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  • La Marlane e le donne, l’8 marzo delle operaie dimenticate

    La Marlane e le donne, l’8 marzo delle operaie dimenticate

    Le donne della Marlane, l’ex fabbrica dei veleni con sede a Praia a Mare, molto più dei loro colleghi maschi operai, erano quelle che credevano più di tutti alle potenzialità di quello stabilimenti, alla crescita economica ed alla fine della fame che le loro famiglie avevano subìto nel dopoguerra. Molte di loro erano figlie di contadini. Avevano visto con i loro occhi le proprie madri lavorare la terra o ai telai che avevano in casa, senza riuscire a fare quel salto economico che tutti si aspettavano dal quel duro lavoro. All’arrivo del conte Rivetti nella Maratea degli anni ’50, le donne di Maratea erano riconosciute come brave tessitrici e chi voleva fare un buon corredo alle proprie figlie in sposa raggiungeva questa cittadina per rivolgersi a loro.

    Il conte Rivetti arriva nel Sud

    Se Cristo si è fermato a Eboli, Rivetti lo sposta oltre. Fino alla Calabria, in un’area dove si incrociano le tre regioni meridionali più povere d’Italia: la Basilicata, la Campania, la Calabria. L’opera di Rivetti comincia grazie a finanziamenti enormi che il conte riuscì a ottenere dalla Cassa del Mezzogiorno, sembrerebbe anche grazie alla sua amicizia personale con il potente deputato lucano Emilio Colombo. La sua prima cattedrale nel deserto fu il complesso industriale chiamato R1 S.p.A Lanificio di Maratea e nacque nel 1957. Nel 1958-59 Rivetti si sposta in Calabria e qui a Praia a Mare fa nascere la R2.

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    Quel che resta dello stabilimento, visto dall’esterno

    Per queste due strutture, il “benefattore” riceve dallo Stato ben 6 miliardi di vecchie lire. Una cifra per quei tempi astronomica che rientra nella logica di aiuti al Sud. Tra il 1966 e il 1970 il conte Rivetti cede le sue azioni e gli stabilimenti vengono assorbiti prima dall’IMI (Istituto Mobiliare Italiano), poi dalla Lanerossi e infine dall’ENI, che nel frattempo rileva la Lanerossi. Ora nasce la denominazione Marlane S.p.A. Mentre sul conte la stampa del Sud tace, quella dei Nord si scioglie in deliranti e sprezzanti analisi sociologiche antimeridionali al solo fine di mitizzare la figura del pioniere, del nuovo redentore delle zone depresse dei Mezzogiorno.

    Il “pioniere” che piaceva a Montanelli

    Montanelli scrive: «Prima che un industriale del Nord, l’ing. Rivetti, venisse a restituire questi luoghi al loro naturale destino di ottava meraviglia del mondo, gli abitanti di Maratea vivevano come venti secoli fa: di fichi, di pomodori, di carrube, d’uva e di cacio pecorino». Il “pioniere”, ribadisce il giornalista, «cala in una realtà dove solo le donne lavorano, mentre gli uomini giocano a scopone e briscola, aggrumandosi come mosche nei caffè locali, perché schivi, come tutti i meridionali, per un complesso di paure e abitudini casalinghe del sole e della luce».

    Si fanno risaltare le difficoltà e gli ostacoli nei quali ogni giorno si trova questo industriale che anziché portare i capitali all’estero, sente l’impegno morale e nazionale di investirli al Sud affrontando difficoltà burocratiche e tecniche enormi: trovandosi di fronte a gente neghittosa, a pretese salariali senza senso, a persone comunque non disposte ad accettare con disciplina la dura servitù del lavoro moderno.

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    Operai al lavoro nello stabilimento Marlane

    Le donne sono le prime assunte alla Marlane

    Poi la svolta. Il lavoro salariato, la paga a fine mese, i contributi, le ferie, la sicurezza di poter comprare una nuova casa. Le operaie, più degli uomini, pensano al progresso della famiglia, al futuro dei propri figli, al lavoro che un domani avrebbero potuto fare anche i propri figli. Teresa Maimone era una di queste operaie. Arrivava in fabbrica in bicicletta, desiderosa di affermarsi, di andare avanti, di portare il pane alla famiglia. Poi le morti per tumore, una dopo l’altra. Un elenco di donne operaie dimenticato, che nessuno ha intenzione di voler ricordare. A Tortora , esiste una via dedicata a Stefano Rivetti, fondatore della fabbrica, ma non una via dedicata alle donne ed agli uomini della Marlane. Niente esiste neanche a Praia a Mare.

    I veleni nei terreni

    Lì sono rimasti solo le tonnellate di rifiuti, certificati anche dall’ultima perizia depositata nel tribunale di Paola. Una perizia che dovrebbe essere distribuita casa per casa, per far capire i pericoli esistenti in quei terreni, e quelli che i cittadini corrono in quella cittadina. Il Comune di Tortora, quando il sindaco era Lamboglia, fu l’unico comune della costa tirrenica che si costituì parte civile nel processo contro i dirigenti della fabbrica. Gli altri sindaci, compreso quello di Praia a Mare, fecero finta di non sapere niente.

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    Una protesta dei parenti degli ex operai della Marlane morti di tumore

    Ma le morti ed i veleni ci sono. E nessuno oggi ha voglia di ricordarsene. Come nessuno ricorda le donne operaie, in questo 8 marzo:

    • Francesca Bocchino di Maratea è morta nel 1995 all’età di 49 anni per carcinoma al colon;
    • Maria Rodilosso di Aieta è morta nel 1998 all’età di 50 anni per carcinoma mammario;
    • Nelide Scarpino di San Nicola Arcella è morta nel 1999 all’età di 60 anni per tumore allo stomaco;
    • Teresa Maimone di Maratea è morta nel 2000 all’età di 54 anni per tumore all’utero;
    • Pasqualina Licordari, di Gallina è morta nel 2002 all’età di 61 anni per carcinoma del colon;
    • Resina Manzi di Aieta è morta nel 2005 all’età di 62 anni per tumore mammario;
    • Domenica Felice di Tortora è morta nel 2003 all’età di 48 anni per carcinoma midollare della mammella;
    • Maria Iannotti di Trecchina morta nel 1988 all’età di 48 anni per tumore maligno del colon.

    Un ricordo per le donne e gli uomini della Marlane

    Sono solo alcune delle decine di operaie della fabbrica Marlane di Praia a Mare, molte delle quali colpite da tumori maligni riconducibili ai fumi cancerogeni che venivano fuori dalle vasche del reparto tintoria e dalle polveri dell’amianto sparse per il capannone. Lavoravano tutte senza mascherine, né tute di protezione, né guanti. In un unico ambiente, con al centro macchine in cui si impiegavano, all’insaputa di tutti, veleni chimici.

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    Vasche per il trattamento dei tessuti all’interno della Marlane

    Nel 2013, durante il processo Marlane, in primo grado, nel tribunale di Paola l’ironia della sorte volle che un’udienza capitasse proprio un venerdì 8 marzo. Un processo che si chiuse in primo e secondo grado con la completa assoluzione di tutti gli imputati compreso il capo Marzotto. Si attende la fine del secondo processo, ancora impelagato in perizie tecniche , nella speranza che si giunga alla verità. Perché queste donne, così come le centinaia di altri operai, ottengano finalmente giustizia. Ed una piazza che ne perpetui il ricordo.

  • Donne e ‘ndrine: ribelli, vittime… ma anche boss

    Donne e ‘ndrine: ribelli, vittime… ma anche boss

    Capimafia, a volte anche più spietate e sanguinarie degli uomini. Vestali di tradizioni da tramandare, di una famiglia preservare, di un “buon nome” da conservare. Ma, assai più spesso, schegge impazzite, capaci di sciogliere quel cappio che il familismo amorale della ‘ndrangheta mette al collo degli affiliati. Per dare un futuro migliore a se stesse e ai propri figli. Sono le donne della ‘ndrangheta.

    Il ruolo delle donne

    Forse più che di “ruolo”, si dovrebbe parlare quasi di “funzione”. Le donne possono preservare o minare l’unitarietà del nucleo familiare. Il che, in un sistema come quello ‘ndranghetista, è qualcosa di fondamentale. Hanno il compito di garantire la discendenza, di crescere i figli che saranno i futuri capi e, a volte, aizzano anche alle guerre contro i clan rivali. «Significa essere l’elemento che consente la prosecuzione del governo mafioso perché genera i figli maschi, perché insegna loro l’odio e come e perché va compiuta la vendetta quando si subisce un torto» scrivono Nicola Gratteri e Antonio Nicaso ne La malapianta.

    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri
    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri

    Non c’è codice che tenga: «La ‘ndrangheta non ha mai guardato in faccia nessuno. Ma quando qualcuno ammazza una donna, non può pensare di sfuggire alla vendetta. Deve aspettarsi una reazione forte e rabbiosa», aggiungono nel loro libro.

    Le alleanze

    Una scelta consapevole e strategica delle ‘ndrangheta di allargare le proprie forze utilizzando le donne della propria famiglia, che vanno in matrimonio a uomini di un’altra ‘ndrina che così verrà cooptata entro l’orbita familiare del capobastone. Questo tipo di matrimoni aveva la forza di dare vita a un complesso mosaico di parentele caratterizzato da un intricato intreccio familiare, che è visibile un po’ dappertutto, ma che appare più evidente nei medi e nei piccoli comuni.

    Una struttura, quella delle famiglie di ‘ndrangheta, che, però, non ha comunque intaccato l’importanza della ritualità, che, anche tra parenti, ha continuato, infatti, a rivestire un valore cruciale in seno all’organizzazione: «Non deve sorprendere l’uso dei riti formali tra parenti, perché le cerimonie mafiose, alle quali partecipano anche membri che non sono parenti stretti del capobastone, hanno un alto valore simbolico e di suggestione […] per riconoscersi, per affermare e riaffermare gerarchie e supremazie«, afferma Enzo Ciconte nel suo libro ‘Ndrangheta.  Si creano così le alleanze.

    Le donne boss

    Dice ancora Ciconte: «Le donne hanno un ruolo centrale in questa realtà familiare non solo perché con i loro matrimoni rafforzano la cosca d’origine, ma perché nella trasmissione culturale del patrimonio mafioso ai figli e nella cura complessiva della famiglia, compresa la gestione diretta degli affari quando il marito è impossibilitato perché arrestato o limitato perché latitante, hanno via via ricoperto ruoli rilevanti».

    In un sistema patriarcale come quello delle cosche di ‘ndrangheta, peraltro, non mancano le donne che ricoprono ruoli apicali. Nelle inchieste portate avanti dalle varie Dda sono emerse, in diverse occasioni, donne che svolgevano il ruolo di cassiere o, addirittura, di vertice (magari temporaneo) del clan. «Il concetto delle donne, nella ‘ndrangheta, si intreccia, irrimediabilmente, con quello dell’onore e del potere che “è innanzitutto riposto nella inalienabilità dei beni che egli è riuscito a procurarsi o che gli derivano da fonti naturali. Al primo posto è la donna: moglie, figlia, sorella, madre, amante», come sostiene Sharo Gambino in La mafia in Calabria.

    Il caso di Aurora Spanò

    Un’inchiesta di alcuni anni fa fece emergere la figura predominante di una donna a capo della costola operante a San Ferdinando del potente casato dei Bellocco che, da sempre, divide con i Pesce il controllo su Rosarno. «Era lei che dirigeva e assumeva iniziative perché il gruppo si radicasse ancor di più nel territorio, assumendone un controllo capillare e costruendo con l’illegalità un impero, per usare le sue stesse parole» è scritto nelle motivazioni che hanno portato alla dura condanna nei confronti di Aurora Spanò per associazione mafiosa.

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    Aurora Spanò

    Una donna capace di terrorizzare chi si imbatteva sulla propria strada, di vessare con tassi usurai e richieste impossibili da essere soddisfatte. Proprio lei, sposata appunto con Giulio Bellocco, che, sebbene in secondo piano, “metteva il cappello” sull’operato della compagna: «La Spanò ne è pienamente consapevole: è l’apparentamento con i Bellocco, cui appartiene il compagno della sua vita, a fare di lei agli occhi della comunità non una “semplice” usuraia, ma la boss» è scritto ancora nelle carte giudiziarie.

    Il sacrificio di Lea Garofalo

    Se, da un canto, sono la conservazione, dall’altro, le donne di ‘ndrangheta sono anche la rivoluzione. Il caso più famoso ed emblematico, nella sua tragicità, è evidentemente quello di Lea Garofalo. Originaria di Petilia Policastro, nel Crotonese, verrà fatta scomparire e uccisa in Brianza. Pagherà la sua scelta di dare un futuro diverso per sé e per la figlia Denise. Sottoposta a protezione dal 2002, decise di testimoniare sulle faide interne tra la sua famiglia e quella del suo ex compagno Carlo Cosco. Pagando forse a caro prezzo anche l’incapacità dello Stato di difenderla da un ambiente familiare che aveva dato più avvisaglie del proposito finale sulla donna.

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    Giuseppina Pesce e Maria Concetta Cacciola

    Perché se i figli sono spesso la molla che spinge le donne a distaccarsi dagli ambienti malavitosi, spesso i figli sono anche l’arma di ricatto che il contesto familiare utilizza per riportare all’interno dei ranghi chi aveva deciso di cambiare vita.

    È il caso di Giuseppina Pesce e Maria Concetta Cacciola. La prima, figlia del boss Salvatore Pesce, coinvolta nell’operazione “All inside”, con cui i carabinieri decapitarono il potente casato di ‘ndrangheta. La Pesce firma diversi verbali d’interrogatorio e le sue dichiarazioni contribuiscono al sequestro di ingenti patrimoni nei confronti del clan di Rosarno. Ma poi si rifiuta di firmare il verbale finale che i collaboratori di giustizia devono sottoscrivere dopo 180 giorni.

    Giuseppina Pesce

    Inizierà una lunga e torbida vicenda in cui avranno un ruolo anche avvocati e stampa: l’obiettivo è quello di disinnescare la portata delle sue dichiarazioni, accusando anche i magistrati di averle estorte, e di riportare Giuseppina in seno alla famiglia. Le trame vengono però scoperte e Giuseppina riesce a salvarsi.

    Una lieto fine di cui non potrà godere la cugina Maria Concetta Cacciola. Anche lei, questa volta in qualità di testimone di giustizia, tenta di salvare i propri figli e incastra i clan di Rosarno e della Piana di Gioia Tauro con le sue dichiarazioni. Usando il ricatto di sottrarle i piccoli, però, la famiglia riesce a riportarla nella casa rosarnese, da cui non uscirà più. Verrà trovata morta per ingestione di acido muriatico. E per le sue ritrattazioni, per la campagna di stampa colma di falsità e illazioni sul suo conto, saranno anche condannati definitivamente i due avvocati del clan.

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    Maria Concetta Cacciola

    Le altre donne ribelli

    Spesso viste come l’anello debole della catena, le donne sono spesso quello più forte. Perché lo spezzano. E c’è chi riesce a spezzare le catene (talvolta, forse, anche materiali) che le legano alla ‘ndrangheta. Chi non fa in tempo. Chi viene risucchiata nel vortice. Le impedivano di uscire, la minacciavano di morte, le addossavano persino la responsabilità del suicidio del marito. La parola “prigioniera” suona quasi in maniera dolce rispetto alle violenze e ai soprusi subiti da Giuseppina Multari ad opera della famiglia Cacciola di Rosarno. Prima dal coniuge e poi, dopo il suicidio di questi, ancor più duri, ritenendola responsabile di quella morte.

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    Tita Buccafusca

    La giovane donna riuscirà a salvarsi dall’orrenda fine che spetterà, diversi anni dopo, a Maria Concetta Cacciola. O quella riservata a Tita Buccafusca, moglie di Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni”, boss dello storico casato di Limbadi, nel Vibonese. Decide di staccarsi da quel contesto di ‘ndrangheta, di collaborare con la giustizia. Ma, anche in questo caso, forse, la ‘ndrangheta è stata più veloce dello Stato, incapace di difendere una testimone di giustizia. Per fermare la volontà della donna si mobilita infatti l’intero casato: stessa fine, l’ingestione di acido muriatico. È la primavera del 2011, quando lo stesso marito, Pantaleone Mancuso, avvisa i carabinieri del ritrovamento della donna morta, con quelle stesse modalità.

    La simbologia

    Un rituale che si ripete. La morte per ingestione di acido muriatico è atroce per le modalità e le sofferenze che causa nelle vittime. Ma assume un significato inquietante che va oltre la morte stessa. Prima di morire, le vittime sono isolate, ricattate, delegittimate. Il cliché si è confermato tanto con Giuseppina Pesce, quanto con Maria Concetta Cacciola: farle passare per pazze, in modo tale da rendere inattendibili le loro dichiarazioni. Che invece erano dannosissime per la ‘ndrangheta: sia per i contenuti, sia per la portata simbolica.

    E allora le donne vanno soppresse con modalità che vanno oltre l’uccisione stessa. Anche inscenando un suicidio. In alcuni casi, come nel caso di Maria Concetta Cacciola, c’è una sentenza (senza colpevoli) che certifica che la giovane sia stata uccisa. E l’acido muriatico che brucia la gola ha il significato di voler mettere a tacere, di voler punire la bocca di chi ha parlato troppo. 

    Troppo ottimista, forse, l’affermazione formulata, diversi anni, fa, nel 1978, da Lucio Villari, rispondendo alle domande di Antonio Spinosa sul ruolo di rinascita che le donne potrebbero avere nella lotta alla ‘ndrangheta e ai suoi (falsi) valori: «Il nuovo ruolo della donna ha grande influenza nel provocare l’impoverimento del fenomeno mafioso. Il mafioso è un personaggio legato a schemi tradizionali della famiglia, ai miti maschilisti. Le donne calabresi si sono molto evolute, è anche attraverso loro che si scuotono tanti atteggiamenti mafiosi».

  • Tutti gli uomini di Valeria Fedele: il socialista, il pentito, il… Delfino

    Tutti gli uomini di Valeria Fedele: il socialista, il pentito, il… Delfino

    Valeria Fedele è una politica dal basso profilo, che ama accentuare il suo lato da tecnica giurista e burocrate. Attuale consigliera regionale di Forza Italia, in campagna elettorale in uno spot inneggiava a scegliere la competenza. Catanzarese, dei suoi quasi ottomila voti di preferenza, la metà li ha ottenuti nella provincia di Vibo Valentia.
    Nel suo background politico si rileva una candidatura al Senato nel 2018 con gli azzurri, mentre è consigliera comunale del suo paese, Maida (CZ) dal 2007.
    Se nella sua prima consiliatura comunale è stata vice sindaca e assessora, sia nel 2012 che nel 2017 Valeria Fedele puntava invece a diventare sindaca con una lista civica. Ma è arrivata sempre terza.

    Tornando ai primi anni in politica, è stata coordinatrice cittadina, componente della direzione regionale e responsabile nazionale della segreteria femminile del movimento “Italiani nel mondo” dell’ex senatore Sergio De Gregorio.
    Quest’ultimo, lo si ricorderà, è stato indagato per corruzione nell’ambito del procedimento sulla compravendita dei senatori da parte di Berlusconi che portò alla caduta del secondo Governo Prodi. Il Cavaliere se la cavò con la prescrizione, De Gregorio patteggiò una pena di 20 mesi nel 2013. «Tra il 2006 e il 2008 Berlusconi mi pagò quasi 3 milioni di euro per passare con Forza Italia» affermò.

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    Berlusconi e De Gregorio

    La società dei D’Addosio

    Il braccio destro storico del senatore in questione, nonché coordinatore organizzativo nazionale e componente dell’ufficio di presidenza del movimento “Italiani nel mondo”, era Gennaro D’Addosio. È un ex politico locale socialista in quel di Napoli e, soprattutto, il compagno di Valeria Fedele. D’Addosio è il proprietario della Energy Max Plus srl, società di famiglia nata nel 2007. L’azienda ha sede in Campania e in Calabria (dove ha molte commesse pubbliche), si occupa di impianti tecnologici e di produzione di energia alternativa.

    Tra i proprietari di quote societarie figura il figlio di Gennaro, Gianluca D’Addosio. Quest’ultimo, già giornalista dell’Avanti!, nel 2008 finì in arresto nell’ambito dell’inchiesta “Sim ‘e Napule’” coordinata dal pm della Dda di Napoli Catello Maresca.
    Il magistrato, alle amministrative partenopee dell’anno scorso, fu il candidato del centrodestra alla carica di sindaco, sostenuto dalla ministra per il Sud Mara Carfagna.

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    La ministra Mara Carfagna

    Un’altra proprietaria delle quote della Energy Max Plus è Concetta D’Addosio, detta Conny. Nella tornata elettorale appena citata si candidò contro Maresca nella lista civica “BassolinoXNapoli” ottenendo 90 preferenze. Alle Amministrative 2016 ci aveva già provato, invece, con Forza Italia a sostegno di Gianni Lettieri (con capolista Mara Carfagna) ottenendo 962 voti personali. La D’Addosio era andata a lezione di cambi di casacca da un’autorità indiscussa della materia: nel 2011 era candidata come riempilista alle Comunali di Crotone a sostegno della trasformista per antonomasia Dorina Bianchi.

    Valeria Fedele, Tallini e i subappalti

    In questo asset societario (che comprende anche un altro parente, Leandro D’Addosio) si è inserita anche Valeria Fedele. Nel suo curriculum dichiara, infatti, di aver svolto il ruolo di direttore generale di Energy Max Plus s.r.l. dal dicembre 2015 al gennaio 2019. L’organigramma aziendale pubblicato nel blog personale di Gennaro D’Addosio, tuttavia, non prevede quella figura professionale, ma solo quella di direttore allo sviluppo e direttore tecnico.
    Dal febbraio 2019, comunque, la Fedele è divenuta direttore generale della Provincia di Catanzaro. La società della famiglia del compagno, intanto, ha continuato a vincere gare d’appalto nello stesso territorio, come quella sul servizio di manutenzione del verde dell’Asp di Catanzaro nel 2020 (per 80mila euro).

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    Domenico Tallini (Forza Italia)

    In una interrogazione del 19 novembre 2019 (la numero 521), l’allora consigliere regionale Domenico Tallini (legato politicamente alla Fedele) chiese conto alla Giunta regionale in merito al mancato pagamento di talune ditte subappaltatrici di Manitalidea spa, destinataria di una commessa dalla Regione Calabria. Manco a dirlo, una delle ditte subappaltatrici era la Energy Max Plus del compagno di Valeria Fedele.
    Conflitto di interesse? Se davvero tale, permarrebbe ancora oggi: la società risulta nell’elenco delle ditte registrate presso la Regione Calabria per manutenzione e installazione di impianti termici.

    Le dichiarazioni shock del killer Pulice

    Non solo questioni aziendali. A turbare la Fedele c’è anche un verbale di interrogatorio datato 7 ottobre 2017, acquisito su consenso delle parti, incluso il Pm De Bernardo, all’udienza dibattimentale del processo “Imponimento” dello scorso 17 dicembre. Un documento che potrebbe far non poco scalpore.
    A rendere dichiarazioni davanti ai pm Vincenzo Luberto ed Elio Romano in quel verbale c’è il killer ‘ndranghetista (considerato esponente apicale delle cosche confederate “Iannazzo e Cannizzaro-Daponte”), oggi pentito e collaboratore di giustizia, Gennaro Pulice di Lamezia Terme.

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    Il pentito Gennaro Pulice

    «Conosco Fedele Filadelfio anche perché sono stato fidanzato con la di lui figlia che si chiama Valeria dal ’92 al 2000. È un imprenditore originario di San Pietro Lametino, a Lamezia si occupa di uno scasso e gestisce il porticciolo turistico di Gizzeria. È vicino a tutte le famiglie lametine in quanto è stato sempre dedito alle truffe alle assicurazioni e non ha mai fatto mancare il proprio apporto agli ‘ndranghetisti. Praticava le truffe per il tramite dei suoi legami con periti e con i medici» dichiara a verbale Pulice.

    L’amore uccide

    Una storia adolescenziale, quella (secondo le dichiarazioni rese) con l’attuale consigliera regionale di Forza Italia, di poco conto se non fosse che già in tenera età Pulice divenne un assassino. Proprio negli anni da lui indicati come quelli del fidanzamento con la futura politica azzurra, uccise da minorenne in sequenza Salvatore Belfiore nel 1995 (nel giorno in cui ricorreva la data di omicidio del padre, su sollecitazione del nonno), Antonio Dattilo e Gennaro Ventura nel 1996.

    Un amore sgradito in famiglia secondo il pentito. Che a verbale dichiara: «Dopo aver interrotto il fidanzamento, Nino Torcasio mi disse che Fedele aveva, addirittura, cercato di assoldare un killer tra i Torcasio in quanto non sopportava che io fossi fidanzato con la figlia. Fedele aveva chiesto il killer proprio a Nino Torcasio. So che Fedele era legato anche agli Anello per come riferitomi dai fratelli Fruci e dallo stesso Fedele Filadelfio».
    Circostanze e rivelazioni tutte da riscontrare, ma che sono messe nero su bianco e acquisite nel processo in corso.

    L’incontro tra Fedele e Anello

    Il padre della consigliera regionale, Filadelfio Fedele, detto “Delfino”, in passato è stato assolto in vari procedimenti a suo carico. Assolto nel 2015 nel processo Fedilbarc per la vicenda inerente il porticciolo di Gizzeria Lido; assolto nel processo “Medusa” in abbreviato, con le accuse di aver favorito la cosca Giampà dal 2005 al 2012 respinte con formula piena.

    Seppur non indagato, il suo nome compare in altre carte di “Imponimento” in riferimento alle elezioni comunali a Maida del giugno del 2017. Nei documenti si legge che Filadelfio Fedele, detto “Delfino”, padre di Valeria, era pronto ad intercedere per la figlia, allora candidata sindaca, chiedendo aiuto a Rocco Anello, considerato dagli inquirenti (e dal Tribunale di Vibo Valentia) il boss della cosca Anello-Fruci. Il tutto, compreso l’incontro col presunto boss condannato a 20 anni lo scorso gennaio con rito abbreviato, ha a corredo intercettazioni telefoniche ed ambientali della Dda di Catanzaro, in particolare un dialogo tra Anello e Fedele del 24 marzo 2017.

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    Il municipio di Maida

    In quella tornata elettorale Valeria Fedele arrivò ultima tra i candidati sindaci, divenendo consigliera comunale. Lo si ripete, né Fedele padre né la figlia risultano indagati. Ma il faro della Procura sull’intermediazione “politica” del presunto boss Anello in quella tornata amministrativa si evince dalle carte prodotte nel processo Imponimento.
    Difatti, nel capo di imputazione di Giovanni Anello, ex assessore comunale di Polia ritenuto factotum del presunto boss, si legge: “Contribuiva a formare la strategia del sodalizio in ambito politico, come quando promuoveva il sostegno della cosca alle elezioni comunali di Maida del 2017 dei candidati al Consiglio comunale Francesco Giardino cl. 87 (al Consiglio comunale) e Valeria Fedele (candidata alla carica di sindaco)”.
    La vita da politica regionale di Valeria Fedele pare ancora dover decollare. Ma – tra situazioni scomode, conflitti di interesse e atti di processi di mafia – inizia con dei macigni di cui farebbe volentieri a meno.

  • Amalia Bruni e il giudice, le affinità “elettive”

    Amalia Bruni e il giudice, le affinità “elettive”

    «Questo popolo di santi, di poeti, di navigatori, di nipoti e di cognati…» scriveva Ennio Flaiano degli italiani e la frase sembra ancora calzare a pennello, decenni dopo, per una vicenda che riguarda Amalia Bruni. La giudice Francesca Garofalo, presidente di sezione civile al Tribunale di Catanzaro, è stata anche la presidente del collegio giudicante del ricorso di Annunziato Nastasi (M5S) sulla presunta ineleggibilità della Bruni, rigettato con una ordinanza dello scorso 14 febbraio, depositata dieci giorni dopo. Amalia Bruni è rimasta in Consiglio regionale, il pentastellato ha dovuto pagare circa 3.250 euro di spese legali.

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    Commensali abituali

    Le motivazioni dietro quest’esito sono materia per giuristi. Qualche perplessità sulla composizione del collegio potrebbe non essere peregrina, però. Perché, anche di fronte a decisioni pienamente legittime, esistono questioni di opportunità. I magistrati, infatti, devono astenersi dai processi in determinati casi, tra cui quello in cui il giudice o il coniuge sia “commensale abituale” di una delle parti di causa. Ossia quando il magistrato abbia con la parte una frequenza di contatti e di rapporti tale da far dubitare della sua serenità di giudizio.

    La giudice Garofalo è di Lamezia Terme. Suo marito Fabrizio Muraca era nella lista “Oliverio Presidente” alle elezioni regionali del 2014 e ottenne 2.313 voti. Un anno dopo ci riprovò alle Comunali di Lamezia Terme nella lista del Pd, racimolando 363 preferenze personali. Il “suo” candidato sindaco era il dottor Tommaso Sonni, marito di Amalia Bruni.

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    Il santino di Fabrizio Muraca, marito della giudice Garofalo, candidato a sostegno del marito di Amalia Bruni

    Una lunga sfilza di cognati

    Fratello di Fabrizio Muraca e, quindi, cognato della Garofalo è Pierpaolo Muraca. Nel 2010 nella lista del Pd a sostegno di Gianni Speranza ha raccolto un bottino di 390 preferenze personali. Nella medesima lista era diventata consigliera comunale con 315 voti Aquila Villella, cognata di Amalia Bruni (ha sposato il fratello, Mimmo Bruni) e candidata alle ultime Regionali in suo sostegno sempre nella lista del Pd. Pierpaolo Muraca in quella stessa consiliatura divenne assessore comunale all’Ambiente.

    Fabrizio e Pierpaolo hanno una sorella, Maria Gabriella. Genealogista, rientra nel personale dell’associazione per la ricerca neurogenetica che ha Sonni come tesoriere e sua moglie Amalia Bruni nel comitato scientifico. Il marito di Maria Gabriella Muraca, quindi cognato anch’egli della giudice Francesca Garofalo, è il dottor Raffaele Maletta. Quest’ultimo fa parte dell’equipe di medici del Centro regionale di Neurogenetica diretto da Amalia Bruni.

    Meglio astenersi su Amalia Bruni?

    Con tutti questi incroci (e cognati) di mezzo, insomma, e in una città che per popolazione non compete certo con New York è difficile non pensare che l’ex sfidante di Roberto Occhiuto e Francesca Garofalo possano corrispondere all’identikit di commensali abituali o che ragioni di convenienza avrebbero potuto spingere il magistrato ad astenersi dal giudizio in questione. Ma anche i potenziali conflitti d’interessi in Calabria sono abituali e nessuno ha dato loro peso.

  • Stampa e Calabria: la libertà va difesa ogni giorno

    Stampa e Calabria: la libertà va difesa ogni giorno

    Si sono aggiunti tanti sostenitori alla denuncia contro l’attacco alla stampa libera che ieri I Calabresi e numerose altre testate della nostra regione hanno pubblicato. Ma non può bastare. Le adesioni delle associazioni di categoria e di numerosi politici al nostro appello contro l’abuso di querele temerarie non erano scontate come potrebbe sembrare. Neanche quelle dei lettori comuni, in un mondo che dei giornali ha un’opinione sempre più in declino. Fanno piacere, spingono ad andare avanti con ancora più impegno, ma non cancellano il retrogusto amaro del silenzio prolungato su un tema così importante che opprime la Calabria.

    Già, la Calabria, non solo i giornalisti. Perché la posta in gioco non è la tranquillità soggettiva del giornalista sotto la perenne spada di Damocle delle querele temerarie. Quella si può ottenere senza troppi problemi, volendo. Basta non scrivere cose scomode, annacquarle fino a renderle irrilevanti agli occhi del lettore. Qualcuno lo ha già fatto o ha preferito cambiare mestiere. Tanti altri, in tutti i giornali calabresi, continuano a rifiutarsi. Perché? Perché un’informazione irrilevante, prona agli interessi di poteri più o meno occulti, poco diffusa sarebbe il colpo di grazia per la Calabria. Per la sua società civile. Per la voglia dei suoi abitanti di essere parte attiva e pensante di una crescita improcrastinabile che passi dal raddrizzare le tante storture e valorizzare l’immenso patrimonio, umano e non, di questa terra.

    Ed è un problema enorme per tutti quando a vacillare è un diritto costituzionale come la libertà di stampa. Anche di quelli per cui la stampa libera è buona solo quando parla bene di loro o di chi e cosa gli piace, paladini pronti a trasformarsi in persecutori al primo articolo sgradito. Sgradito, si badi, non diffamatorio. Chiunque – i giornalisti sono i primi a saperlo e assumersene le responsabilità – può chiedere giustizia per un articolo sul suo conto se ritiene lo abbia offeso. Ma spetta ai magistrati valutare la fondatezza, la proporzione di certe richieste e lamentele. Se esse siano degne di sfociare in un processo o meno. Se, peggio, risultino invece malcelati tentativi di intimidazione. Spesso certi aspetti, niente affatto marginali, non godono della necessaria attenzione da parte della magistratura.

    È necessario dirlo, qui a sbagliare possono essere in tanti: i giornalisti quando non lavorano come dovrebbero; gli editori quando non tutelano i loro dipendenti; i politici, le associazioni e gli imprenditori quando difendono la libertà di stampa a seconda del momento; i magistrati quando costringono per leggerezza qualcuno a difendersi solo per aver fatto correttamente il proprio lavoro. A perderci, però, sono ancora di più: tutti i cittadini, privati di un fondamento della democrazia come l’informazione libera.
    E una situazione simile, diffusa in tutto il Paese, in Calabria crea ancora più danni. Non possiamo permettere che diventino irreversibili.

  • Dai riti voodoo alla tratta delle donne: la mafia nigeriana è sbarcata a Reggio

    Dai riti voodoo alla tratta delle donne: la mafia nigeriana è sbarcata a Reggio

    L’inizio dell’incubo ha una data certa: siamo nel 2014. Proprio in quell’anno una giovane ragazza nigeriana sarebbe arrivata in Italia, a Reggio Calabria, per la precisione. La promessa è quella di farla lavorare in un bar. Qualcosa di paradisiaco se raffrontato alla fame e alla miseria che si vive in Africa. Ma, se possibile, quella giovane nel nostro Paese vivrà atrocità pari a quelle patite in Africa.

    L’arrivo a Reggio Calabria e l’inizio dell’incubo

    Lo chiamano “Fred” o “Friday”. Il suo nome reale è Favour Obazelu. Sarebbe lui il suo principale aguzzino. È un 43enne, considerato un elemento di spicco della mafia nigeriana. Fred/Friday l’avrebbe costretta a prostituirsi per ripagare il debito di averla “salvata” dalla povertà della Nigeria. Ma non solo.  L’avrebbe sequestrata in un appartamento a Bari, l’avrebbe violentata e messa incinta, cacciandola poi di casa, trattenendo però i documenti della giovane e del figlio nato dallo stupro.

    La giovane, quindi, sarebbe arrivata nel 2014 a Reggio Calabria, per essere trasportata poi a Bari. Con la promessa di quel lavoro in un bar. Ma nel capoluogo pugliese non vi sarebbe stato nessun bar ad aspettarla. Anzi, l’avviamento alla prostituzione, insieme ad altre due giovani. Anche loro dovevano “ripagare il debito” per l’arrivo in Italia dalla Nigeria.

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    Il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri

    L’indagine

    Il presunto boss della mafia nigeriana è stato arrestato dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria, con l’accusa di riduzione in schiavitù, tratta di esseri umani, sequestro e violenza sessuale. Le indagini sono condotte dal procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, e dal pm antimafia Sara Amerio.

    Questo perché Favour Obazelu è considerato uno dei boss della mafia nigeriana presente sul territorio italiano.  Assieme al fratello, Eghosa Osasumwen detto “Felix” di 32 anni, e ad altri soggetti che si trovano in Libia e in Nigeria, Obazelu avrebbe reclutato in patria ragazze da condurre con l’inganno in Italia. Nell’inchiesta sono indagati altri tre nigeriani, due donne di 30 e 22 anni, e un uomo di 25.

    Il rito voodoo

    Inquietanti i dettagli raccontati da una delle vittime. Le donne, infatti, non solo erano costrette a prostituirsi. Ma, nei periodi in cui non lavoravano, venivano tenute segregate, talvolta legate materialmente. Ma, soprattutto, mentalmente incatenate tramite un rito voodoo che le avrebbe tenute in uno stato di completa prostrazione.

    Stando al racconto di una delle vittime, in quel periodo appena 21enne, la giovane sarebbe stata sottoposta ad un rito di magia nera per vincolarla al rispetto dell’impegno di pagare la somma di 25mila euro. Questo il debito calcolato da Fred/Friday e dai suoi fratelli per l’arrivo in Italia.

    Sempre la vittima, che ha trovato il coraggio di denunciare, sarebbe stata sottoposta a una vera e propria cerimonia tribale: in quell’occasione lei e la sua famiglia sarebbero state minacciate di morte nel caso in cui avessero infranto il giuramento.

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    L’ingresso della Questura di Reggio Calabria

    La mafia nigeriana in Italia

    E’ un allarme che risuona da tempo quello della presenza della mafia nigeriana nel nostro Paese: «La criminalità nigeriana è dedita prevalentemente al traffico di esseri umani, allo sfruttamento della prostituzione e al narcotraffico ed è risultata anche in osmosi con organizzazioni criminali albanesi» –  è scritto nell’ultima relazione semestrale redatta dalla Direzione Investigativa Antimafia.

    Una vera e propria mafia. Così come è stata riconosciuta da recenti sentenze italiane, che ne hanno sottolineato i caratteri di mafiosità: «…Si manifesta non solo internamente attraverso l’adozione di uno stretto regime di controllo degli associati ma, anche, esternamente attraverso un’opera di controllo del territorio e di intimidazione nei confronti di terzi appartenenti alla comunità nigeriana ovvero appartenenti a gruppi malavitosi contrapposti, i cui intenti criminali devono essere stroncati così da evitare ogni forma di concorrenza delinquenziale…» – si legge in una di esse.

    Un’organizzazione caratterizzata da una grande ritualità, che mischia elementi della tradizione ancestrale con la necessità di fidelizzare gli affiliati. Tra le più importanti investigazioni che di recente hanno confermato la forza e la pericolosità dei sodalizi nigeriani si rammentano le operazioni “Maphite – Bibbia verde” e “Burning Flame”, coordinate rispettivamente dalle DDA di Torino e Bologna.

    La “Supreme Vikings Confraternity”

    Favour Obazelu, quindi, è considerato un elemento di spicco della mafia nigeriana. Dal 2019, infatti, è detenuto nel carcere di Agrigento perché coinvolto nell’inchiesta “Drill”, coordinata dalla Procura di Bari che lo accusa di far parte di un’associazione a delinquere di stampo mafioso denominata Cults. Fred/Friday è considerato il capo della “Supreme Vikings Confraternity”, una sorta di cosca conosciuta anche come “i rossi”.

    Le caratteristiche di queste realtà criminali sono: l’organizzazione gerarchica, la struttura paramilitare, i riti di affiliazione, i codici di comportamento e in generale un modus agendi tale che la Corte di Cassazione si è più volte espressa riconoscendone la tipica connotazione di “mafiosità”.

    Ancora dalla relazione della DIA: «Si tratta di elementi tipici che costituiscono il modello operativo dell’associazionismo criminale nigeriano a connotazione mafiosa che contempla interessi per i reati di riciclaggio e di illecita intermediazione finanziaria verso la Nigeria, tratta di donne da avviare alla prostituzione, cessione di stupefacenti, reati violenti nei confronti di aderenti ad altri cults o punitivi nei confronti di connazionali. Le investigazioni hanno infatti permesso di documentare le violente punizioni corporali nei confronti di affiliati non rispettosi delle regole e il ricorso all’esercizio di violenza fisica anche nella risoluzione dei conflitti interni per costringere terzi ad affiliarsi anche contro la loro volontà oppure per opporsi e scontrarsi con cult rivali».

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    Gli uomini della Squadra mobile di Reggio hanno arrestato il presunto boss della mafia nigeriana Favour Obazelu

    La mafia nigeriana a Reggio Calabria

    La mafia nigeriana è un’organizzazione in grande crescita sul territorio italiano. Fin qui l’avevamo vista radicata in altre città. Roma, soprattutto, dove è capace di dialogare con altri cartelli. Diverse indagini, peraltro, ne hanno mostrato l’operatività in Emilia Romagna e altre regioni. Ma anche la Campania, dove, da tempo, il clan camorristico dei Bidognetti dialoga con quelle cellule. E poi in Sicilia. Ancora dalla relazione della DIA: «Si conferma infine la costante vitalità e una progressiva affermazione della criminalità di matrice nigeriana che starebbe acquisendo uno spazio operativo progressivamente sempre più ampio. Si tratta di gruppi criminali che, forti dei legami con le analoghe consorterie che agiscono a Catania e Palermo risultano attivi soprattutto nel capoluogo nell’ambito dei consueti settori degli stupefacenti e dello sfruttamento della prostituzione».

    Quello che, invece, risulta un dato nuovo è la presenza in riva allo Stretto. Per la Dda, infatti, l’organizzazione criminale di cui faceva parte Favour Obazelu sarebbe operativa tra la Nigeria e l’Italia. E in particolare a Reggio Calabria, Bari e in altri centri pugliesi.

  • L’attacco alla libera stampa in Calabria

    L’attacco alla libera stampa in Calabria

    È inutile girarci attorno: in Calabria c’è una strana idea della stampa libera. Viene applaudita quando tocca “nemici”, secondo una classificazione tanto personale quanto sfuggente. Quando, invece, racconta interessi personali o di cordata diventa un nemico da combattere o, meglio ancora, da abbattere. Gli strumenti a disposizione non mancano: diffide, che preludono ad atti di mediazione, che aprono le porte a richieste di risarcimento che sfociano in querele, spesso temerarie.

    Gli esempi sono decine: agli imprenditori che, ritenendosi diffamati da un articolo di cronaca, arrivano a chiedere cifre a sei zeri si aggiungono quelli per i quali la richiesta di risarcimento diventa imponderabile. Politici feriti nell’orgoglio da una frase chiedono la cancellazione di un pezzo il giorno dopo la sua pubblicazione, pena una causa (milionaria anche quella?) che costringerà giornalista, direttore ed editore a girovagare per le aule dei tribunali, forse per anni. L’elenco sarebbe lunghissimo.

    Chiariamo: non si mette in dubbio il diritto di rivolgersi a un giudice qualora ci si ritenga diffamati. Il punto è che il campionario che ogni redazione può esibire mostra richieste tanto bizzarre da far sorgere il dubbio che la vera questione sia un’altra, e cioè cercare di mettere il bavaglio alla stampa. Ci si muove nel terreno che segna la distanza tra la lesione della propria onorabilità e il tentativo di intimidire cronisti, editorialisti, testate. La sensazione è che spesso si tenda a raggiungere il secondo obiettivo. Non ci stracceremo le vesti per questo, continueremo tutti a fare il nostro lavoro. A raccontare fatti, riportare opinioni, evidenziare le incongruenze di una regione in cui il grigio si allarga sempre più. E ci difenderemo dalle richieste di risarcimento e dalle querele temerarie.

    Ciò che non possiamo più fare è restare in silenzio davanti a metodi e numeri che fanno pensare a un attacco vero e proprio alle prerogative della libera stampa. È tempo di rispondere a questa aggressione. Come? Per dirla con le parole del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, «dobbiamo garantire i giornalisti dalle azioni temerarie. I giornalisti sono chiamati in tante cause civili con risarcimenti dei danni stratosferici. E il giornalista così non può svolgere serenamente il proprio lavoro».

    Il magistrato, già a capo della Dda di Reggio, conosce bene la realtà calabrese. Nel suo intervento alla tavola rotonda internazionale organizzata a Siracusa dall’associazione Ossigeno per l’informazione ha proposto una soluzione: «Quali possono essere i modelli di garanzia? Quando viene chiesto il risarcimento se la querela è temeraria, il soggetto che ha citato in giudizio il giornalista se ha torto dovrebbe essere condannato al doppio del risarcimento del danno richiesto». Perché «l’informazione oggi è il cardine della democrazia». E non un accessorio da esibire a seconda della (propria) convenienza.

    Le redazioni di:

    • I Calabresi
    • Corriere della Calabria
    • Il Quotidiano del Sud
    • Zoom 24
    • La Nuova Calabria
    • Catanzaroinforma
    • Calabria7
    • Il Crotonese
    • Arcangelo Badolati – giornalista e scrittore
    • Giuseppe Soluri, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Calabria
    • Andrea Musmeci, segretario del sindacato Giornalisti della Calabria
    • Michele Albanese, presidente dell’Unci Calabria
  • Vittime di mafia, pochi risarcimenti per i calabresi

    Vittime di mafia, pochi risarcimenti per i calabresi

    In Calabria non si chiedono tutti i soldi che spetterebbero dallo Stato, quando c’è di mezzo la ‘ndrangheta. L’ennesimo effetto collaterale per chi vive quotidianamente “vicino” a boss e picciotti. Ogni anno, infatti, sono poche le richieste di accesso al Fondo di rotazione del Viminale da parte di vittime dei reati di tipo mafioso in Calabria, rispetto alle regioni dove è più presente la criminalità organizzata. È lo stesso commissario nazionale Marcello Cardona (ora sostituito da Felice Colombrino), che ha coordinato l’ente fino al 31 dicembre scorso, a sottolineare l’anomalia calabrese nel report annuale.

    Il Fondo ministeriale

    La struttura commissariale esamina e delibera l’accesso al relativo fondo. Poi riferisce, tutti gli anni, sull’attività svolta sia al presidente del Consiglio dei ministri sia al titolare del dicastero all’Interno. E anche in altre relazioni precedenti era presente questa evidente discrasia. Il Fondo ministeriale, nato nel 1999 per le vittime di mafia, estorsione e usura, dal 2011 ha riunito anche altri fondi. Sono divenute 4 le aree di competenza: mafie, reati intenzionali violenti, orfani di crimini domestici e violenza di genere. I comitati sono separati, ma la struttura commissariale che delibera è una. Ed è di nomina governativa.

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    Le domande di accesso al Fondo suddivise per regioni e relative al 2021

    Le richieste del 2021, regione per regione

    Dal 1° gennaio al 30 novembre 2021 il Fondo ha ricevuto 575 istanze di accesso, presentate dalle vittime dei reati di tipo mafioso. È un incremento del 40% rispetto all’anno precedente (410). In particolare, le istanze sono distribuite così su base territoriale: 351 arrivano dalla Sicilia (il 61%) con un incremento del 47% rispetto all’anno precedente; 135 dalla Campania (il 23%), con un incremento nel raffronto con il 2020 del 16%; 26 dalla Calabria (il 4,5%) esattamente il doppio di quelle dell’anno precedente (13 istanze); 31 dal Lazio (il 5%) 6 in più rispetto al precedente anno; 16 dalla Puglia (poco più del 2,5%) il doppio di quelle presentate nel 2020. Per le altre Regioni sono state presentate istanze: 6 dalla Basilicata, 3 dal Veneto. 2 dalla Liguria, 2 dalla Toscana e 2 dal Piemonte e 1 dal Trentino Alto Adige.

    Le delibere di pagamento del 2021

    Nel 2021 si sono tenute 19 sedute del Comitato nelle quali sono state trattate 697 posizioni. Sono state adottate 404 delibere di cui: 188 di rigetto di accesso al Fondo di rotazione, 207 di accoglimento dell’accesso al Fondo, per un importo complessivo di 8.804.980,38 di euro, 8 di rettifica, archiviazione o inammissibilità, e 1 di indirizzo per le attività del Comitato. Il Comitato ha disposto anche 221 ulteriori approfondimenti istruttori. Le restanti 72 richieste non sono state ancora deliberate. La media, quindi, dei risarcimenti alle vittime delle mafie da parte del Fondo nel 2021 è stata di circa 42mila euro per singola richiesta deliberata.

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    Gli importi delle delibere di pagamento del Fondo dal 2016 al 2021

    L’anomalia calabrese delle vittime di mafia 

    Immediatamente dopo i numeri, nella relazione commissariale riferita al 2021, come per altri anni precedenti, lo stesso commissario sottolinea il dato calabrese. Il report, subito dopo le tabelle numeriche, contiene una spiegazione.

    «Il  numero delle richieste di accesso al Fondo pervenute dalla regione Calabria, sebbene in significativo aumento negli ultimi due anni, resta comunque molto modesto rispetto alla pervasiva presenza delle organizzazioni mafiose in quel territorio e alle stesse evidenze processuali penali». Nella relazione commissariale si ipotizza che «tale fenomeno sia dovuto al minor grado di consapevolezza ed informazione sulle opportunità offerte dalla legge rispetto a quello dei residenti nelle regioni Sicilia e Campania e all’azione di contrasto al fenomeno mafioso che ha portato a risultati imponenti in epoche più recenti rispetto alle due citate regioni».

    Nello stesso documento si legge ancora: «L’azione di contrasto al fenomeno mafioso che, negli ultimi decenni, si è esteso alle regioni del centro e del nord Italia, solo da epoca relativamente recente ha fornito evidenze giudiziarie. Negli anni a venire è, pertanto, legittimo attendersi, in queste regioni, la conferma di un trend in costante aumento delle richieste di risarcimento del danno e, conseguentemente, di accesso al Fondo».

    Le ipotesi della struttura commissariale

    Il commissario, dunque, formula alcune ipotesi, che sono identiche anche in alcuni anni precedenti, per cercare di spiegare perché le richieste campane e siciliane di risarcimento siano rispettivamente fino a 7 volte e 18 volte superiori a quelle calabresi (un trend fondamentalmente stabile negli ultimi anni), e cioè che possa esserci in Calabria o poca conoscenza della legge che ha istituito il Fondo di risarcimento per le vittime di mafia o che “il grosso” dei processi non sia ancora arrivato a sentenza definitiva o ancora che i giudici non abbiano concesso provvisionali per le parti civili nei primi due gradi di giudizio.

    Ma le legittime e autorevoli ipotesi commissariali potrebbero non essere sufficienti per comprendere tutti i perché di questa anomalia. Atteso che sono somme alte che farebbero comunque comodo a chi ha subito violenza dai clan di ‘ndrangheta.

    Condanne e richieste di risarcimento

    I numeri dei condannati detenuti al 31 dicembre scorso, e i numeri dei condannati detenuti totali per regione di nascita, del ministero della Giustizia, ci offrono un primo ulteriore spunto di riflessione verso un quadro più completo della situazione. E ci dicono qualcosa pure in merito al perché le richieste di risarcimento in Calabria siano così esigue rispetto alla reale situazione, legata ai reati commessi dalla ‘ndrangheta in loco e ai relativi processi. E, quindi, alle vittime.

    L’andamento di questi numeri non è in linea con l’esiguità delle richieste di risarcimento in Calabria da parte di vittime della mafia. I dati ministeriali, infatti, parlano di condannati e detenuti in Sicilia e Campania 3 o 4 volte superiori a quelli calabresi. Anche e soprattutto per un maggior numero di cittadini.

    Si tratta di un rapporto che si mantiene più o meno costante negli anni anche nelle diverse fasce di condanna. Sembra seguire più che altro criteri demografici, ma molto lontani dalle percentuali di richieste di risarcimento di vittime delle mafie che arrivano quasi a 20 volte, nelle altre due regioni a maggior rischio, rispetto a quelle presentate in Calabria. Il numero di sentenze, condannati e detenuti nei vari processi, quindi, non spiega da sola l’anomalia, se non appunto in piccola parte.

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    Uomini della Direzione investigativa antimafia in azione

    Incesurati, estranei e apertamente contro i clan

    Guardando, invece, i requisiti per accedere al Fondo ministeriale, l’iter e i motivi ostativi, si possono trovare dati molto più interessanti e significativi per provare a comprendere meglio e appieno quella che ormai appare chiaramente come un’anomalia calabrese, da anni ormai.

    Innanzitutto per accedere al Fondo bisogna essere incensurati, e poi si deve essere totalmente estranei ad ambienti criminali e delinquenziali e su informativa delle forze dell’ordine, come per le interdittive antimafia, e quindi sulla base di comportamenti che prescindono da sentenze, processi, assoluzioni e condanne. Ma soprattutto il terzo requisito appare, forse, come quello più vicino alla realtà per spiegare l’anomalia calabrese. Bisogna costituirsi parte civile nel processo penale e ricevere quindi una sentenza a proprio favore, anche non definitiva ma con relativa provvisionale rispetto ai danni subiti, per accedere al Fondo.

    Per accedere al Fondo è necessario costituirsi parte civile

    Questo significa schierarsi “apertamente” contro i clan e se per gli enti, le grosse società e le associazioni può sembrare più o meno semplice, per le persone fisiche e per i cittadini in Calabria potrebbe essere un ostacolo o comunque un deterrente di non poco conto.  Se si pensa alla particolare struttura di tipo familistico della ‘ndrangheta, ai circa 120 Comuni sciolti per mafia solo dal 1999 al 2019, si può ipotizzare che al di là di comportamenti omertosi, la stanchezza, la preoccupazione e la paura possano incidere più di altri fattori nell’anomalia calabrese delle poche richieste di accesso al Fondo governativo per le vittime della mafia.

     

  • «No agli abusi», la protesta del liceo di Castrolibero si prende Cosenza

    «No agli abusi», la protesta del liceo di Castrolibero si prende Cosenza

    Dalla scuola occupata al corteo per le strade di Cosenza. Gridando «no agli abusi» ma pure «no alla scuola dei padroni». Sono i due motivi che hanno animato la manifestazione di stamane nella città dei bruzi. Da piazza Loreto fino al provveditorato agli studi. Fumogeni e bandiere del Che hanno accompagnato la protesta. Un grande classico che resiste pure nell’epoca di Tik Tok.

    Le presunte molestie e la scuola occupata

    Il Me too calabrese ha la voce degli studenti dell’istituto d’istruzione superiore Valentini-MaJorana di Castrolibero, in provincia di Cosenza. I ragazzi hanno occupato la scuola dal 3 febbraio scorso, ma da lunedì torneranno in classe. Protestano contro la mancata presa di posizione della dirigente scolastica, Iolanda Maletta, nei confronti di un professore di matematica e fisica che – sostengono i liceali – si sarebbe reso responsabile di presunte molestie sessuali. Sul punto ha aperto un’inchiesta la Procura della Repubblica di Cosenza. Il docente risulterebbe iscritto nel registro degli indagati.

    Le chat e le e-mail 

    Il caso è rimbalzato sui media nazionali, occupando una spazio importante nei programmi in prima serata. E proprio Le Iene, popolarissima trasmissione di Mediaset, ha mostrato in un servizio alcuni messaggi segnatamente ambigui («ciao polpettina») del professore e il testo della mail inviata dai genitori degli alunni alla dirigente scolastica.

    I prof che solidarizzano con la protesta

    Sei professori dell’istituto di istruzione superiore Valentini-Majorana di Castrolibero hanno manifestato vicinanza e sostegno alla protesta degli studenti. Scrivendo una lettera, dove si legge: «Ciò che è successo ci ha posto di fronte ad una dura realtà e siete stati voi a sbattercela in faccia». Tra i banchi della scuola di Castrolibero sono arrivati giorni fa anche gli ispettori inviati dal Ministero dell’Istruzione dopo l’esplosione del caso di presunte molestie denunciato dai ragazzi.

    La politica sollecita l’intervento del ministro Bianchi

    Le deputate del Partito democratico hanno inviato un’interpellanza al ministro Patrizio Bianchi affinché si faccia subito chiarezza su quanto accaduto. Il presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra, ha incontrato personalmente a Castrolibero i ragazzi impegnati nell’occupazione. Mentre il deputato di Alternativa ed ex grillino, Francesco Sapia, ha presentato un’interrogazione parlamentare in cui si chiede l’immediato trasferimento della dirigente scolastica, Iolanda Maletta. Un provvedimento chiesto anche dagli studenti che hanno occupato il liceo Valentini-Majorana e da molti fra i loro genitori. Per ora la dirigente scolastica è in malattia.

  • Poteri contro: Gullo, Pilotti e il caso che mise fine all’indipendenza della giustizia

    Poteri contro: Gullo, Pilotti e il caso che mise fine all’indipendenza della giustizia

    Fausto Gullo, a buon diritto annoverato tra i compianti “politici-di-una-volta”, nel 1944 era tra i sostenitori della svolta di Salerno. Aveva aderito alla linea del suo leader, Palmiro Togliatti, ed era poi entrato nel secondo governo Badoglio come ministro dell’Agricoltura, carica mantenuta anche nei successivi. Con il De Gasperi II, cioè il primo governo repubblicano, il comunista Gullo è invece passato al Ministero di Grazia e Giustizia. La Dc aveva spinto affinché lasciasse il posto ad Antonio Segni, futuro capo dello Stato su cui, in quel frangente, i conservatori puntavano per frenare l’approccio che il cosentino (ma nato a Catanzaro) passato alla storia come “il ministro dei contadini” aveva impresso al settore agrario.

    Sergio Rizzo e lo scontro tra Gullo e Pilotti

    Tra l’esordio di Gullo nel governo di unità nazionale e la sua nomina a Guardasigilli sono passati appena due anni. Ma, si sa, a precedere l’alba della Repubblica era stata una notte lunga e tempestosa. Che aveva reso quei tempi forieri di straordinarie mutazioni istituzionali e politiche. È in questa fase che un interessante libro appena uscito colloca una vicenda cruciale nella storia della magistratura italiana: il caso Pilotti, assurto a simbolo dell’eterno dibattito sull’indipendenza del potere giudiziario da quello politico.

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    Il giornalista Sergio Rizzo

    Il libro si chiama Potere assoluto – I cento magistrati che comandano in Italia (Solferino) ed è l’ultima fatica di Sergio Rizzo, già firma del Corriere della Sera, oggi vicedirettore di Repubblica e autore di bestseller come La casta, scritto con Gian Antonio Stella nel 2007. Il caso in questione, illuminante rispetto alle odierne questioni che (referendum e anniversari di Tangentopoli compresi) investono il sistema Giustizia, riguarda la carriera di Massimo Pilotti, uno che era già magistrato a 22 anni (nel 1901) e che nel 1933 ottiene la nomina a segretario generale aggiunto della Società delle Nazioni.

    Pilotti l’epuratore

    Un giurista di fama internazionale, insomma, che dopo l’invasione della Jugoslavia fu anche presidente della Corte suprema di Lubiana. E una volta rientrato in Italia diventa procuratore generale della Cassazione (1944). Il governo Bonomi lo mise pure a presiedere le commissioni di epurazione del ministero degli Esteri, del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e dell’Avvocatura dello Stato. Incarico, quest’ultimo, da cui si dimise dopo che la stampa lo accusò di aver tramato con i funzionari sottoposti a epurazione per ridimensionare le accuse a loro carico. Il governo Parri lo confermò, nonostante la contrarietà di Togliatti (all’epoca ministro della Giustizia), negli altri ruoli.

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    Ritratto di Massimo Pilotti (dal sito della Procura generale di Cassazione)

    Schiaffo alla Repubblica

    Il vero scandalo però viene fuori quando il Guardasigilli è Gullo. È in corso l’inaugurazione dell’anno giudiziario del 1947, sono trascorsi appena 6 mesi dal referendum del 2 giugno. In platea per l’occasione siede il primo presidente della neonata Repubblica, Enrico De Nicola. «Il procuratore generale della Cassazione – ricostruisce Rizzo – prende la parola, e nel discorso che apre l’anno giudiziario non gli rivolge il saluto istituzionale. Fatto che già sarebbe grave. Ma Pilotti ignora perfino la nascita della Repubblica». Gravissimo. Si dice che Pilotti sia monarchico, una sorta di Quinta colonna dei fedeli al re nella magistratura, che avrebbe anche spinto sul riconteggio dei voti – in quei giorni non mancano gli scontri di piazza – per mettersi di traverso rispetto alla proclamazione della Repubblica.

    Un Gullo diverso

    Il nuovo ministro ha bene in mente il giudizio sprezzante del suo predecessore nei confronti di Pilotti, che Togliatti definì l’uomo «di fiducia del Governo fascista al momento della conquista dell’Etiopia». Così lo sgarbo a De Nicola diventa un’occasione per fare le scarpe all’alto magistrato. Gullo è certamente un uomo diverso rispetto agli anni della clandestinità, quando da giovane politico-avvocato, nonché fondatore di giornali come Calabria proletaria e L’Operaio, veniva schedato, sorvegliato, arrestato e mandato al confino in Sardegna. Non è nemmeno più lo stesso a cui nel novembre del 1943, dopo la rivolta cosentina contro la permanenza in cariche istituzionali di persone coinvolte con il Fascismo, veniva preferito Pietro Mancini come prefetto.

    Soprattutto, Gullo non è più quello della svolta di Salerno, in nome della quale i partiti antifascisti avevano accantonato la questione monarchica per favorire l’unità nazionale. Ora i conti si possono regolare. Così il Guardasigilli scrive al Consiglio superiore della magistratura, all’epoca dipendente dal suo Ministero, annunciando l’intenzione di rimuovere Pilotti. L’epuratore, dunque, sta per essere epurato. Prova a difendersi, ma Gullo è irremovibile: Pilotti perde il posto da pg. Ma uno così non non finisce certo in rovina. Lo piazzano alla Presidenza del Tribunale delle Acque e per l’occasione elevano la carica a pari grado di procuratore generale.

    Giustizia e politica: due scuole di pensiero

    Anche la pensione non gli va malaccio: da collocato a riposo, nel 1949 Pilotti diventa arbitro italiano alla Corte permanente di arbitrato dell’Aja e, nel 1952, presidente della Corte di giustizia della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Nel togliere a Pilotti la poltrona di pg, secondo Rizzo, Gullo avrebbe incontrato ben altre resistenze se la vicenda non si fosse incrociata con quella dell’Assemblea costituente. Che proprio nei giorni dello sgarbo a De Nicola discute degli articoli sul rapporto tra giustizia e politica.
    Si scontrano due scuole di pensiero. Da una parte quella che rappresenta anche il futuro presidente della Repubblica Giovanni Leone: propone che i pm dipendano dal governo e che a guidare il Csm sia il capo dello Stato. Dall’altra chi sostiene l’indipendenza assoluta dei magistrati dal potere politico.

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    La Corte di giustizia della Ceca. Al centro, Massimo Pilotti (1952, dal sito della Corte di giustizia europea)

    Le parole di Calamandrei sullo scontro tra Gullo e Pilotti

    Tra questi c’è Piero Calamandrei. Ma, dopo il caso Pilotti, la sua linea perde consistenza e nell’Assemblea si finisce per mediare tra le due posizioni. «In realtà chi ha impedito all’autogoverno della magistratura di affermarsi in pieno nel nostro progetto – attacca Calamandrei alla Costituente – non sono stati tanto gli argomenti dei colleghi sostenitori della opinione contraria, quanto è stato Sua Eccellenza il procuratore generale Pilotti».

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    Piero Calamandrei

    Lo sgarbo, secondo Calamandrei, l’alto magistrato lo ha fatto «non al presidente della Repubblica, ma proprio alla magistratura: e la magistratura deve ringraziar proprio lui, il procuratore generale Pilotti, della ostilità con cui è stata accolta nel progetto della Costituzione l’idea dell’autogoverno: proprio lui, col suo gesto, è riuscito a impedire che la magistratura possa aver fin da ora quella assoluta indipendenza di cui la grandissima maggioranza dei magistrati, esclusi alcuni pochi Pilotti, sono degni». Qualche giorno dopo il discorso di Calamandrei, Gullo rimuove Pilotti. E, secondo Rizzo, l’idea «dell’indipendenza cristallina della magistratura tramonta con la sua defenestrazione».