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  • Tortora, Mani Pulite e non solo: Della Valle contro i pm “stellati”

    Tortora, Mani Pulite e non solo: Della Valle contro i pm “stellati”

    In bocca sua il garantismo non è peloso: è la difesa, appassionata e sincera, di un principio di civiltà, non solo giuridica. Non potrebbe essere altrimenti nel caso di Raffaele Della Valle, avvocato battagliero a dispetto dell’età (84 anni suonati) con un passato politico di tutto rispetto, prima nel Pli e poi in Forza Italia.
    Soprattutto, non può essere altrimenti quando si è stati protagonisti di uno dei processi più tragici, controversi e, purtroppo, spettacolari dello scorso secolo: quello a Enzo Tortora.
    «Fu il primo processo mediatico e fornì il modello a Mani Pulite», spiega Della Valle. Che aggiunge: «Da quella ingiusta persecuzione giudiziaria emersero i primi preoccupanti segnali della deriva che avrebbe preso di lì a poco l’amministrazione della giustizia».
    Della Valle è impegnato in un giro di presentazioni in tutta la Calabria di Quando l’Italia perse la faccia (Pellegrini, Cosenza 2023), il libro intervista scritto assieme al giornalista Francesco Kostner. Un piccolo best seller arrivato alla quarta edizione nel giro di quattro mesi: uscito a maggio, il libro ha esaurito lo stock tre volte. Niente male davvero…

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    Un primo piano di Raffaele Della Valle

    A proposito di processi mediatici e di giustizia-spettacolo: alcuni settori della magistratura, di recente hanno espresso forti critiche sul protagonismo eccessivo di alcuni magistrati, sul ricorso ai maxiprocessi e sul dialogo, ritenuto improprio, di alcune Procure con i media…

    Le condivido alla grande, perché riguardano i fondamentali di qualsiasi operatore del diritto.

    Avvocati compresi?

    Certo, nessuno dovrebbe enfatizzare il materiale raccolto durante l’attività probatoria, tuttavia nella vita reale pochi si fissano questo limite. Tant’è: noi difensori abbiamo spesso appreso le attività degli inquirenti grazie a quello che ho definito più volte il deposito degli atti in edicola.

    Cioè la pubblicazione degli atti sui media ancor prima che in cancelleria…

    Esatto.

    A proposito del processo Tortora, Vittorio Feltri nel suo “L’irriverente” (Mondadori, Milano 2019) afferma di essere stato il primo cronista ad accorgersi che molte cose non quadravano nel teorema della Procura di Napoli e, quindi, a schierarsi col conduttore televisivo finito in disgrazia…

    Diciamo che, per quel che mi ricordo, fu tra i primi. Ma è doveroso citare anche Piero Angela, Giovanni Ascheri e Luciano Garibaldi, che assunsero da subito posizioni garantiste. Non facili all’interno dello stesso mondo mediatico: si pensi, per fare un esempio, che la Rai mandava tutti i giorni (spesso ci apriva i tg) le veline della Procura di Napoli. Ma probabilmente il primissimo fu Enzo Biagi.

    Enzo Biagi fu forse il primo innocentista nel caso Tortora

    La carta stampata, c’è da dire, fece di peggio, come scrive Vittorio Pezzuto nel suo “Applausi e sputi”

    Il Messaggero, ad esempio, arrivò a titolare “Tortora ha confessato”, salvo chiedere scusa a danno fatto. In una fase avanzata del processo, il settimanale Oggi pagò Gianni Melluso per fotografarne le nozze nel carcere di Campobasso. La rivista ricorse a un escamotage per aggirare il divieto dei magistrati: uno dei cronisti fece da testimone allo sposo.

    Parliamo di Gianni Melluso, alias Gianni il Bello, alias Gianni Cha Cha Cha. Ovvero di uno dei più grossi accusatori di Tortora, vero?

    Su Melluso, il quale si è abbondantemente squalificato da sé, sospendo il giudizio, di sicuro  tutt’altro che positivo. Ricordo solo che anche lui fu una creatura mediatica. Lo aiutò molto Francamaria Trapani, giornalista e consuocera di Francesco Cedrangolo, il procuratore capo di Napoli. A proposito di Feltri: gli va dato atto che stigmatizzò sin da subito il comportamento supino di tantissimi colleghi.

    Anche la politica reagì in maniera tutto sommato tiepida, tranne poche eccezioni. Non è così?

    Persino il Partito liberale, in cui militavo assieme a Tortora, tentennò, con la sola eccezione di Alfredo Biondi. Col senno del poi, si capisce benissimo che questa “timidezza” era anche indotta dalla pressione mediatica. Solo Pannella, con la consueta aggressività, ruppe il muro di gomma e trasformò il processo Tortora in un caso politico.

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    Gianni Melluso, uno dei primi accusatori di Tortora

    È corretto affermare che nel processo Tortora prese forma il rapporto particolare tra politica e magistratura che si sarebbe affermato durante Tangentopoli?

    Certo che sì. Fu il primo processo mediatico, per colpa dell’atteggiamento della stampa, che andò ben oltre il servilismo. Il rapporto tra magistratura e stampa, sin da allora è diventato drogato.
    Da un lato, molte Procure tendono a diventare fonti privilegiate, anzi: le fonti per eccellenza. Dall’altro, i cronisti contribuiscono a trasformare gli inquirenti in star, anzi magistar, per usare un efficace neologismo. È un meccanismo perverso che si autoalimenta.

    Al punto che il legislatore è dovuto intervenire in più modi: attraverso la riforma delle intercettazioni e, più di recente, ponendo limiti precisi alle comunicazioni degli inquirenti. Non le pare una forma di censura?

    Di sicuro in parte lo è. Ma è anche una reazione ad anni di abusi.

    Sempre di recente, è stata avanzata una proposta particolare: un master in giornalismo giudiziario riservato ai laureati in Scienze giuridiche. La riqualificazione culturale dei giornalisti non è una valida alternativa?

    Altroché. Si consideri pure un’altra cosa: finora per accedere alla professione di giornalista non sono stati necessari titoli particolari. Iniziare a promuovere per davvero la formazione culturale della categoria significa stimolare quel senso critico e di indipendenza che libera il cronista dall’asservimento alla fonte. E quindi, rende superfluo ogni intervento del legislatore a tutela di chi, fino a condanna definitiva, ha il sacrosanto diritto di essere considerato innocente.

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    Raffaele Della Valle durante l’intervista

    Il procedimento a carico del celebre conduttore fece parte di un maxiprocesso a sua volta molto spettacolarizzato: quello alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Oggi, nella magistratura, non mancano le voci critiche anche nei confronti del ricorso ai maxiprocessi. Qual è l’opinione dell’avvocato Della Valle?

    I maxiprocessi avrebbero un’utilità apparente: il risparmio di tempo e di energie che deriverebbe dalla valutazione di più situazioni e persone in contemporanea. In realtà, la pratica di mandare a giudizio molte persone contemporaneamente si traduce spesso in una mattanza probatoria, che danneggia senz’altro gli imputati e i loro difensori. Ma danneggia anche tantissimo il lavoro degli inquirenti, che finisce spesso in un tritacarne confuso.
    La differenza, in questi casi, la fanno gli inquirenti. Se sono bravi, puntigliosi, concreti e garantisti come lo fu Giovanni Falcone, i procedimenti filano bene e danno risultati. Altrimenti diventano spettacoli da stadio, tanto rumorosi quanto improduttivi.

    Dal processo Tortora emersero anche i limiti nell’uso dei pentiti…

    La gestione dei collaboratori di giustizia è un altro problema irrisolto.

    Perché?

    Perché è un problema strutturale, etico prima ancora che giuridico. La normativa, infatti, proteggeva gli ex terroristi che saltavano il fosso. Tra di loro ci furono molti pentiti sinceri che, una volta finita l’illusione ideologica e ammessa la sconfitta politica, volevano tornare alla normalità e chiesero scusa.
    Questa dinamica, va da sé, non è facilmente applicabile ai malavitosi, che non hanno motivazioni ideologiche. Non normalmente, almeno.
    Ne deriva un problema di credibilità e di affidabilità piuttosto diffuso. Anche in questo caso, il processo Tortora diede spie d’allarme.

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    Enzo Tortora in manette tra i carabinieri

    Sospendiamo il giudizio su Berlusconi, che deve essere comunque un giudizio politico. Al netto di tante polemiche, non sembra eccessivo il numero di procedimenti senza risultati subiti dall’ex premier fino alla fine dei suoi giorni?

    Il problema è uno solo: le vicende giudiziarie di Berlusconi sono l’appendice giudiziaria di Mani Pulite.
    Non entro nel merito di quella maxi inchiesta. Mi limito, al riguardo, a notare che, da allora, la magistratura ha cambiato il suo Dna costituzionale ed è diventata un organo politico. Faccio un esempio attuale: tra chi si oppone ai tentativi di riforma di Nordio figurano trecento magistrati, che hanno sollevato dubbi di costituzionalità.
    Ora, non sarebbe più logico mettere le normative alla prova, magari impugnando davanti alla Corte Costituzionale, quando necessario, anziché lanciarsi in proclami politici?

    Se la magistratura si politicizza non c’è da meravigliarsi di vicende come quella dell’ex capo dell’Anm Luca Palamara. Chi la fa l’aspetti, o no?

    Io mi meraviglio che ci si sia fermati a Luca Palamara, al quale si sono attribuite troppe responsabilità. Palamara, semmai, era solo un terminal di interessi e posizioni di potere consolidatissimi.
    La magistratura ha travalicato da tempo le sue funzioni. Tant’è che troviamo parecchi magistrati al di fuori delle sedi istituzionali. Li troviamo, ad esempio, nei ministeri, come consulenti e capi di gabinetto incaricati di redigere le normative. Mi pare ce ne sia abbastanza per dire che il rapporto tra l’ordine giudiziario e il potere politico ne risulti quantomeno alterato.

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    L’ex magistrato Luca Palamara

    In questi giorni ha presentato il suo libro in tutta la regione. Come le è sembrato il pubblico calabrese?

    Preparato e sensibile ai temi giuridici. E devo dire di essere rimasto favorevolmente colpito anche dagli amministratori locali con cui ho avuto modo di confrontarmi: c’è una crescita di livello che lascia ben sperare.

  • Non è mafia ma quasi: l’ascesa dei clan rom a Reggio Calabria

    Non è mafia ma quasi: l’ascesa dei clan rom a Reggio Calabria

    Le dichiarazioni del pentito Vittorio Giuseppe Fregona sulla criminalità rom di Reggio Calabria sono l’ultimo dei tre tasselli che delineano una mutata morfologia della ’ndrangheta in Calabria.
    Addirittura una nuova “geopolitica” criminale in cui emergono e si rafforzano inediti equilibri di potere.
    Seguiamo questa trama in tre tappe.

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    Il tribunale di Reggio Calabria

    Criminalità rom: una storia in tre tappe

    Nel 2005 Arcangelo Badolati, nel suo volume I segreti dei boss (Klipper, Cosenza 2008) affronta la criminalità del Cosentino, con riferimenti specifici al mutato ruolo dei clan rom nelle gerarchie di malavita. Badolati, nello specifico, approfondisce i fatti relativi all’indagine Lauro e alla faida di Cassano (2002-2003).
    Il 18 aprile 2023 a Catanzaro la Procura arresta 62 cittadini rom. Nelle ordinanze di custodia cautelare, relative all’operazione coordinata dal procuratore Gratteri, il gip Filippo Aragona contesta per la prima volta il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso.
    Inoltre, stesso Gratteri parla apertamente di intercettazioni che testimoniano l’affiliazione dei rom alla ’ndrangheta con tanto di battesimo.
    Il 12 maggio 2023 nel processo Epicentro il pentito Fregona, interrogato dal pm Walter Ignazitto, delinea un salto di qualità dei clan rom di Arghillà.

    Droga e case popolari: l’impero della criminalità rom

    I dettagli della deposizione riguardano l’ingresso di questi clan nel mercato degli stupefacenti con il benestare delle cosche di Catona e la gestione abusiva degli alloggi popolari. Lo stesso pentito, inoltre, dichiara di essere a conoscenza di riti di affiliazione alle ’ndrine reggine.
    Il quadro tracciato da Fregona testimonierebbe la nuova autonomia dei clan rom nella gestione di attività illecite. E quindi il loro affrancamento dalle ’ndrine storiche come i Serraino, celebrati di recente anche su Amazon Prime. Anche a Reggio Calabria, sotto l’apparente coltre di immobilismo, qualcosa si muoverebbe. O meglio si sarebbe già mosso.
    Il caso di Reggio Calabria aprirebbe un nuovo squarcio sulle dinamiche con cui la ‘ndrangheta sta mutando assetto e organizzazione in tutta la regione. E i primi esiti del caso Ventura suffragano le dichiarazioni di Fregona.

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    Maria Serraino e la nipote Marisa in un singolare ritratto di famiglia

    Caso Ventura: troppa violenza per un alloggio

    A Reggio nel 2022 Patrizio Bevilacqua riceve una condanna in primo grado a 5 anni e 6 mesi per estorsione insieme all’ex moglie Anna Maria Boemi.
    È la sentenza 1369 sul noto caso della famiglia Ventura.
    Come appartenente alla Polizia Penitenziaria, Vincenzo Ventura era regolare assegnatario di un alloggio popolare al rione Marconi.
    Ma la sua famiglia fu costretta ad abbandonare l’appartamento dopo attacchi verbali e fisici, minacce di morte e danneggiamenti. Poi l’immobile fu occupato abusivamente dai rom. Questi lamentarono, con diversi comunicati e in vari servizi tv, l’illegittimità dello sgombero ordinato dal Tribunale.
    Il caso Ventura resta una vicenda travagliata e violenta dai cui atti processuali emergono rapporti tra Bevilacqua ed esponenti del comando dei Vigili urbani di Reggio Calabria.

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    L’alloggio popolare della famiglia Ventura nel quartiere Marconi devastato dai vandali

    Case popolari: il mercato della criminalità rom

    Durante l’audizione di Ventura del 7 aprile 2016 in Commissione controllo e garanzia, l’allora delegato al Patrimonio edilizio del Comune di Reggio, Giovanni Minniti, dichiarava di conoscere la vicenda e i suoi protagonisti e sottolineava che «nel tempo in cui è stato assessore e delegato è venuto a conoscenza su alcune vicende legate alla vendita degli alloggi. Ci troviamo a constatare che c’è un “Mercato delle case”, che con un gioco maldestro e pericoloso [è] gestito dalle famiglie dei Nomadi, circa 300 alloggi del Patrimonio Edilizio venduti in modo poco chiaro». Da allora poco si è mosso.

    Alloggi popolari: quel disordine non è un caso

    Il 12 giugno 2020 la Terza commissione speciale permanente politiche sociali e del lavoro si riuniva per discutere di patrimonio edilizio ed edilizia residenziale pubblica. I verbali della dirigente, l’avvocata Fedora Squillaci, disegnano un quadro quantomeno caotico.
    Squillaci parla di un settore di difficile gestione, a cominciare dalla sistemazione dell’archivio, di ruoli notificati a deceduti ancora risultanti titolari di alloggio, di ostilità dei dipendenti del settore, di carenza nell’organico.
    La dirigente afferma che «c’era anche chi faceva visitare gli appartamenti ai nomadi con la conseguenza che il giorno dopo venivano occupati abusivamente […] non lo posso dimostrare ma sono convinta che c’è un mercato dietro al patrimonio degli alloggi Erp, c’è un premeditato disordine, caos e ingovernabilità che consente di fare ciò che si vuole […] Su 3.000 alloggi c’è un’altissima percentuale di abusivismo». Ivi compresi i beni confiscati.
    Emerge un quadro desolante: un ipotetico mercato degli alloggi probabilmente gestito in modo violento e “imprenditoriale”, protetto da legami opachi con altrettanto ipotetiche ramificazioni nel municipio. Che di questo si tratti non c’è ancora certezza. Ma le suggestioni sono tantissime.

    Case popolari nel rione Marconi

    Le tariffe quartiere per quartiere

    Alcuni bene informati parlano espressamente di mercato, di gestione dei rom e di divisione in territori: da Arghillà al Rione Marconi. E c’è chi ipotizza tariffe che vanno dai 3.000 ai 10.000 euro, per prestazioni di vario tipo.
    Ad esempio, la possibilità di scegliere l’alloggio con una maggiorazione dei prezzi e quella di ottenerlo comunque, magari con l’“intervento” dei rom, se è già occupato.
    Questo prezzario certificherebbe un’organizzazione stabile col benestare della ’ndrangheta. E ribadirebbe che i clan rom sarebbero ormai affiliati e non più semplice manovalanza.

    Vita e carriera di Patrizio Bevilacqua

    Bevilacqua, oggi interdetto a vita dai pubblici uffici, correva per le Amministrative reggine del 2011 nel movimento Pace di Massimo Ripepi, uno dei leader dell’attuale opposizione.
    Bevilacqua, almeno fino alla pandemia – riferiscono alcune fonti -, e comunque a procedimento in corso, sarebbe stato inoltre alle dipendenze di Eduardo Lamberti Castronuovo, noto imprenditore reggino, già assessore al Comune di Reggio e poi sindaco di Procopio.
    Il 5 dicembre 2012, in un servizio di Rtv, Lamberti, tra l’altro editore della testata, dichiarò che «ad uno di loro [rom] ho affidato le chiavi di casa […] Si chiama Patrizio, lo potete incontrare tutti». Parlava di Patrizio Bevilacqua.
    Definire criminali tutti i rom è, come dice Lamberti, uno stereotipo. Ma fa quantomeno specie che il protagonista di vicende opache poi attenzionate dalla magistratura mantenesse determinati rapporti con una personalità arcinota della vita pubblica reggina. Cioè di una città in cui tutti si conoscono.

    La Questura di Reggio Calabria

    Non è mafia… quasi

    Ora, la sentenza 1369 contro cui Bevilacqua e Boemi hanno fatto appello, contestava ai condannati una forma di consorteria con ignoti, ma non arrivava al delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso.
    Ma, se le ipotesi sono concrete, anche a Reggio Calabria si viene delineando un nuovo ruolo e una rafforzata capacità da parte dei clan rom. Presidiare il territorio, intimidire, minacciare, gestire (in associazione) un vero e proprio racket delle case popolari con una metodologia malavitosa studiata, concordata, attuata, forti di connivenze anche all’interno delle pubbliche amministrazioni.
    Se non è mafia, questa, ci somiglia assai.

  • MAFIOSFERA | Dopo Duisburg: cos’è diventata la ‘ndrangheta di San Luca

    MAFIOSFERA | Dopo Duisburg: cos’è diventata la ‘ndrangheta di San Luca

    Come per tutti i fenomeni sociali di lunga durata, nella storia della ‘ndrangheta troviamo degli eventi spartiacque che più di tutti hanno segnato un prima e un dopo. C’è un prima Duisburg e un dopo Duisburg nella ‘ndrangheta. E, soprattutto, c’è un prima Duisburg e un dopo Duisburg nella ‘ndrangheta aspromontana originaria del paese di San Luca.
    Non è più una notizia per nessuno che a Duisburg, in Germania, a Ferragosto del 2007, 6 uomini caddero vittime dell’ultimo atto di una faida di ‘ndrangheta che consumava due clan di San Luca, Pelle-Vottari e Nirta-Strangio, dal 1991. Ci sono stati processi, condanne dalla Corte d’Assise di Locri, indagini in Italia e in Germania.
    Chi doveva pagare, più o meno, ha pagato o sta pagando.

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    La strage di Duisburg, ultimo atto di una faida di ‘ndrangheta partita da San Luca

    Prima di Duisburg non c’era ancora stata operazione Crimine, che solo un paio di anni dopo avrebbe scoperchiato e finalmente portato a processo le strutture, anche quelle apicali, della ‘ndrangheta reggina e ne avrebbe evidenziato dinamiche interne e proiezioni estere. Prima di Duisburg molte delle faide in Calabria erano terminate per lasciare spazio a un nuovo assetto delle ‘ndrine che – grazie a una pur precaria pace sui propri territori – potevano concentrarsi su affari e denaro. E, sempre prima di Duisburg, San Luca, il paese di nascita di Corrado Alvaro, già ovviamente conosceva la crudeltà della ‘ndrangheta, tra i sequestri di persona e altre vicende di sangue legate anche alla faida.

    San Luca: un “modello” di ‘ndrangheta già prima di Duisburg

    Il 14 settembre 2000 era arrivato lo scioglimento del comune per infiltrazione mafiosa in quanto «la stretta ed intricata rete di parentele, affinità, amicizie e frequentazioni, che vincola tanto la maggior parte degli amministratori, quanto numerosi dipendenti comunali a soggetti organicamente inseriti nelle locali famiglie della ‘ndrangheta, costituisce il principale strumento attraverso cui la criminalità organizzata si è ingerita nell’ente condizionando l’attività dell’apparato gestionale e compromettendo la libera determinazione degli organi elettivi».

    Quella stretta e intricata rete che ovviamente non scompare negli anni ha fatto girare la testa a investigatori italiani ed europei. Quel modello di ‘ndrangheta è diventata la ‘ndrangheta conosciuta altrove, nonostante le enormi differenze tra i vari clan qui da noi. Negli anni persone con lo stesso nome e cognome di quelli coinvolti in Duisburg e con parentele intrecciate allo stesso modo sono diventate soggetti di indagine anche in Germania, e altrove in Europa, esponendo la capacità di alcuni clan della ‘ndrangheta di adattarsi plasticamente al narcotraffico transfrontaliero.

    Guerra e pace

    Dopo Duisburg, però, arriva la pace tra le due famiglie. Un vero e proprio accordo di pacificazione maturò in seguito all’esecuzione dei fermi dell’operazione Fehida, che coinvolse esponenti di entrambe le famiglie, il 31 agosto 2007.
    Si legge nella sentenza di Fehida che nella tarda serata del 4 settembre 2007 (due giorni dopo la festa della Madonna della Montagna al Santuario di Polsi), un soggetto di San Luca coinvolto con i Nirta-Strangio avrebbe inviato in rapida successione due SMS di contenuto analogo con i quali comunicava che «le cose si sono aggiustate». Lo spedirà qualche giorno dopo anche in Germania ad Antonio Rechichi a Oberhausen: «Ora qua le cose le hanno aggiustate».

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    Giovanni Strangio, la mente del commando che agì a Duisburg

    Nel pomeriggio del giorno successivo una madre comunica al figlio, appartenente ai Pelle-Vottari che «è tornato il sereno». E ancora, la sera del 6 settembre 2007 Antonia Nirta parla con il fratello Giuseppe e gli dice che «sembra che siano migliorate le condizioni» e che è stata fatta la pace: «Qua sembra che è migliorata la condizione di … il fatto della pace… hanno fatto la pace meglio così». Da ultimo, nel corso della stessa serata, una donna informa Elisa Pelle, a Milano: «Hai visto che bel regalo che mi ha fatto la Madonna a me della montagna?». E la Pelle risponde: «Mi hai fatto la donna più felice del mondo».

    La ‘ndrangheta di San Luca dopo Duisburg

    A pace fatta a Polsi, dunque, gli schieramenti iniziali – Nirta-Strangio e Pelle-Vottari – non scompaiono ma diventano i due schieramenti egemoni del paese. Un duopolio in precario equilibrio, ma comunque in equilibrio. Sempre più a vocazione internazionale – Duisburg in fondo è successo perché in Germania i clan si sentivano abbastanza “a casa”, abbastanza protetti – la ‘ndrangheta di San Luca dopo Duisburg ha sconquassato il paese ed è comunque riuscita ad arricchirsi.

    Il 17 maggio 2013 il comune di San Luca viene sciolto di nuovo; si scioglie una giunta che si era insediata nell’aprile del 2008. In questo caso, si legge nel decreto di scioglimento, che persistono parentele e affinità, e che la pervicacia dell’organizzazione criminale è palpabile nell’amministrazione del paese: «Elementi concreti che denotano il condizionamento della criminalità sull’attività dell’ente locale sono altresì attestati dalla circostanza che circa il 60% dei lavori sono stati affidati dall’amministrazione a soggetti o società contigue alla criminalità organizzata».

    Ma come spesso accade, soprattutto in Calabria, lo scioglimento dei comuni porta solo più abbandono. Nonostante il decreto di scioglimento prevedesse solo 18 mesi di commissariamento, per le elezioni San Luca ha atteso il maggio del 2019.
    Nel 2015 la lista che si era presentata non raggiunse il quorum, negli anni successivi non si presentò nessuno.

    Tre novità

    E la ‘ndrangheta? La ‘ndrangheta di San Luca, dopo Duisburg – seppur mostrandosi al mondo – non si è invece inabissata come il paese. Alcune tendenze più generali della ‘ndrangheta del territorio, soprattutto della Jonica, si sono manifestate tra le famiglie sanluchesi. Ad esempio, l’inflazione delle cariche e l’apparizione di nuove cariche. E poi, l’abbandono o il camuffamento dei riti di affiliazione, sia per evitare occhi “curiosi” delle forze dell’ordine sia perché l’appartenenza alla ‘ndrangheta da queste parti è diventata fatto consolidato su altre basi, meno esoteriche.massondrangheta

    Da ultimo – proprio mentre tanti nuovi clan, di più giovane origine – cercano di “salire alla Montagna”, di essere riconosciuti dai clan della “mamma”, a Polsi, i clan sanluchesi hanno effettivamente sdoppiato la propria anima.
    Da una parte la “casa” rimane in Calabria, con un controllo del territorio spesso solo per presenza e reputazione, senza nemmeno bisogno di estorcere o “arraffare” proprietà come un tempo. Dall’altra, gli affari – soprattutto il narcotraffico e il grosso degli investimenti – sono stati spostati fuori dalla Calabria, anche in Europa e fuori dall’Europa, con ogni clan che tende a sviluppare un suo canale preferenziale verso uno o più luoghi prescelti. Quelli dove si può manipolare la diaspora calabrese dei compaesani e da dove investire sia legalmente che illegalmente sia più semplice e redditizio.

    Pollino ed Eureka

    Non sorprende, quindi, se dopo Duisburg (nonostante Duisburg) abbiamo due mega operazioni che esaltano le capacità di indagine comune tra Italia e Europa, come ad esempio operazione Pollino nel 2018 e operazione Eureka nel 2023. In entrambe a far da protagonisti sono le ‘ndrine di San Luca – dai Pelle, ai Vottari, dagli Strangio ai Giorgi – tutte ovviamente in cartello tra loro e con altri sodali per muovere tonnellate di cocaina.

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    Uno scorcio di San Luca

    In queste operazioni si inizia a vedere un perverso effetto di Duisburg: la notorietà della ‘ndrangheta e la sua narrazione come organizzazione criminale più potente in Italia, e – per il traffico di stupefacenti – tra le più potenti al mondo, che hanno amplificato la fortuna dei Sanluchesi all’estero.
    Sempre più slegati da San Luca per gli affari, ormai centrati nei porti del nord Europa, ma mai fuori da San Luca perché è al paese che si cristallizza il potere acquisito e mantenuto da decenni. Ecco cos’è la ‘ndrangheta di San Luca dopo Duisburg.

    Davide e Golia

    Drammaticamente, mentre in tanti, ormai anche in Europa, rincorrono i clan e i loro milioni per mezzo mondo, ci si dimentica che giù al paese le cose vanno forse un po’ meglio, ma non troppo. Tutt’oggi San Luca è il paese con la più bassa percentuale di votanti d’Italia. Nel settembre 2022, alle elezioni politiche, solo il 21,49% dei cittadini di San Luca aventi diritto al voto ha votato.

    Lo Stato c’è, ma è chiaramente traballante. San Luca è un comune di 3.500 abitanti che nel pubblicare, nel 2021, il piano triennale per la prevenzione della corruzione e della trasparenza, in ottemperanza delle aspettative di legge, si trova a dover fare un copia-incolla dai documenti ufficiali di polizia sulla ‘ndrangheta più evoluta e transnazionale, per delineare il contesto esterno del comune.
    Se è una situazione da Davide contro Golia, stiamo certo facendo il tifo contro Golia. Ma siamo sicuri che stiamo aiutando Davide a vincere?

  • Raganello, 5 anni dopo: guide assolte, ma Gole ancora chiuse

    Raganello, 5 anni dopo: guide assolte, ma Gole ancora chiuse

    Il 20 Agosto di cinque anni fa una piena improvvisa nelle Gole del Raganello si portava via dieci escursionisti, causando il ferimento di altre decine. In quella occasione il Soccorso Alpino calabrese dispiegò tutte le sue energie, impegnandosi in quello che resterà l’intervento di soccorso più lungo e difficile. Come era prevedibile la Procura di Castrovillari avviò delle indagini che si concretizzarono in due inchieste. La prima riguardava l’accusa di omicidio colposo e coinvolgeva anche il sindaco di Civita e due responsabili delle società coinvolte nell’accompagnamento dei turisti quel giorno. La seconda invece si concentrò sulle guide che in generale conducevano il tour della discesa delle gole.

    Raganello: due gradi di giudizio, tutti assolti

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    Luca Franzese

    Questo secondo filone giudiziario si avvia oramai alla conclusione dopo aver affrontato due gradi di giudizio che hanno visto l’assoluzione delle guide e dei soci delle società turistiche perché il fatto non sussiste.
    «Dopo essere riusciti ad affermare le nostre tesi circa l’inconsistenza delle accuse alle guide e soci delle società turistiche in primo grado e in appello, ora aspettiamo la Cassazione», spiega Luca Franzese, avvocato e al tempo della tragedia presidente del Soccorso alpino. Franzese in quella circostanza fu tra i primi ad intervenire e a coordinare i soccorsi, trovandosi ad affrontare una emergenza che mai era stata immaginata. Infatti numerose erano state le esercitazioni che i tecnici del Soccorso aveva tenuto nelle gole, ma sempre avevano riguardato il recupero di una ipotetica vittima di un incidente, non una tragedia di quelle dimensioni.

    L’esposto delle Guide alpine

    A causare il coinvolgimento dei soci e guide delle associazioni che portavano i turisti nelle gole fu un esposto che presentò il Collegio nazionale delle Guide alpine, . Queste da Milano sollevarono, qualche giorno dopo la tragedia, la questione della legittimità di quelle escursioni. Nessuna  delle guide del Raganello aveva, infatti, il titolo professionale di Guida Alpina. In sua assenza, le guide del Raganello non avrebbero avuto l’abilitazione a condurre le escursioni nelle Gole sia per la difficoltà tecnica del percorso sia per la necessità dell’uso di corde e imbraghi per la progressione in sicurezza nel torrente. In sintesi, le si accusava di esercizio abusivo della professione.

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    Escursione lungo le gole del Raganello

    «L’accusa era completamente infondata ed ingiusta. L’esposto del Collegio delle Guide Alpine fu firmato da chi non era mai stato nella sua vita a Civita e dunque non conosceva le Gole del Raganello. Ci toccò spiegare ai giudici che per quelle escursioni non si poteva applicare la legge 6 del 1989 che obbliga, in terreni particolari di montagna, per gli accompagnatori il titolo professionale di Guida Alpina,. Nel tratto turistico delle Gole non occorreva alcun imbrago, né uso di corde. Di conseguenza, le guide che operavano in quel territorio, in possesso del titolo di Guida Ambientale ed Escursionista non erano assolutamente abusive», afferma Franzese.

    Raganello e Marmolada: due pesi e due misure?

    Serviva però un parere autorevole a riguardo. Così la difesa delle guide chiamò, come perito di parte, dalla Valle D’Aosta Adriano Favre, maestro guida alpina ed istruttore di guida alpina, di indiscusso valore. Favre discese il Raganello, ispezionando con meticolosità ogni passaggio. E certificò la non applicazione della legge sulle Guide Alpine e la mancata necessità di usare corde ed imbraghi.
    La sua perizia finì per risultare determinante nel sostenere la tesi dell’avvocato Franzese. Portò infatti al proscioglimento delle guide del Raganello anche in sede di appello, con sentenza di alcuni mesi fa.

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    I soccorsi sulla Marmolada dopo il distacco del ghiacciaio a luglio 2022

    Se dunque uno dei filoni d’indagine si avvia verso una conclusione, resta dai giorni della tragedia la chiusura delle gole. Erano state per molto tempo attrazione turistica e fonte economica per i territori circostanti, ma ancora oggi risultano sotto sequestro.
    Franzese non si rassegna all’uso nazionale di pesi e misure differenti davanti a tragedie assai somiglianti. Il suo riferimento è alla tragedia della Marmolada, quando agli inizi di luglio dell’anno scorso una valanga travolse e uccise 11 persone.
    Dopo le prime indagini, i sentieri che conducono sulla montagna furono riaperti immediatamente e con essi il flussi turistico. Qui invece dopo molto più tempo nessuno si assume la responsabilità di riaprire le Gole al turismo.

    Le possibili soluzioni e il dibattito che non c’è

    «Eppure – sostiene Franzese – si potrebbe fare. Risulta che la Regione abbiano stanziato cifre importanti per mettere in sicurezza la Gola, attraverso strumenti per monitorare la portata dell’acqua e la collocazione di allarmi. Inoltre, per rendere ancora più sicura la discesa del torrente si potrebbe contingentare il flusso dei visitatori con regole chiare e sicure». In realtà ad impedire di prendere in considerazione l’apertura delle Gole e ridare fiato all’economia del territorio è stata anche una certa arrendevolezza della popolazione. Così come una mancanza di iniziativa dei Comuni e della politica in generale.

    «Nel Nord Italia la pressione dell’opinione pubblica, determinata a non accettare la chiusura di interi suoi territori e risorse naturali da una parte, e gli interessi degli operatori turistici dall’altra hanno svolto un ruolo efficace», conclude l’avvocato.
    Purtroppo il recente incidente avvenuto sul fiume Lao, evento assai differente per molti aspetti, non aiuta la discussione a riguardo. E invece bisognerebbe affrontarla con l’obiettività necessaria e la sensibilità verso i territori che fin qui è sembrata mancare.

  • Serie B: il Tar boccia ancora la Reggina, ok per il Lecco

    Serie B: il Tar boccia ancora la Reggina, ok per il Lecco

    Non c’è spazio per la Reggina in serie B secondo il Tar. Per i giudici amministrativi il ricorso degli amaranto è «improcedibile». Confermata così la prima bocciatura delle settimane scorse, con la società dello Stretto che non potrà procedere all’iscrizione della squadra tra i cadetti. Il Tar del Lazio ha quindi fatto sue le decisioni che aveva preso il consiglio federale del 7 luglio, facendo precipitare nello sconforto la tifoseria.

    Serie B: no alla Reggina, sì al Lecco

    Verdetto opposto, invece, per il Lecco. Dopo l’iniziale esclusione, apparsa ai più paradossale, è arrivato il dietrofront. Se non c’è spazio per la Reggina in serie B, ci sarà invece per il Lecco. E presto potrebbe aggiungersi anche un altro club lombardo. Il Brescia, infatti, dopo la retrocessione sul campo nella doppia finale dei playout contro il Cosenza è la principale candidata a riempire la casella lasciata vuota dal club che Saladini aveva rilevato soltanto un anno fa dopo l’arresto dell’allora patron Gallo.

    Per la stesura definitiva del calendario dei cadetti, però, toccherà attendere ancora qualche settimana. La Federcalcio, infatti, ha deciso di attendere il 29 agosto, giorno in cui il Consiglio di Stato dovrà dire l’ultima parola sulla questione delle iscrizioni. E così il campionato – la prima giornata è prevista il 19 agosto – inizierà con una X e una Y al posto di due squadre.

  • MAFIOSFERA| Granducato di Mammola: le ‘ndrine joniche in Lussemburgo

    MAFIOSFERA| Granducato di Mammola: le ‘ndrine joniche in Lussemburgo

    L’Operazione Malea, della Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, il 25 luglio ha portato all’arresto di 12 persone. Si ritiene abbiano tutte legami con la ‘ndrangheta nel locale di Mammola, sulla Jonica reggina. Tra le attività spiccano classici intramontabili: traffico di stupefacenti, acquisto e detenzione abusiva di armi, estorsione nel settore boschivo e nell’edilizia. Ma ci sono anche alcune attività più creative del solito.
    Un esempio? Il reato di estorsione per aver imposto ai titolari delle giostre installate a Mammola, in occasione della festa patronale di San Nicodemo, di emettere un numero elevato di titoli (gettoni e/o biglietti) per poter usufruire gratuitamente delle attrazioni ludiche.
    Alle giostre ancora non ci eravamo arrivati. E non è segno da poco: simboleggia l’esistenza di una struttura di ‘ndrangheta arrogante, radicata e presente in paese.

    La ‘ndrangheta in Lussemburgo e i rapporti con Mammola

    Destinatario della misura cautelare in carcere è stato, tra gli altri, Nicodemo Fiorenzi. Per le autorità sarebbe stato il referente del gruppo di Mammola in Lussemburgo. Avrebbe dovuto riferire e concordare con i vertici del locale di Mammola le varie scelte e decisioni sul territorio estero. L’articolazione territoriale in Lussemburgo ha interessi e attività proprie, ma a livello di vertice, ancora ci si parla col paese.
    Queste le dichiarazioni di Antonio Ciccia ai magistrati: «Come ho già scritto vi sono molti miei paesani affiliati che si trovano o sono andati in passato in Lussemburgo. Non so la ragione di tale scelta e cioè non so dire se lì sia stato costituito e autorizzato un locale di ‘ndrangheta. Ma ciò che posso dire è che nel tempo in Lussemburgo sono andati Fiorenzi Nicodemo, Deciso Nicodemo, che fanno la spola tra il Lussemburgo e Mammola».

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    Un fotogramma dalle riprese della Polizia nell’Operazione Malea

    Non a caso, è proprio a Nicodemo Fiorenzi che un giovane della famiglia Cordì, Attilio, di Locri si sarebbe dovuto rivolgere per trasferirsi in Lussemburgo e trovare lavoro, destando sospetti a Mammola sull’opportunità (non avallata) di supportare l’ingresso dei Cordì in Lussemburgo.
    Dirà infatti un presunto capo locale di Mammola che in Lussemburgo Fiorenzi è autonomo, ma non del tutto: «Con tutto il rispetto vostro, …dopodiché, se voi mandate un ragazzo di San Luca, così, va bene… Nico [Fiorenzi], non mi deve dare spiegazioni». E su Attilio Cordì: «Questo poi si tira gli altri, e vedi che poi non avrete voce in capitolo».

    Il buco nero dell’Europa

    In Lussemburgo, infatti, risiedono anche alcuni “giovani”, trentenni o poco meno, di Mammola. E da qui inizia un déjà vu. Perché questa storia dei mammolesi, alcuni anche giovani, in Lussemburgo noi già la sapevamo.
    Facciamo un passo indietro. Qualche anno fa, nel febbraio del 2021, grazie a dei dati ricavati da OpenLux IrpiMedia ci aveva raccontato della ‘ndrangheta in Lussemburgo. OpenLux era un’inchiesta collaborativa che partiva da un database raccolto da Le Monde, reso ricercabile da Occrp sulle 124 mila società che popolano il registro delle imprese lussemburghese.conto-lussemburgo-mammola-ndrangheta

    L’inchiesta ha permesso di analizzare i nomi dei proprietari delle società registrate nel Granducato, finora schermati da prestanome e professionisti.
    In quell’occasione il Lussemburgo era apparso in tutta la sua “debolezza”: un paese con forte protezione del capitale privato, dove fare affari sporchi, o semi-puliti, non costa tanto, grazie anche a una diaspora italiana ormai ben radicata sul territorio. Complici la segretezza bancaria e fiscale e una difficile transizione alla trasparenza tra banche e organi preposti al controllo su attività commerciali e di capitali, il Lussemburgo è spesso considerato un buco nero (per le indagini finanziarie) nel cuore dell’Europa.

    Mammola, Lussemburgo e ‘ndrangheta: un déjà vu

    Ed ecco che si arriva al déjà vu. Infatti, OpenLux aveva identificato una rete di 17 famiglie di Mammola – per lo più tutti ristoratori nel Minett, ex distretto minerario del Lussemburgo che aveva attratto molti migranti proprio grazie all’industria mineraria – grazie all’analisi del registro dei beneficiari effettivi. Ristoranti vicini, residenze vicine, e amicizie intrecciate sui social. Un paese a doppia anima, Mammola, come ce ne sono tanti qui in Calabria: una locale e una migrante.
    IrpiMedia aveva chiarito come tanti di questi ristoranti avessero avuto in realtà vita breve, ma fossero stati aperti con investimenti significativi portati da “casa”. Se, come confermano le indagini, è dagli anni Novanta che soggetti legati a famiglie di Mammola registrano imprese in Lussemburgo, nella geografia di ‘ndrangheta questo significa di solito due cose: il riciclaggio dei proventi del narcotraffico nel Granducato, e la presenza di strutture mobili di coordinamento tra le frontiere che nascono spontaneamente quanto più da “casa” si utilizzano certi canali.

    Il marchio di fabbrica

    Per quanto riguarda il narcotraffico, è noto da anni che sull’alta Jonica reggina a far da padroni sono i Sidernesi (oltre ovviamente ai gruppi di San Luca e aspromontani). Infatti, tra Mammola e Siderno si è sempre mantenuto un collegamento stretto. In particolare per mano degli Scali, famiglia reggente a Mammola.
    Non a caso, tra le varie operazioni che avevano coinvolto il Granducato e a cui le indagini di OpenLux si erano intrecciate si distingue l’arresto di Santo Rumbo nel 2019, a Differdange, nel sud-ovest del Lussemburgo, dove gestiva un ristorante.

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    Riccardo Rumbo

    Rumbo, figlio di uno ‘ndranghetista sidernese, Riccardo, già condannato al 41-bis, è considerato una “promessa” della ‘ndrangheta della Jonica. In particolare, secondo l’Operazione Canadian Connection 2, del Siderno Group of Crime, quella propaggine ‘ndranghetista attiva nell’Ontario. Un asse America-Europa-Calabria che è il marchio di fabbrica dei Sidernesi, soprattutto dei Rumbo-Figliomeni (e dunque legati alla più potente super-‘ndrina Commisso).

    Da Mammola al Lussemburgo, non tutti per ‘ndrangheta

    Per quanto riguarda il secondo aspetto, cioè la nascita di strutture di coordinamento, bisogna partire anche qui dall’analisi sociale. In un paese a vocazione migratoria è normale legarsi alle catene di migranti, cioè andare dove altri dal paese sono già andati. Nel caso di Mammola, pertanto, di giovani partiti per raggiungere “i parenti” in Lussemburgo ce ne sono sicuramente stati e ancora ce ne sono. Alcuni con intenti criminali, ma molti sicuramente con intenti commerciali e la voglia di “fare fortuna” all’estero.

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    Un panorama di Mammola, il cui locale di ‘ndrangheta per gli inquirenti avrebbe ramificazioni fino in Lussemburgo

    Ecco che tra chi crea un business di import-export dall’Italia al Lussemburgo (portando generi alimentari e a volte riportando armi verso sud…), chi si apre un negozio di servizi per la stampa, e chi invece investe “denaro di famiglia”, qualche migliaio di euro, per licenze di ristorazione e rilevamento di attività, passa molto poco.
    Dichiara per esempio Damiano Abbate a Rodolfo Scali (entrambi raggiunti dall’ordinanza di custodia cautelare e considerati elementi di vertice del locale di Mammola): «E se facciamo qualche cosa [in Lussemburgo]? Io e mio cognato vogliamo investire 50mila euro, 100mila euro, là che stai tu, che stanno i figli tuoi, a gestirseli loro, devo vedere che ce li devono prendere che, che quelli vengono là».

    Piccoli don e percezioni da ribaltare

    Nel momento in cui ventenni o trentenni dalla Locride e dalla Jonica, “figli di”, si stabiliscono poi all’estero, in Lussemburgo, diventa poi molto facile, e necessario, coordinare attività, legali ma soprattutto illegali. E, dunque, creare “posizioni” di coordinamento in capo a individui capaci di fare la spola, di parlare le lingue. Insomma, di cavarsela nella doppia anima del paese.
    Bisogna ribaltare la percezione della mobilità europea della ‘ndrangheta. La questione in un paese come il Lussemburgo, e non solo il Lussemburgo, non è “com’è possibile che la ‘ndrangheta arrivi fin là?”. È, piuttosto, il contrario: «Com’è possibile che non ci arrivi?» e «perché mai non dovrebbe arrivarci?». La banalità della mobilità mafiosa, soprattutto europea, si palesa qui chiaramente.

    Vittoria fuori, punti in casa

    Ma c’è un lato spesso dimenticato in questa banalità del male: è la ragione per cui in un paese come Mammola l’esistenza di un locale di ‘ndrangheta, sebbene spesso percepito o “tentato”, apparirebbe soltanto in questa inchiesta Malea e non prima.
    È sempre più ovvio, infatti, che l’estero “amplifica” la Calabria. Abbiamo infatti tanti esempi di come far fortuna all’estero, vantarla, o comunque coltivarla – al di là dell’occasionale traffico di stupefacenti – con attività stazionarie o presenza costante in un luogo, aumenti il prestigio mafioso “a casa”. E, dunque, anche le opportunità di investimento mafioso “da casa”.
    Essere “attivi” come ‘ndranghetisti all’estero, insomma, ti rende più organizzato e amplifica il successo, a casa. Questo aspetto è un altro effetto della banalità della migrazione mafiosa: nel mondo globalizzato, anche quello della mafia, tutto ciò che si muove lontano da noi torna indietro in altra forma.

  • La Calabria brucia ancora, cronaca (social) di un disastro annunciato

    La Calabria brucia ancora, cronaca (social) di un disastro annunciato

    Alle sei di questa mattina Reggio Calabria era avvolta dal fumo e dall’odore acre degli incendi ancora in corso che hanno divorato l’hinterland cittadino. Nonostante un morto, intere aree distrutte, la costa Viola sfregiata, l’emergenza è ancora in corso. Da tutto il giorno, e ancora mentre scrivo, l’eco dell’elisoccorso e dei canadair che volano senza sosta rimbomba in tutta la città. L’aria è irrespirabile, come lo era ieri e come lo è stata stanotte.

    Se non fosse chiara la dimensione del disastro che sta colpendo la Calabria e la Sicilia, è sufficiente andare a dare uno sguardo alle mappe del fuoco in tempo reale sul sito della Nasa. Non esistono ammende, riparazioni, mea culpa. Colpire un territorio con questi atti che devono essere inquadrati come vere e proprie condotte terroristiche significa causare danni irreparabili e permanenti che causeranno effetti per gli anni a venire. Non solo in termini di salvaguardia di flora e fauna (e basterebbe quello), ma di costi sociali che si riverberano in tutti gli ambiti.

    L’eterna litania sugli incendi in Calabria

    Adesso ricominceremo con le solite litanie circa le cause di questa ecatombe. In un indistinto e maleodorante vociare da bar, la sequela sarebbe più o meno questa, con alla base sempre il vile danaro: accesso ai fondi europei per la riforestazione, compensi per le missioni in emergenza delle flotte aeree dedicate, rigenerazione dei pascoli, lavoro dei forestali (la proposta di privatizzazione di Calabria Verde cade proprio a fagiuolo), riaccatastamento delle aree agricole e/o boschive in terreni edificabili (ipotesi lunare per la legislazione che tutela le aree ambientali), piromania, roghi colposi nati da errore umano e tramutatisi in disastro ambientale, criminalità organizzata e perfino micragnose ripicche tra vicini di casa per ragioni di varia natura tra cui il deprezzamento dei terreni coinvolti per una più conveniente compravendita.

    Un canadair in azione durante gli incendi dell’estate 2021 in Calabria

    Forse ognuno di questi punti contiene un pezzetto di verità. Ma la verità in questo caso serve a poco. Le indagini per il disastro del fuoco dell’estate 2021 in Aspromonte si sono chiuse con un nulla di fatto. Nessun colpevole, ma un rimpallo di eventuali responsabilità la cui scia arriva al fuoco di oggi, giorno in cui piangiamo un morto, diverse abitazioni minacciate, interi poderi divorati dalle fiamme, boschi ridotti in cenere, linee ferroviarie e arterie stradali interrotte.

    Gestire (male) l’emergenza, nulla più

    Ma il senso vero, la desertificazione delle aree interne, dei costoni di montagna, lasciati alla rovina dell’abbandono, battuti e vissuti più da nessuno, senza coltivazioni, senza uomini che le preservano, non si azzarda a tirarlo fuori nessuno. Parliamo del massimo comune denominatore che rende queste catastrofi sempre più drammatiche.
    Non c’è nessuno che abbia interesse a preservarle e tutelarle se non come cocci di una bomboniera che è comunque andata in frantumi. Territori senza uomini e vallate deserte continueranno a subire questa sorte perché nessuno ha la lungimiranza di programmare strategie adeguate e di lungo termine. Non ci sono droni che tengano. Ci si limita a cercare di gestire – male – l’emergenza. Fin quando non ci sarà più nulla da gestire.

    https://www.facebook.com/rbocchiuto/videos/266892979396507

    Nel frattempo in queste ore non ho sentito un politico, che sia uno, spendere una parola, manifestare solidarietà, o annunciare provvedimenti concreti. In compenso abbiamo tutti visto i video social del presidente Occhiuto alle prese con i droni davanti a una stazione di monitoraggio video. Ma si sa che oggi vale in comunicazione quella strana legge per cui un esempio, che è poi il pallido simulacro di una realtà falsa e distorta, diventa per antonomasia la scopa politica paradigmatica con cui mettere il resto della polvere sotto un tappeto di vuota sostanza. Il medium è andato ben oltre il messaggio.

    Terrorismo e social network

    Vorremmo invece vedere pienamente applicato l’articolo 423 bis del codice penale, inasprito con il DL 120/2021, che punisce gli atti incendiari boschivi con al reclusione da 5 a 10 anni. Vorremmo la certezza della pena, vorremmo indagini approfondite capaci di individuare e punire aspramente chi colpisce il nostro futuro. E non basta: vorremmo che, per la rincorsa che hanno preso gli stravolgimenti climatici che continuano ad essere negati da personaggi come il ministro Salvini (basta scorrere i suoi ultimi post social), simili atti fossero equiparati ad atti terroristici.
    Vorremo questo e tanto altro. Vorremo, ma ci limitiamo a postare.

  • MAFIOSFERA| ‘Ndrine, Africa nera, oro bianco e Capo Verde

    MAFIOSFERA| ‘Ndrine, Africa nera, oro bianco e Capo Verde

    Il 13 luglio, in Paraguay, hanno arrestato due uomini, entrambi Giuseppe Giorgi, di 26 e 22 anni. Gli inquirenti li ritengono affiliati di ‘ndrangheta in trasferta per faccende di droga. Il sette luglio scorso la medesima sorte è toccata a Bartolo Bruzzaniti in Libano. Era latitante dall’ottobre 2022, lo inseguivano ben quattro procure a causa del suo ruolo di spicco nel traffico di stupefacenti transfrontaliero.
    Cos’hanno in comune questi arresti ravvicinati ma in due poli opposti del mondo?

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    Foto da ABC TV

    Bruzzaniti è protagonista di varie indagini degli ultimi anni, grazie anche alla capacità delle forze dell’ordine europee di decriptare la messaggistica su una app di comunicazione chiamata SkyECC in uso a molti trafficanti e frequentatori del sottobosco criminale di mezzo mondo. Bruzzaniti, su SkyECC, parlava con broker della droga del carico di Raffaele Imperiale. Il suo cognome e la sua affiliazione mafiosa, però, lo legavano a doppio laccio con i Palamara-Bruzzaniti-Morabito di Africo. In particolare al re della cocaina Rocco Morabito, almeno fino al suo (secondo) arresto in Brasile nel 2021.

    Un trafficante, due matrici

    Bruzzaniti investiva sull’importazione di cocaina, dunque. Sia a matrice ‘ndranghetista, tramite Morabito e i suoi legami con i brasiliani del Primero Comando da Capital (PCC), sia a matrice “europea”, tramite il cartello di Imperiale con base a Dubai, in collaborazione con i gruppi del nord, nei Paesi Bassi, in Irlanda.
    Ma oltre agli investimenti in denaro, cosa offriva Bruzzaniti? Ce lo dice lui stesso nei documenti confluiti in Operazione Eureka, nel maggio del 2023, tra Milano e Reggio Calabria.

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    Bartolo Bruzzaniti

    In una chat del 2020 Bruzzaniti dichiara: «Io sono forte in Africa e li posso dirvi che se fate come vi dico e senza via vai non vi prendono…ma io in Africa so quali tasti toccare». E ripeterà nel 2021, come rivela l’Operazione Zio nel 2022 della DDA di Napoli con protagonista il neo-collaboratore Raffaele Imperiale: «Compà, io sti giorni vado a Africa pure così vediamo di aprire fronte serio pure lì. Compà lì le mie attività valgono soldi e le ho fatte io pezzo per pezzo. Abbiamo catena ristoranti compà, e pizzerie».

    Bartolo Bruzzaniti, infatti, offre la rotta africana per il narcotraffico anche perché risulta essere residente in Costa d’Avorio, iscritto all’AIRE ad Abidjan, la capitale, dall’agosto 2017. Ma non era certo l’unico a offrire o bazzicare questa rotta. Ad esempio, già dall’Operazione Apegreen Drug nel 2015 erano emersi interessi dei Commisso in Costa d’Avorio, in quel caso legati al traffico di stupefacenti, grazie alla presenza in loco di membri della famiglia.

    Le ‘ndrine e il ponte tra Sud America ed Africa

    Ed ecco quindi che torniamo ai due Giorgi. Dal 2018 sono noti gli interessi delle ‘ndrine di San Luca per l’Africa e Abidjan, attraverso il gruppo Romeo-Staccu e in particolare Giuseppe Romeo, alias Maluferru. Nell’Operazione Spaghetti Connection, secondo le indagini di Irpimedia si rivelava la rotta della cocaina di Maluferru. Partiva da San Paolo in Brasile, poi passava da Abidjan come tappa intermedia prima di arrivare ad Anversa, in Belgio.
    Maluferru si adopererà moltissimo per creare alle ‘ndrine un ponte tra l’America Latina e l’Africa. Utilizzerà i servizi di un imprenditore che in Costa D’Avorio ha affari e anche una compagna ivoriana, Angelo Ardolino. Romeo, in Africa, si porta l’ultimo dei Nirta rimasto libero, Antonio, e anche due cugini omonimi, i due Giuseppe Giorgi. Insieme a loro e con l’aiuto di alcuni napoletani parte l’affare cocaina dal Brasile.

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    Abidjan, capitale della Costa d’Avorio

    L’Africa occidentale per le ‘ndrine, dunque, è da anni una delle rotte emergenti, alternative e sicure, sia per il traffico che per riciclarne i proventi. Scrive la Direzione Investigativa Antimafia nel suo ultimo rapporto per il 2022 che «si va consolidando la preminenza della ‘Rotta Africana’ in cui lo stupefacente è trasportato via mare verso i Paesi dell’Africa occidentale e del Golfo di Guinea (ad esempio il Senegal, il Mali e la Costa d’Avorio) attraverso il “corridoio del Sahel” caratterizzato da grande instabilità, per essere poi immesso in Europa transitando dal Nord Africa e ovviamente dalla Spagna».

    Da Limbadi a Capo Verde

    La presenza di affiliati, denaro e attività della ‘ndrine in Africa non è pertanto una novità. Quando sono le famiglie apicali che investono nella rotta e nel continente africano, tendono a spostarsi a lungo termine e a ‘restare’, non solo per fare traffici. Di solito inviano qualcuno vicino al clan per stabilire contatti in loco utilizzando aziende e legittimi imprenditori italiani già presenti. I giornali hanno riportato sempre in questi giorni degli affari tra il clan Mancuso, del territorio di Limbadi e Nicotera, e un imprenditore ritenuto vicino al clan, Assunto Megna, in quella che la DDA di Catanzaro ha chiamato Operazione Imperium.

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    Roberto Pannunzi

    Il figlio di Assunto Megna, Pasquale Alessandro, ha parlato alle autorità delle attività di suo padre nella Repubblica di Capo Verde, in particolare un capannone legato alla lavorazione del tonno e imbarcazioni per la pesca. I riscontri delle autorità hanno permesso di localizzare le attività in questione ed identificare un soggetto al cui business, sempre relativo alla pesca, i Megna intestavano bonifici a Capo Verde. Vito Cappello, siciliano, era già stato coinvolto tra il 2012 e il 2013 in tentativi di importazione di cocaina dall’America Latina grazie a una partnership con altri soggetti, tra cui Roberto Pannunzi, noto broker di ‘ndrangheta in Colombia.

    I diamanti per riciclare

    Ma non tutte le famiglie di ‘ndrangheta sono uguali in termini di portata e di interessi. Ad esempio, tra le carte dell’Operazione Gentlemen 2 che a giugno scorso ha coinvolti alcuni clan della Sibaritide si legge del gruppo Forastefano-Abbruzzese e della potenziale relazione tra Claudio Cardamone (broker in Germania/Calabria per il clan) e Malam Bacai Sahna Jr, figlio dell’ex presidente della Guinea-Bissau.

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    Malam Bacai Sanha, ex presidente della Guinea Bissau

    Bacai Sahna sembrerebbe essere già stato coinvolto in traffici di stupefacenti in passato ma gli viene chiesto se può “aprire” anche una via per il traffico di diamanti. Dice Cardamone al telefono con Bacai Sahna: «Sai Bac cosa mi piacerebbe fare? Adesso che sei qui… se inizieremo [a lavorare] mi dovrai dare una mano con… vorrei comprare diamanti».
    Bacai gli chiede se per investimento personale o per affari. Ricevendo risposta affermativa sull’investimento personale («tu sai che sono migliori dei soldi»), Bacai replica «nel mio paese no… per delle pietre buone bisogna vedere in Ghana o Sierra Leone… Botswana, Tanzania… in Tanzania sono i migliori». E aggiunge «Sì per lavare il denaro [riciclaggio] il diamante è buono». E Claudio Cardamone, soddisfatto, risponde: «Che buono averti conosciuto Bac!».
    La relazione tra i due è agli inizi, ma promettente. Importante notare che però in questo caso il legame in Africa è gestito da remoto, non in loco, perché si tratta probabilmente soltanto di una partnership legata agli stupefacenti che necessita di intermediari ma non di “presenza” sul territorio.

    La rotta della cocaina e il problema con i dati

    Fatto sta che quando si tratta di Africa le ‘ndrine – quelle globali e avvezze al traffico internazionale, ma anche altri clan calabresi emergenti nel mondo degli stupefacenti – riescono a trovare investimenti in persone o beni, terreni, case e attività commerciali grazie alla promettente e parzialmente ancora sicura (come investimento) rotta africana della cocaina, che dal Brasile e dalla Colombia passa per l’Africa occidentale fino ad arrivare in Europa via Spagna o Belgio.

    Il continente africano è spesso “dimenticato” quando si tratta di attività antidroga o in generale politiche contro la criminalità organizzata in Europa, complice una distanza culturale tra Nord e Sud del mondo mista ad alcune difficoltà di interazione. Non aiuta il fatto che c’è spesso un problema con la specificità dei dati nelle fonti ufficiali italiane. Spesso i vari soggetti sotto sorveglianza menzionano solo l’Africa in modo generico, senza luogo, senza specificità: «Ho affari in Africa». Questo rende abbastanza complesso trovare riscontri investigativi, che spesso rimangono vaghi come le informazioni che li hanno iniziati: «Tizio si reca in Africa nel mese XY».media_post_7t4q79r_africa-cruise-safari-ndrine

    L’Africa non è uno stato, ma un continente. L’ignoranza geografica e l’assenza di dati direttamente dal territorio sono probabilmente tra i fattori che hanno contribuito alla mancata sistematizzazione dei dati sulla presenza della ‘ndrangheta nei vari territori.
    La presenza delle ‘ndrine in Africa (non solo occidentale) per ora appare largamente aneddotica e disgiunta. Ma alcuni segnali che così non è già ci sono da anni.

  • Galera ingiusta: continua il record calabrese

    Galera ingiusta: continua il record calabrese

    Ingiuste detenzioni e relativi indennizzi: arriva l’ennesimo record della Calabria.
    Ecco i dati del Ministero della Giustizia, aggiornati allo scorso maggio: su circa 27 milioni di euro erogati da tutte le corti d’Appello italiane nel 2022, 11,5 milioni provengono dai distretti di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma Reggio resta imbattibile, coi suoi 10milioni e mezzo e rotti.
    Questi numeri raccontano un’ulteriore realtà giudiziaria problematica della regione. Negli ultimi 4 anni, secondo il dossier, la Calabria ha sempre avuto il podio per i risarcimenti delle ingiuste detenzioni. E questo nonostante criteri di accesso più restrittivi.
    A dirla tutta, di questo problema I Calabresi si sono accorti quasi due anni fa. Con relativo corredo di polemiche e repliche, anche altolocate.

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    Detenuti

    Ingiuste detenzioni: i motivi del record in Calabria

    Infatti, non basta più una sentenza di assoluzione definitiva in un procedimento giudiziario all’interno del quale si è subito un periodo di detenzione (in carcere o domiciliare). Oltre l’assoluzione, occorre dimostrare che l’arresto non era necessario e che con il proprio comportamento non si è motivato alcun provvedimento cautelare definitivo.
    Diverso è il discorso degli errori giudiziari veri e propri, che seguono un altro iter. L’ingiusta detenzione non può portare a più di 516mila euro di indennizzo a differenza dell’errore giudiziario che invece non ha limiti massimi.
    Detto altrimenti: l’ingiusta detenzione risarcisce le persone che dopo aver subito una privazione della libertà in fase cautelare, sono state prosciolte o assolte nel merito o arrestate senza requisiti.

    Errori giudiziari

    Invece, l’errore giudiziario riguarda il merito: ad esempio, può riguardare una persona condannata in via definitiva e incarcerata per un tot periodo ma che, a seguito di processo di revisione della Cassazione, è assolta da ogni accusa.
    In entrambi i casi, la corte d’Appello stabilisce l’entità del risarcimento. Tuttavia, nel caso dell’errore giudiziario si istruisce un vero e proprio procedimento di risarcimento danni della persona contro lo Stato.

    La Corte d’Appello di Catanzaro

    Ingiuste detenzioni: i numeri in Calabria e non solo

    Il report sottolinea come in generale i casi negli ultimi 5 anni siano rimasti più o meno stabili ma solo nei numeri generali. «La serie storica dei valori totali del numero dei procedimenti sopravvenuti negli anni 2018-2022 mostra una sostanziale stabilità, ad eccezione forse dell’anno 2021 per il quale si registra il valore più contenuto. I distretti più significativi quanto ad entità numerica sono quelli di Napoli, Reggio Calabria, Catanzaro e Roma. I distretti maggiormente significativi quanto ad entità di importi sono invece: Bari limitatamente ai primi tre anni, Catania, Catanzaro, Napoli, Palermo, Reggio Calabria e Roma. Il maggiore fra tutti quanto ad entità è quello di Reggio Calabria, con un importo medio annuo di oltre 7 milioni di euro dal 2018 al 2022».

    Ingiuste detenzioni in Calabria: Reggio batte tutti

    Ma la Corte d’Appello di Reggio Calabria nel solo 2022 ha erogato 10.312.205 euro e Catanzaro 871.942 euro. In tutto, 11.184.187 euro su un totale in Italia di 27 milioni di euro, quasi la metà. Il distretto di Reggio ha un doppio record: l’erogazione delle somme maggiori nel Paese e la media più alta per singolo indennizzo (114.580 euro, più del doppio della media nazionale, 50mila euro). Il distretto di Palermo, secondo in classifica, ha erogato 3milioni e mezzo di euro. Per quanto riguarda la media degli indennizzi per ingiuste detenzioni solo il distretto di Sassari supera i 100mila euro insieme a Reggio Calabria (114mila), tutti gli altri distretti italiani sono molto al di sotto.

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    Detenuti nel carcere di Reggio Calabria

    Conclusioni

    Si legge ancora dossier: «Le percentuali delle ordinanze di accoglimento (definitive e non) e dei rigetti si equivalgono approssimativamente, mentre molto residuali risultano le definizioni per inammissibilità».
    Inoltre, «per ciò che riguarda le ragioni poste alle base degli accoglimenti definitivi classificate secondo il dettato normativo si è visto che esse derivano, con riferimento all’anno 2022, nella maggior parte dei casi (76,8%) da sentenze di proscioglimento irrevocabile e, nei restanti casi (23,2%), da illegittimità dell’ordinanza cautelare» Per l’entità delle riparazioni, dai dati forniti del Mef risulta che: l’importo complessivamente versato a titolo di riparazione per ingiusta detenzione nell’anno 2022 risulta pari 27.378.085 di euro ed è riferito a 539 ordinanze con le quali le Corti di Appello hanno disposto il pagamento delle somme; tale importo è di entità simile a quello versato nell’anno 2021 ( 24.506.190 di euro) ed entrambi risultano comunque di entità significativamente inferiore rispetto agli importi versati nel triennio precedente (2018-2020), con una media annua pari a circa 38.000.000 di euro.
    I numeri complessivi risultano in calo ovunque, tranne che a Reggio, dove si è passati da circa 6 milioni nel 2021 a oltre 10 milioni nel 2022, a differenza di Catanzaro dove da 2 mln di euro si è scesi a circa 800mila euro.

  • Da Teramo un calcio alle sbarre del razzismo e al razzismo delle sbarre

    Da Teramo un calcio alle sbarre del razzismo e al razzismo delle sbarre

    Le esperienze sociali attraversano il tempo, giocano d’anticipo sulla globalizzazione e sull’imperialismo. È nella loro propria natura avere fortissime radici territoriali e grande sensibilità internazionale e internazionalista verso chi vive le stesse condizioni, separato “soltanto” da centinaia di chilometri.
    In trasferta abruzzese e laziale per lavoro incastro in modo da poter essere alla splendida settimana di musica, partite, dibattiti e cucina promossa dalla Casa del Popolo di Teramo, dietro il titolo, senza cedimento alcuno, AMA LO SPORT, ODIA IL RAZZISMO. Un programma a domani, un filo rosso nella memoria.
    Un calendario bello fitto, sentito, carico. In cartellone, riflessioni su sanità e urbanistica in città, un’iniziativa a cura del Collettivo femminista Malelingue – esperienza molto briosa e curiosa, schierata e capace di essere trasversale ad anagrafe e lavoro -, revival calcistico e dibattiti sui temi della giustizia.

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    La tifoseria del Cosenza storicamente schierata contro il razzismo e da sempre solidale coi rifugiati

    Calcio e razzismo, da Cosenza a Teramo

    Chi scrive sente un po’ di piacevole malinconia, ricordando la partecipazione di tifoserie di tutta Italia (non solo nel calcio) ai “vecchi” mondiali Antirazzisti. Che poi lì di “vecchio” invero c’era molto poco, perché le analisi di partenza erano buone, fresche e attuali: il razzismo come prodotto di marketing, come pregiudizio per escludere, come virus da fare crescere per sostituire sicurezze rubate con insicurezze presunte.
    Ora la partecipazione ultras nel sociale è meno presente (e Cosenza anzi è una piazza ancora più reattiva di troppe altre) e soprattutto si è un po’ annacquata la valenza comunitaria e politica. L’apoliticità è stata dappertutto un modo per allentare frizioni, ma anche per espellere le pratiche di alternativa dal basso che sembravano più interessanti e radicali.

    Curve e politica

    E comunque a Teramo si respira dei gradoni il senso bello, non il mettere il cappello a una tifoseria per conto di pochi, ma i ricordi umani e sportivi che rendono ogni realtà con ancora un certo attaccamento calda e rituale. A latere di partitelle e grigliate, cori e fiaccolate per i ragazzi scomparsi e cresciuti in gradinata: pratica bella, anche se non hai una sciarpa al collo o ne porti una di un’altra bandiera. Il succo è lì: politica sociale e riti della curva sono parti di una cultura individuale e collettiva; le puoi e le devi discernere. Anzi, lo facciamo tutti sempre più spesso e con un po’ di autocritica dovremmo dire che è la conseguenza di un passato prossimo nel quale invece eravamo convinti dovessero essere per forza la stessa cosa. No, non lo sono, ma le connessioni esistono ed esisteranno.

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    I Los Fastidios a Teramo

    Nell’umida bolgia del campetto Smeraldo incontro i Los Fastidios: li ascolto, certo, ma soprattutto noto una cosa che appartiene alla vita dei musicisti e dei movimentisti. Il venirsi a trovare, il cercare di vedere le cose che accadono, i temi che scaldano. A me tocca una bella tavolata con gli amici di Napoli Monitor sulla questione carcere, in particolare ergastolo e 41bis. Presente Yairaiha Onlus e ben due stand di libri: uno di storia e memoria critica locale; uno su temi di pena e giustizia. Ed è emozionante come raziocinio e militanza civile si tocchino nella folla di centinaia di persone.

    Calcio, carcere e non solo

    Questo carcere (la sua regolazione formale e i suoi effetti sostanziali) colma sempre meno le promesse di sicurezza su cui si è fondato. E sempre di più squarci totalmente inediti si aprono davanti alle ingiustizie peggiori: quando emerge la foto del sovraffollamento, della mancanza di alternative, della impunità esibita di chi ne ha la forza e dell’annullamento totale di chi è considerato ormai smorzo di carne, parte di una discarica sociale.
    Sfumature nelle sfumature: reati che potrebbero essere depenalizzati, ad esempio. Maggiore attenzione alla prevenzione culturale e sociale in caso di violenze domestiche, stato di necessità e indigenza, politica sulle droghe.

    I tanti interventi s’affollano molto più critici e policromi delle nostre relazioni scolastiche: si sta bene, c’è il piacere di commentare, di stare assieme, senza la costrizione del torto e della ragione. Risuonano naturalmente sensibilità comuni. Mi appassiono nelle ore precedenti e successive a sentire cosa succeda in una piccola città del Sud e purtroppo certi costumi e malcostumi sembrano il racconto di una nazione intera. I crolli nelle case popolari, il costo della vita, la precarietà del lavoro. Una artigianale mostra fotografica racconta il vissuto di quartieri storici e periferici, coi loro personaggi, le loro panchine, lo sporco e il pulito, la generosità e il disservizio.

    Mostra fotografica nella settimana antagonista di Teramo

    Empatia, non volemose bene

    Chiacchiero con Davide e Giovanni, metalmeccanici. Schiena e braccia di quella parte di industria che non conosce sosta, talvolta nemmeno contro la vita degli altri. Ascolto volentieri come possa declinarsi la questione di genere in terre di provincia dove altrimenti il racconto sarebbe che rivendicare diritti è lezioso, fa perdere tempo e salute. C’è la carretta da tirare. C’è una buona presenza di migranti, accolta senza l’ipocrisia del volemose bene ma con la concretezza di alcune precedenti esperienze della rete Sprar. Abbiamo buttato via il bambino ancora prima dell’acqua sporca: anzi, quella la abbiamo lasciata nella bacinella, ma sulle migrazioni “navighiamo” male e a vista. Le uniche acritiche certezze sono accordi internazionali dagli effetti incompatibili alla dignità umana.

    L’immancabile mangia e bevi come da copione

    Tanta gastronomia e lì bello pure registrare la felicità e la simpatia di chi ha lavorato ore e forse giorni e continuano a non avere e non volere sosta. Tutto senza profitto. Una squadra che segna e continua a segnare.
    Me ne vado davvero leggero: leggero di questa robustissima costituzione che pratica la sua lotta con la comunità, i legami, la libertà. Questa Teramo, popolare e frizzante, colta e curiosa, empatica e rude, mi ha colpito in bene. I baci e gli abbracci camminano da soli tra pugni chiusi e pugni in tasca. La sera placa l’afa e la cassa suona. E dovunque siano queste feste scalciano le sbarre del grigio per liberare felicità e impegno.

    Domenico Bilotti
    Docente di “Diritto delle Religioni” e “Storia delle religioni”, Università Magna Graecia