Tag: giustizia

  • Terremoto a Reggio Calabria: il Consiglio di Stato annulla la nomina di Bombardieri a capo della Procura

    Terremoto a Reggio Calabria: il Consiglio di Stato annulla la nomina di Bombardieri a capo della Procura

    Una decisione che sarebbe stata inficiata «dalla sottovalutazione delle proprie esperienze di funzioni direttive inquirenti e i relativi risultati nella repressione del fenomeno di criminalità organizzata, in particolare la cosiddetta mafia garganica».
    È solo uno stralcio delle motivazioni con cui il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso del magistrato Domenico Angelo Raffaele Seccia e annullato la nomina di Giovanni Bombardieri a capo della Procura di Reggio Calabria.

    Il ricorso di Seccia

    Ex procuratore capo di Lucera e oggi procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Seccia era uno dei magistrati che, ormai oltre quattro anni fa, concorrevano per il posto lasciato vacante da Federico Cafiero de Raho, nel frattempo diventato Procuratore nazionale antimafia. In quell’occasione, siamo all’11 aprile 2018, a spuntarla fu proprio Bombardieri, che in quel periodo era procuratore aggiunto di Catanzaro.

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    Domenico Seccia

    Ma Seccia ha imbastito una lunga battaglia davanti alla giustizia amministrativa che, oggi, ha avuto l’esito finale.
    La decisione dei giudici ha ribaltato quanto deciso, in prima istanza, dal Tar del Lazio, che aveva respinto il ricorso di Seccia, che non si è arreso e ha avuto ragione davanti al Consiglio di Stato.

    La mafia garganica sottovalutata

    Secondo Seccia, il Consiglio Superiore della Magistratura non avrebbe valutato correttamente il suo apporto alle inchieste sulla mafia garganica, prediligendo l’esperienza del calabrese Bombardieri nel contrasto alla ‘ndrangheta, presente nel territorio di competenza dell’ufficio di Procura oggetto dell’incarico.

    Nel proprio ricorso, infatti, Seccia sottolineava che «ulteriori censure hanno riguardato il giudizio di prevalenza espresso nei confronti del dottor Bombardieri per i profili delle capacità organizzativa, capacità relazionale ed informatica, oltre che la carenza di istruttoria con riguardo all’acquisizione del parere attitudinale e alla valutazione del progetto organizzativo per l’ufficio da conferire formulato da Seccia».

    Le motivazioni della sentenza

    Alla fine, quindi, viene premiata la pervicacia di Seccia. Il Consiglio di Stato, infatti, ha indicato la delibera del Csm come «carente per non aver minimamente considerato l’esperienza del dottor Seccia nella trattazione dei procedimenti sui reati associativi, in cui il ricorrente ha svolto funzioni di coordinamento investigativo, in virtù dell’incarico di coordinatore della Direzione distrettuale antimafia di Bari».

    Inoltre, stando alla sentenza del Consiglio di Stato, la delibera del Csm «trascura le esperienze direttive di Seccia, di cui Bombardieri è privo, per avere svolto solo funzioni semidirettive, e conseguentemente i risultati ottenuti dal primo, benché questi emergano dal suo fascicolo personale agli atti della procedura concorsuale in contestazione».

    “Illogica prevalenza attribuita a Bombardieri”

    Adesso, quindi, si rimette tutto in discussione. La nomina di Bombardieri è nulla e «il Consiglio superiore della magistratura dovrà pertanto riformulare il giudizio comparativo in conformità a quanto accertato nel giudizio».

    Questo perché, come emerge sempre dalla sentenza, ci sarebbe stata una «ingiustificata ed illogica prevalenza attribuita al dottor Bombardieri per la maggiore conoscenza del fenomeno criminale ‘ndranghetista. La sua collocazione geografica nel distretto di Reggio Calabria non vale infatti a giustificare sul piano normativo e del testo unico sulla dirigenza giudiziaria una preferenza sul piano attitudinale di un aspirante magistrato rispetto agli altri».

    Giovanni Bombardieri e il rapporto con Luca Palamara

    Un nuovo capitolo, dunque, nella nomina per il capo della Procura di Reggio Calabria. Di tale incarico, infatti, si parlava già nelle chat di Luca Palamara, agli atti del processo che lo vede imputato e corpus del suo fascicolo che ha provocato la radiazione dalla magistratura, dopo lo scandalo delle nomine nel Consiglio Superiore della Magistratura.

    Luca Palamara, originario di Santa Cristina d’Aspromonte, ma ben presto volato a Roma per fare carriera anche in seno al Consiglio Superiore della Magistratura. Per anni, a Palazzo dei Marescialli, Palamara sarebbe stato potentissimo.

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    L’ex magistrato Luca Palamara

    Ed è notorio il legame tra Bombardieri e Palamara. Entrambi membri di Unicost, la corrente maggioritaria della magistratura. Palamara sarà anche presente all’insediamento dell’amico Bombardieri al sesto piano del Cedir di Reggio Calabria.

    La nomina di Bombardieri nelle chat di Luca Palamara

    Sono molto lunghe le conversazioni via chat tra Bombardieri e Palamara: temi personali e scherzosi, come avviene tra due amici. Ma non solo. Nelle settimane antecedenti alla nomina a procuratore di Reggio Calabria, Bombardieri chiede «novità?» all’amico Palamara. «Tutto procede bene», è una delle risposte. E, all’uscita dal voto in Commissione, la Quinta, quella che decide sugli incarichi e che in quel periodo è presieduta proprio da Palamara, il primo a saperlo, via chat, è proprio l’interessato. Che ringrazia: «Grande Presidente!», scrive su Whatsapp l’attuale procuratore di Reggio Calabria. «Se riesco ti porto al Plenum l’11 aprile», dice Palamara. Il Plenum, infatti, è l’organo del Csm che ratifica le nomine, talvolta solo una formalità quando il voto fuoriuscito dalla Commissione è solido.

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    La sede della Procura di Reggio Calabria

    Palamara tiene molto alla nomina di Bombardieri a Reggio Calabria. In una chat con terze persone scrive così: «Per me Giovanni Bombardieri è come se fossi io, ti prego di non dimenticarlo». In un gruppo Whatsapp di magistrati l’ex membro del Csm comunica in anticipo l’avanzamento di Bombardieri verso la Procura di Reggio Calabria: «Saluti da Bombardieri» dice in una chat. La risposta di uno dei partecipanti: «Ci stai facendo capire tra le righe che Bombardieri è stato mandato dalla commissione a fare il procuratore di Reggio Calabria all’unanimità? Cazzo». E Palamara replica: «Ora penso di poter chiudere la mia esperienza qui».
    Resta da capire se, con la sentenza del Consiglio di Stato, terminerà anche l’esperienza di Bombardieri a capo della Procura reggina.

  • Da “Bin Laden” al bancario, le mani delle ‘ndrine su Roma

    Da “Bin Laden” al bancario, le mani delle ‘ndrine su Roma

    Ci sarebbe stata una «nave» chiamata ‘ndrangheta dietro capi e gregari della “locale” colpita dall’operazione Propaggine, condotta oggi dalla Dia tra il Lazio e la Calabria. Il gip di Roma, Gaspare Sturzo, lo annota nell’ordinanza con cui ha disposto 43 misure cautelari nell’ambito dell’indagine antimafia sulla cosca che avrebbe messo radici nella capitale per allungare le mani su svariate attività economiche (ristoranti, bar e pescherie nella zona nord di Roma e in particolare nel quartiere di Primavalle). Nel provvedimento si cristallizza la prova del «metodo mafioso» e «della paura di coloro che si sono trovati sulla strada» di quei presunti affiliati che ostentavano la loro «vicinanza alla ‘ndrangheta (“dietro di me c’è una nave“), impedendo alle vittime così di denunciare alle Forze dell’ordine avendo paura di ritorsioni».

    Soldi sporchi e omertà

    Per il giudice ci si trova «di fronte ad un complesso di vicende che a partire dal 2015/2016 si sono sviluppate, alcune ancora in corso sino al settembre 2020 e comunque con effetti di permanenza quanto a società ed aziende ad oggi gestite con capitali di illecita provenienza, o oggetto di riciclaggio, mostrando come gli indagati sono stati in grado di impedire – scrive il gip – ogni forma di collaborazione con le autorità giudiziarie, sia delle vittime, come di professionisti non collusi con costoro, nonché degli stessi dipendenti delle aziende e società».

    Da Bin Laden a “Scarpacotta”

    Il boss Vincenzo Alvaro, ritenuto dagli inquirenti uno dei due capi della ‘ndrina operante a Roma, in un’intercettazione agli atti dell’indagine diceva: «Siamo una carovana per fare la guerra». Tra gli arrestati del filone reggino dell’inchiesta ci sono tutti i presunti esponenti di vertice della cosca Alvaro di Sinopoli. In carcere sono finiti Carmelo Alvaro, detto “Bin Laden”, Carmine Alvaro, detto “u cuvertuni”, ritenuto il capo locale di Sinopoli, e i capi locale di Cosoleto Francesco Alvaro detto “ciccio testazza”, Antonio Alvaro detto “u massaru”, Nicola Alvaro detto “u beccausu” e Domenico Carzo detto “scarpacotta”.

    Nel 2015 il via libera ai due capi

    La “locale” romana, ottenuto il via libera dalla casa madre in Calabria, sarebbe stata guidata da una diarchia: ai vertici ci sarebbero stati Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, entrambi appartenenti a storiche famiglie di ‘ndrangheta originarie di Cosoleto, centro in provincia di Reggio Calabria. Le risultanze investigative hanno evidenziato come fino al settembre del 2015 non esistesse una “locale” nella Capitale, anche se sul territorio cittadino e in altre zone del Lazio come il litorale operavano numerosi soggetti appartenenti a famiglie e dediti ad attività illecite. Nell’estate del 2015 Carzo avrebbe ricevuto, secondo quanto accertato dagli inquirenti, dall’organo collegiale posto al vertice dell’organizzazione unitaria (la Provincia e Crimine) l’autorizzazione per costituire una struttura locale che operava nel cuore di Roma secondo le tradizioni di ‘ndrangheta: riti, linguaggi, tipologia di reati tipici della terra d’origine.

    Il commercialista e il bancario

    Tra le persone raggiunte oggi da misura cautelare ci sono anche alcuni professionisti accusati di «avere messo a disposizione» della cosca il loro bagaglio di conoscenze. Si tratta di un commercialista, al quale il gip ha applicato la misura del carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, e un dipendente di una banca. Contestualmente le forze ordine (questure, i carabinieri e guardia di finanza di Roma e Reggio Calabria) hanno proceduto ad un sequestro preventivo nei confronti di una serie di società ed imprese individuali operanti a Roma e intestate a prestanome.

    Il filone reggino

    Dalle indagini condotte dalla Dda reggina è emerso che la cosca, oltre ad essere operativa nel territorio di Sinopoli, dominava anche il centro urbano di Cosoleto, paese aspromontano il cui sindaco, Antonino Gioffré, figura tra gli arrestati. Dalle indagini è emerso un forte interesse dei sodali per la competizione elettorale del Comune di Cosoleto del 2018. In particolare Antonio Carzo, ritenuto capo del locale romano, è accusato con il sindaco Gioffré di scambio politico-elettorale. Oltre a questo reato, gli indagati rispondono a vario titolo di associazione mafiosa, favoreggiamento commesso al fine di agevolare l’attività del sodalizio mafioso e detenzione e vendita di armi comuni da sparo ed armi da guerra aggravate.

    Da Roma a Sinopoli

    L’attività investigativa è stata avviata nel 2016 dal Centro operativo della Dia con il coordinamento della Procura di Roma. Successivamente, a seguito dell’emersione di numerosi e significativi punti di contatto con soggetti calabresi operanti a Sinopoli, Cosoleto e territori limitrofi, parte degli atti sono stati trasmessi per competenza e le indagini, per tale parte, sono proseguite con il coordinamento della Dda di Reggio Calabria. Oltre a confermare l’esistenza del locale di ‘ndrangheta nel territorio di Sinopoli, dove è radicata la famiglia mafiosa degli Alvaro e a cui è legata la famiglia Penna, le indagini hanno consentito di appurare come la cosca abbia dato vita, nella capitale, ad un’articolazione (denominata locale di Roma), che rappresenta un “distaccamento” autonomo, del sodalizio radicato in Calabria.

  • L’allarme degli 007 stranieri: «Le ‘ndrine vogliono far saltare in aria Gratteri»

    L’allarme degli 007 stranieri: «Le ‘ndrine vogliono far saltare in aria Gratteri»

    Le ‘ndrine progettavano di «far saltare in aria Nicola Gratteri», procuratore di Catanzaro. È quanto si legge oggi nell’edizione on line del Fatto Quotidiano. Un servizio segreto straniero ha avvisato i colleghi italiani del piano per eliminare il magistrato che da anni lotta in prima linea contro la criminalità organizzata.

    L’intelligence estera avrebbe captato alcune conversazioni telefoniche. Nelle quali sono state pronunciate parole inquietanti. I clan che starebbero pianificando l’azione criminale hanno una parte dei loro affari nel contesto del Sud America e degli Stati Uniti. Questo spiegherebbe l’intercettazione degli 007 stranieri.

    I soggetti intercettati e interessati al progetto criminale apparterrebbero alle famiglie di ‘ndrangheta più direttamente colpite negli ultimi anni dalle indagini di Gratteri. Secondo quanto riporta il quotidiano «l’attentato si sarebbe dovuto consumare lungo il tragitto che collega l’abitazione del magistrato e il suo ufficio».

    Rafforzata la scorta a Nicola Gratteri

    È stata subito rafforzata la scorta al procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, con altre due auto blindate. Una delle macchine è dotata di  “bomb jammer”, dispositivo che inibisce frequenze Gsm, radio e cellulari utilizzate per innescare ordigni.  Inoltre sono stati messi sotto scorta anche la moglie del magistrato e i figli che studiano fuori dalla Calabria. Sulla vicenda ha aperto un fascicolo la Procura di Salerno competente nelle inchieste in cui sono parte offesa i magistrati del Distretto di Catanzaro. Il Copasir, a quanto si apprende, ha attivato le procedure per acquisire informazioni in merito alla notizia

  • Sei anni senza verità: ‘ndrine e altre piste dietro la scomparsa di Maria Chindamo

    Sei anni senza verità: ‘ndrine e altre piste dietro la scomparsa di Maria Chindamo

    Sei anni senza verità, senza giustizia. Per molti anche senza memoria. Ma non si arrende la famiglia di Maria Chindamo, l’imprenditrice scomparsa nel nulla il 6 maggio 2016 tra le province di Reggio Calabria e Vibo Valentia. Proprio oggi, a Limbadi, il sit-in per richiamare la memoria, promosso da Libera, Agape, comitato Controlliamo Noi Le Terre di Maria, Penelope Italia Odv.

    La storia di Maria Chindamo

    Non un luogo casuale. Una roccaforte della ‘ndrangheta, Limbadi, dove la cosca Mancuso uccide ancora tramite autobomba, come nel caso di Matteo Vinci. Anche la storia di Maria Chindamo è intrisa di mafiosità. Di certo sotto il profilo della mentalità ‘ndranghetista. Sotto il profilo penale, si vedrà.

    Nel 2015, il marito della donna, Ferdinando, si suicida, non accettando la fine della relazione. Circa un anno dopo, Maria scompare nel nulla, in quella che sembra una normale giornata, trascorsa tra la famiglia, a Laureana di Borrello, in provincia di Reggio Calabria, e l’azienda di proprietà, a Limbadi, nel Vibonese.

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    Vincenzo Chindamo, fratello della imprenditrice scomparsa nel 2016

    Le modalità mafiose

    Da anni, la famiglia di Maria Chindamo chiede che venga infranto il muro di omertà che soffoca il territorio. Lo fa anche attraverso la formazione dei più giovani: «Una volta – dice a I Calabresi Vincenzo Chindamo, fratello di Maria – un ragazzo in una scuola mi ha chiesto se abbia mai pensato di farmi giustizia da solo. Ma parlare ai giovani, creare un indotto di pensiero contro la subcultura mafiosa è farsi giustizia da solo».

    Da sei anni, Maria non si trova più. Nessuno ha mai chiesto un riscatto. E, nel probabile caso in cui la donna sia stata uccisa già nell’immediatezza del rapimento, la famiglia non ha mai avuto una salma da piangere. Un femminicidio perpetrato con le modalità ndranghetistiche, in cui la ‘ndrangheta potrebbe avere un ruolo importante. O ha verosimilmente consentito una rete di protezione di tipo criminale.

    Fin dall’inizio si affaccia l’ipotesi inquietante che Maria sia stata punita proprio per aver lasciato il marito. Perché ha “osato” interrompere la relazione con il marito. E perché ha tentato di rifarsi una vita, sentimentale e lavorativa.  Per questo andava punita, non solo con l’uccisione, ma anche con la sparizione, per cancellarla per sempre. Eccola la cultura ‘ndranghetista. La damnatio memoriae che deve accompagnare, nel linguaggio cifrato, chi si è macchiato di determinate “colpe”. Maria Chindamo va dimenticata. La “lupara bianca” serve proprio a questo.

    Le indagini sulla scomparsa di Maria Chindamo

    Maria Chindamo sarebbe stata aggredita davanti al cancello della propria azienda da due o più persone. Il motore della sua auto resterà acceso. A bordo gli inquirenti troveranno tracce di sangue e poco altro di utile.  La Procura della Repubblica di Vibo Valentia per anni ha indagato per omicidio, sequestro di persona e occultamento di cadavere.

    Ma quello della “vendetta familiare” non è l’unico movente che, in questi anni, si è affacciato sulla scena. Ne è convinta Angela Corica, giornalista che ha seguito moltissimo la vicenda: «Maria era una donna libera, non solo in termini sentimentali, ma anche sotto il profilo professionale. Forse le indagini hanno avuto qualche lacuna perché si sono concentrate troppo su una sola causa. Mentre io credo che vi sia un mix di motivazioni», dice a I Calabresi.

    Fin dall’inizio, ci si concentra su diversi particolari che nessuno crede possano essere coincidenze. Dall’assenza di alcuni operai che Maria avrebbe dovuto incontrare quella mattina, al fatto che l’auto verrà ritrovata senza alcuna impronta estranea. Ma, soprattutto, la manomissione di una telecamera che avrebbe potuto immortalare i tragici attimi di quel 6 maggio 2016. Nel luglio del 2019 viene anche arrestato un uomo, Salvatore Ascone, in passato coinvolto in diverse inchieste riguardanti la cosca Mancuso. 

    Ma il Tribunale del Riesame prima e la Cassazione poi ritengono che non vi siano prove sufficienti e rimettono in libertà Ascone. «Il capitolo sulle telecamere potrebbe essere investigato ulteriormente», afferma a I Calabresi l’avvocato della famiglia Chindamo, Nicodemo Gentile. «Di sicuro qualcuno la seguiva e ha fatto da vedetta», aggiunge.

    Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia

    Non un delitto di ‘ndrangheta, forse. Ma in cui la ‘ndrangheta sembra c’entrare eccome. In quelle zone, non si commette un crimine del genere senza il placet delle cosche. E infatti, negli anni, arrivano le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia.

    Il primo a parlare è Giuseppe Dimasi, un tempo affiliato alle cosche di Laureana di Borrello: «Con riferimento alla scomparsa di Mariella Chindamo, Marco diceva “secondo me gliel’hanno fatta pagare”, alludeva al fatto che la donna aveva avuto una relazione extraconiugale e il marito non accettando la separazione, si era suicidato». Il riferimento del pentito è a Marco Ferrentino, considerato il boss dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta di Laureana di Borrello.

    Più recenti le dichiarazioni di Antonio Cossidente, ex componente del clan lucano dei Basilischi, che riapre uno scenario che si è sempre affiancato alla pista dell’“onore”: quello delle attività economiche che Maria stava portando avanti su terreni che deteneva insieme all’ex marito e che potevano essere reclamati da qualcuno.

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    Maria Chindamo

    Maria Chindamo data in pasto ai maiali?

    Secondo quanto ha riferito Cossidente alla Dda di Catanzaro, Maria sarebbe stata uccisa per essersi opposta alla cessione di un terreno a Salvatore Ascone, proprio l’uomo indagato per l’omicidio dell’imprenditrice. Il corpo della donna sarebbe poi stato dato in pasto ai maiali o macinato con un trattore.

    A raccontare a Cossidente i fatti legati alla scomparsa di Maria Chindamo sarebbe stato Emanuele Mancuso, oggi collaboratore di giustizia, figlio del boss Pantaleone. Proprio il clan di Limbadi. Cossidente, infatti, trascorre una parte di detenzione con Mancuso e apprende alcuni particolari sulla scomparsa dell’imprenditrice di Laureana di Borrello: «Mi disse che lui era amico di un grosso trafficante di cocaina, detto Pinnolaro, legato alla famiglia Mancuso da vincoli storici e mi disse che per la scomparsa della donna, avvenuta qualche anno fa, c’era di mezzo questo Pinnolaro che voleva acquistare i terreni della donna in quanto erano confinanti con le terre di sua proprietà. Pinnolaro aveva pure degli animali, credo che facesse il pastore e questa donna si era rifiutata di cedere le proprietà a questa persona».

    E “Pinnolaro” è proprio il soprannome di Ascone: «Pinnolaro l’ha fatta scomparire, ben sapendo che, se le fosse successo qualcosa, la responsabilità sarebbe ricaduta sulla famiglia del marito della donna, poiché il marito o l’ex marito dopo che si erano lasciati si era suicidato. Emanuele mi disse che la donna venne fatta macinare con un trattore o data in pasto ai maiali».

    Il caso alla Dda

    E proprio per questo, quindi, il fascicolo d’indagine dopo la scarcerazione di Ascone è passato alla Dda. «Non abbiamo notizia di provvedimenti di archiviazione, quindi questo ci lascia pensare che le indagini siano ancora aperte. E abbiamo fiducia completa nell’operato della magistratura», dice l’avvocato Gentile.

    Il legale sembra essere convinto di una matrice chiara: «Quello che ha decretato la morte di Maria Chindamo è un tribunale clandestino di matrice vendicativa». A distanza di sei anni, però, la magistratura non è ancora riuscita a venirne a capo: «Sembra che tutto sia in una fase di stallo perché non vi sono molte tracce e poche testimonianze», commenta amaramente Angela Corica.

    La famiglia di Maria Chindamo

    E, allora, non è affatto casuale il luogo scelto per il sit-in odierno. Un’ulteriore occasione per non dimenticare Maria e per non dimenticare di chiedere, di pretendere giustizia. Il fratello di Maria Chindamo, Vincenzo, e i figli della donna, Federica, Vincenzino e Letizia, in tutti questi anni non hanno mai smesso di ricercare la verità.

    «È una ferita che non si rimargina per la famiglia Chindamo, ma è una ferita nel tessuto sociale di questo territorio, un’infamia che dev’essere capita, attraversata e punita», dice l’avvocato Gentile. Dal canto suo, il fratello di Maria, Vincenzo, non molla: «Fin quando sarò presente il 6 maggio, significa che avrò fiducia e speranza».  

     

  • Luca Gallo: tutte le accuse degli inquirenti al presidente della Reggina 1914

    Luca Gallo: tutte le accuse degli inquirenti al presidente della Reggina 1914

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    Sarebbero stati i soldi frutto dei mancati versamenti Iva di almeno tre società della galassia che fa capo a Luca Gallo, a tenere viva la Reggina nelle ultime stagioni calcistiche. Il Gip Annalisa Marzano lo scrive nero su bianco elencando i capi d’imputazione che hanno portato il patron amaranto agli arresti domiciliari nella sua casa di Roma. Soldi che passano di società in società per poi confluire nelle casse disperate di una Reggina che stava nuovamente per scomparire dal panorama sportivo dopo il fallimento del 2015 e che Gallo “salvò” all’ultimo minuto: un’operazione, sostengono i giudici, che serviva a nascondere al fisco parte degli obblighi Iva che le società dell’imprenditore romano aveva nel frattempo volatilizzato.

    La galassia di Luca Gallo e la Reggina

    “M&G Multiservizi”, “M&G Service” e “M&G Company”: sono queste le tre società che secondo il nucleo di polizia economica e finanziaria della Guardia di Finanza di Roma avrebbero fatto da collettore di denaro verso la “Club Amaranto” a cui fa capo la squadra dello Stretto. È una storia complessa quella che hanno ricostruito gli inquirenti. E ha per protagoniste società che confluiscono, tutte, su Luca Gallo che ne è legale rappresentante, con in mezzo anche la malcapitata Reggina. In questo gioco di matrioske allestito sulla pelle di una città che trema all’idea di vedere naufragare la propria squadra di calcio, entrano tutte o quasi le operazioni su cui Gallo ha costruito il suo personaggio da “presidente Paperone”.

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    Luca Gallo nella sede di una delle sue società nel mirino della Procura

    Il sistema ipotizzato dagli inquirenti

    Il primo tassello della scalata risale al gennaio del 2019. In quell’occasione la “M&G Multiservizi” paga, con assegni circolari, 356 mila euro per l’acquisizione del 100% del capitale sociale della “Club Amaranto” dai vecchi proprietari Mimmo, Demetrio e Giuseppe Praticò. Quei soldi, ipotizzano gli inquirenti, vengono dal mancato versamento dell’Iva per l’anno 2017. E finiscono per scomparire davanti agli occhi del fisco perché la Multiservizi, semplicemente, non presenta i bilanci.

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    Lo stadio Oreste Granillo di Reggio Calabria

    Da quello stesso bilancio “truccato” arrivano anche i soldi che la Multiservizi utilizza per acquistare, in parte attraverso la “Club Amaranto” e in parte con bonifici diretti, il 13% delle quote della “Reggina 1914” – la vecchia Urbs Reggina – dai vecchi proprietari. In questo ginepraio di aziende e denaro, arriva anche l’acquisto, dalla curatela fallimentare, del «ramo d’azienda sportiva per l’attività del calcio» della gloriosa Reggina Calcio ormai fallita. Poco più di 380 mila euro che Multiservizi paga attraverso assegni circolari e bancari: i soldi, dicono gli investigatori, vengono sempre dall’Iva non versata della Multiservizi ma controparte dell’affare, miracoli della finanza, risulta essere la Reggina 1914.

    Dalle società satellite di Luca Gallo alla Reggina

    E se l’ancora di salvezza dal baratro del fallimento era arrivata dalla Multiservizi, a rimpolpare le casse societarie della squadra di calcio, arrivano i soldi della “M&G Service”, altro satellite della galassia Gallo, che mette sul piatto un versamento da 1,4 milioni di euro in favore della Reggina. Anche in questo caso, scrive il giudice, il sospetto è che l’operazione, resa possibile dalla mancata presentazione del bilancio della “Service” sia stata portata avanti solo per schermare al fisco il flusso di denaro derivante dai mancati pagamenti Iva per gli anni 2017 e 2018.

    Nel 2020 è di nuovo la Multiservizi a scendere in campo per rifornire di denaro contante le casse del team dello Stretto. Anche in questo caso i soldi verrebbero dall’omissione delle spettanze Iva da parte dell’azienda di Gallo che fa trasferire nelle casse della Reggina quasi 7 milioni di euro con bonifici bancari in favore della Reggina 1914. E ancora altro denaro che rimbalza tra una società e l’altra. L’ultimo bonifico su cui puntano l’attenzione gli uomini delle fiamme gialle riguarda fondi per 460 mila euro che alla Reggina arrivano dopo essere partiti dalla M&G Company ed essere transitati attraverso la Multiservizi e la Club Amaranto, in un vortice impazzito di movimentazione bancarie create ad arte per nasconderne la provenienza.

  • Reggina, arresti domiciliari e maxi sequestro della Finanza per il presidente Luca Gallo

    Reggina, arresti domiciliari e maxi sequestro della Finanza per il presidente Luca Gallo

    Si trova agli arresti domiciliari il patron della Reggina Calcio, Luca Gallo. I militari della Guardia di finanza di Roma hanno arrestato l’imprenditore romano questa mattina: l’accusa è di autoriciclaggio e omesso versamento di imposte. I finanzieri, ancora impegnati nelle operazioni di perquisizione, hanno poi sequestrato beni e quote sociali di 17 società riconducibili al patron amaranto per un valore di 11,5 milioni di euro.

    I sospetti su Gallo e la scalata alla Reggina

    La Reggina non rientra tra le società sotto sequestro. Secondo la Procura della Capitale, titolare delle indagini, Gallo avrebbe usato le società del gruppo “M&G” per creare un articolato sistema di appalti fittizi e autofinanziando la propria attività d’impresa non versando le imposte relativa a Iva, ritenute e contributi ai lavoratori dipendenti (sono 1700 quelli che risulterebbero nella galassia del gruppo di Gallo). Gli inquirenti sospettano inoltre che Gallo possa aver utilizzato parte del denaro al centro dell’indagine nella scalata che lo portò alla guida della società amaranto.

    Il futuro degli amaranto: parla l’amministratore giudiziario

    Il club dello Stretto – fresco di penalizzazione di due punti in classifica a causa dei mancati pagamenti con l’Erario – non è direttamente sotto sequestro, ma in sostanza cambia poco. Il Tribunale di Roma ha infatti disposto i sigilli per la società “Multiservizi” che possiede per intero il capitale sociale della società “Amaranto” che a sua volta risulta proprietaria della Reggina Calcio. «Mi sento di poter dire ai tifosi della Reggina che possono stare tranquilli – dice al telefono l’amministratore giudiziario appena nominato dal Tribunale, Katiuscia Perna – e che verranno poste in essere tutte le attività opportune per salvaguardare il futuro del parco calciatori, della società Reggina Calcio e del “capitale umano” che la Reggina rappresenta per Reggio e per i suoi tifosi».

     

  • Ecco chi non ha voluto Gratteri alla guida dell’Antimafia

    Ecco chi non ha voluto Gratteri alla guida dell’Antimafia

    Tutto come da pronostico. Sfuma la nomina del procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, a procuratore nazionale antimafia. Il Consiglio Superiore della Magistratura ha alla fine optato per quello che, fin dall’inizio, era apparso come il protagonista nella contesa: il procuratore di Napoli, Giovanni Melillo.

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    Giovanni Melillo, nuovo procuratore nazionale Antimafia

    Tutto da pronostico

    Giovanni Melillo ha 61 anni ed è originario di Foggia. Da anni era a capo della Procura di Napoli, dopo aver ricoperto il ruolo di capo di gabinetto di Andrea Orlando, quando questi era ministro della Giustizia. E’ quindi Melillo il successore di Federico Cafiero de Raho, andato in pensione da alcune settimane.

    Il plenum del Consiglio Superiore della Magistratura ha quindi preferito Melillo a Gratteri. Da più parti si paventava un ballottaggio, ma già alcuni giorni fa, in un nostro articolo, avevamo indicato Melillo come il grande favorito. E, infatti, il ballottaggio non si è rivelato necessario.

    Dalla Commissione che si occupa degli incarichi, la corsa sembrava più serrata. Ma avevamo indicato chiaramente in Melillo il favorito. Soprattutto dopo la nomina di Marcello Viola a capo della Procura di Milano, che l’aveva fatto automaticamente uscire dalla contesa.

    La ripartizione dei voti

    Giovanni Melillo ha raggiunto dalla prima votazione 13 voti necessari. Sono 7 invece i voti andati al capo della procura di Catanzaro Nicola Gratteri e cinque quelli a favore di Giovanni Russo, aggiunto e sino ad oggi reggente della procura nazionale antimafia.

    Maggioranza larga, quindi, per Melillo che ha ottenuto i voti anche dei vertici della Cassazione: il primo presidente Pietro Curzio e il Pg Giovanni Salvi, hanno infatti sostenuto la sua nomina a procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Con Melillo si è schierata la parte progressista della magistratura, quella che fa capo ad Area, cinque consiglieri. Una corrente cui appartiene lo stesso procuratore di Napoli. Ma Melillo è riuscito a convincere anche i “moderati”, ossia i tre consiglieri di Unicost, la corrente centrista e maggioritaria in seno alla magistratura. Per lui, però, anche i voti dei laici Michele Carabona (Forza Italia) e Alberto Maria Benedetti e Filippo Donati (M5s).

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    Soltanto cinque voti per il magistrato Giovanni Russo

    Per Russo, invece, hanno votato invece l’intero gruppo di Magistratura Indipendente (la corrente di destra delle toghe) e il laico di Forza Italia Alessio Lanzi. A favore di Gratteri hanno votato i togati “indipendenti” Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo. Entrambi magistrati molto noti. Il primo ha svolto importanti inchieste sulla borghesia mafiosa di Catania. Mentre Di Matteo è il pm del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia.

    A favore di Gratteri, però, anche i voti dei componenti di Autonomia e Indipendenza, i laici Stefano Cavanna e Emanuele Basile (Lega) e Fulvio Gigliotti (M5s), relatore della proposta a favore del capo della procura di Catanzaro.

    Le reazioni

    Accolgono quindi con favore l’elezione di Melillo le forze politiche di centrosinistra.  Anna Rossomando, senatrice e Responsabile Giustizia della segreteria Pd: «Un alto profilo e una grande competenza al servizio della lotta a tutte le mafie e al terrorismo».

    Ma anche il senatore Franco Mirabelli, vicepresidente del gruppo Pd: «Conosciamo il suo lavoro e le sue competenze e siamo certi che garantirà alla DNA una guida efficace che saprà proseguire il grande lavoro di Cafiero De Raho contrastando le cosche e l’aggressione all’economia legale».

    «Esclusione Gratteri segnale devastante»

    Molto dure, invece, le affermazioni del magistrato Ardita, uno dei principali sostenitori della candidatura di Gratteri a rilasciare una dichiarazione molto dura: «È come se la storia non ci avesse insegnato nulla. La tradizione del Csm è di essere un organo abituato a deludere le aspirazioni professionali dei magistrati particolarmente esposti nel contrasto alla criminalità organizzata, finendo per contribuire indirettamente al loro isolamento».

    Ardita, da sempre, assai critico sul sistema di potere del Csm, è stato uno dei più duri commentatori delle vicende emerse con il “caso Palamara”. E nel corso del dibattito in plenum, spiegando il suo voto favorevole alla nomina di Nicola Gratteri aveva vaticinato: «L’esclusione di Gratteri sarebbe non solo la bocciatura del suo impegno antimafia, ma un segnale devastante a tutto l’apparato istituzionale e al movimento culturale antimafia».

    Così è stato. E ora bisognerà capire quale sarà il destino professionale di Nicola Gratteri, che ormai si avvia al termine massimo di permanenza alla carica di procuratore di Catanzaro.

  • Depurazione: nel Reggino scatta la caccia agli abusi

    Depurazione: nel Reggino scatta la caccia agli abusi

    «La situazione ambientale è fortemente degradata. Ora tocca aspettare gli esami di laboratorio sui campioni di acqua e terreno prelevati, ma visto quanto abbiamo riscontrato non è difficile immaginare cosa ci diranno». Non usa mezze parole il comandante della legione Calabria dei carabinieri Pietro Salsano nella conferenza stampa che segue il maxi blitz “Deep 1” – più di 300 i carabinieri coinvolti – su tutto il territorio della provincia di Reggio.

    Depuratori fantasma, scarichi abusivi e condotte nascoste. E poi discariche di eternit e cimiteri di auto sotto gli ulivi. Persino un autolavaggio che andava avanti – miracoli della burocrazia calabrese – con il via libera di una licenza di trasformazione alimentare: la realtà venuta fuori dal “rastrellamento” certosino eseguito dai militari del comando provinciale e da quelli della forestale non lascia spazio a illusioni.

    L’appello ai cittadini

    «I primi esami – dice ancora Salsano – suggeriscono anche la presenza di metalli pesanti. La situazione è preoccupante e generalizzata in quasi tutto il territorio, anche quello dei piccoli centri. Questo dimostra che c’è stata poca attenzione sul rispetto delle regole ambientali. L’operazione di oggi dimostra ancora una volta l’attenzione dei carabinieri sul fronte della tutela dell’ambiente, ma spesso è difficile riscontrare gli abusi in un territorio così vasto e, in alcuni casi, così impervio quindi il mio appello va ai cittadini: denunciate, fateci sapere, venitecelo a dire quando riscontrate un abuso».

    Il blitz

    Più di 50 indagati (tra amministratori pubblici, funzionari di società che gestivano gli impianti e imprenditori privati), tre depuratori sotto sequestro (gli impianti di Bivongi, Ardore e Stignano), un impianto di sollevamento bloccato (a Campo Calabro, prima periferia di Reggio) e sigilli anche a un canale di collegamento delle acque reflue che serve il comune di Sant’Agata del Bianco. In totale sono 14 gli impianti di depurazione irregolari scovati dagli investigatori sui 48 passati al setaccio in tutta la provincia.depurazione

    Il fantasma dell’opera

    Problemi amministrativi e gestionali, ma anche veri e propri disastri ambientali ancora da codificare: in un caso i carabinieri si sono trovati davanti ad un vero e proprio depuratore fantasma, che pur essendo dismesso da anni, continuava a ricevere parte delle acque reflue dell’impianto fognario. «In un caso addirittura – ha ammesso in conferenza stampa il colonnello Migliozzii nostri uomini non sono ancora riusciti a trovare il bocchettone di scolo di uno degli impianti».

    I fanghi? Troppo pochi rispetto alla popolazione

    E poi la questione dei fanghi di scarto dalla (presunta) depurazione delle acque reflue. Fanghi frutto del procedimento di “ripulitura” degli scarichi e che dovrebbero seguire le stesse regole della matematica in tutta Italia, ma che in Calabria invece seguono strade differenti. A fronte dei poco meno di due milioni di cittadini che abitano la regione infatti, la produzione di fanghi si ferma a 34mila tonnellate. Praticamente un terzo rispetto a quanto prodotto – e quindi certificato – dalla Sardegna (che di abitanti ne ha poco più di 1,5 milioni) e un decimo rispetto alla Puglia, che di abitanti però ne conta quasi 4 milioni.

    I cacciatori nelle fiumare

    Il blitz si è trascinato per tutta la giornata di giovedì: un’operazione imponente dalla costa verso l’entroterra e che ha visto anche l’intervento del gruppo cacciatori – quello in genere deputato alla ricerca dei latitanti e della piantagioni di marijuana sui versanti nascosti d’Aspromonte – a cui è toccato risalire tutte (o quasi) le fiumare della provincia alla ricerca di scarichi nascosti e discariche abusive.

    Depurazione, scarichi abusivi e rifiuti

    L’operazione è andata avanti su tre livelli distinti: quello della depurazione, quello degli scarichi abusivi nelle fiumare e quello dello smaltimento dei rifiuti delle attività produttive. E la realtà che è venuta fuori fa venire i brividi. In un caso i militari hanno riscontrato una condotta abusiva sotterranea lunga 300 metri, che collegava illecitamente un opificio direttamente con la fiumara dove finivano gli scarichi. E ancora montagne di eternit e decine e decine di impianti privati (oleifici, autolavaggi, cementifici) irregolari, alcuni dei quali trovati in totale assenza dei requisiti previsti dalla legge.

  • Coca in mezzo alle banane: sequestro da 200 milioni di euro a Gioia Tauro

    Coca in mezzo alle banane: sequestro da 200 milioni di euro a Gioia Tauro

    La cocaina era in mezzo alle banane. Purissima, l’avevano nascosta in uno dei carichi che arrivano dal Sudamerica nel porto di Gioia Tauro. A scoprirla sono stati i militari della Guardia di Finanza locale e i funzionari della dogana, grazie a sofisticati scanner. E ne hanno scoperta tantissima: oltre 650 chilogrammi.

    Cocaina: 650 kg in un sequestro da 200 milioni di euro

    Secondo le prime stime, una volta immessa sul mercato tutta quella cocaina avrebbe fruttato circa 200 milioni di euro. Quella a Gioia Tauro sarebbe stata solo una tappa intermedia, però: il carico era diretto al porto greco di Salonicco.
    I 650 chilogrammi rinvenuti sono ora sotto sequestro, a occuparsi delle indagini preliminari sarà la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palmi.

  • Zoomafie: quelle bestie della ‘ndrangheta

    Zoomafie: quelle bestie della ‘ndrangheta

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    «Con l’archeomafia, rubano il nostro passato, la nostra storia. Attraverso l’ecomafia, rubano il nostro futuro, l’avvenire della terra. Con la zoomafia, rubano il nostro presente, razziando la pietas che supera i confini di specie, rendendoci empaticamente sterili, indifferenti alla sofferenza degli altri individui del nostro stesso regno animale. Ambiente, animali umani e no: tutti vittime del morbo mafioso». Si esprime così Ciro Federico Troiano, criminologo e attivista che ogni anno cura il Rapporto Zoomafia per la Lav, con la collaborazione della Fondazione Antonino Caponnetto.

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    Ciro Federico Troiano, criminologo e attivista

    Il lockdown non ha fermato la zoomafia

    Neanche il lockdown del 2020 ha fatto crollare il fenomeno dei reati contro gli animali. «I traffici legati allo sfruttamento degli animali, rappresentano un’importante fonte di guadagno per i vari gruppi criminali che manifestano una spiccata capacità di trarre vantaggio da qualsiasi trasformazione del territorio e di guadagnare il massimo rischiando poco», è scritto nell’ultimo rapporto redatto da Troiano.

    Le mafie riescono a ottimizzare ogni cosa per i propri profitti: «A livello internazionale, la criminalità organizzata dedita ai vari traffici a danno degli animali si distingue per la sua capacità di agire su scala internazionale, per il suo orientamento al business, per la capacità di massimizzare il profitto riducendo il rischio. Tali traffici sono il simbolo, al pari delle altre mafie, della società globalizzata»,  si legge ancora nel Rapporto Zoomafia.

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    Pesce spade a tonni sequestrati dalla Guardia costiera

    Il mercato ittico

    Le capitanerie di porto calabresi sono tra le più attive nel contrasto agli illeciti riguardanti il materiale ittico. I controlli e i sequestri si susseguono. E, ovviamente, sono molto più intensi durante la stagione estiva.

    In riferimento alla pesca e commercio del cosiddetto “bianchetto” si legge nel “Rapporto Annuale sul controllo della pesca in Italia”: «Nell’anno 2020 l’attività di repressione posta in essere dagli uomini della Guardia Costiera delle Direzioni Marittime di Bari, Reggio Calabria, Catania, e Palermo contro gli illeciti in materia di pesca e commercializzazione illegale di prodotti ittici sottomisura di sardine cosiddetto “bianchetto”, hanno consentito di interrompere una rete di commercializzazione di questo prodotto, che a bordo di automezzi isotermici partivano dalla Puglia e dalla Calabria ionica per raggiungere le località della bassa Calabria e della Sicilia dove tale prodotto riscuote un forte apprezzamento».

    Non si tratta di argomenti interessanti solo per i “fanatici” dell’animalismo. Perché questi crimini consentono enormi guadagni: «L’attività di controllo ha consentito di rilevare 157 violazioni e sequestrare oltre tredici tonnellate di prodotto ittico illegalmente detenuto o commercializzato elevando sanzioni amministrative per circa 614 mila euro» – si legge ancora nel Rapporto.

    Il fenomeno in Calabria

    Cani, cavalli, uccelli, ghiri, pesci e materiale ittico in generale. La criminalità, organizzata e comune, in Calabria non risparmia nulla. 

    E si susseguono le operazioni antibracconaggio. Spesso anche all’interno di aree protette. Nel mese di gennaio 2020 c’è stato un servizio antibracconaggio a ridosso dell’area dello stretto di Messina. È stato eseguito dai Carabinieri forestali dei nuclei Cites di Reggio Calabria e Catania e del Soarda. Sono stati numerosi i bracconieri denunciati a Oppido Mamertina, Taurianova, San Giorgio Morgeto, Feroleto della Chiesa, Montebello Jonico e Messina.

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    Carabinieri forestali in servizio

    Nel dicembre del 2020, l’indagine “Fox”, curata dal NAS di Cosenza, nelle province di Crotone, Cosenza e Reggio Calabria, ha portato a un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Tribunale di Crotone, a carico di 8 persone (tra cui 6 veterinari ufficiali in servizio presso l’Asp di Crotone e 2 gestori di uno stabilimento di macellazione carni). Con il sequestro di uno stabilimento di macellazione e 4 allevamenti ad esso direttamente collegati, per un valore di oltre un milione di euro.

    I veterinari indagati, al fine di procurare ingiusti vantaggi patrimoniali agli allevatori cui erano contigui, avrebbero attestato falsamente l’esecuzione della profilassi anti-tubercolosi, alterando i prelievi di sangue effettuati su capi suini al fine di consentirne la macellazione.

    Le corse clandestine di cavalli

    È, quindi, spesso fondamentale il ruolo dei professionisti per poter portare a compimento questi e altri illeciti. In passato, è emerso il ruolo di un veterinario che forniva ai clan le sostanze dopanti per rafforzare la corsa dei cavalli. Diverse inchieste degli ultimi anni hanno infatti confermato l’interesse di alcuni sodalizi mafiosi per le corse clandestine, in particolare il clan Giostra – (Galli – Tibia) di Messina, i Santapaola di Catania, i Marotta della Campania. A questi vanno aggiunti i Casalesi del Casertano; il clan Spartà e i “Mazzaroti” della provincia di Messina; i Parisi di Bari; i Piacenti -“Ceusi” di Catania; i Labate, detti “ Ti Mangiu”, i Condello e gli Stillitano di Reggio Calabria.

    Il 29 gennaio 2020 è stata resa nota l’indagine “Helianthus” della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria sugli affari economici della cosca Labate. L’inchiesta ha portato alla luce anche gli interessi del clan nel settore delle corse clandestine di cavalli e in quello dei giochi e scommesse on line.

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    Militari dell’Arma impegnati nel contrasto alle corse clandestine di cavalli

    Il clan Labate ha mantenuto inalterato il tradizionale “prestigio” nel territorio di competenza criminale (l’ampia area a sud della città di Reggio Calabria ed in particolare nel popoloso quartiere “Gebbione”), coltivando e rafforzando i rapporti e le alleanze criminali con altri storici “casati” di ‘ndrangheta. E dimostrando anche un certo dinamismo criminale in relazione a “nuovi” settori illeciti.

    Una cosca che ha saputo superare le epoche, rimanendo neutrale nel corso della seconda, sanguinosissima, guerra di ‘ndrangheta in riva allo Stretto. E mantenendo così il proprio territorio inviolato dalle ingerenze degli altri clan. Lì si fa razzia di estorsioni e di lavori edili. Ma non solo: «Ulteriori interessi sono emersi in seno al lucroso settore delle scommesse online, delle slot-machine e delle corse clandestine di cavalli». Ecco quanto è scritto nella Relazione del Ministero dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia nel primo semestre 2020.

    I “cani fantasma”

    Si scommette sulle corse dei cavalli. Ma anche sui combattimenti tra cani. In questo caso, L’AIDAA, l’Associazione Italiana in Difesa degli Animali e dell’Ambiente, ha denunciato: «Sono tremila i cani che nel 2021 sono spariti nel nulla in Sicilia, Sardegna, Puglia e soprattutto Calabria». Sono i cosiddetti “cani invisibili”, randagi che scompaiono nel nulla. Cuccioli e non.

    Cani di grossa taglia ogni giorno – ne parla la stessa AIDAA – sono picchiati e seviziati in allevamenti abusivi. Lì avviene la preparazione per i combattimenti, che si svolgono su tutto il territorio nazionale, ma anche all’estero. A volte, forse, anche con la complicità di canili compiacenti.

    Cani feriti e trattati in maniera disumana

    Nel mese di maggio 2020, i Carabinieri di Siderno coordinati dalla Procura di Locri hanno sequestrato un canile in provincia di Reggio Calabria. Una struttura con 187 box e 444 cani, di cui 146 sprovvisti di regolare microchip, dunque non iscritti all’anagrafe canina. Alcuni animali non erano nemmeno registrati negli elenchi dello stesso canile.

    Gli animali morti, è stato appurato nel corso dei controlli, sarebbero stati posti in contenitori di plastica tenuti in una cella frigo non funzionante. Diversi cani avrebbero presentato malattie della pelle, deperimento, piaghe purulente e importanti ferite da morso, causate durante gli scontri tra cani alloggiati negli stessi box. Inoltre, secondo quanto emerso, quasi tutti gli animali non erano sterilizzati e ciò alimentava aggressività e competizioni in particolari periodi.

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    Ancora, il 27 settembre 2020, vicino Vibo Valentia, i Carabinieri hanno scoperto un canile abusivo, senza alcun tipo di autorizzazione, in cui i cani erano tenuti in evidente stato di malnutrizione, rinchiusi in gabbie all’aperto, senza acqua e fra i loro escrementi, con sporcizia e cibo in decomposizione. I cani presenti all’interno della struttura abusiva erano 28, di cui solo 10 dotati di microchip.

    La cultura animalista in Calabria

    La Calabria è ancora tra le regioni maglia nera per quanto riguarda i cani avvelenati. Nei primi cento giorni di quest’anno sono poco meno di 3.000 i casi di avvelenamento.  Lo scorso anno erano 7.000 secondo le stime dell’AIDAA.

    Proprio nel 2021, in particolare alla fine dell’estate, vi fu una preoccupante impennata dei casi. Numeri da mettere in diretta correlazione con la tragedia della giovane Simona Cavallaro, sbranata da un branco di cani a Satriano, nel Catanzarese.

    «È una vera strage silenziosa quella dei cani avvelenati di cui stranamente le grandi organizzazioni sono molto tiepide nel denunciare la necessità di leggi severe e di messa al bando di alcuni prodotti che vengono utilizzati per questo sterminio di massa dei cani randagi» – afferma ancora l’AIDAA.

    La presa di coscienza sulla zoomafia

    Nel corso degli anni, grazie al lavoro della Lav e, soprattutto al rapporto sulla Zoomafia, si sono aperti altri filoni investigativi, come la macellazione clandestina, l’abigeato, le sofisticazioni alimentari. Il rapporto Zoomafia, ogni anno, viene stilato sulla scorta di oltre 20mila pagine consultate.

    «Quando parliamo di zoomafia non intendiamo la presenza o la regia di Cosa nostra dietro gli scenari descritti, piuttosto ci riferiamo ad atteggiamenti mafiosi, a condotte criminali che nascono dallo stesso background ideologico, dalla stessa visione violenta e prevaricatrice della vita» – dice, infine, Ciro Federico Troiano.