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  • MAFIOSFERA| Al servizio di sua maestà, il re della cocaina: i fixer e Rocco Morabito

    MAFIOSFERA| Al servizio di sua maestà, il re della cocaina: i fixer e Rocco Morabito

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    Rocco Morabito, detto U Tamunga verrà estradato in Italia. Così ha deciso la prima sezione della Corte Suprema Brasiliana il 9 marzo scorso, approvando la richiesta di Roma. Ci sono voluti 10 mesi dall’ultimo arresto di U Tamunga, nel maggio del 2021, a Joao Pessoa in Brasile. E ci sono anche delle condizioni per l’Italia: la detenzione di Morabito non potrà durare più di trent’anni e si dovrà tener conto anche del tempo già trascorso in carcere precedentemente.

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    Rocco Morabito negli anni ’90 e al momento dell’arresto in Sud America

    Narcotrafficante e membro apicale del clan omonimo di Africo, sulla costa ionica reggina, Morabito era stato condannato in Italia nel 1994 in seguito all’Operazione Fortaleza. Trenta gli anni di carcere per associazione mafiosa e traffico di stupefacenti, dall’America Latina alla Calabria e, soprattutto, nel Milanese. Secondo InsightCrime il reggino avrebbe forgiato una collaborazione tra la ‘ndrangheta e il Primeiro Comando da Capital – PCC, un network para-mafioso brasiliano dominante, tra le altre cose, nel traffico di cocaina.

    U Tamunga, il re della cocaina

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    Il documento falso ritrovato a Rocco Morabito

    U Tamunga rimane latitante fino al 2017 quando fu catturato a Montevideo, in Uruguay. A quanto pare aveva vissuto lì per 15 anni sotto falsa identità; aveva ottenuto documenti uruguaiani presentando certificati brasiliani con il falso nome di Francisco Antonio Capeletto Souza, nato a Rio de Janeiro. Durante i suoi 23 anni di latitanza, conosciuto come il “Re della Cocaina”, era considerato il secondo latitante italiano più pericoloso dopo il siciliano Matteo Messina Denaro.

    L’evasione e il nuovo arresto: dall’Uruguay al Brasile

    Rocco Morabito si è fatto conoscere anche per la sua rocambolesca evasione dal carcere con altri tre detenuti nel 2019. Dopo essere fuggito da un passaggio che portava direttamente sul tetto del carcere di Montevideo, insieme agli altri tre compagni di evasione, U Tamunga si sarebbe introdotto in un appartamento al quinto piano di un palazzo vicino. Avrebbe quindi derubato la donna che ci viveva per poi scappare in taxi.

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    Rocco Morabito e i suoi tre compagni di fuga

    Dopo oltre un anno passato lungo la Triple Frontera tra Brasile, Argentina e Paraguay, secondo IrpiMedia, viene ricatturato dalla polizia brasiliana nel maggio 2021 grazie a una partnership promossa da Interpol, I-CAN (Interpol Cooperation Against the ‘Ndrangheta). I-CAN, un programma voluto, sostenuto e guidato dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza in Italia, ha altri 11 stati partner in giro per il mondo:

    • Stati Uniti
    • Australia
    • Canada
    • Brasile
    • Argentina
    • Germania
    • Svizzera
    • Colombia
    • Francia
    • Spagna
    • Uruguay

    Al servizio di sua maestà Rocco Morabito

    E proprio grazie all’Interpol e ad I-CAN un altro tassello si aggiunge alla parabola di Rocco Morabito con l’Operazione Magma. A guidarla è la procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria e si concentra sui traffici di stupefacenti del clan Bellocco di Rosarno in America latina. Nell’estate del 2020 – in seguito a sei arresti guidati da Interpol tra Argentina, Costa Rica e Albania – Magma ha rivelato come Carmelo Aglioti, un imprenditore nel settore import-export associato del clan Bellocco (per cui curava gli affari del narcotraffico in America latina) si stesse impegnando anche per conto del clan Morabito, per trasferire 50.000 euro in Uruguay per facilitare la liberazione di Rocco Morabito. Dopo il suo arresto a Montevideo nel 2017 per la famiglia Morabito bisogna evitare l’estradizione.

    Rocco Morabito scortato dalla Polizia brasiliana

    Questa estradizione non s’ha da fare

    Aglioti agiva dunque per conto di Antonio Morabito, cugino di Rocco, U Tamunga: «Il cugino vostro, per riciclaggio è? […] Quindi, il motivo … per cui bisogna fare tutte questa operazione … pi mu staci ddocu (per farlo stare in quel luogo, ovvero in Uruguay, ndr) quindi non estradato qui in Italia, giusto!? […] Di farlo rimanere là! Perché i reati contestati là (Uruguay, ndr) non sono gli stessi di qua, giusto o no!? […]». E Antonio Morabito confermava «[…] Mh mh … questa è la prassi che stiamo cercando di fare! […]».

    L’avvocato del diavolo

    I messaggi whatsapp su un’utenza in uso ad Aglioti rivelano i contatti dello stesso Aglioti con Fabio Pompetti, avvocato italiano residente in Argentina, arrestato nel luglio 2020 a Buenos Aires per operazione Magma con I-CAN. «Mi hanno contattato delle persone per dirmi se conoscevo un avvocato in Uruguay, io gli ho fatto il tuo nome perché hanno bisogno di essere assistiti per un loro parente che si trova carcerato in Uruguay. Questi sono persone che pagano, praticamente e lo stesso problema di cui ti sei occupato in passato capito?». «Tutto ok per le tue persone in Uruguay. Mi devo muovere con molta cautela», risponderà Pompetti.

    Un caso, tre temi

    Il caso di Rocco Morabito offre spunti di analisi su tre temi interconnessi:

    1. le sfide alla cooperazione internazionale per finalità di polizia;
    2. la natura della ‘ndrangheta all’estero;
    3. il ruolo dei fixer in località come Argentina, Uruguay o Brasile, strategiche per gli affari dei clan.

    Indagini: serve collaborare e in fretta

    I-CAN è un progetto sicuramente innovativo, il cui massimo impegno sta nel facilitare la comunicazione tra paesi e forze di polizia molto diverse tra loro. Quando si tratta di fare indagini transnazionali o transcontinentali infatti il problema primario, soprattutto fuori dall’Europa, rimane la difficoltà delle istituzioni nei vari paesi coinvolti di comunicare velocemente e altrettanto velocemente condividere dati e intelligence.

    È necessario valorizzare, come cerca di fare I-CAN, team di indagine unitari che dall’inizio dei lavori possano condividere ipotesi e dati. Soprattutto perché, e qui arriviamo al secondo spunto di analisi, la ‘ndrangheta all’estero non ha sempre la stessa faccia. Ed è necessario non solo saperlo ma ipotizzare quale faccia ci si possa trovare davanti.

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    Milano, la provocazione di Klaus Davi, Pasquale Diaferia e Alberto Micelotta all’indomani dell’arresto di Morabito in Uruguay

    Rocco Morabito e la ‘ndrangheta all’estero

    Prendiamo il caso di Rocco Morabito. Abbiamo un soggetto, Aglioti, che – da associato di un clan tirrenico, i Bellocco – si pone come intermediario per un clan della ionica, i Morabito, grazie alla sua frequentazione di alcuni luoghi, nello specifico Uruguay e Argentina. «No, basta che li avvisano… non c’è problema! Buenos Aires e Uruguay sono due passi, con il traghetto si fa… arrivi a Rio de La Plata e vai fino a Buenos Aires e viceversa!»; Aglioti dimostra di conoscere i paesi in cui egli stesso fa affari. E sa dare consigli a riguardo a chi li chiede, nel suo clan o in altri clan. Questo rende alcuni soggetti particolarmente importanti all’estero.

    La ‘ndrangheta all’estero, infatti, non si presenta mai come un’organizzazione fissa, pre-strutturata e razionale, dunque prevedibile. Occasioni e opportunità individuali per i singoli clan dipendono in larga misura dalla capacità e dalla reputazione internazionale di alcuni soggetti in supporto ai clan; il tutto ovviamente si adatta di volta in volta a cosa conta nei contesti di destinazione, che sia denaro, potere o anche il capitale relazionale di individui e di associati.

    Fixer e broker: un aiuto oltreoceano

    Lo spaccato di Operazione Magma che riguarda Rocco Morabito e il tentativo (vano) della sua famiglia di proteggerlo dall’estradizione ci racconta anche altro. E cioè che è grazie alla figura del fixer – colui che aiuta i clan nelle questioni specialistiche – oltre che alla figura del broker – colui che aiuta i clan negli affari – che si mantiene un piano criminale oltre oceano. Quando il fixer e il broker sono la stessa persona, o sono molto legati come a Buenos Aires sono Fabio Pompetti e il suo ‘collaboratore’ Giovanni Di Pietro (alias Massimo Pertini) – che si occupava anche della gestione del narcotraffico per vari clan calabresi – allora si garantisce la continuità del servizio e dunque la possibilità di espanderlo a più gruppi criminali.

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    Pantaleone Mancuso

    Non manca di far notare, Aglioti, che la ragione per cui si è rivolto a Pompetti è perché l’avvocato italo-argentino aveva già dimostrato di poter gestire questioni simili a quella di Rocco Morabito. «Dato che allora hanno fermato qua, a coso qua … a Mancuso …… l’ha cacciato lui (lo ha fatto uscire lui, ndr) … per riciclaggio, praticamente» Il riferimento è a Pantaleone Mancuso, estradato in Italia, dall’Argentina, a febbraio del 2015. Per la sua assistenza legale si sarebbe attivato proprio Pompetti insieme ad altri soggetti vicini ai clan della tirrenica.

    Non solo Rocco Morabito

    Tra colletti bianchi che diventano fixer, opportunità di fare affari sia nel legale che nell’illegale grazie a broker che utilizzano i contatti con la nutrita comunità migrante per diversificare il proprio operato, non è difficile vedere come per certi clan, con disponibilità di soldi e uomini, alcuni paesi possano diventare territori chiave.

    Rocco Morabito, uomo di punta del potentissimo clan di Africo era il secondo latitante più pericoloso d’Italia

    Rocco Morabito verrà estradato in Italia, ma a preoccuparci adesso dovrebbero essere i contatti che ha forgiato e dunque avviato in paesi come Uruguay, Argentina e Brasile. Quei contatti lo hanno protetto per anni, da latitante o da evaso, e potrebbero proteggere altri come lui, se a chiederlo sono le persone col giusto know-how.

     

  • La ‘ndrangheta dell’altra sponda

    La ‘ndrangheta dell’altra sponda

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    Qualcuno l’ha sempre considerata la “provincia babba” della Sicilia. A fronte di roccaforti di Cosa Nostra, come Palermo e Catania, soprattutto, ma anche Trapani, Messina è sempre stata considerata come figlia di un dio minore sotto il profilo criminale. Ma è davvero così?

    L’ultima inchiesta

    Proprio nelle ultime ore, la Procura della Repubblica di Messina, retta da Maurizio De Lucia, ha tirato le fila di un’inchiesta che dimostrerebbe come, nel capoluogo peloritano, gli affari criminali siano tutt’altro che trascurabili. Sono 21 le persone accusate, a vario titolo, di reati in materia di stupefacenti e armi. Una organizzazione criminale, armata, perfettamente organizzata che riforniva di droga i quartieri cittadini di “Gazzi” e “Mangialupi”.

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    La sede della Procura di Messina

    Le indagini condotte dalla Polizia di Stato avrebbero dimostrato l’esistenza di una centrale di spaccio nel rione “Gazzi”. Con due distinte cellule criminali: una più ristretta, che operava in Calabria ed era impegnata nel rifornire la seconda, l’altra, più articolata e capillare, che immetteva sul mercato di Messina e provincia, grosse partite di cocaina.

    Il ponte sullo Stretto esiste già

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    Messina e il suo porto affacciato sullo Stretto

    Un’organizzazione che spacciava giorno e notte e che riusciva a tirar su almeno 50mila euro mensili. Stando all’inchiesta, la continuità dei rifornimenti era assicurata da alcuni calabresi. Anch’essi arrestati, gestivano i contatti con i vertici del gruppo dei messinesi mediante apparecchi cellulari dedicati. Così si garantivano un elevato livello di riservatezza delle comunicazioni.

    E sono pressoché quotidiani gli interventi delle forze dell’ordine che agli imbarcaderi, tanto di Messina quanto di Villa San Giovanni, bloccano corrieri, talvolta insospettabili, carichi di droga. Il ponte sullo Stretto, voluto da tanti e osteggiato da altrettanti, resta una chimera. Ma sotto il profilo criminale le due sponde di terra sembrano già ampiamente collegate. E l’ultima inchiesta ne sarebbe solo l’ulteriore prova.

    Messina “provincia babba”?

    E, allora, forse, Messina è stata bollata un po’ troppo superficialmente e frettolosamente come “provincia babba”. A pochi chilometri dal capoluogo, infatti, sorge Barcellona Pozzo di Gotto. Un centro oggi di quasi 40mila abitanti che, da anni e negli anni, è stato un crogiolo di interessi e commistioni.

    Il boss locale, Pietro Gullotti, si dice fosse assai vicino al boss catanese Nitto Santapaola. E negli scorsi anni la “creme” della città messinese finirà al centro di una serie di scandali che riguarderanno, peraltro, l’uccisione del giornalista Beppe Alfano e il suicidio del professore Adolfo Parmaliana. Proprio a Barcellona Pozzo di Gotto, infatti, alcune inchieste mostreranno, almeno sotto il profilo storico, un coacervo di interessi tra politica, magistratura e criminalità organizzata, all’ombra di un circolo noto come “Corda fratres”.

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    Nitto Santapaola

    E di Barcellona Pozzo di Gotto è originario anche quell’avvocato Rosario Pio Cattafi, considerato elemento di congiunzione tra mondi occulti e la criminalità organizzata. Indagato anche nell’inchiesta “Sistemi Criminali”, condotta alcuni anni fa dal pubblico ministero Roberto Scarpinato sulla strategia della tensione dei primi anni Novanta, ma sfociata in un’archiviazione complessiva per personaggi del calibro del gran maestro della P2, Licio Gelli, il terrorista nero Stefano Delle Chiaie, i boss mafiosi Totò Riina e i fratelli Graviano, ma anche l’avvocato Paolo Romeo, avvocato reggino condannato in via definitiva per mafia nel processo Olimpia e considerato un’eminenza grigia delle dinamiche ’ndranghetiste.

    La ‘ndrangheta dell’altra sponda

    Già, la ‘ndrangheta. Per qualcuno, Messina sarebbe sostanzialmente una propaggine della Calabria, sotto il profilo criminale. Un locale di ‘ndrangheta distaccato. A parlarne è Gaetano Costa, capo della locale di Messina, con strettissimi legami con la ‘ndrangheta, sull’altra sponda dello Stretto. Negli anni ’90, Costa diventa collaboratore di giustizia e racconta, per esempio, della fase evolutiva che segna il passaggio dalla ‘ndrangheta basata sulle regole dello “sgarro” a una nuova formazione, quella della “Santa”.

    Ma Costa, da persona qualificata in quanto uomo forte del crimine in quei luoghi, racconta anche che tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, Messina era considerata quasi un’entità sganciata dal resto della Sicilia e, invero, una propaggine della Calabria, soprattutto sotto il profilo criminale. La città dello Stretto viene definita un “locale” di ‘ndrangheta distaccato dalla Penisola.

    L’Università di Messina e i rampolli dei clan

    E appartengono ormai all’epica della storia della ‘ndrangheta i racconti riguardanti l’Università degli Studi di Messina, soprattutto tra gli anni ’80 e ’90. Lì, con l’ormai celeberrima “pistola sul tavolo”, si sarebbero laureati i rampolli dei vecchi capibastone. E così la ‘ndrangheta si sarebbe fatta classe dirigente. Se i vecchi boss erano, infatti, semianalfabeti o quasi, le nuove leve sono diventate medici e avvocati. E, quindi, con la possibilità di occupare i posti di potere in maniera apparentemente lecita.

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    L’Università di Messina

    Parlando di don Giovanni Stilo, controverso prete di Africo, il collaboratore di giustizia Filippo Barreca racconta infatti che questi, grazie alle sue influenze massoniche, avrebbe avuto importanti relazioni, sia all’interno dell’ospedale di Locri, che all’interno dell’Università di Messina.

    Grazie ai legami massonici e ‘ndranghetisti, nell’Ateneo messinese sostanzialmente le lauree sarebbero state regalate: «Ci fu un periodo in cui l’Università di Messina era una sorta di dependance di Africo Nuovo, nel senso che vi comandavano don Stilo e i suoi accoliti» dice con chiarezza Barreca.

    La ‘ndrangheta e la massoneria

    In quanto a salotti, peraltro, Messina non ha nulla da invidiare alle più blasonate Palermo e Catania. E nemmeno alla dirimpettaia Reggio Calabria, vera capitale della masso-‘ndrangheta. Interessanti, sul punto, anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Cosimo Virgiglio. Pentito un tempo legato alle cosche della ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, ma anche massone e molto vicino al boss Rocco Molè.

    Virgiglio ha a che fare con grembiulini e cappucci già negli anni Novanta, ai tempi dell’università a Messina. Tra il 2007 e il 2008 coinvolto e condannato nell’ambito del processo “Maestro”, per i traffici della famiglia Molè nel porto di Gioia Tauro. In mezzo, però, tanta massoneria pesante.

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    L’ex presidente della AS Roma, Franco Sensi

    Già nel 1995, Virgiglio entra in contatto con l’allora presidente della Roma, Franco Sensi, oggi deceduto, ma ben inserito nei circuiti massonici: «Sono entrato o meglio mi sono avvicinato alla massoneria per il tramite del messinese Carmelo Ugo Aguglia, nobile messinese, intorno alla fine degli anni ’80. Io frequentavo l’università di Messina. Per la verità iniziai a frequentare il Rotary. Il Rotary era una trampolino di lancio per entrare nel GOI. Il tempio di Messina, che si trovava nella zona del Papardo. Ricordo che fra gli altri frequentatori di questi ambienti massonici di Messina vi era Franco Sensi, presidente della Roma Calcio. Nel 1992-93 arrivò a Messina, da Reggio Calabria, la soffiata su di un’indagine sulla massoneria».

    La relazione della DIA

    Storia della ‘ndrangheta? Forse no. Dato che queste dinamiche vengono cristallizzate anche nell’ultima relazione semestrale della Direzione Investigativa Antimafia. La DIA, infatti, dedica un intero paragrafo alla situazione di Messina e dintorni: «Il territorio provinciale costituisce il crocevia di varie matrici criminali. L’influenza di Cosa nostra palermitana e catanese con le loro peculiari caratteristiche hanno infatti contribuito a creare una realtà eterogenea», si legge.

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    Ma non solo, anche in quest’ultimo studio ufficiale sulla criminalità organizzata in Italia, il ruolo della ‘ndrangheta è preminente: «Ancora sono stati riscontrati rapporti con le vicine cosche calabresi soprattutto per l’approvvigionamento di stupefacenti. Le interazioni tra sodalizi appaiono come in passato orientate a rapporti di vicendevole convenienza, evitando scontri cruenti».

    La ‘ndrangheta a Messina per reinvestire capitali

    Il rapporto costante con la criminalità calabrese emerso dalle risultanze investigative è, per i vertici della Procura peloritana, aspetto su cui va posta la massima attenzione «dal punto di vista della prospettazione futura, avendo ragione di ritenere che la ‘ndrangheta possa in futuro utilizzare lo stesso canale individuato per gli stupefacenti anche per altri traffici, in particolare quello del reinvestimento dei capitali».

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    Il procuratore Maurizio De Lucia

    E tra gli allegati dell’ultima relazione è possibile leggere anche stralci dell’audizione resa proprio dal procuratore De Lucia, autore dell’ultima inchiesta riguardante le due sponde dello Stretto: «Attraverso il traffico di stupefacenti si creano degli accordi e delle convenienze comuni proprio con la ‘ndrangheta, considerato che tale traffico illecito implica una relazione costante delle organizzazioni sia della città di Messina che dell’area di Barcellona P.G. con organizzazioni ‘ndranghetiste».

    Sul punto anche il comandante provinciale dei Carabinieri, colonnello Lorenzo Sabatino, ha dichiarato che «le principali organizzazioni mafiose messinesi si sono sviluppate subendo l’influenza sia di Cosa nostra palermitana e catanese, con cui hanno intessuto significativi rapporti criminali, sia della ‘ndrangheta calabrese, di cui alcuni gruppi, in passato, mutuarono strutture, rituali e denominazioni. Il territorio provinciale del resto, è da sempre esposto all’infiltrazione da parte dei sodalizi mafiosi delle province limitrofe e a fenomeni di cooptazione in Cosa nostra di esponenti della criminalità mafiosa locale».

  • Elvis, il narcos albanese che voleva fregare la ‘ndrine a Roma

    Elvis, il narcos albanese che voleva fregare la ‘ndrine a Roma

    Droga e “rispetto”, armi e denaro, case sicure e figli scostumati. C’è un filo rosso che lega Elvis Demce – il narcos albanese che si era preso una fetta importante del mercato della coca nella Capitale e che progettava di fare fuori i magistrati Francesco e Giuseppe Cascini – e la ‘ndrangheta.

    Un filo che intreccia il solito fiume di cocaina sull’asse Roma Calabria e che si aggroviglia con la ricerca spasmodica e continua di nuove armi, perché il mercato, dopo esserselo preso, tocca mantenerlo. E il canale delle ‘ndrine è sempre ben rifornito: basta avere gli agganci giusti e anche l’improvviso arresto del sidernese che si occupava di rifornire il clan albanese può essere bypassato, spostandosi di pochi chilometri appena: è il gran bazar della ‘ndrangheta, a cui la batteria romana si “abbevera” di continuo e ai cui rappresentanti va mostrato il rispetto dovuto, almeno ufficialmente.

    Pensavano di non essere intercettati

    Sono le conversazioni decriptate dagli specialisti dell’Interpol a tratteggiare l’ennesimo romanzo criminale che la gang di Demce e i suoi “compari” ‘ndranghetisti recitano sentendosi al sicuro dietro lo schermo della Skyecc, la compagnia canadese che si illudeva di garantire ai propri clienti l’assoluta inviolabilità dei propri, costosissimi, dispositivi. Ed è nelle chat disvelate dei criptofonini sequestrati che gli investigatori del carabinieri di Roma trovano i pezzi di un puzzle complicato ed in parte ancora da decifrare. Un puzzle fatto di nomi in codice e codici identificativi che certificano il ruolo dei calabresi come fornitori dei “grossisti” che operano nelle redditizie piazze di spaccio all’interno del raccordo: “Zio” e “Spartaco”, “Rangara”, “er Chiappa” e “Noodles”: tutti ingranaggi di un meccanismo che, una volta avviato, era in grado di garantire fino a 50 chili di cocaina a spedizione. E che, all’occorrenza, era in grado di recuperare kalashnikov e mitragliette Uzi.

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    Spesso le organizzazioni criminali utilizzano criptofonini

    All inclusive

    «Dice che domani stanno a venì du parenti loro a Tiburtina, tu basta che li pigli in stazione e li porti a casa. Fra’ me raccomando, stai appresso a sti ragazzi, fammi fare bella figura». Gli emissari delle ‘ndrine sono in arrivo a Roma: saranno loro a garantire il flusso di coca per le piazze di spaccio capitoline e Demce è preoccupato che tutto vada nel migliore dei modi. Tocca alla sua organizzazione occuparsi delle necessità logistiche per i due narcos in arrivo e tutto deve filare nel migliore dei modi perché «so’ pesanti sti calabresi e mi interessano i padroni loro che ci mandano lavoro, quindi curameli un po’. Mo ti mando i soldi e je pii na machina in affitto per loro, troviamo uno do se pia senza carta de credito».

    Il canale tra la gang dell’albanese e i fornitori calabresi – rimasti ancora senza un nome – si sta consolidando. I primi carichi sono andati a buon fine e ora si prospettano affari ancora più succulenti, ma per sedere al tavolo dei pezzi grossi, bisogna dimostrare di essere gangster veri. Anche quando si tratta di saldare i debiti per tempo: sul piatto ci sono 400mila euro per un carico di cocaina di qualità “ndo”, meno pregiata della “Fr1” «ma piace lo stesso» che tocca consegnare direttamente allo “zio”, l’emissario delle cosche di base nella Capitale.

    «Quattro piotte a sti calabrotti»

    «Mo famo na cosa – dice il boss albanese istruendo un sodale – organizzamo de mannà quattro piotte a sti calabrotti, così se sbrigano a mandare» altri carichi di droga. Un’operazione che deve filare liscia: «I soldi je li portate tu e Braccio, dovete stare lì e loro ve li devono contare davanti e confermare che so 4 piotte pare. Fai scrivere a “zio” al suo capo che è tutto ok e gli fai mandare un foto ai padroni sua, che so brava gente».

    Gli affari sono affari

    Con i calabresi tocca comportarsi con rispetto e deferenza, e farsi trovare sempre pronti alle loro richieste, almeno quando si tratta di pezzi grossi questo Demce lo sa. Ed è per questo che il boss albanese si mette in moto per organizzare la logistica per l’arrivo di un carico destinato ad altri trafficanti: «Dovete andare a San Cesareo compare – dice al telefono, forte della convinzione di non potere essere intercettato, l’albanese al boss calabrese – con un camion, che un camion non da nell’occhio in una zona industriale». Ma i criminali restano criminali e la regola del “cane non mangia cane” che viene buona per le ricostruzioni romanzate, non trova spazio nella realtà; e così, se si trova il giusto meccanismo, si possono truffare anche i galoppini dei propri soci.

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    Il mercato della cocaina è una delle attività preferite dei clan nella capitale

    Volevano “fare la cresta” ai calabresi

    I calabresi hanno bisogno di comprare una casa isolata fuori città e con un pezzo di terra dove nascondere i «pacchi» di droga in arrivo. È il gruppo di Demce che si deve occupare di trovare la giusta soluzione: una soluzione su cui si può anche tirare su una bella sommetta di straforo: «Trova urgente sta cazzo de casa isolata col terreno per sti pecorari – dice il boss al telefono al suo braccio destro – vedi quanto vonno per sta casa e in base a quello che costa te metti d’accordo col proprietario e ce carichi 50 mila sopra, tanto pagano loro, i sordi ce stanno. E ce li spartimo. Se la casa costa 100, tu je dici 150 e via. E ce esce una mezza candela pulita per noi».

    Gran bazar delle armi

    Ma il canale calabrese non si occupa solo di rifornire cocaina. All’occorrenza, i narcos possono anche trovare armi da guerra e mitragliette corte da usare per fare «le punture» ai rivali, se il fornitore abituale è momentaneamente impossibilitato a farlo.

    È lo stesso Demce a raccontarlo durante una conversazione decrittata con il mammasantissima calabrese che si nasconde dietro il codice identificativo “6ffefa”: «Compare, io prima per le armi mi servivo da un mio caro amico di Siderno che le trattava, ma ora è dentro. Voglio comprarmi 20mila euro di armi, potete aiutarmi? Mi serve un Ak47, un Uzi, M12 Scorpion. Poi le corte mi servono Glok 17, Beretta 9×21 parabellum e qualche 3-4 bombe a mano ananas. Avevo chiesto a “Rangara” ma non si è interessato». Demce si fida del suo interlocutore e gli confessa che le armi gli servono «per educare qualche figlio scostumato, che se non gli fai qualche puntura poi si sentono le briglie sciolte. E per quelli come noi che siamo uomini di classe e di intelletto comparuccio, è dovere nostro istruire questi figli persi».

  • INTERVISTA ESCLUSIVA | Mancuso, il pentito: così le ‘ndrine vogliono uccidermi

    INTERVISTA ESCLUSIVA | Mancuso, il pentito: così le ‘ndrine vogliono uccidermi

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    La vita di Emanuele Mancuso è cambiata nel giro di una settimana. Quattro anni fa, il 18 giugno del 2018, ha cominciato a parlare coi magistrati, ha deciso di raccontare ciò che ha visto e vissuto in 30 anni da rampollo di un potentissimo casato di ‘ndrangheta. Tre giorni dopo sarebbe dovuta nascere sua figlia, che si è poi fatta aspettare un altro po’, venendo al mondo il 25 giugno. I due eventi – la scelta di pentirsi e la nascita della primogenita – sono strettamente collegati.

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    Emanuele Mancuso intervistato da Studio Aperto

    Lo ripete spesso, Emanuele: ha iniziato a collaborare con la giustizia proprio per la figlia. Avrebbe voluto crescerla in un ambiente diverso da quello in cui è cresciuto lui. Ma, denuncia, ora gli viene impedito.

    Gli viene negato un diritto che è invece garantito a molti altri genitori che con la giustizia hanno avuto parecchi problemi ma che, come invece ha fatto lui, non ci hanno mai collaborato.

    Figlio di Pantaleone “l’Ingegnere”, quando suo padre era in carcere riusciva a vederlo più di quanto oggi permettano a lui di stare con sua figlia. Gli è concessa poco meno di un’ora a settimana, in locali «fatiscenti e privi di ogni requisito di legge». La bimba ora ha 4 anni e nota la presenza dei «signori» dei Servizi sociali e di quelli della scorta ai loro incontri.

    Lei vive, per decisione del Tribunale per i minorenni, in una casa-famiglia con la madre. Stanno in una località protetta individuata dal Servizio centrale di protezione, dunque a carico dello Stato, anche se l’ex compagna di Emanuele non si è mai dissociata dal contesto della famiglia di lui. Anzi, a suo dire sarebbe «in mano» ai Mancuso. A entrambi è stata limitata la responsabilità genitoriale.

    «Mi hanno visto persone di Limbadi»

    Emanuele è il primo, con il pesantissimo cognome Mancuso, ad essersi pentito. Mostra una certa dimestichezza con i meccanismi e la terminologia giuridica, ma il tono sicuro con cui solitamente parla, anche davanti ai giudici, durante un colloquio esclusivo con I Calabresi tradisce una profonda amarezza. Succede quando gli si chiede se abbia paura. «A questa domanda preferirei non rispondere. Una volta è capitato pure che mi abbiano visto alcune persone di Limbadi… Dico solo che quando ti isolano, provano ad avvicinarti più volte, ti tolgono quello che hai di più caro, la ragione per cui hai fatto la scelta più difficile, allora della vita e delle morte non ti interessa più niente. Non hai più paura di niente. Che mi dirà domani mia figlia?».

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    Pantaleone Mancuso “l’Ingegnere”, padre di Emanuele Mancuso

    «Salgono con le valigette di soldi e comprano tutto»

    Di recente ha inviato due lettere all’Autorità Garante per l’infanzia e al Presidente della Repubblica. Contengono una denuncia pesantissima: il pentito parla di «maltrattamenti» che la sua piccola subirebbe dagli operatori sociali. E parla di un «complotto» per sfinirlo e portarlo ad abbandonare la collaborazione con la giustizia.

    Dice anche molto altro: «La mia famiglia si compra tutto. Sale con valigette piene di soldi dove sta la bambina e corrompe i Servizi sociali. Infatti mi trattano come fossi Pacciani e fanno relazioni che contengono falsità, completamente sbilanciate dalla parte della mia ex compagna. La dipingono come una povera donna che non sapeva chi io fossi. Invece siamo stati insieme per circa 10 anni e si era inserita nel contesto criminale. È stata pure denunciata due volte per reati commessi mentre era nel programma di protezione».

    Un uomo libero

    Ora Emanuele è un uomo libero, anche se la libertà vera è un’altra cosa. «Mi sveglio alle cinque di mattina per andare a lavorare e torno la sera», dice. Ma si sente ingiustamente privato della possibilità di costruire un vero rapporto affettivo con la figlia. Una cosa che lo sta facendo vacillare parecchio. «Vogliono farmi ritrattare. Ho fatto tutto questo per poterla crescere e ora me lo impediscono».

    Il suo ragionamento è drammaticamente lineare. «Se il Tribunale ti dice che limita la tua responsabilità genitoriale a causa del conflitto con la madre della bambina, è chiaro che l’unico modo per riavere mia figlia è attenuare questo conflitto, insomma fare pace. Tra l’altro la rottura non è dovuta a motivi sentimentali, ma alla mia scelta di collaborare».

    Fare pace dunque significherebbe «inevitabilmente passare attraverso la mia famiglia». E fare marcia indietro, ritrattare, rientrare nei ranghi dei Mancuso. «Se va avanti così – ammette sconsolato – finisce che saluto tutti e ciao… ma non sarebbe solo una disfatta per la giustizia, sarebbe un’enorme sconfitta sociale».

    Teme le presunte pressioni sulla ex compagna

    C’è un episodio piuttosto inquietante che conferma quanto, secondo lui, l’ex compagna sia manovrata dai suoi familiari. Emerge da alcuni atti depositati nei processi – già approdati a sentenze di primo grado sia in abbreviato che in ordinario – sulle presunte pressioni della famiglia per indurlo a ritrattare. Si tratta di un’informativa di polizia giudiziaria redatta dopo l’ultimo arresto del padre.

    Nel 2014 “l’Ingegnere” era stato individuato a Puerto Iguazù, in Argentina, mentre cercava di passare il confine con il Brasile su un bus turistico, con un documento falso e 100mila euro addosso. A marzo del 2019 lo hanno invece beccato a Roma in una sala Bingo. Aveva con sé un IPhone ed è proprio da quel telefono che gli inquirenti hanno tirato fuori i messaggi scambiati con i familiari durante la latitanza. Chat che sono finite in un decreto di acquisizione di documenti di 187 pagine.

    Lei parla con i Mancuso

    I contatti tra i familiari di Emanuele e la sua ex compagna sono frequenti. Sembrano tenerla sotto controllo, tanto che a un certo punto si parla di un registratore da piazzare nella sua abitazione. E lei mostra soggezione nei confronti di Pantaleone, con cui dialoga attraverso il telefono della moglie. A un certo punto le dice, tra il serio e il faceto: «Sono in cielo e in terra». Le impartisce indicazioni precise: «Non mi deludere». Fino ad arrivare a scriverle esplicitamente: «Tu mettiti a disposizione».

    Succede dopo che lei manda un sms all’avvocato di Emanuele, fa uno screenshot del messaggio e lo invia alla sorella del pentito, che a sua volta lo inoltra al padre. Pantaleone cerca di tranquillizzare l’ex compagna del figlio. Ma lei è allarmata: «Si mi beccano quel coso su rovinata». Il «coso» sarebbe un telefono che lei dovrebbe portare a un incontro con l’ex compagno. La ragazza prova a ipotizzare una soluzione diversa: «Se riesco porto la scheda. E poi un cel lo prenderò lì». Lui taglia corto: «Na fari difficili». Ma il tono di lei resta quello: «Mi stati mandandu a furca».

    La compagna del pentito «abilmente governata» da Pantaleone l’Ingegnere

    L’ex compagna di Emanuele, secondo gli inquirenti «abilmente governata» dall’“Ingegnere”, avrebbe dovuto portare con sé, di nascosto anche dal suo compagno, un telefono (o una sim card) a un incontro con il pentito. Avrebbe voluto far credere, tramite l’sms al suo avvocato, che voleva riconciliarsi con lui ed entrare così nel programma di protezione, ma solo quando lui sarebbe stato posto ai domiciliari, perché all’epoca era ancora in carcere.

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    L’aula bunker di Lamezia Terme dove si celebra anche il processo Rinascita-Scott

    L’attentato al pentito sventato dalla Dda di Catanzaro

    «In questo modo sarebbe venuta con me nella località protetta e, mettendo questa sim in un telefono, avrebbe dovuto inviare ai miei familiari la posizione in cui ci trovavamo». Insomma, chiosa il pentito: «Stavano pianificando un agguato. Ma la Dda di Catanzaro lo ha sventato». Trae una conclusione agghiacciante, Emanuele. Ma i contatti tra la sua famiglia e l’ex compagna sono effettivamente cristallizzati nelle carte della Procura antimafia. In cui parecchie pagine sono coperte da omissis.

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    Luigi Mancuso “Il Supremo”

    Una dinastia di ‘ndrangheta

    Intanto nel Vibonese, tra Limbadi e Nicotera, la calma apparente nasconde un’evoluzione ancora non decifrabile delle dinamiche interne a una delle famiglie più potenti dell’intera ‘ndrangheta, e dunque delle mafie di tutto il mondo. Luigi Mancuso, il “Supremo”, è stato arrestato nel blitz di “Rinascita-Scott”, la maxinchiesta di cui è un elemento centrale e da cui è scaturito il processo che si sta celebrando nell’aula bunker di Lamezia.

    Luigi è zio di Pantaleone “l’Ingegnere”, dunque prozio di Emanuele. Nel frattempo sono tornati in libertà due zii diretti del pentito, Diego e Peppe “‘Mbrogghia”. Quest’ultimo è ritenuto uno dei capi storici, tra i più temuti. Si è fatto 24 anni consecutivi di galera, 20 dei quali in regime di 41 bis. Pare abbia sempre avuto un legame particolare con Luigi, che è suo zio ma è più piccolo di lui di qualche anno. Il padre di Peppe “‘Mbrogghia”, Domenico, fratello di Luigi, era il primogenito della “generazione degli 11”, il nucleo originario di fratelli da cui sono generate le varie articolazioni della famiglia.

    Peppe Mancuso “Mbrogghia”

    «Sono un esercito», dice Emanuele dei suoi parenti. E aggiunge: «Figli e nipoti si sono laureati, alcuni recandosi ben poche volte all’università, giusto per firmare… Hanno contatti con colletti bianchi, massoneria…». Descrivendo i boss, spiega che «Luigi è il più “istituzionale”». Mentre Peppe «ha un cimitero alle spalle (risulta condannato per aver ordinato un omicidio nel ‘91, oltre che per associazione mafiosa e narcotraffico, ndr). Faceva tremare la gente già prima e oggi, dopo tutti quegli anni passati al carcere duro senza dire una parola, avrà in quel contesto una credibilità immensa. Ai giovani però – conclude – io vorrei dire una cosa: il fascino della ‘ndrangheta è ingannevole, in realtà fa schifo, non rovinatevi la vita con queste porcate».

  • Via Roma, il Tar dà ragione al Comune di Cosenza: niente stop ai cantieri

    Via Roma, il Tar dà ragione al Comune di Cosenza: niente stop ai cantieri

    Scuole di via Roma, il Tar boccia i genitori. La querelle intorno alla demolizione della piazzetta antistante i due istituti, con l’area intitolata a Stefano Rodotà destinata a lasciare spazio al ritorno delle auto, era finita davanti ai giudici amministrativi di Catanzaro. Ad adire le vie legali contro la scelta del Comune di Cosenza era stato un gruppo di genitori degli alunni delle elementari “Lidia Plastina Pizzuti”.

    Per il Tar ai genitori tocca pagare il Comune di Cosenza

    La seconda sezione del TAR, però, ha rigettato il loro ricorso, con una decisione arrivata peraltro a cantiere ormai avviato. Le famiglie degli studenti chiedevano l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, dei provvedimenti con i quali Palazzo dei Bruzi aveva dato il via ai lavori nello spazio pedonale tra la “Plastina Pizzuti” e la “Zumbini”. Il Tar le ha invece condannate a pagare al Comune di Cosenza le spese e le competenze di questa fase del giudizio.

    Via Roma, la soddisfazione di Caruso

    Secondo i giudici, riporta l’Ufficio Stampa del municipio, non ci sarebbero stati profili di palese illogicità e ragionevolezza nei provvedimenti della Giunta. Il sindaco Franz Caruso, nel vedere rigettata l’istanza cautelare, ha espresso soddisfazione e ringraziato l’assessore ai Lavori pubblici, Damiano Covelli, che si occupa della questione via Roma. E sottolineato come il Tar abbia confermato «il rispetto, da parte dell’Amministrazione comunale dei principi della correttezza, della legittimità e della tutela degli interessi della comunità amministrata».

     

  • Tallini d’Achille: Mimmo sfida FI e Mangialavori, ma la Severino…

    Tallini d’Achille: Mimmo sfida FI e Mangialavori, ma la Severino…

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    L’assoluzione di Domenico Tallini un mese fa nell’ambito del processo Farmabusiness da parte del Gup distrettuale di Catanzaro Barbara Saccà ha disatteso le accuse di Gratteri e i suoi. In attesa del deposito delle motivazioni (tra circa 60 giorni) e di sapere se la Dda appellerà la decisione, il dato politico è chiaro: l’ex Presidente del Consiglio regionale è in gran spolvero.

    «Occhiuto piccolo e meschino»

    Subito dopo la pronuncia giudiziaria è stato tutto un susseguirsi di dichiarazioni alla stampa. Con una nota (molto formale) il coordinamento regionale di “Forza Italia Calabria” (che ha a capo il senatore Giuseppe Mangialavori che, però, non appone il suo nome in calce) affermava che l’assoluzione «restituisce dignità politica a un uomo delle istituzioni», con l’auspicio che «Tallini possa al più presto riprendere il cammino politico interrotto».

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    Mangialavori e Occhiuto durante l’ultima campagna elettorale per la Regione

    Queste, invece, le parole del presidente della Regione, Roberto Occhiuto: «L’assoluzione dell’ex presidente del Consiglio regionale della Calabria, Domenico Tallini, è una bella notizia: è stata finalmente ratificata la sua estraneità ai fatti che gli venivano imputati. Allo stesso tempo altre decisioni arrivate oggi – 14 condannati, con pene che variano tra i 16 ed i 2 anni di reclusione – dimostrano che il processo ‘Farmabusiness’ era tutt’altro che campato per aria».

    Il Mimmo furioso

    La dichiarazione di Occhiuto ha mandato su tutte le furie Tallini. Che in una chat di WhatsApp con qualche centinaio di simpatizzanti politici si è lasciato andare. «Registro che il Presidente Occhiuto Roberto sembra più preoccupato delle ricadute negative sulla procura catanzarese che della mia estraneità ai fatti. Ambire ad essere un grande Governatore e nel contempo rilasciare dichiarazioni che dimostrano riverenze e sottomissioni nei confronti della magistratura… Significa essere piccoli e meschini».

    Una versione edulcorata poi nella nota pubblica del suo “pupillo” e commissario di Forza Italia a Catanzaro, Ivan Cardamone: «Tallini meritava maggiore e più concreta fiducia dai vertici del partito… Una fiducia che non è stata ricambiata nel tempo».

    Il ritorno in campo

    Il ringalluzzito Tallini non ci sta a recitare ruoli di secondo piano né, tantomeno, a limitarsi a fare l’offeso. Forza Italia ha nicchiato di fronte all’accusa di concorso esterno e voto di scambio avanzata dalla Dda di Nicola Gratteri, ma, al contempo, non lo ha mai sostituito come commissario provinciale del partito. Certo, non sono mancati nuovi innesti politici catanzaresi voluti da Mangialavori che dovevano fungere da contraltare al “tallinismo”: in primis l’arcinemico Marco Polimeni – presidente del Consiglio comunale di Catanzaro e (ex?) pupillo dell’ex candidato Udc, Baldo Esposito – e Antonio Chiefalo, l’ex commissario cittadino della Lega.

    Tallini vs Mangialavori: ennesimo round

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    La neo consigliera regionale Valeria Fedele

    Sia alle Regionali che alle Provinciali di Catanzaro, Tallini e Mangialavori sono stati “separati in casa”. Nella prima competizione, il vibonese ha puntato le sue fiches su Michele Comito e (ma solo ad esclusione e per arginare altri non graditi competitor) Valeria Fedele. Tallini, a sua volta, fece votare la figlia dell’ex capogruppo regionale di Forza Italia, Claudio Parente, Silvia.

    Alle Provinciali dello scorso dicembre, invece, i due notabili azzurri corsero con due liste separate. Mangialavori (con Fedele e Polimeni) con la lista “Noi in Provincia”, Tallini con “Centrodestra per la provincia”. Vinse la prima 3 a 1. Ma ora, con il round delle amministrative del capoluogo, si gioca una nuova partita, ancora più importante.

    Come a Vibo non si può

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    Valerio Donato

    Le amministrative di Catanzaro sono, da tempi non sospetti, l’emblema del trasversalismo e del trasformismo a tinte civiche. I partiti dimostrano la loro debolezza ed in questo momento è proprio il centrodestra, usurato dal ventennio di Sergio Abramo (nonostante la vittoria alle elezioni regionali e a quelle provinciali), ad essere in tilt (ci torneremo).
    I candidati di peso se la sono data a gambe. La parlamentare di Fdi, Wanda Ferro e il presidente del Consiglio regionale in quota Lega, Filippo Mancuso, hanno entrambi rifiutato la candidatura come primi cittadini. Lo stesso ha fatto il già citato Baldo Esposito.
    E la tentazione di virare sul PD (leggasi “Partito di Donato”) si fa forte.

    Lo stesso Mangialavori fece qualcosa di simile alle comunali di Vibo Valentia del 2015, virando sul magistrato Elio Costa. In quell’occasione Forza Italia rinunciò al simbolo, la Lega non c’era e Fratelli D’Italia corse da sola. Oggi un’opzione del genere non è praticabile, pena risultare un mero gregario dei centristi (in particolare del consigliere regionale vibonese Francesco De Nisi) che con Coraggio Italia e l’Udc si sono già posizionati sul “civico” Valerio Donato.

    Tallini e le candidature

    Dall’altra parte, si susseguono i comunicati di Domenico Tallini. Invita ora all’unità, ora a far cadere quelli che definisce «assurdi veti» (nello specifico, a suo dire, quello di Mangialavori sull’ex candidato azzurro Antonello Talerico). Si è ripreso la scena politica al punto da proporre al tavolo del centrodestra la candidatura a sindaco (nientepopodimeno che) del suo avvocato difensore, Valerio Zimatore. Insomma, uno stallo che ha, giocoforza, rimesso ai tavoli romani (più volte bistrattati in sede locale) una scelta che ancora tarda ad arrivare.

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    Il Comune di Catanzaro

    Che Tallini si ricandidi a consigliere comunale pare cosa certa. Con buona pace delle ambizioni in area azzurra dell’assessore Ivan Cardamone e del consigliere provinciale Sergio Costanzo. Difficile che Tallini viri su Donato (politicizzerebbe troppo la candidatura e, dicono, non sarebbe ben accetto), per cui in spolvero, un po’ obbligato, c’è anche la sua fede partitica. Insider del Comune di Catanzaro parlano di una lite tra l’assessore Franco Longo, vicino al leghista Filippo Mancuso, e lo stesso Tallini. Secondo il gruppo che fa riferimento al presidente del Consiglio regionale, si vocifera, una candidatura diretta di Tallini sarebbe negativa per un centrodestra già ammaccato (e disgregato).

    Lo sgambetto della Severino

    La voglia di “contarsi” di Tallini, però, deve fare i conti con la legge Severino. Lo scorso gennaio, l’ex presidente del Consiglio regionale è stato condannato dal Tribunale di Catanzaro per abuso d’ufficio nell’ambito del processo “Multopoli”.

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    L’ex ministro Paola Severino

    Il Decreto Legislativo 235 del 2012 (articolo 11, comma 1, lettera a) prevede la sospensione di diritto per 18 mesi per il consigliere comunale condannato con sentenza non definitiva per determinati reati, tra cui l’abuso d’ufficio. Una norma “salvata” dalla Corte Costituzionale che ritenne ragionevole che una condanna (ancorché non definitiva) per alcuni reati susciti l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente il condannato dalla carica, per garantire la “credibilità” dell’amministrazione presso i cittadini ed il rapporto di fiducia che lega la prima ai secondi (sentenza 236 del 2015).

    La normativa e la giurisprudenza sono chiare: la sospensione arriva anche se la condanna avviene prima dell’elezione.
    Insomma, il gioco alla “conta” che potrebbe fare Tallini subirà lo sgambetto della sospensione prefettizia in caso di elezione, non assegnando né a lui né a Mangialavori il punto di questo ennesimo round della sfida interna agli azzurri.

  • MAFIOSFERA| ‘Ndranghetisti per caso: i free-riders canadesi sfidano Cosa nostra

    MAFIOSFERA| ‘Ndranghetisti per caso: i free-riders canadesi sfidano Cosa nostra

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    «C’è un vecchio conflitto che ancora persiste tra siciliani e calabresi nella criminalità organizzata locale». A dirlo è stato Guy Lapointe, Ispettore Capo della Sûreté du Québec, polizia provinciale del Quebéc. Siamo in Canada, e più precisamente nella capitale dello Stato francofono, la bellissima Montreal. Da fine gennaio 2022 si sta svolgendo un processo contro Dominico (sic!) Scarfo. Un capitolo importante di una guerra di mafia che da decenni non sembra ancora voler finire.

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    Domenico Scarfo in foto nell’articolo apparso su Montreal Gazette

    Morti ammazzati in Quebec

    Dominico Scarfo, Guy Dion con sua moglie Marie-Josée Viau, e Jonathan Massari furono arrestati nell’ottobre del 2019 in seguito ad un’operazione – Project Preméditer – della polizia provinciale del Quebec, Sûreté du Québec. I quattro vennero accusati degli omicidi di Lorenzo Giordano e Rocco Sollecito, entrambi morti ammazzati a Laval, una cittadina alle porte di Montreal, nel 2016, e dei fratelli Giuseppe e Vincenzo Falduto, scomparsi nello stesso anno.

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    Rocco Sollecito è stato ucciso nel 2016

    Sotto l’ombra di Vito Rizzuto sul Canada

    Rocco Sollecito era notoriamente associato alla famiglia criminale montrealese per eccellenza, i Rizzuto. Suo figlio, Stefano Sollecito, è riconosciuto come il boss della famiglia. Anche Lorenzo Giordano era loro luogotenente, mentre i fratelli Falduto erano aspiranti membri di questo sottobosco criminale nato intorno alla figura e all’aura di Vito Rizzuto.

    Vito Rizzuto, morto nel 2013 più di chiunque altro ha impersonato la figura del mafioso siciliano in Canada. Legata originariamente a Cosa nostra siciliana e, in seguito, ai gruppi mafiosi Italo-Americani di New York, la famiglia utilizza ancora l’eredità di Vito come moneta corrente a Montreal e nel resto del Canada.

    La guerra di mafia tra siciliani e calabresi

    La polizia afferma che a capo della cellula criminale contro i Rizzuto, c’erano dei calabresi, i fratelli Salvatore e Andrea Scoppa. Chiaramente sangue chiama sangue nella mafia: Salvatore Scoppa viene ucciso nello Sheraton Hotel a Laval nel maggio 2019 e Andrew Scoppa sarà fatto fuori in un parcheggio a Pierrefonds-Roxboro a ottobre dello stesso anno. Nel processo contro Scarfo la Corte ha appreso come i fratelli Scoppa, della fazione calabrese, fossero sempre più interessati a consolidare il loro potere criminale e per farlo avrebbero deciso di far fuori i siciliani. La guerra di mafia tra siciliani e calabresi, anche nel suo ultimo capitolo, è ancora una guerra per il territorio, per anni dominato dai Rizzuto, e la protezione/estorsione di quel territorio.

    Non è la prima volta che a Montreal si formano quelle che le autorità chiamano le fazioni criminali siciliane e calabresi nella mafia italiana. Anzi, questa polarità sembra essere la normalità della capitale del Québec. L’ascesa al potere dei Rizzuto si è fondata su una faida coi calabresi, il clan Cotroni-Violi, originari di Mammola e Sinopoli, su cui i Rizzuto hanno primeggiato negli anni Settanta.

    Nel 2011, l’omicidio di Salvatore Montagna (siciliano e membro di spicco dei Bonanno di New York legato ai Rizzuto) fu l’apice di una guerra intestina all’interno del gruppo Rizzuto, in un momento in cui Vito era in carcere negli Stati Uniti, che portava ancora il segno di quella vecchia faida tra calabresi e siciliani. Per la morte di Montagna in carcere finì Raynald Desjardins, addirittura un mafioso non italiano, ma ancora molto influente a Montreal nelle fila della mafia italiana, in vari periodi opposto a Rizzuto e vicino alle fazioni “calabresi”.

    Un articolo de La Presse, giornale canadese, in cui si parla dell'omicidio di Rocco Sollecito-i-calabresi
    Una bara d’oro per Nick Rizzuto, figlio del boss Vito Rizzuto

    C’entrano poco Cosa nostra e la ‘ndrangheta

    Se l’origine del conflitto tra i Rizzuto e i Cotroni-Violi negli anni ’70 poteva essere ancora letta all’interno di dinamiche regionali – in quel magma indistinto che diventa la mafia italiana all’estero – al 2022 questo conflitto tra calabresi e siciliani non sembra più giustificabile in termini di appartenenza regionale. Chi si uccide in queste lotte di mafia sul territorio di Montreal ha di solito discendenza, ma non origine, calabrese o siciliana o italiana.

    C’entra poco Cosa nostra siciliana, molto poco anche la ‘ndrangheta calabrese, che pure esiste in Canada, con identità distinta anche se ibrida. Quando gruppi di ‘ndrangheta compaiono sulla scena – ad esempio quelli nell’area di Toronto legati ai clan di Siderno spesso di interesse delle procure antimafia italiane – non sembrano trovare in Montreal il loro campo di gioco.

    I clan mafiosi “italiani” a Montreal, e un po’ in tutto il Canada (si pensi ad esempio alla città di Hamilton e alla sua mafia doppia, mista ed eterogenea) sono molto compositi; la loro italianità è sempre negoziabile. Quando c’è origine calabrese tra i mafiosi di Montreal è di solito soltanto una questione di “luogo di nascita” e non di socializzazione o appartenenza culturale; in molti casi la migrazione dalla Calabria avviene nei primi anni di vita. Gli stessi fratelli Scoppa, dalle non meglio precisate origini calabresi, rimasero saldamente ancorati alle beghe criminali locali di Montreal, con pochi contatti, e nemmeno rilevanti, con gli ‘ndranghetisti del vicino Ontario o in Calabria, e molti contatti con gruppi libanesi, messicani, greci, a seconda del business criminale – cocaina principalmente – di riferimento.

    Vito Rizzuto, capo della Sesta Famiglia, morì a Montreal nel 2013

    Dichiararsi calabresi ha una valenza identitaria

    In questi casi, il dichiararsi calabrese, e lo stare contro i siciliani, ha una valenza identitaria. I mafiosi, per riconoscersi ed essere riconosciuti, si affidano a un capitale simbolico contestualizzato. Nel contesto di Montreal, la faida Rizzuto vs Cotroni-Violi rappresenta la resistenza al potere dei Rizzuto, ergo è ipotizzabile che chiunque voglia ripercorrere, per qualsiasi ragione, un percorso di contrasto al clan reggente, lo faccia evocando quel conflitto siciliani vs calabresi, di facile riconoscimento, e simbolico, per tutti i mafiosi, o aspiranti tali, del luogo.

    Il free-rider della ‘ndrangheta a Montreal

    Ma c’è di più in questa regionalizzazione del conflitto mafioso in Quebec. C’è infatti la sedimentazione della narrazione, passata e presente. Si può dire, in studi criminologici, che la narrazione contribuisca a creare il fenomeno criminale. La narrazione costitutiva a Montreal è sicuramente quella relativa alla potenza incontrastata dei Rizzuto e all’aura carismatica del suo leader Vito, nonostante la sua morte ormai quasi decennale.

    Eppure, Dominico Scarfo – che spesso cita il film Il Padrino, a cui forse è dovuta la sua fascinazione per il sistema mafioso – avrebbe dichiarato di appartenere alla ‘ndrangheta, sebbene non sembri avere legami strutturali con i clan di ‘ndrangheta sul territorio o fuori dal Canada. Scarfo, il cui nome denota discendenza ma non origine calabrese, è quello che potrebbe definirsi un free-rider della mafia calabrese, oggi brand vincente anche in Canada.

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    Domenico Scarfo in un articolo apparso sul giornale canadese La Presse

    Ecco, quindi, che alla narrazione criminale primaria se ne aggiunge un’altra secondaria, ma non meno costituente e costitutiva del fenomeno criminale: quella della ‘ndrangheta. La mafia calabrese, considerata e presentata – a torto o a ragione – come la mafia più potente in Italia e quella più presente sul panorama internazionale, costituisce un’alternativa credibile al potere dei Rizzuto. Soprattutto, proprio a Montreal, dunque può diventare una nuova bandiera identitaria per quei “calabresi” che si schierano contro i siciliani.

    Un’ultima annotazione: sottovalutare questo fenomeno dei free-riders (chi potrebbe poi smentirli!) senza dare a queste narrative il giusto peso analitico, rischia di rinvigorire sia la forza percepita della ‘ndrangheta, sia il noto stereotipo etnico sugli italiani, mafiosi all’estero. In entrambi i casi questa narrativa costituirebbe una versione distorta della realtà criminale.

    Anna Sergi

    Professoressa di Criminologia nell’Università dell’Essex

  • Il Codice Civile compie 80 anni e li dimostra tutti

    Il Codice Civile compie 80 anni e li dimostra tutti

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    Promulgato il 16 marzo 1942, con la previsione che sarebbe entrato in vigore nel giorno del Natale di Roma, il successivo 21 aprile, il Codice civile italiano veniva preannunciato nel 1939 da Vittorio Emanuele III – nel discorso di apertura della XXX legislatura davanti alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni – come il coronamento dell’opera di codificazione mussoliniana, già avviata con i codici penale e di procedura penale, che nel nuovo testo, secondo il regale avviso, avrebbe assunto “particolarissima importanza” soprattutto nella disciplina “del diritto familiare e di tutti i problemi afferenti alla difesa della nostra razza, alla quale il regime ha dato sin dall’inizio le sue più costanti energie”. Basti ricordare che nell’anno precedente il monarca non ebbe alcuna difficoltà a promulgare le leggi razziali, per comprendere come il passaggio del discorso appena ricordato dimostri, se ve ne fosse bisogno, che quelle ignominiose leggi erano pienamente condivise e non subite dal promulgante.

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    Il Codice civile del 1942

    Codice civile, un testo fascista

    Esaltato come tale, nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario, dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, il quale lo definiva “superba conquista della civiltà fascista”, narrandone le innovazioni e gli aggiornamenti determinati, rispetto alla “vecchia legislazione”, dall’influsso delle idee della “nuova civiltà nazionale e fascista”. Insieme al codice di procedura civile, a quello della navigazione e alla legge fallimentare – si diceva certo l’alto magistrato – “entrando in attuazione nel mentre la guerra infuria, queste leggi costituiscono un potente strumento di compattezza e di resistenza morale e politica e danno una base salda e duratura alle realizzazioni dell’immancabile vittoria, che schiuderà all’Italia nuovi spazi vitali nel mondo”.

    Una profezia fallace

    Statuto-Albertino
    La firma dello Statuto Albertino

    Nel luglio 1943 cade il fascismo, il monarca prima plaudente fa arrestare Mussolini, la guerra è persa e viene firmato l’armistizio. Viene soppresso l’ordinamento corporativo, indicato fra le fonti del diritto nella prima disposizione preliminare al codice civile, ma il codice sopravvive intonso fino al 1° gennaio 1948, data di entrata in vigore della Costituzione della neonata Repubblica Italiana, che sostituisce alla posizione centrale dell’ordinamento giuridico, in precedenza (i.e. Statuto albertino) assunta dall’autorità statuale (che poteva, ad esempio, permettersi anche di varare leggi razziali), i diritti naturali della persona umana, inviolabili da chiunque, anche dallo Stato.

    La rivoluzione copernicana del nuovo Codice civile

    Una vera e propria rivoluzione copernicana che, ponendo al centro la persona, afferma le libertà del cittadino, come singolo e nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, contemperandole con i doveri di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2); dichiara la pari dignità sociale di tutti i cittadini e la loro eguaglianza, “senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, assegnando alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3).

    Tale rivoluzione mette in discussione l’impianto stesso del codice civile, che tuttavia non viene rimosso dal legislatore ordinario e continua a regolare la vita dei cittadini ed i loro rapporti, quasi che l’impatto costituzionale dovesse riguardare prevalentemente il diritto pubblico (quod ad statum rei romanae spectat), ma meno incisivamente il diritto privato (quod ad singulorem utilitatem). Si teorizza che le norme costituzionali hanno soprattutto carattere programmatico, riservando al legislatore il compito di attuarle con nuove leggi. Inizia in tal modo il percorso, oggi giunto al compimento degli ottanta anni, attraverso il quale il codice, navicella costruita per navigare nel mare del sistema corporativo e del regime autoritario, affronta la sfida della navigazione in tutt’altro mare e con punti cardinali mutati.

    Ottant’anni di cambiamenti

    In questi ottanta anni sono intervenute sentenze della Corte costituzionale che hanno dichiarato l’illegittimità di singole norme, ma non sono mancate riforme legislative parziali, che però hanno mutato l’assetto di specifiche materie senza incidere sull’impianto generale. La materia del lavoro, ad esempio, rimasta orfana dell’ordinamento corporativo, non ha conosciuto una riforma del codice ed è stata affidata alla legislazione speciale e alla contrattazione collettiva, con la mutevolezza che ne è derivata nelle diverse stagioni politiche. Viceversa la materia commerciale, che aveva trovato dimora nel codice civile per “scelta fascista” (nella codificazione ottocentesca esistevano due distinti codici: quello civile e quello di commercio), è stata mantenuta a dimora e tuttavia riformata più volte soprattutto con riferimento al diritto societario.

    Il Codice civile e le famiglie

    Laddove l’azione riformatrice è stata più incisiva, nel diritto di famiglia, il progresso è stato molto lento. Ci sono voluti ventisette anni, nel 1975, evidentemente sull’onda del referendum popolare del 1974 che ha respinto le istanze di abrogazione della legge sul divorzio, perché il legislatore si decidesse a porre mano all’art. 144 (Potestà maritale) che, in contrasto con il principio di uguaglianza fra i sessi, sancito dall’art. 3 Cost., recitava: “il marito è il capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”.

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    Cittadini in piazza contro l’abrogazione del divorzio

    Le ragioni di tanto ritardo sono tutte culturali e non hanno mancato di influenzare persino i lavori dell’Assemblea Costituente, se nel testo dell’art. 29 della Costituzione è dato leggere, con chiaro riferimento alla norma del codice allora vigente, che “il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. Come dire: una sorta di autorizzazione al legislatore ordinario a perpetrare discriminazioni della donna che infarcivano il codice sopravvissuto al fascismo, facendo prevalere il bene dell’unità familiare, costi quel che costi alla felicità delle persone, sulla parità di diritti e doveri dei coniugi.

    Per non parlare poi del discrimine tra famiglia fondata sul matrimonio e convivenze di fatto (che ha trovato un accomodamento con la legge sulle unioni civili nel 2016), tra figli legittimi e naturali (equiparati solo nel 2012), ed ancora tra matrimonio e unioni civili (per le quali il legislatore che le ha istituite nel 2016 si è preoccupato di marcare la differenza con il matrimonio escludendole dal dovere di fedeltà).

    Tante norme immutate

    A fronte delle riforme alle quali si è fatto cenno, che sono intervenute in questi ottanta anni, la maggior parte delle norme del codice sono rimaste immutate. Ciò riguarda interamente il diritto delle successioni, quasi integralmente il diritto di proprietà e gli altri diritti reali, l’impianto del diritto delle obbligazioni e del contratto in generale. Tante innovazioni sono state apportate, senza modificare le norme del codice, attraverso la legislazione speciale, per cui si è formata una normativa parallela che ha disciplinato settori come, ad esempio, il diritto delle assicurazioni ed i contratti dei consumatori, introducendo principi e regole divergenti da quelle codicistiche.

    Il Codice Civile compie 80 anni e li dimostra tutti

    Un settore che soffre in particolar modo del mancato adeguamento del testo normativo al mutamento della realtà economica e sociale è quello della responsabilità civile. In esso, ma non è il solo, al legislatore si è sostituita la magistratura che, assolvendo ad una funzione di supplenza, non sempre virtuosa, ha iniziato persino a ”creare” norme non scritte nella legge.

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    La cosiddetta giurisprudenza creativa è oramai una realtà ineludibile, frutto di carenze imputabili ad un legislatore sempre più distratto e sempre meno tempestivo nel cogliere i mutamenti della società e le esigenze di regolazione di fenomeni nuovi (si pensi all’impatto che stanno determinato nella vita di tutti noi le nuove tecnologie e le intelligenze artificiali). Fenomeni che non possono trovare adeguata disciplina in un codice civile che, al netto delle riforme parziali intervenute, è in gran parte rimasto immutato in questi ottanta anni. Un codice prodotto dal fascismo, costituzionalizzato alla meno peggio, sempre meno pronto a garantire la certezza del diritto, vecchio di ottanta anni. E li dimostra tutti.

    Vincenzo Ferrari
    Avvocato e Professore di Diritto Privato nell’Università della Calabria

  • Prima confiscati e poi inutilizzati: i beni delle ‘ndrine

    Prima confiscati e poi inutilizzati: i beni delle ‘ndrine

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    Nel marzo del 1996 l’Italia ha approvato, anche su iniziativa di Libera, la legge 109 sul riutilizzo dei beni confiscati alla criminalità organizzata. Sono passati 15 anni nel corso dei quali il colpo forse più doloroso inferto alle mafie lo ha rappresentato non solo la confisca di beni, ma la loro restituzione alla collettività attraverso l’assegnazione a cooperative o realtà sociali del terzo settore. Un cammino lungo, incerto, non privo di pericoli, ma che ha dato frutti importanti. Nel report di Libera – aggiornato al 25 Febbraio – si legge che la Calabria è la seconda regione con il maggior numero di realtà sociali coinvolte in questo percorso.

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    La sede romana dell’Agenzia per i beni confiscati alla criminalità organizzata

    I problemi dell’Agenzia

    Tuttavia non tutto è andato bene a causa anche delle macchinose procedure e della debolezza dell’Agenzia dei beni confiscati, che avrebbe necessità di maggiori risorse umane e finanziarie.
    A confermare questa debolezza, il fatto che in tutta Italia sono meno di duecento le persone che lavorano attorno a questi temi e in Calabria solo 15, chiaramente poche rispetto all’impegno necessario.

    Il lavoro dell’Agenzia consiste nel mappare i beni che la magistratura confisca alle mafie e successivamente affidarli ai Comuni. Un viaggio pieno di insidie, che ha conosciuto anche qualche passo falso, come la storia dell’Hotel Sibarys di Cassano. La struttura era stata confiscata nel 2007 e l’Agenzia  l’aveva inclusa tra gli immobili disponibili per il riuso, ma nel 2019 la Corte d’Appello di Catanzaro ne ha ordinato il dissequestro e la restituzione definitiva alla famiglia Costa.

    I beni restano dello Stato e per le attività è un guaio

    Una decisione che ha lasciato l’amaro in bocca a chi progettava di acquisire il bene.  «Quella è stata una mazzata sul piano psicologico e della comunicazione, perché si pensa che un bene confiscato non possa tornare indietro», racconta Umberto Ferrari, emiliano da vent’anni in Calabria, responsabile di Libera e uno dei protagonisti della cooperativa Terre ioniche, che gestisce i beni sequestrati agli Arena.
    Se ottenere un bene tolto alla ‘ndrangheta non è facile, affrontare la durezza del mercato può esserlo anche di più.

    «Queste realtà – spiega Ferrari – hanno più difficoltà di altri, perché l’impresa non è proprietaria dei beni che gestisce, che restano dello Stato e quindi non ha capitale». Questo si traduce nell’impossibilità di fornire garanzie per avere mutui bancari e fare i conti con la carenza di liquidità. A soccorrere le imprese sociali impegnate ci sono la rete Libera terre e il consorzio Macramè che sostengono la commercializzazione delle merci prodotte dal lavoro dei vari soci.

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    Vincenzo Ferrari (Libera) è uno dei protagonisti della cooperativa Terre ioniche

    I numeri del fenomeno

    Le aziende maggiormente presenti in Calabria sono quelle agricole, ma oltre alle terre ci sono gli immobili, che rappresentano di gran lunga la maggior parte dei beni confiscati. Secondo i dati di Libera in Calabria sono 2908, di cui poco più di 1800 consegnati agli enti (Comuni, Province e Regione) che dovrebbero a loro volta assegnarli a quanti ne fanno domanda. Dalle mappe realizzate dal dossier di Libera aggiornato al 2021, sono circa 800 le associazioni concretamente assegnatarie di immobili. Pertanto risulta che la gran parte è rimasta nelle mani delle amministrazioni che non ne dispongono l’uso. «Con gli immobili è difficile fare impresa – spiega ancora Ferrari – e per lo più li utilizzano associazioni che si occupano di servizi sociali».

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    L’ex sindaco di Reggio, Giuseppe Falcomatà e Tiberio Bentivoglio, imprenditore e vittima di mafia

    I Comuni fanno poco

    Tuttavia qui emerge l’altra falla nella normativa e cioè che «troppi beni restano in capo alle amministrazioni comunali e la stragrande maggioranza non ne fa nulla, lasciandoli nell’abbandono», dice ancora Ferrari. È vero che ultimamente alcuni Comuni hanno destinato qualche immobile alle emergenze abitative. In questi giorni alcune amministrazioni propongono di mettere immobili sequestrati a disposizione dei profughi che stanno fuggendo dalla tragedia della guerra in Ucraina.

    Il problema è che la disponibilità è limitata solo a quegli appartamenti davvero abitabili, mentre la gran parte è vandalizzata, anche perché prima di mollare il bene, i vecchi proprietari lo devastano. L’Agenzia da parte sua solo da due anni cerca di effettuare un monitoraggio su come si utilizzano i beni confiscati e chiede ai Comuni un resoconto rigoroso, che tuttavia non sempre giunge puntuale.

    Gli immobili confiscati alle mafie non sono quasi mai in buone condizioni. Ne sa qualcosa l’imprenditore “coraggio”, Tiberio Bentivoglio

    Il caso Bentivoglio: vittima di mafia a rischio sfratto

    Chi conosce bene sulla sua pelle la fatica di avere in gestione un immobile strappato alla criminalità è Tiberio Bentivoglio, vittima di mafia e imprenditore reggino.
    «Quando con l’architetto Rosa Quattrone siamo entrati nei locali che poi sono diventati la sede della mia attività, ci siamo messi le mani nei capelli», racconta l’imprenditore, che ha subìto attentati anche durante i lavori di ristrutturazione, costati oltre 80mila euro. Bentivoglio è impegnato nel tentativo di migliorare la legge, chiedendo di fornire sostegno economico a quanti prendono in gestione un bene confiscato, «perché senza una agevolazione finanziaria tutto è più difficile».

    Il bene che ospita l’attività della sua famiglia è stato assegnato al Comune di Reggio, cui Bentivoglio paga un fitto, ma non potendo fare fronte alle spese il Comune l’ha dichiarato moroso e ora si attende l’ufficiale giudiziario. «Io sono la sola vittima di mafia in Italia ad usare un bene confiscato – racconta Bentivoglio – e ho scritto al sindaco Falcomatà che non ce la faccio a sostenere le spese. Quindi, se vuole, mi deve cacciare». È ben difficile che l’ente proceda in tal senso, salvo non voler incorrere in danno d’immagine, ma la situazione è particolarmente difficile.

    I sospetti del vescovo Savino

    «In Calabria accedere ai beni confiscati alla ‘ndrangheta comporta un surplus di impegno» dice accorato il vescovo Francesco Savino, che guida la Diocesi di Cassano allo Jonio. Lunga militanza dentro Libera, vecchia amicizia con don Ciotti, protagonista di un impegno contro le mafie, Savino non esita a indicare tra i problemi con cui fare i conti la «lentezza, quasi l’accidia calabrese e soprattutto una classe politica e burocratica non all’altezza delle opportunità».

    Non manca nelle sue parole il riferimento a una vecchia affermazione di Gratteri, che chiamava in causa «l’indissolubile matrimonio tra mafie e massonerie deviate» e alla possibilità che tra le cooperative che acquisiscono i beni ci siano anche prestanomi, «cosa che io non posso documentare ma in questa terra manca la libertà e in questo caso il sospetto rischia di essere molto vicino alla verità».

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    Francesco Savino, vescovo di Cassano alloJonio

     

  • Rocco Gatto: il mugnaio rosso che non aveva paura della ‘ndrangheta

    Rocco Gatto: il mugnaio rosso che non aveva paura della ‘ndrangheta

    «È venuto uno e mi ha chiesto la mazzetta, i soldi. E io non glieli ho dati. Qualcuno invece paga e non dice niente: non c’è unità nella lotta a questa gente. Io, da parte mia, li lotto sempre, fino alla morte». Quando Rocco Gatto racconta allo sbigottito inviato Rai come ci si oppone alla mafia nella Gioiosa del 1976, le coppole storte agli ordini di Vincenzo Ursini gli hanno già bruciato il mulino e la casetta sulle colline di Cessarè. Gli hanno fatto sparire gli orologi che amava riparare nei ritagli di tempo. Gli hanno fatto sentire quanto pesi, nella Calabria di quei tempi, mettersi di traverso agli ordini di una mafia che ha già fatto il grande salto verso i traffici di droga e i sequestri di persona.

     

    Il Colore Del Tempo (2008), scritto e diretto da Alberto Gatto, nipote di Rocco, con Ulderico Pesce, Renato Scarpa, Nino Racco, Carlo Marrapodi e Lara Chiellino

     

    È un periodo duro quello a metà degli anni ’70 in questo pezzo di Calabria: la prima guerra di ‘ndrangheta è ancora in pieno svolgimento. Gli equilibri cambiano, i morti ammazzati si contano a decine in tutto il reggino. A Gioiosa il bastone del comando lo ha preso il clan degli Ursini: feroci e famelici, agli ordini del capobastone Vincenzo, i picciotti puntano le terre migliori del paese, quelle di Cessarè. Vogliono quei terreni, li pretendono. Iniziano uno stillicidio di richieste e intimidazioni. I campi coltivati sono devastati dalle mandrie di vacche sacre lasciate libere dagli uomini del clan. Una situazione asfissiante.

    Gioiosa e il sindaco Modafferi

    Ma quelli sono anche mesi di grandi fermenti politici e culturali. E Gioiosa ne è attraversata in pieno. Sindaco della cittadina jonica è Ciccio Modafferi, intellettuale arguto e dirigente del Pci: incurante delle minacce subite, Modafferi si mette alla testa dei cittadini che reclamano giustizia e insieme a sindacati, parrocchie, alleati e avversari politici proclama lo sciopero generale. Nel dicembre del 1975, per la prima volta nella storia, un paese calabrese si ferma per protestare contro la ‘ndrangheta.

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    Il sindaco di Gioiosa Jonica, Ciccio Modafferi

    Rocco Gatto è in prima fila in quel giorno di presa di coscienza collettiva. E lo sarà nei mesi a seguire, quando continuerà a scacciare dal suo mulino gli sgherri del clan che pretendono il pizzo dal suo lavoro e quando, decretando così la sua condanna a morte, denuncerà ai magistrati i mafiosi che volevano chiudere la città per il lutto del loro capo.

    Rocco Gatto e il clan Ursini

    Rocco Gatto ha poco più di cinquant’anni, è il primo dei dieci figli di Pasquale, classe 1907, contadino e stalinista. Dal padre ha ereditato la passione per la politica e il rigore sul lavoro e nella vita. Entra da giovanissimo come tuttofare in un mulino di Mammola e piano piano riesce a mettere da parte i soldi per mettersi in proprio. Attivista politico e antimafioso coriaceo, è convinto che non bisogna mai abbassare la testa alle prepotenze della ‘ndrangheta. Idee pericolose che il mugnaio comunista mette in pratica contrastando e denunciando gli uomini del clan – figli della sua stessa Gioiosa – che strozzano il paese.

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    La manifestazione contro la ‘ndrangheta del 1976 a Gioiosa

    Nonostante la manifestazione, infatti, gli Ursini continuano a taglieggiare i commercianti e ad accumulare potere e ricchezze. Quando, nel novembre del 1976, Vincenzo Ursini viene ammazzato in uno scontro a fuoco con i carabinieri del capitano Niglio, il clan decide di rispondere nel più eclatante dei modi all’attacco dello Stato.

    Chiuso per lutto

    È la notte tra il 6 e il 7 di novembre. Tra poche ore gli ambulanti di mezza provincia converranno a Gioiosa per il tradizionale mercato della domenica. Non ci arriveranno mai. Gli Ursini hanno presidiato tutte le vie d’accesso in città, obbligando con le minacce i malcapitati ambulanti ad una frettolosa marcia indietro. Quel giorno il paese deve considerarsi chiuso per lutto, in onore del mammasantissima ammazzato dai carabinieri. Un ordine perentorio che, con una deriva inarrestabile, si muove dalla periferia fino al centro: anche i negozi del paese devono tenere le serrande abbassate.

    Gli uomini degli Ursini non sono gli unici però a muoversi in quelle ore. Anche Rocco Gatto sta facendo i soliti giri mattutini legati alla raccolta del grano e si accorge di quei movimenti strani sulle vie d’accesso a Gioiosa: riconosce gli sgherri del clan che impongono la chiusura ai negozianti e non ci pensa due volte. Telefona ai vigili urbani, avvisa i carabinieri che intervengono per fare riaprire almeno i negozi cittadini, non si nasconde, in pubblico dice «li spezzo».

    Rocco Gatto deve morire

    Tutti in paese sanno chi è stato a denunciare. Anche gli Ursini lo sanno. Passano le settimane, le minacce di fanno ancora più insistenti, ma Gatto non demorde e pur consapevole di cosa lo aspetti, nel febbraio del 1977 firma davanti ai magistrati di Locri, la denuncia contro i setti picciotti che è riuscito a riconoscere. Nessun altro lo farà.
    Ormai è solo questione di tempo prima che il clan faccia la sua mossa, anche Rocco lo sa. Da qualche giorno ha preso a portarsi dietro il suo fucile da caccia con il colpo in canna, nei suoi giri per le campagne della Locride. La mattina del 12 marzo del 1977 – 45 anni fa – due uomini aspettano il suo furgoncino carico di sacchi di grano dietro una curva della vecchia provinciale che porta verso Roccella. Lo colpiscono tre volte: per il mugnaio che si era opposto alla ‘ndrangheta non c’è scampo.

    La riscossa: il primo Comune parte civile contro i clan

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    L’Unità del 16 aprile 1978

    L’omicidio di Rocco Gatto lascia ferite profonde in quelli che avevano creduto nel cambiamento. Ma non ferma quel sentimento di rivalsa contro le prepotenze della mafia che era maturato negli anni precedenti. A tenere alta la guardia della società civile ci pensa Pasquale, l’anziano padre di Rocco che da quel giorno e fino alla sua morte, combatterà la sua personale battaglia contro il crimine organizzato: «A uno lo possono sparare, a cento no» dirà davanti alle telecamere di Piero Marrazzo. Le denunce per il raid al mercato intanto sono andate avanti, le indagini dei carabinieri sono state meticolose e si arriva così a processo dove, con un mandato forte dell’unanimità del Consiglio comunale, il sindaco Modafferi, per la prima volta in Italia, si costituisce parte civile contro la mafia in nome del comune di Gioiosa Jonica.

    Il quarto stato dell’antimafia

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    Il murales dedicato a Rocco Gatto nel 1978 e restaurato trent’anni dopo dall’associazione Da Sud

    Una svolta epocale che contribuirà a tenere alta l’attenzione degli italiani – anche grazie all’opera del partito e della Cgil – su quel paesino a sud della Calabria che aveva saputo trovare una spinta di innovazione da tutta quella violenza. Quando, esattamente un anno dopo l’omicidio, la Corte d’assise di Locri firmò la condanna per i sette picciotti che volevano chiudere il paese, le vie di Gioiosa accolsero un’altra grande manifestazione. Migliaia di persone da tutta Italia, nella primavera del ’78, arrivarono nella Locride per marciare in ricordo di quel mugnaio coraggioso. In ricordo di quel giorno sulla piazza che la mafia voleva chiusa campeggia il murale del quarto stato dell’antimafia.

    Pertini e la medaglia al padre di Rocco Gatto

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    Sandro Pertini consegna a Pasquale Gatto la medaglia

    Anche il processo per l’omicidio di Gatto arriva in tribunale. Alla sbarra ci sono Luigi Ursini e un suo sodale. A sostenere l’accusa non bastano però la forza e la dignità del vecchio Pasquale che racconta in aula di come fosse maturato l’omicidio, indicandone i colpevoli. I due imputati vengono condannati per le violenze subite dal mugnaio, ma l’accusa d’omicidio cade per insufficienza di prove. Nessuno pagherà per la morte di Rocco Gatto. Sarà lo stesso Pasquale a ricordarlo al Presidente Sandro Pertini che, durante la cerimonia ufficiale di consegna della medaglia d’oro alla memoria, mandò al diavolo il cerimoniale per abbracciare quel vecchio ostinato che non si era stancato di combattere.