Giuseppe Corea, direttore del settore Gestione risorse economico-finanziarie dell’Asp. Secondo gli inquirenti, è la persona grazie alla quale le imprese vicine ai clan Serraino, Iamonte ed a quelli della Locride ottenevano gli appalti. Paris avrebbe caldeggiato la nomina di Corea nell’interesse degli imprenditori che, stando al campo di imputazione, «lo avevano sostenuto durante la campagna elettorale».

  • FRANCO TIRATORE| La nuova rubrica video in diretta

    FRANCO TIRATORE| La nuova rubrica video in diretta

    Perché chiamare una rubrica Franco tiratore, quando l’Italia della politica ci fa associare sempre quell’espressione a chi in segreto tradisce la propria fazione? Non per quelle elucubrazioni con cui ci si diletta nei giornali pur di sfruttare a tutti i costi il nome di qualcuno in un gioco di parole. Certo, il direttore de I Calabresi si chiama Franco Pellegrini e sarà lui a tenere la rubrica, ma la cosa ha influito meno di quanto possa sembrare.

    Il fatto è che il franco tiratore vero, l’originale, era l’esatto contrario di quello contemporaneo: un soldato – o un gruppo di soldati – che poteva entrare in azione senza dover sottostare a ordini come il resto dell’esercito. Libero, con la sola missione di difendere la propria comunità. Proprio come, fuori dall’originario contesto bellico, sarà questo nuovo spazio. In fondo anche questo giornale combatte una battaglia: raccontare la comunità dei calabresi e le sue molteplici sfaccettature, offrirle un’informazione indipendente, sincera e con un taglio originale, stimolarne la voglia di confrontarsi con opinioni a volte differenti dalle proprie.

    Pensiamo che un appuntamento video periodico in diretta per affrontare un argomento possa essere un modo per coinvolgere ancora di più i nostri lettori in questa battaglia culturale comune. Franco tiratore sarà questo, vi aspettiamo.

  • La compagnia degli Anello: la talpa, i kalashnikov nella posta, la sfida e la pace coi Mancuso

    La compagnia degli Anello: la talpa, i kalashnikov nella posta, la sfida e la pace coi Mancuso

    Una volta uscito dal carcere, il superboss di Limbadi Luigi Mancuso avrebbe praticato una «politica di pace» per cui ognuno, sul territorio vibonese, doveva avere il suo spazio. E tutti dovevano essere «belli garbati, precisi» e fare «le cose col silenzio». Ne parlavano in questi termini, intercettati, due imprenditori ritenuti sodali del clan di Filadelfia capeggiato da Rocco Anello. Che proprio dai nuovi equilibri garantiti dal «supremo» sembra abbia tratto negli anni grossi vantaggi.

    In passato era stato tra i protagonisti di quella che negli ambienti venne definita «linea bastarda», un’alleanza di ‘ndrangheta che si opponeva allo strapotere dei Mancuso. Poi alcuni boss di quella fazione sono stati uccisi, altri ridimensionati, e i rapporti sull’asse Filadelfia-Limbadi si sono ricomposti.

    Anello, il boss imprenditore

    Anello viene d’altronde descritto oggi come un boss imprenditore. Lontani gli anni in cui il suo paese era famigerato per la lupara bianca, si sarebbe rivelato un mediatore scaltro con un infallibile fiuto per gli affari. E dal suo feudo, sul confine tra Vibonese e Lametino, avrebbe costruito un impero economico che arriverebbe oltre le Alpi. Villaggi turistici, impianti eolici, movimento terra, forniture di calcestruzzo, appalti boschivi, estorsioni su lavori pubblici. Armi e droga. Con intermediari legati alla politica e talpe nelle forze dell’ordine.

    Niente telefono, basta la moglie

    Anello faceva business ma non aveva telefoni. Gli bastava che chi ne aveva facoltà facesse il suo nome. Era la moglie, Angela Bartucca, a fare da catalizzatore di tutti i messaggi in entrata e in uscita per il boss. Formalmente separati, lui nei giorni scorsi è stato condannato in primo grado a 20 anni di reclusione, lei a 12.

    Con un passato oscuro che rimanda alla scomparsa di due giovani – Santino Panzarella e Valentino Galati avrebbero avuto relazioni con lei, ma sulla loro sorte non c’è mai stata alcuna certezza giudiziaria – Angela Bartucca avrebbe rivestito il ruolo di tramite tra il capocosca e gli altri affiliati.

    Il finanziere coinvolto

    Una condanna a 12 anni l’ha rimediata anche un brigadiere della Guardia di finanza, Domenico Bretti. Gli uomini del clan lo chiamavano “Gardenia” e da lui avrebbero avuto informazioni di polizia giudiziaria, roba di microspie e bonifiche, che dovevano rimanere segrete.

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    L’aula bunker di Lamezia Terme

    Anello, la moglie, il finanziere, più un’altra sessantina di imputati, hanno optato per l’abbreviato e sono stati quasi tutti condannati. L’hanno chiamato “Imponimento”, il secondo maxiprocesso vibonese dopo “Rinascita-Scott”, ed è arrivato a sentenza proprio nei giorni scorsi. Ancora in corso, invece, è il rito ordinario in cui ci sono imputati eccellenti come l’ex assessore regionale Francescantonio Stillitani.

    Il precedente processo sugli Anello, denominato “Prima”, si era fermato al 2004. Così la Dda di Catanzaro ha provato a ricostruire gli affari e i rapporti che, da allora e fino a oggi, il clan avrebbe intessuto con molte famiglie del Vibonese, ma anche del Reggino e del Catanzarese, per arrivare fino in Sicilia. Per farlo, oltre all’immancabile mole di intercettazioni, sono stati incrociati i racconti di ben 29 pentiti.

    Kalashnikov all’ufficio postale

    Tra questi il più importante è Andrea Mantella, ex boss scissionista di Vibo città che ha rivelato come Anello avesse un canale per le armi con la Svizzera. Da lì, via Piemonte, pistole e kalashnikov in quantità sarebbero arrivate in Calabria addirittura per posta, con l’ufficio postale di Curinga utilizzato come una sorta di magazzino-polveriera dai sodali del boss. L’indagine della Dda si è intrecciata con quanto ha raccolto la Polizia Federale elvetica, che grazie al contributo di un agente infiltrato ha svelato gli interessi del clan di Filadelfia in alcuni night club in Svizzera e in un ristorante in Germania.

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    Il pentito Andrea Mantella

    Un pentito che conosce bene quel territorio è poi Francesco Michienzi, che ha confermato il canale svizzero per le armi e ha tratteggiato la «figura carismatica di Rocco Anello»: quando era libero «riuscì a controllare completamente la costruzione e la gestione» di un villaggio sulla statale 18 «estromettendo i Mancuso». E quando era dentro era la moglie a portare fuori le sue «imbasciate».

    Dal Tirreno allo Jonio

    La zona di confine tra Vibonese e Catanzarese su cui Anello esercitava il suo potere non è però solo quella della costa tirrenico tra Pizzo e Lamezia, ma anche l’area interna dell’istmo che arriva all’altro tratto di costa, quello jonico. Da quella parte c’è Roccelletta di Borgia, il paese di un altro pentito che, fin nei verbali depositati di recente, ha rivelato alcune cose scottanti. Si tratta di Santo Mirarchi, affiliato da giovanissimo a un gruppo criminale che fino al 2009 non aveva un “locale” autonomo di ‘ndrangheta ma era, appunto, sotto quello di Filadelfia.

    Mirarchi ha parlato parecchio di estorsioni. Grosse estorsioni a danno di imprese importanti. Il suo gruppo avrebbe partecipato a quella sui lavori della statale 106 all’altezza di Borgia a danno dell’Astaldi, uno dei principali general contractor italiani e tra i primi 100 a livello mondiale nel settore delle costruzioni.

    «Una parte dei proventi di questa estorsione – in tutto circa 300mila euro secondo il pentito, ndr – e precisamente la somma di 50mila euro, spettava a Rocco Anello». Il boss avrebbe allungato le mani anche sui lavori di movimento terra dell’allora autostrada A3, nonché su un subappalto per la costruzione «del padiglione universitario alle spalle del policlinico a Germaneto». Ancora: il gruppo di Roccelletta, sempre col permesso di don Rocco, avrebbe avuto la sua fetta sui lavori «per il posizionamento delle cosiddette antenne relative alla telefonia cellulare che dovevano essere installate nelle montagne di Roccelletta, Filadelfia e Vallefiorita».

    «I capannoni degli Abramo»

    C’è infine una vicenda che era inedita fino alla discovery degli ultimi verbali. Mirarchi la colloca «fra il 2000 e il 2004» e riguarda «la costruzione dei capannoni industriali in località Germaneto da parte dei fratelli Abramo».
    Da Borgia avrebbero chiesto l’estorsione ma «costoro, cioè gli Abramo, fecero presente – dice Mirarchi – di essere legati a Rocco Anello, pertanto l’estorsione venne pagata a quest’ultimo».

    Il pentito lo avrebbe saputo perché, lavorando al cantiere come guardiano, avrebbe assistito alle discussioni tra Anello, gli Abramo e i referenti di Borgia. «Ricordo – dichiara il pentito – che Rocco Anello ebbe 200mila euro a titolo estorsivo, quelli di Roccelletta vennero ricompensati con gli appalti e con l’assunzione di diversi guardiani tra i quali anche me». Ma non c’è nessun riscontro giudiziario.

    L’erba con la Panda

    Non solo estorsioni, però: nei racconti di Mirarchi c’è spazio anche per traffici di droga. Il pentito dice di aver acquistato spesso cocaina e marijuana da «un certo Fruci». I fratelli Giuseppe e Vincenzino Fruci sono ritenuti l’ala operativa degli Anello su Curinga e, anche loro, sono stati condannati a 20 anni a testa in “Imponimento”.
    Una volta, a consegnare dieci chili di marijuana al pentito sarebbe stato un «corriere di Fruci»: si trattava di «un vecchietto» che gli portò l’erba a casa «a bordo di una Panda».