Non si è allontanato volontariamente ma sarebbe rimasto vittima di un omicidio l’imprenditore agricolo Agostino Ascone, scomparso nel tardo pomeriggio del 27 dicembre da quando non fece più ritorno nella sua abitazione di Amato di Taurianova, in provincia di Reggio Calabria. In stato di fermo sono finiti la moglie dell’imprenditore Ilaria Sturiale, Salvatore Antonio Figliuzzi, legato alla donna e Giuseppe Trapasso, ritenuto complice dei due. A carico dei tre è scattato un decreto di fermo emesso dalla Procura in seguito alle indagini effettuate dai militari del Nucleo investigativo di Gioia Tauro.
Tag: giustizia
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Liberi di studiare: 57 detenuti “in attesa” di laurea
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Cinquantasette detenuti che sognano di laurearsi dal carcere in Calabria. Sono i numeri che nell’anno accademico in corso delineano i tratti della parte meno nota del sistema di istruzione universitario calabrese: quella di chi si è rimesso a studiare con l’obiettivo di trovare sui libri un riscatto che galere troppo spesso sovraffollate non riescono a garantire. A fare da traino è il penitenziario “Ugo Caridi” di Catanzaro, che, sulla scorta di una collaborazione ormai consolidata con l’Università Magna Græcia, conta ben 26 aspiranti dottori.
Altri quattro che scontano la pena lì risultano iscritti all’Unical. L’ateneo rendese martedì ha festeggiato la prima laurea specialistica in Sociologia di un detenuto a Rossano, penitenziario nel quale a sognare il titolo sono in 12. Sei gli studenti Unical rinchiusi a Paola, tre – uno per carcere – quelli a Lauretana di Borrello, Vibo Valentia e Castrovillari.

L’Università di Catanzaro La scommessa del penitenziario di Catanzaro
Due dei 29 detenuti che si sono laureati nelle patrie galere nel corso del 2021 hanno conseguito il titolo nel “Caridi”: Salvatore Curatolo a luglio, Sergio Ferraro a ottobre. Ma dietro le sbarre c’è anche chi non si limita a studiare e fa da tutor a quelli che per portare a termine il proprio percorso formativo hanno bisogno di una spinta in più. La collaborazione tra Magna Græcia e Unical in carcere a Catanzaro passa anche da una serie di seminari per gli studenti detenuti in Alta sicurezza.
I corsi sono di Sociologia giuridica e della devianza e Sociologia della sopravvivenza. I temi spaziano dal populismo penale alla giustizia riparativa, passando da violenza e diritto, prostituzione e pornografia, police brutality e tortura, terrorismo, lotta armata, resistenza e molto altro. È un’iniziativa mai sperimentata prima in Italia e tra i relatori ha visto anche il calabrese Giuseppe Spadaro, oggi presidente del Tribunale dei minori di Trento.
La Dad dietro le sbarre
Tutto si svolge in carcere, con i 16 detenuti coinvolti che diventano protagonisti di lezioni che poi arrivano in streaming ai cosiddetti “studenti normali”, tra cui quelli dell’Università di Bologna e di un liceo di Palermo. La Magna Græcia e il “Caridi” hanno così trasformato il freno della Dad imposta dalla pandemia in un’occasione per rendere fruibile all’esterno lezioni che i detenuti hanno svolto in presenza. Tutto nella massima attenzione alla tutela della sicurezza: i detenuti non possono interagire con gli altri studenti.
Quello di Catanzaro è comunque l’unico polo universitario penitenziario d’Italia nel quale i corsi rivestono carattere di ufficialità. Qui i docenti non sono più volontari del sapere, una delibera recentemente approvata dal dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Sociologia consente loro di sfruttare il tempo compreso nel proprio monte ore personale esattamente come quando insegnano in facoltà.

Angela Paravati, direttore del carcere di Catanzaro Carcere in Calabria: a Catanzaro la cultura è di casa
Non mancano le richieste di trasferirsi in questo carcere per soli uomini diretto da una donna, avanzate da detenuti che nel capoluogo calabrese vedono lo sbocco naturale del loro percorso formativo. Tra i 588 ospiti del “Caridi”, in effetti, la cultura è di casa. A puntarci è la direttrice Angela Paravati, a stimolarla il coordinatore del corso di laurea in Giurisprudenza, Andrea Porciello, e il delegato del rettore nella Rete per i poli universitari penitenziari, Charlie Barnao.

La casa circondariale di Catanzaro Dolci evasioni
Neppure il regime di Alta sicurezza 1 fa da freno. Anzi, chi esce dal 41 bis cede spesso al fascino dei libri e a Catanzaro trova gli stimoli giusti. Ma tra quelle mura c’è spazio pure per le ghiottonerie di chi, nonostante l’ergastolo ostativo, il suo riscatto l’ha cercato nei dolci. È il caso di Fabio Valenti, che nel profumo dei suoi dolci trova golosissimi momenti di evasione apprezzati dentro e fuori il carcere. È il pasticcere del penitenziario di Catanzaro e coi suoi manicaretti ha attirato pure l’attenzione del maestro della pasticceria Luca Montersino. Per iniziare gli sono bastate due pentole capovolte, il suo forno l’ha creato così.
Nelle 280 pagine del libro Dolci (c)reati, curato da Ilaria Tirinato ed edito da Città del Sole, c’è tutto il buono delle pratiche educative che aiutano anche chi ha trascorso in carcere 27 dei suoi 50 anni e sa che di avere dinnanzi il “fine pena mai”. La sua è un’altra storia di passioni assecondate e sostenute. Arriva anche da qui la scelta di dare i nomi alle sue ricette associando a ogni dolce un articolo del codice penale. Perché in fondo dietro le sbarre resta sempre la consapevolezza che ogni azione ha una conseguenza.
Antonella Scalzi
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Tentato omicidio a Cosenza, quattro persone in manette
Quattro persone sono state arrestate – due in carcere e due ai domiciliari – dai carabinieri della Compagnia di Cosenza nell’ambito delle indagini avviate a seguito di un tentativo di omicidio avvenuto, in città, nella notte tra il 3 e il 4 dicembre. Nella circostanza la vittima riuscì a evitare di essere colpito in parti vitali.
Gli arresti, nei confronti di soggetti ritenuti a vario titolo presunti responsabili di tentato omicidio e detenzione e porto illegale di armi comuni da sparo, sono stati fatti in esecuzione di un’ordinanza emessa dal Gip di Cosenza su richiesta della Procura. Dalle indagini, svolte dai militari anche sulla base di attività tecniche, è emerso che uno degli indagati nella circostanza, nel centro urbano di Cosenza, fece fuoco utilizzando un’arma contro la vittima che però riuscì a reagire con prontezza facendo deviare il colpo e venendo raggiunto prima ad una mano e poi ad una coscia. Gli investigatori, secondo quanto riferito, hanno ricostruito il movente dell’episodio che non è stato reso noto. Non si escludono al momento ulteriori sviluppi. Durante le perquisizione operate dai carabinieri un 34enne è stato inoltre arrestato in flagranza di reato e posto ai domiciliari con l’accusa di detenzione illecita di sostanze stupefacenti perché trovato in possesso di 858 grammi di marijuana.
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Usura ed estorsione con metodo mafioso: tre arresti nel Cosentino
Avrebbero prestato denaro ad un piccolo imprenditore, gestore di un lido balneare, imponendogli tassi usurari costringendolo a subire minacce. Tre persone, appartenenti allo stesso nucleo familiare, sono state arrestate dai carabinieri di Scalea. Sono accusate, a vario titolo, di usura, estorsione ed esercizio abusivo dell’attività finanziaria con l’aggravante del metodo mafioso.
I militari hanno inoltre proceduto al sequestro preventivo di beni per circa 250mila euro. I sigilli sono stati apposti, in particolare, ad un magazzino di 100 metri quadri. Gli arresti, due in carcere e uno ai domiciliari, sono stati fatti in esecuzione di un’ordinanza emessa dal Gip del Tribunale di Catanzaro. Emessa su richiesta della Procura della Repubblica-Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro.
L’imprenditore di Scalea presunta vittima di usura ed estorsione
L’indagine ha avuto origine nel settembre 2021 dalla denuncia presentata dall’imprenditore in relazione ad un presunto prestito usurario di cui sarebbe stato vittima e da cui è emersa, successivamente, un’ulteriore vicenda relativa ad una presunta estorsione ai danni di altro imprenditore. L’aggravante del metodo mafioso è emersa in quanto le condotte illecite da parte dei tre sarebbero state poste in essere dal terzetto avvalendosi della forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo riconducibile alla cosca di ‘ndrangheta operante sul territorio.
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‘Ndrangheta, chiesti tre ergastoli per l’omicidio Belsito
Il pm della Dda di Catanzaro Andrea Mancuso ha chiesto la condanna all’ergastolo per tre dei quattro imputati che hanno scelto di essere giudicati con rito abbreviato nell’ambito del processo per l’omicidio di Domenico Belsito, avvenuto nel 2004 a Pizzo.
I Pm chiedono 7 anni per il pentito Andrea Mantella
Le richieste di carcere a vita sono state avanzate per Pasquale Bonavota, di 47 anni, Nicola Bonavota (45) e Francesco Fortuna (41), tutti di Sant’Onofrio. Per il quarto imputato, il pentito Andrea Mantella, è stata chiesta una pena di 7 anni e 2 mesi di reclusione. Oltre che dell’omicidio, gli imputati sono accusati di lesioni personali aggravate per il ferimento del cognato di Mantella, il 66enne Antonio Franzè, avvenuto a Vibo.
Il delitto sarebbe maturato per dinamiche interne ai clan
Belsito fu ferito a colpi di arma da fuoco la sera del 18 marzo 2004 mentre si trovava in un noto bar di Pizzo e morì due settimane dopo nell’Ospedale di Vibo Valentia. A sparare – secondo l’accusa – fu Francesco Scrugli, ucciso a Vibo nel 2012. Un omicidio che per la Dda di Catanzaro sarebbe maturato per dinamiche interne ai clan, impegnati in una lotta interna alla famiglia di ‘ndrangheta dei Bonavota di Sant’Onofrio per meglio definire la spartizione dei territori di competenza. A processo con rito ordinario, invece, c’è Salvatore Mantella, ritenuto mandante dell’omicidio e cugino del collaboratore di giustizia che avrebbe partecipato materialmente al delitto.
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Economia e coronavirus: un affare di famiglie
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Nei mesi bui del 2020, quelli del lockdown, la già stagnante economia calabrese ha avuto un calo del Pil di circa 9 punti percentuali. Paura, incertezza, emergenza: sono situazioni che le cosche della ‘ndrangheta «hanno sempre dimostrato di saper sfruttare a proprio vantaggio». Come? Ovvio: con i soldi. «Massimizzando i profitti ed orientando gli investimenti verso contesti in forte difficoltà finanziaria».
Lo scrive chiaramente la Dia nella relazione inviata al Parlamento: una radiografia sull’attività delle mafie nel primo semestre del 2021 che, però, parte proprio dallo shock economico che la pandemia ha prodotto per capire come e quanto organizzazioni finanziariamente potentissime come la ‘ndrangheta ci abbiano guadagnato.
L’area grigia
Con il covid un sistema produttivo che era già fragile e indebitato ha avuto un improvviso, ulteriore bisogno di liquidità. Nel mercato del credito – dice il Rapporto della Banca d’Italia su “L’economia della Calabria” – c’è stato un «forte rallentamento osservato nei finanziamenti destinati alle famiglie». E la mafia calabrese ha sempre saputo proporsi come un sostegno per le famiglie in difficoltà. La “filantropia” della ‘ndrangheta, però, non è ovviamente gratis. La si paga a tempo debito.
C’è poi un altro aspetto che la Dia ribadisce, quello della famigerata area grigia: «Le cosche continuano a dimostrarsi abili nel relazionarsi agevolmente e con egual efficacia sia con le sanguinarie organizzazioni del narcotraffico sudamericano, sia con politici, amministratori, imprenditori e liberi professionisti la cui opera è strumentale al raggiungimento di precisi obiettivi illeciti».
Il record delle interdittive antimafia? In Calabria
Cose note, certo. Come non sorprende che la Calabria abbia il record delle interdittive antimafia (134 su 455 in tutta Italia, +18,49% rispetto al 2020) proprio nei settori maggiormente provati dalla pandemia e dunque più a rischio infiltrazione.
Si tratta comunque di premesse necessarie per focalizzare altri dati, forse meno d’impatto rispetto alle classiche mappe sulla spartizione territoriale delle province calabresi o alle considerazioni sugli agganci con i colletti bianchi. Non perché siano più o meno importanti, ma perché ne sono la diretta conseguenza.

La ‘ndrangheta con la droga, le armi, l’usura, le estorsioni, gli appalti pubblici e quant’altro fa una montagna soldi, così tanti da non sapere dove metterli. Ed è qui che entra in gioco l’attività antiriciclaggio che la Dia effettua partendo dalle segnalazioni che provengono sia dall’estero che dal territorio nazionale attraverso le Financial Intelligence Unit (F.I.U.) e l’Unità di Informazione Finanziaria della Banca d’Italia.
Nel primo semestre dell’anno scorso sono state segnalate 11.915 operazioni finanziarie sospette, delle quali 2.459 di diretta attinenza alla criminalità mafiosa e 9.456 riferibili ai cosiddetti reati spia (per esempio impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, usura, estorsione, danneggiamento seguito da incendio ecc.).

Segnalazioni di operazioni sospette (percentuali tra quelli di diretta attinenza alle mafie e reati spia) Sos, ma non è una richiesta d’aiuto
Le 11.915 s.o.s. (segnalazione di operazione sospetta) constano di 374.764 operazioni finanziarie, un numero che risulta più che raddoppiato rispetto al 1° semestre del 2020. La maggior parte (circa l’85%) avviene attraverso ricariche di carte di pagamento (47%), trasferimento di fondi (23%) e bonifici (15%). Il maggior numero delle operazioni finanziarie riferite a segnalazioni sospette potenzialmente attinenti alla criminalità organizzata è stato registrato nelle regioni del Nord (141.000, ovvero il 37%), seguite da quelle meridionali (107.504, 29%), centrali (89.466, 24%) e insulari (33.187, 9%).
La preferenza per i territori più ricchi
In Calabria ci sono state nel periodo in esame 13.518 operazioni finanziarie relative a s.o.s – si tratta del 3,6% rispetto al dato nazionale – delle quali 6.503 ritenute direttamente attinenti alla criminalità organizzata e 7.015 a reati spia. Il “record” è della Campania con un totale di 62.701 operazioni relative a segnalazioni sospette (16,73%), seguono la Lombardia con 58.705 (15,66%) e il Lazio (58.022, 15,48%). È insomma evidente come, pur essendo il 3,6% una percentuale non insignificante per una regione economicamente disastrata, le mafie riciclino su tutto il territorio nazionale prediligendo i territori più ricchi, quelli ritenuti più redditizi dal punto di vista degli investimenti.

Riciclaggio all’estero
Guardando alle ramificazioni estere i dati sul riciclaggio si confermano nel primo semestre 2021 «in continua crescita» rispetto agli anni precedenti: 852 note provenienti dalle F.I.U. estere (fra queste sono ricomprese anche 25 informative che «delineano alcuni possibili profili di anomalia di movimentazioni e transazioni finanziarie connesse all’emergenza epidemiologica Covid-19»), di cui 266 richieste di scambi informativi e 586 trasmissioni di informazioni con conseguente attività di analisi e di approfondimento dei dati che ha riguardato oltre 3.200 persone fisiche e oltre 2.600 persone giuridiche segnalate.
Prestanome e Bitcoin
L’analisi delle informazioni su fondi ritenuti di provenienza illecita collocati in altri Paesi da persone indagate in Italia in alcuni casi fornisce, secondo la Dia, «validi contributi per riconoscere ipotesi di intestazione fittizia a prestanome o di interposizione di società di comodo e la titolarità effettiva dei patrimoni da parte dei soggetti coinvolti anche in considerazione della rinnovata morfologia dei mezzi di pagamento e di movimentazioni finanziarie». Per questi scopi si fa ricorso a «numerosi» tipi di “money transfer” o alle valute virtuali, le ormai note criptovalute «fra cui spiccano i Bitcoin, le svariate Altcoins e i crypto-asset».

‘Ndrangheta Spa
Mettendo insieme questi e altri elementi emersi da indagini e segnalazioni la Dia descrive il vasto panorama dell’imprenditoria mafiosa come «sempre più caratterizzato dalla presenza di holding criminali». Che accumulano risorse tanto ingenti da risultare «di gran lunga superiori» rispetto a quelle che servirebbero per «corrispondere ai bisogni dei loro associati, a sostenere i costi di mantenimento delle proprie strutture ed a promuovere l’avvio d’ulteriori attività delittuose».
Le mafie, insomma, fanno molti più soldi di quanti ne servano per gestire se stessa e i propri business. Così «la maggior parte» dei fondi illeciti viene investita «nel tessuto produttivo e commerciale per costituire profitti apparentemente leciti». Grazie ai soldi, dunque, la ‘ndrangheta si mimetizza e si sovrappone alle imprese sia sul piano sociale che su quello finanziario. E senza esporsi al cosiddetto «rischio d’impresa».
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Gratteri capo della DNA? Il toto-procure in Calabria è già partito
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Nel giro di poche settimane potrebbe innescarsi un complesso effetto domino in seno alla magistratura calabrese. Il Consiglio Superiore della Magistratura, infatti, sembra intenzionato ad accelerare sulla nomina del nuovo procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. E tra i papabili, figura anche il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri.

Federico Cafiero De Raho è stato fino a febbraio procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Il successore di Federico Cafiero De Raho
Sono in tutto sette i candidati per ricoprire il ruolo che, fino alla scorso febbraio, è stato di Federico Cafiero De Raho. Magistrato per anni in prima linea contro i Casalesi a Napoli e poi contro la ‘ndrangheta da procuratore di Reggio Calabria. Proprio nello scorso febbraio, Cafiero De Raho è andato in pensione, lasciando vacante la postazione.
Per la successione nella Direzione nazionale antimafia, uscito di scena l’ex procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, nel frattempo nominato procuratore di Roma, in corsa ci sono il procuratore di Napoli, Giovanni Melillo, il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, il pg di Firenze, Marcello Viola, i procuratori di Catania, Carmelo Zuccaro, di Messina, Maurizio De Lucia, e di Lecce, Leonardo Leone De Castris, e il vicario Giovanni Russo.
Ma la lotta sembra essere ristretta proprio ai primi due: Melillo e Gratteri. Con il primo favorito. Proprio negli scorsi giorni, la Commissione Direttivi del Csm ha effettuato le sue audizioni sui papabili. E da più parti trapela la voglia di Palazzo dei Marescialli di stringere i tempi.
Che dipenderanno, però, da quelli di un’altra nomina. Quella, altrettanto delicata, per il successore di Francesco Greco come procuratore di Milano. La Commissione ha indicato una rosa di tre nomi: il Pg di Firenze Viola, il procuratore di Bologna Giuseppe Amato e l’aggiunto della procura di Milano Maurizio Romanelli, con il primo favorito (e che, quindi, uscirebbe dalla corsa verso la DNA).
L’obiettivo del Csm, pesantemente screditato da quanto emerso con il “caso Palamara” è quello di dare segnali non solo di velocità. Ma anche di meritocrazia.

Il coronamento di una carriera
Per Gratteri, tra i massimi esperti di ‘ndrangheta al mondo, la nomina a procuratore nazionale antimafia sarebbe il coronamento della propria carriera. Che, peraltro, è arrivata a uno snodo cruciale. Gratteri, infatti, si è insediato a capo della Procura di Catanzaro nel maggio del 2016. Praticamente sei anni fa.
E come è noto, per gli incarichi direttivi, il termine massimo di durata è di otto anni, per evitare incrostazioni di potere. Tradotto: entro due anni, il procuratore dovrà lasciare l’attuale posto per scegliere quello che, verosimilmente, lo porterà alla pensione. Ma, chiaramente, la velleità di ambire alla Direzione Nazionale Antimafia, oltre che una legittima aspirazione di Gratteri, è dovuta al fatto di non arrivare al termine ultimo, quando, poi, il trasferimento di funzione diverrebbe obbligatorio.
Gratteri in Direzione Antimafia: gli scenari
Non è facile. Ma, in un modo o nell’altro, il vertice della Procura di Catanzaro dovrà cambiare nei prossimi due anni. E questo potrebbe aprire un effetto domino molto ampio in seno alla magistratura calabrese. Quel posto, infatti, potrebbe essere molto ambito.
In primis dall’attuale procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, che a Catanzaro è già stato aggiunto. Secondo i rumors, Bombardieri tornerebbe volentieri a Catanzaro. Peraltro, essendo alla soglia dei quattro anni di mandato in riva allo Stretto, Bombardieri deve iniziare a guardarsi un po’ intorno. E le Procure importanti, nei prossimi anni, potrebbero essere tutte occupate. Roma ha un nuovo capo da pochi mesi e lo avranno a brevissimo anche Milano, Firenze e Palermo. E, ovviamente, il posto in DNA non sarebbe più vacante.

Il procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri Resterebbero, quindi, Napoli (in caso di vittoria di Melillo) o Catanzaro (in caso di vittoria di Gratteri). Ma, certamente, da calabrese, Bombardieri sceglierebbe più di buon grado la seconda destinazione.
Da non trascurare, però, la soluzione interna dell’aggiunto Vincenzo Capomolla, dell’outsider Giuseppe Capoccia (procuratore di Crotone) e di Pierpaolo Bruni, che a Catanzaro ha già lavorato e che ora è procuratore di Paola.
E se si libera Reggio?
Esponente della corrente di Unicost romana, Bombardieri è stato, da sempre, molto vicino all’ex magistrato Luca Palamara, per anni dominus del Csm e destituito dopo gli scandali in cui rimarrà coinvolto. «Per me Giovanni Bombardieri è come se fossi io, ti prego di non dimenticarlo» – scriveva in una chat. «Ora penso di poter chiudere la mia esperienza qui» – aggiungeva dopo la nomina dello stesso a capo della Procura reggina.
E quindi, a quel punto, si aprirebbe anche la corsa per Reggio Calabria. Una Procura che, negli anni, ha rivestito un ruolo di avanguardia nella lotta alla ‘ndrangheta. Con Giuseppe Pignatone prima e con Federico Cafiero De Raho poi. Ma che negli ultimi anni è stata decisamente fagocitata dall’opera di Catanzaro (soprattutto con la maxi-inchiesta “Rinascita-Scott”) e dalla forza mediatica di Gratteri.
Ma le cose potrebbero cambiare. Perché, con quella poltrona vacante potrebbe arrivare il momento di Giuseppe Lombardo, attuale procuratore aggiunto di Reggio Calabria, che nelle scorse settimane ha già presentato domanda per Firenze, come successore di Giuseppe Creazzo. Al pari proprio di Pierpaolo Bruni. Insomma, l’ambizione al grande salto non manca. E Reggio Calabria potrebbe essere la piazza giusta.

L’ex magistrato Luca Palamara Valzer delle nomine
Dove, peraltro, è ancora vacante il ruolo di procuratore aggiunto lasciato libero da Gerardo Dominijanni, divenuto negli scorsi mesi procuratore generale in riva allo Stretto. Con otto magistrati in corsa: il Procuratore della Repubblica di Caltagirone (Catania), Giuseppe Verzera, ed il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Salvatore Dolce. Poi, ancora, Stefano Musolino e Walter Ignazitto, sostituti procuratori nella Dda di Reggio Calabria ed i sostituti procuratori di Roma Pietro Pollidori, di Salerno Marco Colamonici, di Caltanissetta Pasquale Pacifico e il gip di Napoli Maria Luisa Miranda.
E presto potrebbe liberarsi anche un altro posto: quello dell’altro procuratore aggiunto, Gaetano Paci, indicato all’unanimità come procuratore della Repubblica di Reggio Emilia.
E, a quel punto, partirebbe un’altra girandola per le nuove nomine.
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Sciolti e poi abbandonati: ma l’antimafia dei record funziona?
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Questa storia ha inizio nel primo pomeriggio di un giovedì di maggio di 31 anni fa all’interno di un salone da barbiere a Taurianova, nel Reggino. Quel giorno un killer uccide un uomo mentre fa la barba. La vittima – la faccia ancora sporca di schiuma – si chiama Rocco Zagari ed è un boss della ‘ndrangheta. Il suo omicidio rappresenta il punto di non ritorno della faida tra gli Zagari-Viola-Avignone e gli Asciutto-Alampi che in due anni ha già fatto 32 morti. Il giorno seguente, il 3 maggio 1991, rimarrà agli annali come quello della “mattanza del venerdì nero”.

Il “venerdì nero” di Taurianova nel racconto giornalistico della Gazzetta del Sud La vendetta degli Zagari è impressionante: tre agguati e quattro omicidi. In uno di questi il sicario mozza la testa del cadavere, la lancia in aria e spara come in un macabro tiro al piattello davanti a una ventina di testimoni pietrificati. La Calabria finisce in prima pagina e il governo è costretto a intervenire: il 7 maggio presenta una serie di misure sul caso Calabria e il 31 emana il decreto legge 164 che introduce lo scioglimento per mafia degli enti locali.
A distanza di poche ore, il prefetto reggino dispone la sospensione del consiglio comunale di Taurianova, il 2 agosto arriva lo scioglimento. È la prima volta nella storia d’Italia. O meglio, la prima volta che avviene grazie a una legge. Era già successo infatti nel 1983 quando, alle elezioni del Comune di Limbadi, il boss Ciccio Mancuso aveva ottenuto 469 preferenze su 1215 votanti. Da latitante. Per impedirne la scontata indicazione a sindaco, si era reso necessario un decreto del presidente della Repubblica Sandro Pertini.

Il boss Ciccio Mancuso, quasi sindaco di Limbadi Record su record
Da allora questa storia di record e prime volte si ripete senza soluzione di continuità. La conferma, l’ennesima, arriva dal dossier Le mani sulla città appena pubblicato da Avviso Pubblico, l’associazione degli enti locali contro le mafie: per il quindicesimo anno consecutivo, anche nel 2021 (questa volta al pari di Sicilia e Puglia) la Calabria è prima in Italia per numero di enti sciolti per mafia (quattro su 14: Guardavalle, Nocera Terinese, Simeri Chichi e Rosarno). Ma la Calabria è in vetta anche alla classifica assoluta.
Su 365 decreti di scioglimento, ben 127 riguardano la Calabria (la Campania segue con 113). Di questi, 71 la provincia di Reggio, 24 il Vibonese, 17 il Catanzarese, 10 la provincia di Crotone e cinque il Cosentino. Ben 28 enti – ancora un primato – hanno subìto decreti plurimi, 11 consigli comunali sono stati addirittura sciolti per tre volte (Rosarno, Lamezia Terme, Taurianova, Briatico, Nicotera, San Ferdinando, Gioia Tauro, Platì, Africo, Roccaforte del Greco e Melito Porto Salvo). Sono almeno altri due i primati: su sette aziende sanitarie coinvolte, ben cinque sono calabresi. Ed è calabrese il primo capoluogo di provincia ad avere subìto un decreto di scioglimento: Reggio Calabria.

Comuni sciolti per mafia: il caso Reggio
È il 9 ottobre 2012 quando il Viminale usa la scure sul Comune guidato dal sindaco di centrodestra Demetrio Arena. Per l’Amministrazione, già impantanata in un dissesto finanziario, è un’onta: il provvedimento parla di «contiguità» con ambienti criminali, indica la necessità di «rimuovere le cause del rischio di infiltrazioni mafiose» e chiama in causa la gestione delle aziende municipalizzate e il comportamento di alcuni consiglieri e dipendenti comunali.

Il Comune di Reggio Calabria A nulla serve pubblicare il documento Reggio rivendica il suo ruolo nel goffo tentativo di scongiurare in extremis il provvedimento: si tratta di un retorico e banale appello che – senza esprimersi sui fatti all’attenzione della commissione d’accesso o agevolare un confronto pubblico – richiama a una presunta «ingiusta campagna di diffamazione che criminalizza un’intera città»» e a «una strategia denigratoria di una intera comunità» che ha «bellezze naturali ma anche cultura, eccellenze lavorative, imprenditoriali, professionali, scolastiche». Un testo incredibilmente sottoscritto da oltre 500 tra «professionisti reggini, imprenditori, rappresentanti di organizzazioni di categoria» e dalle principali associazioni antimafia cittadine (Libera, Riferimenti, Ammazzateci tutti, Museo della ’ndrangheta – non lo sottoscrivono invece daSud e Reggio non tace).

Arena e Scopelliti abbracciati Lo scioglimento è un colpo fatale per il cosiddetto Modello Reggio, il sistema politico e di potere del presidente della Regione Giuseppe Scopelliti, padrino politico di Arena, già barcollante per una delle pagine più drammatiche della storia cittadina: il misterioso suicidio di Orsola Fallara, potentissima dirigente del Settore Finanza del Comune. A Reggio inizia l’era dei commissari, poi di nuove amministrazioni targate centrosinistra. Ma un vero dibattito sull’accaduto non ci sarà mai. Un’occasione sprecata.
Il paradosso dell’antimafia
Reggio non è tuttavia un caso isolato. L’analisi di Avviso Pubblico sui trent’anni di applicazione della legge dimostra infatti che esiste un deficit di trasparenza sul lavoro delle commissioni di accesso. E che non funziona la necessaria attivazione di una discussione pubblica sui fatti oggetto del provvedimento. Inoltre, emergono problemi a proposito di scioglimenti giudicati arbitrari perché “politici”, di commissari spesso non all’altezza e dell’impossibilità di intervenire sulla macchina amministrativa: circostanze che creano diffidenza, se non insofferenza, tra i cittadini.
«Alla lunga – sottolinea Vittorio Mete, docente di Sociologia all’Università di Torino, alla presentazione del dossier di Avviso Pubblico – gli scioglimenti godono di un deficit di popolarità e consenso. Quello della legittimità percepita è un problema che dobbiamo porci, perché lo scioglimento non rimedia a un meccanismo di raccolta del consenso che non è sano e che non si ripara in pochi mesi».
Le conseguenze, a volte, rischiano il paradosso: succede quando l’intervento dello Stato crea una frattura del patto tra istituzioni e cittadini, soprattutto nelle aree in cui è più pervasiva la presenza dei clan. Una questione delicata, ricca di contraddizioni che riguarda – è un’avvertenza necessaria – la possibilità di esercitare i diritti costituzionali e nulla ha a che vedere con il falso garantismo che cerca di insinuarsi nelle fragilità del sistema.
Due casi emblematici e una legge da cambiare
Sono emblematici, da questo punto di vista, i casi dei comuni aspromontani di Platì, rimasto per anni senza sindaco a causa di tre scioglimenti e della ripetuta assenza di candidati, e di San Luca, dove Bruno Bartolo è stato eletto nel 2019 (con il 90% delle preferenze!), a distanza di sei anni dallo scioglimento e di ben 11 dalle ultime elezioni, solo grazie alla candidatura del massmediologo Klaus Davi che ha garantito la possibilità di una competizione.

Il municipio a Platì «Coniugare diritti fondamentali – ha scritto di recente lo studioso delle mafie Isaia Sales – con l’esigenza che lo Stato faccia sul serio lo Stato è una questione aperta e non banale. Ma se la sfida si pone a questa altezza è necessario rivedere alcuni cardini della strategia. A partire dalla norma sullo scioglimento dei consigli comunali». Una discussione antica e non più rinviabile. «Quando si arriva a constatare – aggiunge – che ben 78 comuni sono stati sciolti più di una volta, e a volte per ben tre volte (e si potrebbe arrivare addirittura alla quarta!) vuol dire che la legge non è più efficace». E bisogna trovare il coraggio, e la volontà, di cambiarla. Sono tre le proposte di modifica della legge, in commissione Affari costituzionali alla Camera, ma una vera discussione non c’è.
Un fenomeno di classi dirigenti
La ragione va forse cercata nelle parole di Pierpaolo Romani, coordinatore di Avviso Pubblico: «Quella delle mafie, scriveva Pio La Torre, è una questione di classi dirigenti, che ha a che fare cioè con il potere e con coloro che lo detengono». La forza delle mafie sta fuori dalle mafie, spesso nei rapporti politici. «Nel corso del tempo – aggiunge – diverse inchieste giudiziarie, storiche e giornalistiche hanno dimostrato che non può esistere mafia senza rapporti con la politica, ma che può e deve esistere una politica senza rapporti con le mafie». Spezzarli spetta agli apparati repressivi, ma «anche alle forze politiche e ai cittadini elettori».
E tuttavia il tema delle mafie, e del loro rapporto con il potere e con la politica, rimane «assente dal dibattito, anche in questo momento in cui cerchiamo di far partire il Paese col Pnrr», cioè con quella valanga di soldi in arrivo dall’Ue di cui tanto si parla ma su cui non è possibile discutere né per decidere come spenderli, né per individuare il modo migliore di impedire che finiscano nelle mani sbagliate. L’esperienza, a quanto pare, non insegna. Ma questa, seppure anch’essa antica, è un’altra storia.
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Tre omicidi in 24 ore: in Calabria è stato un lunedì di sangue
Lunedì di sangue in Calabria. Tre persone sono state ammazzate a colpi di arma da fuoco e ritrovate senza vita il 4 aprile scorso rispettivamente in provincia di Cosenza e di Reggio Calabria. Maurizio Scorza – 57enne con precedenti per droga – è stato freddato nelle campagne di Gammellona, nel territorio di Castrovillari – insieme alla compagna 38enne di origini tunisine. Mentre un agricoltore di 62 anni – Bruno Calanna – è stato ucciso a Calanna – piccolo centro a pochi chilometri dalla città dello Stretto.
Duplice omicidio a Castrovillari: l’uomo era già sfuggito a un agguato
Il corpo senza vita di Maurizio Scorza é stato trovato nel portabagagli della sua Mercedes ieri sera. Quello della donna, di cui non sono state ancora rete note le generalità, era sul sedile lato passeggero della vettura. Sui cadaveri sono stati rilevati numerosi fori provocati dai colpi presumibilmente di fucile sparati da una o più persone. I carabinieri, sotto le direttive della Procura della Repubblica di Castrovillari hanno iniziato a seguire la pista della vendetta maturata negli ambienti della criminalità. Ipotesi avvalorata anche dal fatto che nel 2013 Scorza sfuggì ad un agguato mentre stava percorrendo a piedi una via di Castrovillari.
Sarebbe stato vicino alla ‘ndrangheta dell’Alto Ionio cosentino
Maurizio Scorza sarebbe stato vicino ad alcune cosche di ‘ndrangheta dell’Alto Ionio cosentino. È quanto emerge dalle indagini che stanno conducendo i carabinieri del Reparto operativo del Comando provinciale di Cosenza e della Compagnia di Castrovillari. Gli inquirenti, però, non escludono nessuna pista investigativa. Scorza, comunque, non aveva precedenti per mafia, ma soltanto per droga. Ad un possibile movente maturato in un contesto di criminalità organizzata viene attribuito anche l’agguato che fu compiuto nel 2013 ai danni di Scorza, che nell’occasione restò illeso, ad opera di persone non identificate.
L’agricoltore freddato a pochi chilometri da Reggio Calabria
Bruno Provenzano è stato trovato morto nelle campagne di Rosaniti, frazione di Calanna, comune alle porte della città dello Stretto.
Noto alle forze dell’ordine, ma per piccoli fatti, l’agricoltore di 62 anni era all’interno del proprio van quando qualcuno gli ha sparato. Un familiare o un conoscente della vittima aveva notato il mezzo. Una volta avvicinatosi, si è accorto del cadavere e ha avvertito i carabinieri. I proiettili lo hanno raggiunto in punti vitali e non gli hanno lasciato scampo. L’inchiesta è coordinata dal procuratore capo Giovanni Bombardieri e dal sostituto procuratore Giulia Scavello. I carabinieri stanno sentendo parenti e amici dell’uomo. Sono in corso, inoltre, alcune perquisizioni nelle abitazioni dei pregiudicati della zona.
Tra le varie ipotesi ci sono questioni personali, di vicinato o problematiche relative all’attività lavorativa che Provenzano svolgeva in campagna. Non si esclude, però, nemmeno che l’uomo sia stato ucciso in un contesto di criminalità organizzata. La zona di Calanna, Gallico e Catona, infatti, è quella dove negli ultimi anni si sono registrate più fibrillazioni tra le cosche del territorio. Tensioni che hanno portato anche a diversi omicidi di mafia.
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Arghillà, morire in cella a 29 anni e senza processo
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Potrebbe restare senza colpevoli la morte di Antonino Saladino, il ventinovenne deceduto nel carcere di Arghillà a Reggio nel marzo del 2018 in seguito alle conseguenze di un’infezione interna. Nonostante la proroga alle indagini disposta dal Gip poco più di un anno fa, infatti, i magistrati dello Stretto hanno nuovamente avanzato richiesta di archiviazione. Rischia così di cadere nel dimenticatoio il caso di quel ragazzone di Santa Caterina finito in galera con l’accusa di essere parte di una banda di spacciatori. E morto, dopo un anno di carcere preventivo, in seguito ad una ventina di giorni di sofferenze di cui nessuno – esclusi i compagni di cella – sembra essersi accorto.
Centocinquanta morti ogni anno
Una storia come ne succedono tante nelle carceri italiane – si aggirano attorno ai 150 ogni anno le morti all’interno degli istituti di correzione in tutto il Paese, una cinquantina delle quali sono relative a suicidi – e su cui potrebbe calare definitivamente il sipario, almeno sul versante della ricerca di eventuali responsabilità da parte del sistema sanitario del maxi carcere reggino.
Numeri che non tornano, testimonianze ritenute inaffidabili, registri che non coincidono. Sono tanti i punti rimasti oscuri in questa vicenda nonostante quasi un anno di nuove indagini: oscurità che non hanno però convinto i pm dello Stretto che, nell’udienza di qualche giorno fa, hanno presentato una nuova richiesta di archiviazione. Richiesta a cui l’avvocato Pierpaolo Albanese, legale della famiglia del detenuto morto, si è opposto nella speranza di non fare diventare Antonino Saladino l’ennesimo numero nella terribile statistica dei decessi dietro le sbarre.

Antonio Saladino è morto prima di arrivare in un aula di tribunale Un anno ad Arghillà senza processo
Saladino in carcere ci era finito in seguito ad un’inchiesta della distrettuale antimafia dello Stretto. Siamo nel 2017 e gli investigatori, nell’ambito dell’inchiesta Eracle, individuano una serie di soggetti che gestiscono parte del traffico di droga nel quadrante nord della città. Tra loro c’è anche Saladino. Ventinove anni, molto conosciuto nel quartiere di Santa Caterina, qualche incidente per possesso di di droga, da anni sbarca il lunario come imbianchino.
Consumatore abituale di marijuana – pochi mesi prima dell’arresto viene sorpreso in seguito ad un controllo delle forze dell’ordine con nove grammi di erba – il suo nome salta fuori in alcune intercettazioni dei capi dell’organizzazione che ne parlano come di un pusher. L’accusa, sempre respinta dall’indagato, passa il vaglio del Gip e Antonino Saladino finisce ad Arghillà. Ne uscirà, poco più di un anno dopo, in una cassa di legno.
Il processo che lo vede imputato intanto è andato avanti e attende ora il vaglio della suprema Corte: i primi due gradi di giudizio hanno stabilito 20 condanne e sei assoluzioni. Saladino però non ha fatto in tempo a farsi giudicare: è morto mentre era sotto custodia dello Stato.
Antonino Saladino sta male
I problemi fisici del ragazzo iniziano nei primi giorni del marzo 2018. Dai registri medici finiti agli atti dell’inchiesta viene fuori che Saladino si presenta in infermeria il 5 e il 6 lamentando sintomi che vengono interpretati come una banale influenza e curati con antipiretici e cortisonici. Poi un buco di 12 giorni. Infine il 18 marzo i registri medici annotano tre nuove visite al detenuto: alle 15,30 alle 19,15 e poco prima della mezzanotte, quando ormai la situazione è degenerata irrimediabilmente. I medici del 118 arrivati in carcere, non possono fare altro che certificare la morte del ragazzo.
Medici e infermieri: due registri che non combaciano
Sono le nuove indagini disposte dal Gip a fare emergere l’esistenza di altri registri tenuti nelle infermerie del carcere. In particolare, dal diario infermieristico – quello dove vengono annotate le terapie somministrate dal personale paramedico nel caso di visite non programmate – salta fuori che Saladino si era recato in infermeria anche nei giorni 11, 16 (due volte) e 17 lamentando gli stessi sintomi e ricevendo come terapia pastiglie di Maalox e di Acetamol. Accessi in infermeria che non corrispondono però ad altrettante visite mediche e che quindi non vengono presi in considerazione nella relazione del perito nominato dal pm.

L’ingresso del carcere di Arghillà a Reggio Calabria Quest’ultimo, confermando quanto aveva già affermato in passato, ipotizza una infezione dal decorso accelerato e quasi asintomatico che non era ipotizzabile a fronte dei registri presi in considerazione. Considerazioni contrastate però dalla perizia di parte presentata dal legale dei familiari di Saladino che invece ipotizzano un decorso lento e inesorabile dell’infezione, iniziato nei primi giorni del mese e passato inosservato al vaglio dei sanitari.
I compagni di cella di Antonino Saladino
Questa tesi troverebbe conforto anche nelle testimonianze dei compagni di cella dell’imbianchino. Sentiti nell’ambito delle indagini difensive, avevano raccontato di un malessere che durava da tempo e di continue visite all’infermeria. Testimonianze, però, che i pm reggini non hanno ritenuto attendibili. Nella richiesta di archiviazione, i magistrati annotano come le stesse testimonianze, pur convergendo sul fatto che Saladino lamentasse dolori e si presentasse spesso in infermeria, differissero tra loro nella tempistica: alcuni parlavano di visite quotidiane, altri di visite saltuarie, altri ancora di visite settimanali.
Ombre sul carcere
Una vicenda dai tratti amari che si trascina da ormai quattro anni e che coincide con un periodo molto controverso della casa circondariale reggina. All’epoca del decesso, direttrice della struttura di Arghillà era Maria Carmela Longo, arrestata nel 2020 e rinviata a giudizio nel gennaio scorso con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. L’ipotesi degli inquirenti è che abbia favorito alcuni detenuti ‘ndranghetisti all’interno del carcere.

Maria Carmela Longo, ex direttrice del penitenziario reggino La madre di Antonino Saladino
Una vicenda, quella di Antonino Saladino, su cui ora dovrà esprimersi il giudice per le indagini preliminari e sul cui sfondo resta il coraggio della madre del detenuto che, durante un convegno sulla sanità nelle carceri lo aveva ricordato così: «Nino era un ragazzo come tanti. È entrato in carcere perché sospettato di un reato, ma non era un criminale, ancora doveva svolgersi un processo. Quando lo hanno arrestato era in piena salute, è morto il 18 marzo del 2018 in solitudine, con tanta sofferenza e lontano dai suoi cari. Non conosco le leggi, ma penso che se lo Stato arresta una persona perché sospetta che abbia commesso un reato e lo trattiene prima ancora di giudicarlo, allora è responsabile della sua persona e deve fare in modo che riceva tutte le cure, perché anche se ha sbagliato deve avere la possibilità di curarsi»

