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  • Palamara, de Magistris, Morra: il trio anti massomafia ne ha per tutti

    Palamara, de Magistris, Morra: il trio anti massomafia ne ha per tutti

    «Chi doveva guardarmi le spalle mi ha accoltellato», dice un Luigi de Magistris particolarmente carico.
    «Già, perché il sistema, come ho detto più volte e infine scritto nel mio libro, ha avuto i suoi anticorpi», gli fa eco Luca Palamara.
    Un incontro tra ex: colleghi e nemici, in entrambi i casi come magistrati. Anche a Cosenza, la sera del 27 aprile, si ripete il copione già visto più volte in tv, quando Lobby & Logge, l’ultimo libro scritto da Palamara assieme ad Alessandro Sallusti, teneva banco nel dibattito pubblico.

    C’eravamo tanto odiati

    Già: c’è voluta la brutta guerra tra Russia e Ucraina per frenare l’impatto mediatico di Lobby & Logge. Ma ciò non toglie che i miasmi del pentolone scoperchiato dall’ex capo dell’Anm continuino ad attirare attenzione.
    Calati nel contesto calabrese, poi, sollevano polemiche e stimolano riflessioni sul filo del non detto.
    «Mi fa piacere che oggi Palamara riconosca la gravità di ciò che mi è accaduto», incalza de Magistris, che ha partecipato al dibattito più come ex sostituto procuratore di Catanzaro che come ex sindaco di Napoli ed ex candidato a governatore della Calabria.
    «Io cerco di raccontare con onestà quel che ho visto e ho vissuto». Ribadisce Palamara. E prosegue: «All’epoca di Why Not trovai eccessivo il decreto di perquisizione di Gigi, che sembrava fatto apposta per essere pubblicato sui giornali». È l’onore delle armi, che tra l’altro Palamara ha reso in più occasioni al suo interlocutore.

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    Luigi De Magistris a Cosenza durante la campagna elettorale per le Regionali 2021 (foto Alfonso Bombini)

    Morra, il terzo incomodo

    Nel dibattito di Cosenza, moderato dal giornalista e scrittore Arcangelo Badolati, c’è un terzo incomodo: l’ex grillino Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia.
    Morra calabresizza ancora di più, se possibile, l’argomento e lancia alcune bordate. Innanzitutto, a proposito delle toghe nostrane borderline: «Si parlava di quindici magistrati di Catanzaro nell’occhio del ciclone. Ora, tranne Marco Petrini, tutti gli altri mi pare siano al loro posto». L’affaire Petrini diventa la scusa per un altro affondo: «Ricordo a me stesso che Marcello Manna è stato interdetto, per questa vicenda, dall’esercizio dell’avvocatura per un anno. E trovo gravissimo che i sindaci calabresi abbiano eletto Manna, nonostante questa situazione, presidente dell’Anci regionale».

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    Il giudice Marco Petrini

    Guai ’i nott e altre storiacce

    Qualche buontempone ha napoletanizzato Why not, l’ex inchiesta monstre di de Magistris, in Guai ’i nott, guai di notte. E i guai erano belli grossi. A Palamara, che ha argomentato sul lobbismo in magistratura, l’ex sindaco di Napoli ha raccontato una storia concreta. La sua.
    «Mastella, il ministro della Giustizia, mi fece trasferire perché indagavo il suo presidente del Consiglio. Ma neppure nell’Italia fascista, una storia così». Il sottinteso dell’ex pm è chiaro: conflitto d’interesse.
    E ancora: «Finché indagavo solo personaggi vicino al centrodestra, ricevevo qualche applauso dall’altra parte. Poi, quando ho ampliato le inchieste, le cose sono cambiate».
    Una conferma in più a quanto sostenuto da Palamara, che in varie occasioni ha graticolato l’ex presidente Napolitano, accusato di essere il protettore delle trame delle lobbies in toga.

    A proposito di logge

    A ciascuno la sua loggia, rigorosamente deviata. Per Palamara è la famigerata loggia Ungheria, per de Magistris fu la loggia di San Marino, che emerse sulla stampa quando Why not era nel vivo.
    Le espressioni “massoneria deviata” e “massomafia” riecheggiano nella sala a più riprese, più attraverso de Magistris e Morra che tramite Palamara, che in maniera più pragmatica parla di lobbismo. In realtà, forse, si dovrebbe parlare di cricche o di grumi di potere. Ma, a proposito di grembiuli, emerge un nome: Giancarlo Pittelli, ex big di Forza Italia, che fu l’inizio della fine di Gigi magistrato.
    «Il mio procuratore capo mi tolse l’inchiesta quando arrivai a Pittelli, che era vicinissimo a lui e a sua moglie». Insomma, la complessità calabrese fa passare in secondo piano i racconti da brivido di Palamara.

    L’affaire Gratteri

    Le domande su Nicola Gratteri, l’idolo dell’anti ’ndrangheta, di solito sono scontate. Quella rivolta da Badolati a Palamara lo è di meno: «Secondo lei Nicola Gratteri riuscirà a diventare capo della Direzione nazionale antimafia?». La risposta è in tema col dibattito: «La vedo davvero difficile, perché Gratteri è fuori dalle correnti».

    Palamara, Morra, Badolati e de Magistris durante la presentazione del libro

    Palamara, de Magistris, Morra e i fantasmi eccellenti

    «Quando si muore, in Italia si diventa eroi», dice con amara retorica de Magistris.
    «Se avessi fatto le tue inchieste nel ’92, l’esito sarebbe stato diverso, forse peggiore», commenta sinistro Palamara.
    Morra aggiunge il ricordo di Falcone e Borsellino, diventati eroi solo dopo gli “attentatuni”. Prima, invece, erano nel mirino di tanti, a partire dai loro colleghi: «Le loro carriere e inchieste furono ostacolate proprio dal Csm», chiosa il presidente della Commissione antimafia.
    Il riferimento, scontatissimo, va al trentennale imminente delle stragi del ’92 in cui morirono i protagonisti del maxiprocesso.
    Una volta le toghe dovevano essere rosse. Oggi non basta più: devono essere rosso sangue.

    Il pubblico cosentino presente all’incontro
  • Canolo Nuovo: l’altra vita del covo contro i sequestri di persona

    Canolo Nuovo: l’altra vita del covo contro i sequestri di persona

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    Da covo di segugi a rifugio per anziani; da centro nevralgico per la ricerca dei sequestrati, a punto d’aggregazione per la piccola comunità di Canolo Nuovo. Si chiude così, a distanza di una decina d’anni dalla dismissione e con un progetto di inclusione sociale da due milioni di euro per la riconversione dell’ex campo Naps (il nucleo antisequestro della Polizia), una delle pagine più nere della storia calabrese recente.

    Una storia fatta di vite rubate e mamme coraggio, di banditi feroci e fondi neri che li hanno ingrassati. E sullo sfondo l’Aspromonte, bollato con infamia come “la montagna dei sequestri” e per anni a sua volta vittima di bande di malviventi che tra le sue gole e i suoi boschi fitti, nascondevano uomini e donne trattenuti in catene. Una storia terminata solo quando le grandi famiglie di ‘ndrangheta virarono i propri interessi verso i più redditizi (e più sommersi) mercati del narcotraffico. E a cui lo Stato rispose, con imbarazzante ritardo, catapultando sull’Aspromonte migliaia di uomini e donne con l’ordine di setacciarne ogni anfratto alla ricerche di carcerati e carcerieri.

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    Quel che resta del campo della polizia di Canalo Nuovo nel Parco d’Aspromonte

    Prova di forza

    I Naps a Canolo Nuovo, Campo Steccato e Mongiana, nel cuore d’Aspromonte. E poi il nuovo commissariato a Bovalino e le sedi della Mobile a Locri e Gioia Tauro: nel giro di pochi mesi, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, gli effettivi della polizia stanziati nel reggino passano da 867 a 2173: una cinquantina di agenti in più rispetto all’intero contingente presente in regione fino ad allora. Una risposta massiccia (e tardiva) al clamore mediatico e all’allarme sociale che avevano generato i sequestri di persona negli anni precedenti.

    Una parte di quegli agenti fu destinata al campo di Canolo Nuovo, costruito a quota mille metri sulla soglia della porta settentrionale del Parco d’Aspromonte, proprio di fronte alla piazza principale della piccola comunità che, unica nel reggino, quando il dissesto idrogeologico rese necessario lo sviluppo di un nuovo insediamento urbano, rifiutò di scendere a valle, per rifugiarsi ancora di più verso il cuore della montagna.

    Caldo, gelo e blitz

    Trasferiti in fretta e furia in Calabria dalle sedi più diverse, gli agenti del Naps furono alloggiati tra le baracche appena allestite dal Viminale. Una grande sala comune dove mangiare e socializzare, una serie di stanzette anguste dove preparare i blitz e i pattugliamenti, file e file di dormitori più che spartani in lamiera, gelidi sotto la neve e roventi sotto la canicola d’estate.

    Da queste baracche partivano i blitz coordinati anche con carabinieri e fiamme gialle. Blitz che cinturarono paesi – l’epicentro dell’anonima sequestri da sempre gravitava attorno ai centri di San Luca, Platì, Natile di Careri e Ciminà – e rastrellarono la montagna alla ricerca dei covi – poco più che buchi nel terreno dove era impossibile anche solo stare in posizione eretta – in cui erano tenuti i prigionieri.

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    Le vittime dei sequestri erano nascoste in luoghi introvabili dell’Aspromonte

    Il progetto

    Ora, questo campo fatto di baracche malmesse, preda dell’incuria e dei soliti vandali, e ufficialmente dismesso dal ministero degli Interni ad inizio secolo, potrebbe tornare a vivere anche se profondamente trasformato. Sul piatto ci sono due milioni di euro che il Comune di Canolo, proprietario del terreno su cui sorge il campo, conta di raccattare grazie allo scorrimento di una vecchia graduatoria per una richiesta di finanziamento datata 2015.

    «Sarà il nuovo centro nevralgico del paese – dice il sindaco Larosa – se tutto va come pensiamo, il finanziamento dovrebbe essere garantito dal Ministero e a breve potrebbero partire i lavori». E pazienza se, come sempre più spesso succede, non si sia registrato nessun contatto preventivo con i vertici del Parco d’Aspromonte, che del progetto di riconversione non ne sanno nulla. «Chiederemo i nulla osta al Parco quando sarà il momento, quando cioè saremo sicuri del finanziamento» chiosa ancora il sindaco.

    In attesa del finanziamento – e del propedeutico progetto di bonifica del sito di cui ancora non si trova traccia – le baracche abbandonate di Canolo Nuovo restano lì, nella radura a due passi dall’altopiano dello Zomaro, a segnare il tempo di una stagione amara.

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    John Paul Getty III rapito dalla ‘ndrine nel 1973

    La stagione dei sequestri

    Quando gli agenti del Naps arrivano a Canolo, siamo nel 1990, quello dei sequestri è un “mercato” in forte ridimensionamento. Passati i tempi dei riscatti miliardari come quello di Paul Getty III – sequestrato a Roma nel ’73 da un commando dell’anonima e rinchiuso in Aspromonte fino al pagamento di 1,7 miliardi da parte del nonno petroliere del ragazzo – le cosche hanno capito da tempo che quello dei sequestri è un gioco a perdere: troppo alti i rischi, troppo costosa la gestione degli ostaggi, troppo violenta la reazione dello Stato, troppo alto l’allarme sociale provocato.

    Nel maggio del 1990, le immagini di Carlo Celadon, il ragazzo di Arzignano rilasciato a Piano dello Zillastro, tra i comuni di Platì e Oppido Mamertina, dopo 831 giorni di prigionia, fanno il giro del mondo. Rapito all’alba dei suoi 18 anni, Celadon viene rinchiuso per più di due anni – il sequestro più lungo in Italia – in un buco tra i boschi della montagna.

    Incatenato al terreno, picchiato e continuamente vessato dai sequestratori, quando il ragazzo torna libero è molto più vecchio dei suoi 20 anni. Magro all’inverosimile, barba lunghissima e volto emaciato, fa fatica a rimanere in piedi mentre si fa largo tra l’esercito di giornalisti che assediano il tribunale di Locri: «Ecce Homo» lo chiameranno i media.

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    Angela, madre di Cesare Casella: con la sua battaglia per la liberazione del figlio rapito ha scosso le coscienze di tutta l’Italia (foto Gigi Romano)

    Madre coraggio

    Ma il vero punto di non ritorno di questa storia di «sudiciume sociale» è sicuramente rappresentato dal sequestro di Cesare Casella e dalla forza strepitosa di sua madre Angela. Questa donna minuta riuscì, praticamente da sola, a risvegliare le coscienze di un popolo stordito e immobile davanti a tanta violenza. Quando “mamma coraggio” pianta la sua tenda nel centro della piazza principale di Locri, il reggino è una polveriera. I rinculi della seconda guerra di ‘ndrangheta riempiono le cronache di morti ammazzati e svuotano le strade.

    Cesare Casella sarà liberato il 30 gennaio del 1990 dopo una terribile prigionia

    Sarà questa signora dall’aria risoluta, mossa solo dalla forza della disperazione, a smuovere le cose. Gira per le stradine di Platì e di San Luca, da sola, in una Regione dove non era mai stata prima. Incontra le donne del luogo che rompono la diffidenza iniziale e fanno loro la sua invocazione di aiuto, in una ricerca di riscatto sociale che esplode e si diffonde tra i paesi della Locride. Cesare Casella sarà liberato il 30 gennaio del 1990, dopo avere passato 743 giorni incatenato ad un albero. Pochi giorni prima era stato uno dei sequestratori, Giuseppe Strangio, rimasto ferito in uno scontro a fuoco con i carabinieri del Gis, a chiedere in diretta tv la liberazione dell’ostaggio.

    I fondi neri

    Dinieghi sdegnati, mezze ammissioni, clamorosi omicidi: sulla parabola terminale della stagione dei sequestri di persona – che coincide temporalmente con l’invio degli uomini a presidiare l’Aspromonte – molte furono le voci (e le inchieste della magistratura) su pagamenti sotto banco che i servizi segreti dispensarono per ottenere la liberazione di (almeno) una parte degli ostaggi in mano all’anonima.

    Fondi parzialmente ammessi dall’allora titolare del Viminale Vincenzo Scotti e dall’allora capo della polizia Vincenzo Parisi che in un’audizione della commissione parlamentare antimafia del 1993, esclusero il pagamento di alcun riscatto ammettendo però il pagamento di alcuni confidenti, utili al ritrovamento degli ostaggi. Pagamenti nell’ordine di qualche centinaio di milioni dell’epoca e onorati, dissero i due rappresentanti delle istituzioni, solo in seguito all’arresto dei componenti delle bande interessate, e che lasciarono a mezz’aria la sensazione amara di una sorta di divisione gerarchica tra gli stessi sequestrati.

  • MAFIOSFERA| Rinascita-Scott: perché piace tanto alla stampa estera (e meno a quella italiana)?

    MAFIOSFERA| Rinascita-Scott: perché piace tanto alla stampa estera (e meno a quella italiana)?

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    Il 21 aprile scorso, sui canali della Australian Broadcasting Corporation (ABC) per il programma Foreign Correspondent è andato in onda The Magistrate vs The Mob (Il Magistrato contro la Mafia), un documentario di 30 minuti sul maxiprocesso Rinascita-Scott. Preceduto da un articolo che ne delinea il contenuto, e con la professionalità che contraddistingue il programma e in particolare le produttrici di questo episodio, il documentario spalanca all’Australia le porte del Vibonese e della sua ‘ndrangheta ora a processo.

    Rinascita-Scott, il documentario australiano

    Con immagini mozzafiato catturate da un drone su Tropea e Capo Vaticano, per poi aggiungerci lunghe riprese su Vibo Valentia città, sulle campagne intorno a Limbadi, sui vicoli di Nicotera, l’episodio inizia dicendo «la Calabria è una terra di feroce bellezza». Il resto del documentario vede riprese a Catanzaro, con il procuratore capo Nicola Gratteri, a cui il maxiprocesso è notoriamente legato, nell’aula bunker di Lamezia Terme, costruita appositamente per Rinascita-Scott, e sul resto del territorio per incontrare vittime di poteri e soprusi mafiosi e anche ovviamente mostrare quella resistenza civile che, seppure ancora ai primi passi, dopo Rinascita-Scott si è sicuramente formata. Il risultato sono 30 minuti godibili, con belle immagini e note emotive, e anche, prevedibilmente, una serie di commenti stereotipati sui rapporti tra mafia e territorio.

    L’equivoco iniziale e il piano B

    Sono stata invitata a fornire una consulenza per il programma nel gennaio scorso. L’interesse dell’Australia per la ‘ndrangheta non è certo cosa nuova, visto che il paese conosce il fenomeno mafioso calabrese da quasi un secolo e – a volte con più serietà, a volte con molta meno attenzione – fa i conti con una ‘ndrangheta locale dalle molte sfaccettature. Ma i produttori non mi avevano contattato per la ‘ndrangheta australiana, bensì per Rinascita-Scott. «Ci sono dei collegamenti con l’Australia?», mi chiesero. Cercavano un aggancio alla loro ‘ndrangheta, che però in questo processo non c’è – o se c’è non appare affatto chiaro.

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    Il boss Pasquale Barbaro, ucciso a Sidney nel 2016

    Dopo aver precisato che questa era un’altra ‘ndrangheta – vale a dire un processo sulle dinamiche di clan mafiosi del Vibonese – che per quanto collegati alla ‘ndrangheta reggina, preponderante in Australia, non guardava precipuamente a queste connessioni – il programma è stato virato sul territorio ‘straniero’, sul processo, sul procuratore Gratteri (come rivela già il titolo), con buona pace della ‘ndrangheta australiana.

    Rinascita-Scott: Italia vs Resto del Mondo

    Questo documentario è l’ultimo di una lunga serie di articoli, video, interviste, reportage, che svariate televisioni e testate giornalistiche straniere hanno dedicato a Rinascita-Scott dal 13 gennaio 2021 quando il processo è formalmente iniziato. Decine di notiziari, in inglese, francese, tedesco, turco, spagnolo, portoghese. Anche dopo il gennaio 2021 l’interesse è rimasto alto, basti pensare al reportage di France24 titolato A trial for the history books (Un processo per i libri di storia) del gennaio 2022.rinascita-scott-fran

    Al contrario, sui giornali o sui canali di informazione italiani, a parte qualche notevolissima eccezione (pensiamo alla puntata di Presadiretta nel marzo 2021 dedicata al maxiprocesso), gli articoli si limitano primariamente alla cronaca, raramente sul nazionale, molto più spesso sul locale. Ed ecco che per alcuni l’interesse della stampa internazionale al processo è segno incontrovertibile che all’estero prendono sul serio l’antimafia e riconoscono il carattere destabilizzante di Rinascita-Scott, mentre in Italia questo non accade.

    La retorica su Gratteri

    Alcune malelingue poi mettono il carico da novanta, riconducendo il disinteresse italiano al processo (comparato all’attenzione dall’estero) a implicite prese di posizione ‘pro-Gratteri’ o ‘contro-Gratteri’. È questa una retorica di pessimo gusto, perché ovviamente non può e non deve esistere uno spazio del ‘contro-Gratteri’ in questo contesto, essendo il procuratore un bravo magistrato, al pari di tanti altri suoi colleghi, avendo egli la capacità (per alcuni il demerito) di dare alle istituzioni calabresi molta visibilità. Ma soprattutto un processo non si identifica mai con il Procuratore Capo della Procura che l’ha istruito. Specie questo processo che di procuratori, magistrati, funzionari, avvocati e, soprattutto imputati, ne ha davvero tanti.

    Quei maxiprocessi tutti italiani

    La domanda però sorge spontanea: qual è la ragione dei riflettori puntati dall’estero sul processo Rinascita-Scott, a confronto di un interesse molto più scarso in Italia? La risposta non è semplice; possiamo scomporla in quattro diverse componenti, tecniche e culturali.

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    L’aula bunker del maxi processo calabrese

    Una prima componente sono i numeri e le caratteristiche del processo. Sicuramente vedere un processo con oltre 350 imputati, dozzine di avvocati, decine di collaboratori di giustizia, al punto da dover costruire un’aula bunker ad-hoc per contenerli tutti, non è spettacolo quotidiano. E uso appositamente la parola ‘spettacolo’. Se per l’Italia questo non è il primo né l’unico processo di grandi dimensioni – anche dopo il maxiprocesso di Palermo infatti ricordiamo Crimine-Infinito, Aemilia e altri processi con oltre 100 imputati – fuori dall’Italia questi numeri sono molto inusuali, se non impossibili, in un’aula di giustizia.

    La giustizia si fa spettacolo

    La giustizia (altrui, cioè la nostra in questo caso) si fa dunque spettacolo proprio per questo profilo di straordinarietà. Non scordiamoci poi che in molte giurisdizioni non esiste l’istituto per noi costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione legale. Soprattutto nei sistemi anglosassoni il pubblico ministero va a processo quando ha una quasi certezza di vittoria dell’accusa (altrimenti si patteggia o si archivia per mancanza di prove o per assenza di ‘interesse pubblico), per questo nel 90% dei casi vince e ottiene condanne.

    La tortuosità del sistema italiano, con processi abbreviati, ordinari, appelli, controappelli, rende difficile raccontare i processi, perché appunto non si sa come andranno a finire, se l’accusa reggerà oppure no, e di solito si dovranno aspettare molti anni per saperlo. Ma in questo caso il processo si può spettacolarizzare e non solo raccontare, e questo è più facile per gli stranieri che per noi italiani.

    L’eroe contro l’antieroe: Gratteri e Mancuso

    Una seconda componente è la simbologia della classica contrapposizione tra l’eroe e l’antieroe, e conseguente glorificazione del primo e dannazione del secondo. Non è un caso che i media esteri si focalizzino sul procuratore Gratteri. Come non è un caso che alcuni media italiani chiamino in causa quella retorica pro-Gratteri/contro-Gratteri di cui sopra. Sicuramente il procuratore capo di Catanzaro è l’incarnazione simbolica dell’antimafia in Calabria (e oltre), anche perché il suo lavoro è sempre stato diffusamente presentato al pubblico, oltre che nella sua attività di magistrato inquirente, anche a seguito del suo intenso impegno quale autore di libri e protagonista di interventi, dibattiti pubblici, eventi. Ciò favorisce la spettacolarizzazione di un processo che ne esalta l’operato, anche nel racconto delle sue difficoltà di uomo sotto scorta da decenni e ostracizzato da varie parti.

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    Luigi “il Supremo” Mancuso

    All’eroe ecco poi affiancato l’antieroe, che in Rinascita ha un nome e un cognome, Luigi Mancuso, boss di Limbadi e della provincia, onnipresente in articoli e reportage esteri sul processo. Non è il solo boss a processo Luigi Mancuso. Non è neppure la prima volta che va a processo. Eppure spesso, parlando di lui, i media esteri danno a intendere che aver portato Mancuso, l’antieroe, a processo sia una delle vittorie dell’eroe, uno dei caratteri fondamentali di Rinascita. Le due facce, quella del magistrato e quella del boss, spesso affiancate, sono volti nuovi all’estero, meno in Italia e molto meno in Calabria, cosa che ovviamente rende più facile la narrazione giornalistica straniera.

    La ‘ndrangheta ovunque

    Una terza componente è poi la pervasività della ‘ndrangheta sul territorio come viene raccontata in Rinascita-Scott, soprattutto nei rapporti con la politica e le istituzioni. Ecco che all’estero si racconta dell’avvocato, ex-senatore, Giancarlo Pittelli, che accanto ad eroe ed antieroe rappresenta la corruttibilità del potere (e dunque aiuta anch’egli la spettacolarizzazione), e delle vittime, o famiglie delle vittime, della ‘ndrangheta sul territorio, come per esempio Sara Scarpulla e Francesco Vinci, genitori di Matteo Vinci ucciso da un’autobomba a Limbadi – vicenda per per cui alcuni membri della famiglia Mancuso sono stati ritenuti colpevoli.

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    Sara Scarpulla e Francesco Vinci, genitori del 42enne ucciso con un’autobomba a Limbadi

    Le vittime invocano, giustificano, l’intervento dell’eroe e rendono più nitida, ancor più stilizzata, la figura dell’antieroe. Fuori dall’Italia questi sono ingredienti fondamentali per creare una storia, mentre in Italia sono tutte cose già viste (purtroppo) nei grandi processi di mafia. I rapporti tra mafia e politica, mafia e vittime, mafia e istituzioni per l’Italia sono costanti delle vicende di mafia, ci si aspetta che emergano anche nei processi; così non è all’estero, dove mafia spesso è ancora ‘solo’ crimine organizzato.

    Paradossalmente la novità di Rinascita-Scott non è il presunto o reale rapporto tra mafia e politica o la pervasività delle famiglie sul territorio, ma semmai il contrario – cioè il fatto che il processo voglia confermare come certe dinamiche siano in corso e pervasive da decenni al pari di altri territori, come il reggino, in Calabria. Su LaC News, nel programma di approfondimento ‘Rinascita-Scott’, questo emerge non appena si inizia a parlare con vari ospiti e scavare negli archivi giudiziari.

    Pietro Comito conduce una puntata della trasmissione Rinascita-Scott su LaC Tv

    Gli stereotipi sulla Calabria

    E qui si arriva alla quarta componente, che è lo stereotipo della Calabria come terra meravigliosa e maledetta. Distante, fonte di nostalgia per i tanti migranti, ma impenetrabile. E soprattutto preda di una mafia potente che ne impedisce sviluppo e progresso. Questo stereotipo, che rende possibile ma non facile relazionarsi con la Calabria per chi non la conosce, non vi è nato o non la studia, assolve tanti (politici, cittadini…) e distorce il potenziale di questo processo. Se il problema è la mafia, certo portare a processo oltre 350 ‘mafiosi’ (perché non è facile poi capire a quanti e a chi tra gli imputati sono contestati reati di mafia) dev’essere un colpo mortale, no? Soprattutto se ci si aspetta, come detto sopra, che vengano condannati.

    La realtà è più complessa

    Per questo Rinascita diventa il processo per i libri di storia. Eppure così non è, come riconoscono sia alcuni magistrati che tanti rappresentanti della società civile, perché la mafia non è il ‘cancro’ di una società altrimenti sana, e l’antimafia giudiziaria non può essere l’unica ancora di salvezza.

    Tra esigenze mediatiche di riduzione della complessità e polemiche sul cono d’ombra informativo, questo processo probabilmente non è stato ancora trattato per come sarebbe auspicabile, tanto in Italia quanto all’estero. Senza spettacolarizzazione, riconoscendo la complessità del territorio, delle sue relazioni sociali e la difficoltà di ‘resistere’. D’altronde, questo non accade spesso anche per gli altri processi di ‘ndrangheta, o di mafia in generale? C’è poco da stupirsi allora.

  • «Ho lottato da sola, ora spero che anche altri denuncino»

    «Ho lottato da sola, ora spero che anche altri denuncino»

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    Clarastella Vicari Aversa è l’architetta di Messina che con il suo esposto penale ha portato all’inchiesta ‘Magnifica’ che ha decapitato i vertici dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, con l’interdizione del rettore Santo Marcello Zimbone e del prorettore Pasquale Catanoso.

    Classe ’71, abilitata dal ’96, è vicepresidente dell’Ordine degli Architetti di Messina e ha maturato una vasta esperienza anche all’estero. Intervistata da I Calabresi ci ha raccontato dell’esperienza vissuta in questi anni tra ricorsi ed esposti e della solitudine che spesso si prova combattendo battaglie di legalità. Oggi, però, sta vivendo un momento di rivincita e riscatto, con molte persone che la contattano e le esprimono solidarietà e stima.

    Lei denunciando ha scoperchiato il vaso di Pandora all’Università di Reggio Calabria, oggi crede ancora nel sistema universitario italiano?

    «Ci credo nel senso che ci devo credere. Cosa ci resta se perdiamo la speranza in una istituzione così importante come l’Università. È quella che forma il futuro, quella che forma i giovani di domani. Come possiamo rassegnarci a che non funzioni? È proprio questo che mi conduce a portare avanti questa battaglia. Non è una lotta per un posto che posso pensare sia mio, né una questione di principio e basta, è una lotta per la legalità. È una lotta per sperare che prima o poi qualcosa che nel contesto universitario – nella parte che non funziona, perché non posso pensare che sia tutto così – cambi».

    Il suo, diciamolo, è stato un atto di coraggio, quanto è stato difficile metterci la faccia? Molti suoi colleghi non hanno firmato l’esposto, lo ha fatto solo lei…

    «È stato difficilissimo. È difficile anche parlarne, infatti non l’ho fatto per tanti anni. Questa è una battaglia che conduco in solitudine sostanzialmente da 14 anni. Per diversi anni sono andata avanti solo con ricorsi amministrativi, tutti accolti al Tar e al Consiglio di Stato, una quarantina. Solo di recente anche a seguito di vicende analoghe conosciute tramite l’associazione Trasparenza e merito, e anche su consiglio dei legali che hanno ipotizzato potessero sussistere diversi illeciti penali, ho presentato l’esposto in Procura. Ho avuto la sensazione che la via amministrativa non fosse sufficiente, che arrivava fino a un certo punto. L’Università disattendeva tutto ciò che disponeva la giurisprudenza amministrativa».

    Tra l’altro ha raccontato che negli accessi agli atti che faceva in Università si trovavano degli errori macroscopici nelle valutazioni nei concorsi…

    «Se tornassimo indietro e avvolgessimo il nastro, io non avrei mai pensato di fare un ricorso. Ma quando ho fatto l’accesso agli atti per curiosità e ho visto delle cose inverosimili o stavo zitta, o mi giravo dall’altra parte e me ne andavo o affrontavo la cosa. Altri colleghi non hanno fatto ricorso perché magari la volta dopo in altre sedi avrebbero potuto rifare il concorso secondo loro. Altri, invece, non se la sono sentita. Una collega in particolare, pur non facendo ricorso, mi è stata vicina. Almeno mi attestava solidarietà, ma, in generale, ho condotto questa vicenda in totale solitudine. Ora, invece, sto ricevendo tantissimi messaggi dai miei ex studenti. Io per 10 anni ho insegnato alla Mediterranea, ero docente a contratto, ho lavorato, ero correlatore di tesi di laurea. Avevo un rapporto meraviglioso con gli studenti e ritrovare questi attestati di stima oggi è emozionante. È avvilente, invece, quello che altri continuano a fare in una istituzione, non è un bell’esempio».

    Dalle sue parole mi sembra di capire che lei volesse bene all’Università Mediterranea…

    «Io volevo tanto bene a quell’Università. Per me è stata una delusione. Era il posto dove mi ero formata. Io a 17 anni mi sono iscritta a questa Università piena di speranze, poi ho fatto molte cose fuori. Ma mi piaceva lavorare in quell’istituzione, era un arricchimento e una forma di crescita, mi piaceva la ricerca».

    Conosceva, quindi, coloro che ha denunciato…

    «Non avrei mai pensato di fare l’esposto penale. C’erano cose un po’ pesanti fin dall’inizio, molto pesanti, ma sono cose prescritte. Non me la sono sentita perché queste persone le avevo conosciute, avevamo fatto workshop insieme, era capitato di organizzare cose insieme. Di alcuni conoscevo il marito, la moglie. Una come si sente nel fare un esposto penale sapendo cosa possono rischiare? La prima volta ho pensato ad un errore. Qualcuno in Università mi ha detto che erano stati pasticcioni nella commissione d’esame, ho detto proviamo a vedere se fanno un concorso con meno pasticci. Ma così non è stato. Quando ho fatto l’esposto penale, era una cosa per me troppo intima per parlarne, lo sapevo io, l’avvocato, mio marito e il procuratore».

    L’ex Rettore Catanoso si rivolge a lei definendola “quella grandissima puttana”, cosa ha pensato nel leggere queste parole?

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    Pasquale Catanoso

    «È una cosa bruttissima per me, ma anche per le donne. È un insulto sessista, ma non fa una bella figura chi lo dice. La cosa più raccapricciante non è quello che uno legge. Rispetto a quello che ho visto io in 14 anni, queste sono solo coltellate che si aggiungono su ferite aperte».

    C’è speranza per l’Università Mediterranea di scrostarsi da questo sistema?

    «Io me lo auguro. Sono una gocciolina, però la goccia scava la roccia come si sa. Però da sola no, bisogna diventare un fiume in piena. Dobbiamo essere in tanti. Spero che tanti altri che sono vittime denuncino. Invito a contattare l’associazione Trasparenza e Merito. Porterà a non sentirsi soli come mi sono sentita io. La speranza per il contesto universitario c’è, ma è necessario che le rivoluzioni partano da dentro. Qualche attestato di stima l’ho avuto da persone dell’Università Mediterranea, ma vorrei che fossero attestati pubblici e non privati. Ripeto, le distanze vanno prese da chi è dentro l’istituzione».

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    La facoltà di Architettura nell’Università Mediterranea di Reggio Calabria

    C’è molta paura…

    «Deve essere difficile per chi è dentro vedere queste cose e girarsi dall’altra parte. La paura è tanta, ma anche la paura mia era tanta quando ho fatto il ricorso. La paura c’è sempre quando si fa una battaglia, ma bisogna trovare il coraggio. Molti mi dicono “tu hai una forza che io non ho”, ma io la forza non ce l’ho, io la forza me la do. Affrontiamo le nostre paure, le cose possono cambiare. Altrimenti non ci chiediamo perché i nostri figli vanno all’estero… Con i soldi pubblici si fanno concorsi pubblici secondo le regole della Costituzione, altrimenti cambino la Costituzione se non si vogliono fare concorsi regolari!»

  • Concorsi pilotati a Reggio: gli intrecci con Catanzaro e il silenzio del rettore

    Concorsi pilotati a Reggio: gli intrecci con Catanzaro e il silenzio del rettore

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    Dall’ordinanza del Gip Vincenzo Quaranta sull’inchiesta “Magnifica” che ha decapitato l’Università ‘Mediterranea’ di Reggio Calabria emerge quello che si potrebbe chiamare il manuale della clientela perfetta. Circostanze tutte da passare al vaglio della magistratura giudicante, ma le intercettazioni agli atti riaprono, a distanza da tre anni dall’inchiesta “Università bandita” che ha coinvolto l’ormai ex rettore dell’Università di Catania, interrogativi sulle presunte distorsioni del mondo universitario.

    Non per soldi ma…

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    Pasquale Catanoso

    L’ex rettore dell’ateneo reggino, Pasquale Catanoso, dalle carte parrebbe essere il garante di un sistema di potere ben radicato e con profonde relazioni politiche e istituzionali.
    «Emerge un quadro istituzionale sconcertante. Nulla avviene nella legalità in sede di selezione, tutto è soffocato da logiche clientelari e di favoritismo», scrive il giudice per le indagini preliminari. Quali possano essere le finalità perseguite le spiega, invece, il pubblico ministero negli atti di inchiesta: «Ciò che li spinge ad una gestione così illegale della cosa pubblica non è “la mazzetta” ma un’utilità ben più articolata, fatta di prestigio, presenza e notorietà in ambito professionale e disponibilità di risorse materiali da investire nei propri progetti».

    Abitudini radicate

    Tra gli indagati eccellenti spunta Michele Trimarchi, ordinario di Scienza delle Finanze alla “Magra Graecia” di Catanzaro. La stessa università, per intenderci, che esprime un componente del Csm in quota M5S, l’ “anonimo professore” (Palamara dixit) Fulvio Gigliotti; un deputato del Pd, Antonio Viscomi; una ex candidata regionale e ex candidata al Senato con il Pd, Aquila Villella; un candidato sindaco del capoluogo, Valerio Donato.

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    Michele Trimarchi

    Trimarchi dirige il centro di ricerca in Economia e Management dei Servizi. In un’intervista al magazine economico Costozero dello scorso dicembre affermava che «bisogna avere una visione laica della cultura». Dalle carte dell’inchiesta, però, emergerebbe ben poco di laico. Ad esempio, l’interessamento di Trimarchi per una studentessa che avrebbe partecipato al concorso di dottorato in architettura della “Mediterranea”. Nell’ordinanza il Gip rileva «quanto sia radicata l’abitudine ad interferire con le dinamiche di selezione tra candidati di un concorso, quale il dottorato, aperto ad esterni e interni all’Ateneo che lo bandisce, nell’ottica di sistemazione dei propri pupilli».

    Seconda per principio

    È proprio in questo sistema che si sarebbe mosso Trimarchi, indagato insieme alla sua presunta pupilla Francesca Sabatini. La ragazza, estremamente competente e che sarebbe potuta arrivare prima nella graduatoria di merito, secondo quanto riferiscono tutti gli altri indagati nelle intercettazioni (che la mettono al secondo posto solo «per principio», secondo quanto si legge nell’ordinanza) – si ritrova invece in questo presunto, ma potenzialmente abietto, sistema di spintarelle.

    A fine luglio del 2018 l’Università Mediterranea dà il via a una selezione per il dottorato di ricerca in “Architettura e territorio”. Inizialmente le borse di studio sono 6 (su 8 posti), poi divenute 8 su 10 posti: tre finanziate dall’ateneo reggino, altrettante dalla Magna Graecia e due da fondi POR Calabria 2014/2020. Tra le vincitrici del dottorato con borsa di studio di Catanzaro c’era proprio Sabatini, arrivata seconda con un punteggio 104/120.

    Per garantirle un posto al dottorato, il docente Umg si sarebbe letteralmente “fatto in quattro” unitamente all’allora rettore della Mediterranea, Pasquale Catanoso. Secondo la Procura, i candidati “favoriti” hanno conseguito «indebiti e ingiusti vantaggi patrimoniali, legati alla remunerazione e alla progressione di carriera discendenti dall’ammissione al corso di dottorato in architettura e territorio – XXXIV Ciclo dell’Ateneo».

    Le intercettazioni

    Proprio due giorni fa, Trimarchi ha scritto sul suo profilo Facebook: «Miei cari, per circostanze complesse non ho più il cellulare. Per salvare insieme la galassia accontentiamoci dei messaggi su fb, ig, linkedin, etc.».
    Quello stesso cellulare durante le indagini è stato oggetto di intercettazioni, dalle quali emergerebbe il forte interesse del docente affinché non una, ma due “sue” candidate la spuntassero all’esito del concorso di dottorato, con relativa borsa di studio triennale. Un desiderio, però, che dovrà ridimensionare perché l’allora rettore Catanoso spiega di poter “garantirgli” soltanto un posto sul totale di quelli banditi.

    Inoltre, in altra conversazione, il professore dell’Umg specifica di aver già segnalato due anni prima una ragazza (non indagata), chiamandola “la mia dottoranda”, pur essendo all’Università di Reggio Calabria, dove Trimarchi non è docente.
    Trimarchi e Catanoso, ignari di avere i telefoni sotto controllo, ne parlano l’1 agosto 2018. Il primo si duole perché negli anni precedenti solo uno dei candidati che ha segnalato, si legge nell’ordinanza, «è stato effettivamente favorito»:

    «Trimarchi: senti, volevo anticiparti una cosa banale ma, importante che posso dirla solo a te… Quest’anno avrei due candidate per il dottorato
    Catanoso: eh
    Trimarchi: in forza delle tre borse che fa… Reggio ogni tanto
    Catanoso: se puoi… fartene una… no veramente, vabbè poi ti spiego perché… se puoi mettine una
    Trimarchi: se posso preferisco due
    Catanoso: comunque il concorso è… rigoroso si… il concorso è rigoroso
    Trimarchi: sono sono bravissime queste qua… mi… mi vergognerei di presentarle insomma… so proprio brave, però mi sembrava carino parlarne con te
    Catanoso: il concorso è rigorosissimo… si il concorso è rigorosissimo… perciò ti voglio… capito?
    Trimarchi: va bene, perché io… l’anno scorso, una su tre… due anni fa una su tre… ricordiamocelo
    Catanoso: si ma non c’entra… poi ti dico
    Trimarchi: lo so che non c’entra lo dico anch’io non c’entra niente, però… voglimi bene, va bene? Ciao Ciccio grazie…»

    Una sì, due no

    Massimiliano Ferrara

    Michele Trimarchi – un mese dopo, il 4 settembre 2018 – in un’ulteriore conversazione telefonica intercettata, parla con un altro indagato, Massimiliano Ferrara, direttore del dipartimento di Giurisprudenza. Si lamenta perché da due anni non fa parte della commissione esaminatrice per la selezione dei candidati per il dottorato in architettura. Manifesta all’interlocutore la speranza che stavolta lo inseriscano, anche perché «ha due candidate» da far entrare. Il problema che paventa Trimarchi è che il rettore gli ha fatto, invece, intendere che due candidati sarebbero stati troppi. Ma quest’ultimo, afferma, «non deve rompere i cogl…». Così annuncia di voler parlare della questione con il coordinatore del dottorato, Gianfranco Neri (altro indagato nell’inchiesta).

    «Trimarchi: no, la situazione è questa qua, allora, io sono al collegio nel dottorato, ovviamente ci rimango, quest’anno… ora non ho capito perché loro per due anni non mi hanno messo nella commissione… quest’anno gli avevo detto, eventualmente gli avevo detto eventualmente di met… dovrei avere due candidate visto che ogni anno diamo tre borse da Catanzaro
    Ferrara: eh ma ci sono le tue candidate?
    Trimarchi: eh
    Ferrara: si sono candidate? Hanno presentato la domanda?
    Trimarchi: si si serie… si si certo
    Ferrara: e… entrato sempre quello del DarTe no?
    Trimarchi: del DarTe si, tanto conoscendomi bene sai che non faccio candidare gente scarsa cioè…
    Ferrara: ma che stai scherzando?
    Trimarchi: però appunto io vedo di capire che cosa succede in questa tornata di dottorati… Pasquale mi ha subito detto… ah però… due sono troppi qua e la… e Pasquale deve rompere i coglioni
    Ferrara: che cazzo vuole dire… e si perché quelli che candidano quegli altri sono belli…?
    Trimarchi: e non me lo dire a me… io adesso ne parlo direttamente con Neri che rimane il coordinatore del dottorato e confido che non mi rompano i coglioni dopodiché ne parliamo con calma, però insomma dovrebbe essere una cosa tranquilla, quindi adesso guarda, facciamo così, io appena capisco com’è la situazione perché non so manco quando saranno le prove di ammissione al dottorato…»

    Rapporti da salvaguardare

    Alla fine, Trimarchi deve ridimensionare la sua “pretesa”, come gli ha anticipato Catanoso ad agosto. Quest’ultimo, però, in sede di concorso, pare adoperarsi comunque a favore della Sabatini. Così scrive il Gip: «Il Catanoso ha manifestato un fortissimo interesse a che la candidata Sabatini superasse il concorso, anzi l’ha preteso, si è fatto in quattro per assicurare la vincita del concorso, ritenendo che da tale fatto dipendessero le sorti dell’Università reggina. Le conversazioni hanno fatto emergere l’interesse del Catanoso a favorire la Sabatini, uno dei candidati catanzaresi, al fine di non compromettere i rapporti con Catanzaro, per assicurarsi la futura collaborazione sul piano dello stanziamento di somme da destinare al dottorato di ricerca».

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    La facoltà di Architettura nell’Università Mediterranea di Reggio Calabria

    Nella tarda serata della data di conclusione della prova orale per l’ammissione al dottorato, il 19 settembre 2018 alle ore 22, Catanoso chiede al direttore generale dell’Università, Ottavio Amaro, se siano passati candidati di Catanzaro, riferendosi proprio alla Sabatini, la candidata “segnalata” da Trimarchi.

    «Catanoso: è passato qualcuno di Catanzaro?
    Amaro: si è stata la prima, la più brava mi hanno detto
    Catanoso: eh brava si va bene va bene
    Amaro: la Sabatini
    Catanoso: vabbè, grazie Ottavio»

    Massima riservatezza

    Il concorso è stato bandito, come si è detto, nel luglio 2018, mentre le prove sono state a settembre. Quattro mesi prima dell’emanazione del bando, risulta dall’ordinanza del Gip una conversazione tra il coordinatore Gianfranco Neri (indagato) e Trimarchi circa lo stanziamento delle borse di studio finanziate dalla ‘Magna Graecia’ a favore del dottorato reggino (una delle quali, come risulta dagli atti, andrà alla “segnalata” Sabatini).

    Come scritto dal Gip, «l’intervento del Trimarchi risulta essere stato decisivo per lo stanziamento ma non è possibile però ipotizzare, a livello di gravità indiziaria, a carico del Trimarchi il compimento di atti contrari ai doveri del proprio ufficio con riferimento alla fase dello stanziamento delle borse/fondi». «Non si conoscono – prosegue il giudice – le dinamiche che sono state attivate dallo stesso Trimarchi, anche se è emerso come lo stesso Rettore (Giovambattista De Sarro, ndr) avesse chiesto di tenere il massimo riserbo sulla questione (non si individua l’esigenza di cotanta segretezza)». Sempre nell’ordinanza si legge che «il Trimarchi nella veste di professore ordinario e quindi di pubblico ufficiale è sicuramente nella condizione di poter influenzare le scelte dell’Ateneo catanzarese in tema di stanziamento di borse di studio in favore di altri Atenei».

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    Il rettore De Sarro

    A differenza di quanto sostenuto dal pubblico ministero, però, per il Gip «gli elementi che si hanno portano a ravvisare, secondo le valutazioni che sono proprie della presente fase procedimentale, la fattispecie di cui all’art. 318 e 321 cp in relazione alla quale il Trimarchi riveste la qualità di corrotto e il Catanoso (ma anche Neri, Amaro e Tornatora) la qualità di corruttore».

    Ecco il testo della conversazione telefonica, datata 28.3.2018, tra Neri e Trimarchi sullo stanziamento dei fondi per le borse di studio:
    «Trimarchi: Sentimi sono riuscito finalmente a parlare con il Rettore e ha detto va bene.
    Neri: va bene d’accordo…
    Trimarchi: Quindi stasera gli mando una lettera, ha detto naturalmente di fare…far stare la cosa nel più massimo silenzio possibile
    Neri: D’accordo
    Trimarchi: perchè loro c’hanno sai
    Neri: D’accordo»

    Subito dopo aver parlato con Trimarchi, riportano gli atti, Neri chiama la moglie del Dg dell’Università ‘Mediterranea’ Ottavio Amaro, la docente Marina Tornatora per renderla edotta di quanto gli hanno comunicato.

    «Neri: Senti ho sentito Michele Trimarchi…
    Tornatora: si
    Neri: Si, il quale mi ha detto che ha parlato con il Rettore e che… domani mattina… che sta tutto a posto per lui va bene, domani mattina ci comunicheranno questa cosa…Mi diceva, ma lo dirà pure a te di avere il massimo… massima riservatezza su questa cosa perché il Rettore vuole così, il Rettore di Catanzaro…»

    Il silenzio del rettore

    Nessun commento è pervenuto al momento da parte del rettore dell’Università di Catanzaro, Giovambattista De Sarro. Nè è chiaro se nella prossima seduta del C.d.a. universitario o del Senato accademico si parlerà del “caso Trimarchi”.
    Certo è che l’Umg già tre anni fa, nell’ambito dell’inchiesta “Università Bandita, venne scalfita con l’inserimento tra gli indagati di docenti dell’ateneo catanzarese.

    Allora si mise tutto sotto il tappeto, ma certamente De Sarro dovrebbe spiegare come mai avrebbe imposto il silenzio sui fondi “sollecitati” da Trimarchi a favore del dottorato in architettura dell’Università di Reggio Calabria. Al tramonto del suo settennato, su De Sarro (che, si sottolinea, non è indagato) pende questa situazione assai scomoda. I molteplici organi istituzionali dell’Ateneo o i rappresentanti degli studenti gliene chiederanno conto?

  • Beccato dalla polizia con 21 kg di cocaina

    Beccato dalla polizia con 21 kg di cocaina

    In auto trasportava oltre 21 chili di cocaina. Per questo la polizia di Stato di Arezzo ha arrestato un 49enne. A fermare per un controllo l’auto, con targa italiana, condotta dall’uomo, calabrese, incensurato, sono stati gli agenti della polizia stradale della sottosezione di Battifolle sul teatro aretino dell’Autosole. Le risposte troppo evasive fornite dall’uomo e il suo atteggiamento nervoso, fanno sapere gli investigatori, hanno insospettito i poliziotti che hanno deciso di procedere alla perquisizione dell’autovettura, estesa anche alla persona. L’auto, ad un attento esame, è risultata provvista di un sottofondo dentro il quale erano nascosti 20 panetti di cellophane risultati poi contenere 21,775 kg di cocaina purissima. L’uomo è stato arrestato, la droga sequestrata.

  • Concorsi truccati all’Università di Reggio Calabria: “Mediterranea” decapitata

    Concorsi truccati all’Università di Reggio Calabria: “Mediterranea” decapitata

    Doveva “aspettare il proprio turno”. Avrebbero funzionato così i concorsi all’Università Mediterranea di Reggio Calabria. È un vero e proprio bubbone quello che ha fatto scoppiare l’inchiesta “Magnifica”, condotta dalla Procura reggina ed eseguita dalla Guardia di Finanza.

    Decapitata l’Università Mediterranea di Reggio Calabria

    A essere coinvolti, 6 professori ordinari e 2 dipendenti dell’area amministrativa dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Tra le persone sottoposte alla misura cautelare del divieto temporaneo all’esercizio del pubblico ufficio ricoperto presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria figurano anche l’attuale rettore dell’Ateneo, Santo Marcello Zimbone, sottoposto ad una misura interdittiva della durata di 10 mesi.

    Il rettore Zimbone

    Catanese di nascita, si è laureato in Ingegneria civile idraulica all’Università degli Studi di Catania e ha conseguito il dottorato di ricerca in Idronomia all’Università degli Studi di Padova nel 1994. È il rettore dell’Università degli Studi “Mediterranea” di Reggio Calabria da alcuni anni.

    È il successore di Pasquale Catanoso, attuale prorettore vicario e anch’egli colpito dall’inchiesta “Magnifica”. Per Catanoso, da anni uomo assai influente nelle dinamiche accademiche, è arrivata una misura interdittiva della durata di 12 mesi. Nei confronti di quest’ultimo, il GIP ha altresì disposto l’esecuzione di un sequestro preventivo del valore di circa 4 mila euro.

    L’indagine

    L’arco temporale investigato è molto significativo e va dal 2014 al 2020. Secondo gli inquirenti, all’interno dell’Ateneo sarebbe esistita in tutto questo periodo un’associazione dedita alla commissione di delitti contro la pubblica amministrazione e contro la fede pubblica. Una vera e propria “Concorsopoli”, che mette nel mirino la direzione e gestione dell’Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria e delle sue articolazioni compartimentali.

    Sulla base di quanto emerso dalle indagini, la perpetrazione di molteplici e reiterati atti contrari ai doveri d’ufficio di imparzialità, lealtà, correttezza e fedeltà si manifestava, soprattutto, in occasione delle varie procedure concorsuali e comparative, nella selezione delle commissioni esaminatrici attraverso la scelta di componenti ritenuti “affidabili” e pertanto idonei a garantire un trattamento favorevole ai singoli candidati scelti “direttamente” o a seguito di “segnalazione”.

     “Aspettare il proprio turno”

    Le indagini traggono origine da un esposto, presentato alla Procura della Repubblica reggina, retta da Giovanni Bombardieri. A denunciare tutto, una candidata non risultata vincitrice, che avrebbe segnalato condotte irregolari perpetrate in occasione dell’espletamento della procedura di valutazione comparativa per un posto di ricercatore universitario.

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    Il procuratore Bombardieri

    La denuncia penale è stata solo l’extrema ratio decisa dalla candidata, che inizialmente aveva promosso presso la Giustizia amministrativa dei ricorsi. Ma arriverebbe qui, stando al racconto, la frase “incriminata”. Non solo sotto il profilo penale, ma anche sotto il profilo sociale. Sarebbe stato infatti suggerito di rinunciare all’azione giudiziaria intrapresa ed “aspettare il proprio turno” per avere accesso a future opportunità professionali all’interno del Dipartimento.

    Le perquisizioni

    È un bubbone perché, oltre a essere coinvolti i vertici, finiscono nelle maglie delle Fiamme Gialle anche altri docenti ordinari. Nonché alcuni membri del personale amministrativo.  Sono in tutto quattro i docenti interdetti dai due ai quattro mesi.

    Si tratta di Ottavio Salvatore Amaro, professore associato del Dipartimento di architettura ed ex direttore generale dell’ateneo; Adolfo Santini, direttore del Dipartimento di architettura; Massimiliano Ferrara, direttore del Dipartimento di giurisprudenza, economia e scienze umane; Antonino Mazza Laboccetta, professore associato dello stesso Dipartimento di giurisprudenza. L’interdizione riguarda, inoltre, anche due funzionari dell’Area tecnico-scientifica elaborazione dati dell’Ateneo, Alessandro Taverriti e Rosario Russo.

    Contestualmente, i finanzieri hanno eseguito perquisizioni domiciliari e personali nei confronti di 23 soggetti. L’obiettivo della Guardia di Finanza è quello di scovare materiale probante nei sistemi informatici/telematici in uso alla “Mediterranea”. Le procedure comparative e concorsuali riguardavano indistintamente le posizioni di ricercatori, di professori ordinari e associati, di assegnisti di ricerca nonché le selezioni per l’accesso ai dottorati di ricerca e ai corsi di specializzazione.

    Lo sperpero di denaro all’Università di Reggio Calabria

    Gli indagati rispondono infatti di associazione per delinquere, concussione, corruzione, abuso d’ufficio, falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atti pubblici, peculato e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente.

    Alla Mediterranea, infatti, sarebbe stato documentato un sistematico sperpero di risorse universitarie. E, quindi, di soldi pubblici. Le autovetture di servizio, infatti, sarebbero state sistematicamente sottratte alle loro finalità istituzionali per essere utilizzate ai fini privati. L’indebito utilizzo delle risorse dell’ente non ha riguardato solo le autovetture di servizio. Le contestazioni di peculato concernono, infatti, anche le carte di credito intestate all’Università, reiteratamente utilizzate per pagare spese di natura prettamente personale.

    Ma è quella degli appalti la questione apparentemente più grave: l’affidamento di lavori edili di manutenzione dei locali universitari, infatti, sarebbe arrivato in assenza di apposite procedure di gara e sulla base di false prospettazioni della realtà fattuale.

    • Sono 52 in totale le persone che figurano nel registro degli indagati:
    • Elvira Rita Adamo, 1990, Cosenza
    • Renata Giuliana Albanese, 1957, Roma
    • Salvatore Ottavio Amaro, 1959, Reggio Calabria (professore associato Dipartimento Architettura)
    • Nicola Arcadi, 1953, Reggio Calabria
    • Giuseppe Bombino, 1971, Reggio Calabria
    • Pasquale Catanoso, 1953, Reggio Calabria (pro rettore università di Reggio Calabria)
    • Antonio Condello, 1973, Taurianova
      Zaira Dato, 1949, Catania
    • Alberto De Capua, 1964, Reggio Calabria
    • Roberto Claudio De Capua, 1961, Reggio Calabria
    • Lidia Errante, 1989, Reggio
    • Philipp Fabbio, 1976, Villorba (Tv)
    • Giuseppe Fera, 1950, Messina
    • Massimiliano Ferrara, 1972, Reggio Calabria (direttore del dipartimento Giurisprudenza, Economia e Scienze Umane)
    • Giovanna Maria Ferro, 1977, Reggio Calabria
    • Gaetano Ginex, 1953, Palermo
    • Giovanni Gulisano, 1959, Catania
    • Rita Iside Laganà, 1994, Reggio Calabria
    • Filippo Laganà, 1964, Reggio Calabria
    • Maria Teresa Lombardo, 1990, Roccella Ionica
    • Demetrio Maltese, 1988, Reggio Calabria
    • Chiara Manti, 1991, Campo Calabro
    • Domenico Manti, 1955, Campo Calabro
    • Antonino Laboccetta Mazza, 1972, Reggio Calabria (professore associato dipartimento Giurisprudenza)
    • Martino Milardi, 1962, Reggio Calabria
    • Carlo Francesco Morabito, 1959, Villa San Giovanni
    • Gianfranco Neri, 1952, Roma
    • Stefania Ilaria Neri, 1991, Pavia
    • Paolo Neri, 1961, Reggio Calabria
    • Rossella Panetta, 1991, Galatro
    • Adele Emilia Panuccio, 1988, Reggio Calabria
    • Giuseppe Pellitteri, 1954, Palermo
    • Giulia Ida Presta, 1993, Cosenza
    • Antonello Russo, 1972, Messina
    • Valerio Maria Rosario Russo, 1956, Salerno (funzionario area tecnica)
    • Francesca Sabatini, 1994, Roma
    • Giovanni Saladino, 1963, Bova marina
    • Adolfo Santini, 1955, Catania (direttore dipartimento Architettura)
    • Leonardo Schena, 1971, Monopoli
    • Andrea Sciascia, 1962, Palermo
    • Aurelia Sole, 1957, Cosenza (ex rettore dell’Università della Basilicata)
    • Vincenzo Tamburino, 1953, Catania
    • Alessandro Taverriti, 1959, Messina (funzionario area tecnica)
    • Laura Thermes, 1943, Roma
    • Marina Rosa Tornatora, 1970, Reggio Calabria
    • Michele Trimarchi, 1956, Roma
    • Giuseppe Tropea, 1975, Soverato
    • Agostino Urso, 1965, Reggio Calabria
    • Giovanna Zampogna, 1990, Palmi
    • Giuseppe Zampogna, 1954, Palmi
    • Antonio Demetrio Zema, 1970, Reggio Calabria
    • Agrippino Marcello Santo Zimbone, 1961, Catania (rettore dell’Università di Reggio Calabria)
  • Ponte Morandi, in sette rinviati a giudizio

    Ponte Morandi, in sette rinviati a giudizio

    Sette persone rinviate a giudizio nel procedimento scaturito dall’operazione “Brooklyn” sui presunti illeciti nei lavori di manutenzione straordinaria del ponte “Morandi”, principale strada di accesso al centro di Catanzaro, e di un tratto della strada statale 280 “dei Due Mari”, arteria che collega il capoluogo allo snodo autostradale di Lamezia Terme.

    Chiesto il processo: i nomi

    Lo deciso il gup di Catanzaro Chiara Esposito. A processo, che inizierà il primo di giugno, andranno: gli imprenditori Eugenio e Sebastiano Sgromo, di 52 e 55 anni; gli ingegneri Anas Franco Pantusa, di 39 anni, e Silvio Baudi, di 43; il geometra Gaetano Curcio (42); l’ispettore della guardia di finanza Michele Marinaro (52) e Rosa Cavaliere (54).

    Le accuse, a vario titolo, sono trasferimento fraudolento di valori, auto-riciclaggio, corruzione in atti giudiziari, associazione per delinquere, frode nelle pubbliche forniture, con l’aggravante di aver agevolato associazioni di tipo mafioso. Secondo quanto ricostruito dalla Guardia di finanza nell’inchiesta coordinata dalla Dda di Catanzaro, gli imprenditori avrebbero costituito delle società intestandole fittiziamente a una loro collaboratrice, la Cavaliere.

    Catanzaro, malta scadente per il Ponte Morandi?

    Ma di fatto ne avrebbero mantenuto il controllo di fatto e attraverso una di queste gli Sgromo sarebbero riusciti a infiltrarsi nei lavori di manutenzione straordinaria per il ripristino del calcestruzzo del ponte Morandi e di rifacimento dei muri di contenimento di un tratto della strada statale “dei Due Mari”.

    Inoltre, con la presunta complicità del direttore dei lavori dei tecnici Anas avrebbero iniziato a utilizzare nelle lavorazioni un tipo di malta di qualità scadente, ma più economico di quello inizialmente utilizzato. Il tutto potendo contare su una talpa all’interno della Procura di Catanzaro, l’ispettore della Guardia di finanza, che avrebbe orientato le indagini facendo passare i due imprenditori come vittime dei clan lametini. In cambio, secondo l’accusa, avrebbe ottenuto varie utilità tra cui il trasferimento dalla Dia di Catanzaro alla Presidenza del Consiglio dei ministri.

  • Beccato con 87 chili di cocaina in auto a Gioia Tauro

    Beccato con 87 chili di cocaina in auto a Gioia Tauro

    Hanno perquisito la sua auto e hanno trovato all’interno 87 chilogrammi di cocaina ad alto grado di purezza. Un uomo di 36 anni, già noto alle forze dell’ordine, è stato arrestato dai carabinieri della sezione radiomobile della Compagnia Carabinieri di Gioia Tauro con l’accusa di detenzione di sostanze stupefacenti.

    I militari, durante un servizio di controllo del territorio nella zona marina di Gioia Tauro, hanno notato, in piena notte, un’auto che alla vista della pattuglia ha repentinamente invertito il senso di marcia e si sono insospettiti raggiungendo la vettura. Nell’abitacolo, poggiati sul sedile posteriore, sono stati trovati tre borsoni scuri. Il sospetto era che si trattasse di armi ma all’interno c’erano numerosi “panetti” plastificati, tipici del confezionamento di stupefacente. Al termine della perquisizione veicolare sono stati contati 63 panetti per un totale complessivo di 87 chilogrammi di cocaina. La circostanza del ritrovamento in una zona poco distante dal porto, secondo gli investigatori, non esclude possibili collegamenti con lo scalo merci.

  • MAFIOSFERA| Le nuove rotte della coca: i porti della ‘ndrangheta

    MAFIOSFERA| Le nuove rotte della coca: i porti della ‘ndrangheta

    Il 24 marzo 2022, la polizia federale brasiliana ha portato a termine un’operazione contro il narcotraffico durata tre anni, su tre stati: Paranà, Santa Catarina e São Paulo.
    Diciassette persone sono state arrestate con l’accusa di aver inviato tonnellate di cocaina in Europa dal porto di Paraguanà. Questo gruppo criminale, dice la polizia brasiliana, lavorava con un clan (non meglio specificato) di ‘ndrangheta che curava la logistica del trasporto del narcotico in Europa, per esempio dal porto di Le Havre in Francia, ma anche tramite gli scali spagnoli o tedeschi.

    I portuali al soldo delle ‘ndrangheta

    Come accade in molti casi simili, lavoratori portuali infedeli avrebbero aiutato fornendo informazioni e offrendo il proprio know-how portuale al gruppo criminale. Il narcotico veniva nascosto all’interno di vari compartimenti dei container – ad esempio nei vani frigo, oppure nascosto tra i sacchi di caffè o di frutta.

    Si usava anche il metodo del rip-on/rip-off, una tecnica che gli ‘ndranghetisti hanno pionieristicamente utilizzato sin dai tempi di Operazione Decollo negli anni ’90. Con la tecnica del rip-on/rip-off (che letteralmente significa “presa in giro” o “fregatura”) si nasconde la cocaina in borsoni che vengono poi piazzati all’interno del container all’insaputa di armatori, trasportatori e altri, per poi venir recuperati all’arrivo, sempre all’insaputa di chi ha ordinato il carico del container.

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    Santos, in Brasile, è uno dei porti crocevia della coca

    A cercarlo sulla mappa, si nota subito perché proprio Paraguanà sia stato il porto prescelto per questa (apparentemente) nuova venture criminale. Quinto porto del Brasile, Paraguanà è situato proprio sotto il Porto di Santos, il porto più trafficato dell’America Latina e nella top 40 dei porti più grandi del mondo. Da Santos, dicono report e indagini di mezzo mondo, passa una delle rotte più importanti del traffico di cocaina verso l’Europa. E il primato per le importazioni, storicamente ormai, spetta ai broker dei clan di ‘ndrangheta. Da Paraguanà si muove anche il commercio dal Paraguay, che non ha suoi sbocchi sul mare e che ultimamente è diventata una nazione particolarmente interessata dal narcotraffico.

    In Operazione Pollino-European Connection, diretta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria nel 2018, si erano già documentati i viaggi che Domenico Pelle aveva effettuato in Brasile per incontrare esponenti broker e rappresentanti di vari cartelli del narcotraffico, con i quali pianificava e definiva le trattative per l’invio in Italia di varie partite di cocaina, in arrivo a Gioia Tauro.

    Nel 2019, a São Paulo, fu arrestato Nicola Assisi, considerato un broker di primo livello dei clan di ‘ndrangheta, soprattutto al nord Italia. Assisi, che era l’erede criminale di Pasquale Marando, altro broker di ‘ndrangheta, aveva contrattato col Primero Comando da Capital (PCC), un’organizzazione criminale brasiliana, per l’approvvigionamento e il movimento di cocaina sul porto di Santos verso l’Europa.

    I colletti bianchi

    E infatti, in Operazione Magma, sempre della procura di Reggio Calabria – che nel 2020 ha rivelato tra le altre cose, i contatti di alcuni associati dei clan a colletti bianchi in Argentina per facilitare la scarcerazione di Rocco Morabito ed evitarne l’estradizione – leggiamo che uno dei fornitori del gruppo facente capo al clan Bellocco di Rosarno, un certo Ruben, sta appunto in Brasile e utilizza proprio Santos come base del suo traffico.

    Lo stesso Carmelo Aglioti, imprenditore nel settore import-export associato del clan Bellocco (per cui curava gli affari del narcotraffico in America latina), che si era interessato alla vicenda di Rocco Morabito per conto della sua famiglia, informava un suo collaboratore: «Se ti dice Ruben che in questi giorni ha pronto qua… Se loro riescono a farla venire a Gioia Tauro … […] Ce l’hanno, ce l’hanno. […] Loro dicono di sì […] Ma non diretto da Buenos Aires, da Santos o da un altro porto!». E probabilmente si intende Paraguanà.

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    Rocco Morabito, uomo di punta del potentissimo clan di Africo

    Le rotte della coca e i nuovi “varchi”

    Alla luce delle indagini degli ultimi anni tra Italia e Brasile, possiamo identificare quattro ingredienti chiave del narcotraffico, che aiutano anche a comprendere il ruolo della ‘ndrangheta nel mercato della cocaina.

    Innanzitutto, l’importanza di aprire “varchi”, di trovare “porte” d’ingresso – come si dice in gergo – negli scali portuali. Proprio per i volumi di merce in transito dai porti brasiliani, chiunque importi cocaina, dunque deve attrezzarsi per reperire uno o più broker che abbia accesso a tali scali. In questo, molti clan di ‘ndrangheta storicamente impegnati nel narcotraffico, si sono distinti, non solo procurandosi broker esteri, ma inviando proprio emissari che si sono poi “formati” all’estero e sono diventati broker di più clan dunque dominando il mercato. Se il broker riesce a trovare la porta d’accesso a un nuovo scalo, come nel caso del porto Paraguanà, questo influenzerà tutta la filiera di distribuzione.

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    Le rotte della cocaina dai porti del Sudamerica fino allo scalo di Gioia Tauro

    In secondo luogo, è bene ricordare che le rotte della cocaina dipendono immancabilmente dalle rotte regolari delle merci. In questo senso, avere un varco, aprire una porta, in uno scalo che non ha rotte dirette o frequenti verso l’Europa, non serve a molto. Anche gli ‘ndranghetisti dunque, per quanto capaci, devono adattarsi alla legge del mercato (legale).

    Nelle intercettazioni di operazione Magma, un associato di Aglioti ritiene di non essere più sicuro di far giungere future importazioni sfruttando le rotte con scalo in Brasile delle navi cargo dirette a Gioia Tauro a causa, verosimilmente, dei sequestri degli ultimi anni. Si propone quindi un nuovo canale di spedizione mediante l’occultamento su navi cariche di carbon fossile in partenza dalla città colombiana di Santa Marta, ma con destinazione i Paesi Bassi. «[…] Navi … non
    esiste più! (intende dire navi porta container con destinazione Gioia Tauro, ndr) […] Non esiste più … non c’è … […] Se poi ti dice con la nave carbone … trovano lo spazio nella nave carbone … solo nave carbone … ma Amsterdam o Rotterdam […] Partono da Santa Marta! […]».

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    La “roba” sequestrata dalle forze dell’ordine in attesa di essere distrutta

    Due porti “sicuri”: Le Havre e Gioia Tauro

    Terzo, per poter concludere l’importazione, è necessario avere la capacità di muoversi velocemente anche negli scali di arrivo, anche qualora questi cambino, se cambiano le rotte oppure se il carico è a rischio intercettazione. Ci conferma sempre Aglioti in operazione Magma di quanto sia necessario non solo avere i fornitori in America Latina, ma anche avere chi si occupa dello spostamento della cocaina una volta arrivata al porto di destinazione, qualunque esso sia, in Europa.

    Se l’organizzazione criminale riesce ad assicurarsi varchi all’origine e logistica alla destinazione, l’operazione sarà più sicura. «Noi abbiamo un altro porto sotto mano … “LE HAVRE”, sai dov’è Le Havre? In Normandia, in Francia. Io, prima di partire sono venuti due francesi di là …(incomprensibile) … coi calabresi […] “se voi mandate la roba là, dalla Francia, ve l’assicuriamo noi che la portiamo via dal porto! Al 100%!” … dal porto di Le Havre, dal porto internazionale di Le Havre. Quindi c’hanno 2 porti sicuri in questo momento, Gioia Tauro … [e Le Havre]».

    La reputazione della ‘ndrangheta

    La capacità di adattarsi ai cambi di rotta (letterali a volte) e l’abilità nel forgiare legami sia nei paesi fornitori che negli scali fondamentali per la logistica dell’arrivo sono fondamentali per quei clan di ‘ndrangheta che importano cocaina. Sono questi legami e queste capacità che rendono la mafia calabrese “conosciuta” in questo settore e ne forgiano la “reputazione”. Non bisogna dimenticare, da ultimo, un ulteriore fondamentale ingrediente che rende tutto questo possibile, e cioè la disponibilità di denaro.

    Serve molto denaro per operare a questi livelli. E in questo la reputazione acquisita aiuta gli ‘ndranghetisti. Aglioti conferma di essersi guadagnato la fiducia dei fornitori a tal punto che questi gli concedevano di inviare le partite di stupefacente previo pagamento in anticipo solo del 50% dell’intero valore «[…] tu paghi il 50%, il 50% a nostro carico, a nostro carico. In più, tu metti uno, noi mettiamo due. Tu metti dieci, noi mettiamo venti. Tu metti 50, noi mettiamo cento. Ne paghi 50, poi il resto è vostro», tutto il resto. Perché una volta andavano lì e compravano in conto vendita.

    E dunque, cambieranno ciclicamente le rotte, cambieranno anche le modalità di accesso agli scali portuali, si apriranno nuovi varchi, e si inventeranno nuove modalità di spedizione. Ma fintanto che ci sono domanda, offerta, denaro da investire e reputazione criminale, i clan di ‘ndrangheta che lo vorranno continueranno a scegliere il mercato della cocaina.