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  • Tramonte e Cristiano: uccisi a Lamezia Terme senza un perché

    Tramonte e Cristiano: uccisi a Lamezia Terme senza un perché

    Quella di Stefania Tramonte sarebbe dovuta essere una storia come tante altre. Ha 42 anni e una voce squillante. Vive a Lamezia Terme («non potrei farne a meno») e ogni mattina per lavoro va a Catanzaro. È sposata (con Pasquale, “una benedizione” lo definisce) e ha due figli (Matteo e Christian, di 11 e 8 anni). Le piace stare con gli amici e ha imparato a fare tesoro delle piccole cose. Se le chiedi un bilancio della sua vita ammette di avere sofferto, ma non ha dubbi nel definirsi anche fortunata e circondata d’amore. Tante giovani donne calabresi potrebbero riconoscersi in queste parole.
    Ma quella di Stefania, suo malgrado, non è una storia come tante altre. Non lo è da una dannata notte di 31 anni fa.

    L’agguato a Lamezia

    Le tre del mattino, giù dal letto, una fugace colazione e poi di corsa fuori di casa, senza svegliare la moglie Angela e le tre bambine – Maria, Stefania e Antonella, di 13, 11 e tre anni. Il 40enne Francesco Tramonte fa il netturbino al Comune di Lamezia e anche quella notte raggiunge Palazzo Sacchi, sede del centro della nettezza urbana. Prende le consegne e si dirige al piazzale dove il camion è già pronto. Alla guida c’è il 36enne Eugenio Bonaddio, autista della Sepi, la ditta privata che gestisce la raccolta dei rifiuti. A bordo anche un ragazzone di 28 anni, Pasquale Cristiano, che non dovrebbe stare lì: il medico gli ha sconsigliato il lavoro notturno sui mezzi per un problema di epilessia, ma – vai a capire il destino – c’è un’emergenza e lui si mette a disposizione. Partono.

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    Mamma Angela con Antonella, Stefania e Maria Tramonte anni prima della tragedia

    Intorno alle cinque sono nella zona di Miraglia, a Sambiase, dove l’illuminazione pubblica è cosa rara e la sensazione di degrado e abbandono soffocante. Il camion accosta, vanno per scendere quando notano l’ombra di un uomo dietro i cassonetti: ha corporatura media, porta lunghi capelli pettinati all’indietro e la barba incolta, indossa un giubbotto scuro e paio di jeans. Soprattutto, imbraccia un fucile da guerra. Il suo ghigno è spaventoso, complice il canino inferiore destro più lungo e appuntito degli altri denti. Intima ai tre netturbini di scendere, loro obbediscono.

    All’alba del 24 maggio 1991 Lamezia Terme diventa il teatro di uno spaventoso massacro. Il killer spara 22 volte: i proiettili di kalashnikov calibro 7.62 centrano Francesco 12 volte e Pasquale 7. Non hanno scampo. Se la cava con qualche ferita Eugenio Bonaddio che riesce a mettersi in salvo. Dopo l’inferno di piombo è l’ora dell’odore del sangue e del silenzio.

    L’ultima notte di Tramonte e Cristiano

    È un collega del padre a bussare alla porta di casa Tramonte e dare la notizia alla moglie: «Hanno ammazzato vostro marito su un camion», le dice. «Mia madre è rimasta scioccata, incredula e senza parole». Poi le lacrime, la disperazione e la ricerca del coraggio per parlare con le figlie. «Sono rimasta di ghiaccio», aggiunge. Poi ricorda «la confusione, l’arrivo di una vicina di casa, poi un gran viavai di tantissime persone: abitavamo in quel quartiere da una vita, non ci riusciva a credere nessuno». Anche a casa Cristiano è così. «Il padre e il fratello pensano a uno scherzo di cattivo gusto: cosa c’entra Pasquale con quelle cose?».

    Appunto. Ci pensa spesso Stefania: «Erano due puri: sono stati due martiri». Dalla memoria riaffiora un ricordo: «Un giorno mio padre racconta che un collega si è fatto male a una mano e rischia di perdere un dito – dice – non dimentico la paura che provai pensando che potesse accadere a lui. Figuriamoci una morte così». Un omicidio non è mai giustificabile, ma ci sono delle circostanze in cui è più facile immaginare che possa capitare. «Me lo ha detto anche il figlio di un poliziotto: lui aveva paura quando suo padre usciva di casa con la pistola. Mio padre invece aveva in mano una scopa».

     

    Era mio padre

    «Non se lo meritava, papà – dice Stefania – E poi era una bella persona, era un giocherellone, aveva l’animo di un bambino, e infatti tutti i bambini erano innamorati di lui». Racconta i giri sull’Ape a tre ruote con i nipoti, i picnic improvvisati in montagna: «Era divertente, lo ricordano tutti così. Mi sento fortunata ad avere ereditato questo tratto». Era anche affettuoso con le sue figlie e la moglie Angela: «La baciava sempre. Eravamo una famiglia umile, però felice, soprattutto delle piccole cose. Siamo ancora così». Forse perché cercano di non smarrire il ricordo di Francesco: «Con Maria condividiamo gli stessi ricordi, Antonella invece era troppo piccola, non ha memoria di quegli anni, è una cosa che mi fa soffrire. Però parliamo sempre di lui, anche per i miei figli è una presenza viva».

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    Francesco Tramonte con la sua famiglia

    Lo shock e il dolore sono enormi, ma bisogna andare avanti. Angela si rimbocca le maniche: «Abbiamo avuto solo lei come punto di riferimento, s’è dedicata completamente a noi. Avrebbe potuto fare la bidella, ma non ha voluto privarci anche della sua presenza. Abbiamo vissuto con la pensione di mio padre: ha fatto la scelta giusta, è stata una madre straordinaria». La loro vita è cambiata per sempre, «ma ce l’abbiamo fatta». Anche perché, lo sottolinea spesso Stefania, «mi sono sempre sentita amata, dai miei compagni di scuola di allora, dai miei amici, dalla mia famiglia, dalle persone comuni: sono sempre stati tutti molto comprensivi, attenti, vicini».

    Tramonte e Cristiano, morti che riguardano tutti

    D’altra parte, le cittadine e i cittadini di Lamezia hanno condiviso anche la rabbia e la paura con le famiglie di Tramonte e Cristiano: «Da quel giorno si sono sentiti in pericolo: hanno pensato che se avevano ucciso degli innocenti in quel modo sarebbe potuta toccare a chiunque».

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    Pasquale Cristiano

    Lamezia si sente vulnerabile, cerca una spiegazione. Anche gli investigatori si interrogano. Perché quella notte? Perché Tramonte e Cristiano? E perché con quelle modalità?
    Lo scenario che si va via definendo è sconvolgente. Cristiano e Tramonte non erano un obiettivo, sono rimasti vittime della necessità dei boss di compiere un gesto dimostrativo per affermare che i rifiuti sono affar loro: poteva esserci chiunque su quel camion. In altri termini, Lamezia scopre che si può morire così, senza motivo. Anche per questo migliaia di cittadini sfilano per le vie della città.

    L’illusione delle indagini

    Le indagini intanto sembrano procedere speditamente. «I giornali scrivevano che c’era un testimone, che la pista era quella giusta», ricorda Stefania amareggiata. E un testimone, in effetti, c’è. Bonaddio, l’autista del camion, è impaurito ma fornisce un identikit del killer. Per gli investigatori è Agostino Isabella, di Sambiase, considerato vicino alle cosche. Bonaddio lo riconosce e, nel giro di poche ore, il caso sembra chiuso. Finché l’autista di fronte a un nuovo riconoscimento esita e tra le quattro persone dietro il vetro ne indica due diverse: uno è Agostino Isabella, l’altro il fratello che gli somiglia molto. «Che devo dire? – commenta Stefania – Certo, con Bonaddio ci siamo conosciuti e abbiamo sperato nella sua testimonianza, ma non ne abbiamo mai parlato: ogni tanto ci incontriamo, ma non abbiamo nessun rapporto».

    La Corte d’appello di Catanzaro

    La verità però è che «tutta l’indagine non è stata fatta bene, diciamo che sono stati commessi troppi errori». Isabella l’11 maggio 1992 viene comunque mandato a processo ma la Corte d’Assise di Catanzaro lo assolve il 19 giugno 1993 per non aver commesso il fatto. Le motivazioni descrivono però un omicidio di ’ndrangheta maturato nella lotta tra clan per “assicurarsi l’appalto del servizio di nettezza urbana”, che fino ad allora “era stato conferito con dubbia legalità e con dispendio sproporzionato di pubblico denaro a imprese non immuni da sospetti di contiguità al mondo mafioso”.

    Un messaggio bestiale per Lamezia

    E c’è di più: “Il barbaro eccidio – scrivono i giudici – volle essere un significativo messaggio, tanto più efficace quanto più permeato da bestiale efferatezza, rivolto a tutti, pubblici e privati operatori; un messaggio che preannunziava nuovi equilibri mafiosi e dei quali non poteva non tenersi conto nello spendere i miliardi della nettezza urbana”. Tutto questo in un quadro di esternalizzazione (dal 1988), nonostante il Comune fosse “in grado di attivare in proprio il servizio”. Insomma, è stato un atto di terrorismo mafioso per regolare gli affari nel settore dei rifiuti in una città piegata e in crisi (il 20 settembre 1991 ci sarà lo scioglimento per mafia del consiglio comunale, il 1992 si aprirà con il duplice omicidio del sovrintendente di polizia Salvatore Aversa e della moglie Lucia Precenzano).

    Nel 1993 si aprirsi una nuova stagione: quella del vescovo Vincenzo Rimedio e della sindaca Doris Lo Moro – eletta anche grazie ai voti di Vincenzo Cristiano, il papà di Pasquale, che decide di candidarsi – durante la quale il Comune organizza una commemorazione ogni 24 maggio. Nel 2000 Vincenzo Cristiano muore, l’anno successivo il centrosinistra frana alle elezioni e inizia un periodo di lenta rimozione della storia dei due netturbini. Fino all’elezione a sindaco nel 2005 di Gianni Speranza che riaccende una luce su Tramonte e Cristiano. Tuttavia qualcosa nella memoria deve essersi inceppato se Stefania – il 7 dicembre 2006 – avvia una piccola grande rivoluzione personale. “Conservo ancora il ritaglio del giornale di quel giorno”, rivela.

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    Il ritaglio conservato da Stefania Tramonte

    La svolta di Stefania Tramonte

    In un teatro cittadino viene organizzata la presentazione di un libro a cui partecipano, tra gli altri, il sindaco Speranza, Maria Grazia Laganà, la moglie del vicepresidente del consiglio regionale Franco Fortugno ucciso l’anno prima, e il presidente della commissione Antimafia Francesco Forgione. Quando l’incontro sta per terminare dal palco chiedono se qualcuno tra il pubblico ha delle domande. Si alza una ragazza, le tremano le gambe, ha la voce incerta: «Sono la figlia di una vittima della ‘ndrangheta, vorrei sapere chi ha ucciso mio padre». Cala il gelo nella sala. «Vorrei sapere se ci sono indagini in corso».

    È Stefania Tramonte. «Non avevo mai parlato di mio padre in pubblico fino a quel giorno – ricorda oggi che invece è diventata la voce della famiglia – mi faceva troppo male. Ho sentito una forza dietro le spalle che mi spingeva. Dovevo farlo, da troppo tempo era tutto insabbiato». Le viene quasi da sorridere: «Ho parlato due secondi – parla di sé con tenerezza – perché poi mi sono messa a piangere». Prendono la parola alcuni studenti, ma dalla sala cresce la protesta: datele una risposta. L’inchiesta è arenata, non ci sono novità. Tocca a Speranza lanciare un appello (l’ultimo lo scorso anno lo ha promosso il festival Trame): riaprire le indagini! Tutta la città ha bisogno di conoscere una verità sinora impossibile visto che non s’è celebrato neppure il processo d’appello. Il pubblico ministero ha presentato l’appello in ritardo e la sentenza di assoluzione è divenuta esecutiva il 18 luglio 1996.

    Gazzetta del Sud, 15 maggio 2016, in occasione dei 25 anni del duplice delitto

    «Non so se era tutto programmato – afferma sconsolata – ma mi dispiace non avere mai avuto l’occasione di chiedere una spiegazione al pm Luciano D’Agostino. Ma all’epoca cosa avrei dovuto fare? Non conoscevamo le procedure. Oggi cosa posso dire? Alcune indagini sulla massoneria su certi magistrati mi fanno riflettere». Ma non prova «odio né rabbia, e ne sono fiera. Vedere in carcere gli assassini non mi darebbe pace. Tanto il vero ergastolo lo stiamo vivendo noi, con un dolore che durerà tutta la vita, e niente potrà restituirmi mio padre. Ma è giusto conoscere la verità».

    Dopo 31 anni

    Sono trascorsi 31 anni da quella dannata notte e non è stato facile. «Devo dire grazie a mio marito, che ha accettato la tristezza, le lacrime, il panico quando era tutto difficile. Ma da qualche tempo le cose vanno meglio: sono mamma, so che devo stare bene per i miei figli. E poi è giusto per me». L’aiuta anche avere incontrato sulla sua strada la famiglia Cristiano, forse perché lo considera un po’ un lascito di suo padre.

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    Maria Tramonte, Antonio Cristiano e la piccola Francesca

    «Un giorno mia madre con la macchina urta e danneggia il gradino davanti a una casa. Ci fermiamo e lasciamo un biglietto per dire al proprietario che siamo disponibili a rimborsare i danni. Era la casa di Rosa e Vincenzo, i genitori di Pasquale Cristiano. Non lo sapevamo. È stato il primo di una serie di segnali che ci hanno fatto percepire per sempre la presenza di papà e Pasquale». Di certo non il più sorprendente: «Mia sorella Maria – rivela – ha sposato il fratello di Pasquale. Si sono conosciuti al cimitero e si sono innamorati. La loro bambina si chiama Francesca, come papà». È stato importante questo accompagnarsi reciprocamente tra le famiglie di Francesco e Pasquale. «Ma papà mi manca, sempre. Vorrei abbracciarlo, vorrei stringere quel corpicino fragile che è stato bombardato da quei colpi di fucile. Bombardato. Non se lo meritava, nessuno se lo merita». Nessuno.

  • MAFIOSFERA| Luna di miele con delitto: si fa presto a dire ‘ndrangheta

    MAFIOSFERA| Luna di miele con delitto: si fa presto a dire ‘ndrangheta

    Le spiagge di Cartagena, città caraibica sulla costa nord della Colombia, in queste settimane sono invase dal sole e dai colori. Cartagena non è solo una bellissima città, dove il giallo-oro ispanico-coloniale si mischia perfettamente al rosso, verde e blu di cibo, vestiario e vita di strada. È anche una città la cui posizione geografica ha sempre attirato molto turismo e reso il territorio un importante hub commerciale, grazie anche al porto, il più importante dei Caraibi.

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    Il magistrato paraguayano Marcelo Pecci con la moglie, la giornalista Claudia Aguilera

    Marcelo Pecci ucciso in luna di miele a Cartagena

    L’isola di Barù a poche miglia da Cartagena è stata l’ultima meta turistica del procuratore paraguayano Marcelo Pecci, ucciso il 10 maggio 2022 a colpi di pistola da individui su una moto d’acqua venuta dal mare, mentre era sulla spiaggia con la moglie, la giornalista Claudia Aguilera. I due, appena sposati e in luna di miele, avevano appena annunciato sui social di aspettare il loro primo figlio, cosa che ha reso questo omicidio, se possibile, ancora più tragico.

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    Il procuratore Marcelo Pecci e la moglie: le scarpette del bambino che il giudice non potrà conoscere

    Marcelo Daniel Pecci Albertini aveva 45 anni e aveva dedicato gli ultimi anni della sua professione alla lotta al narcotraffico e al crimine organizzato, anche nelle sue manifestazioni terroristiche, tra Paraguay, Colombia, Bolivia e il resto dell’America Latina. “A Ultranza Py“, l’operazione anti-droga e antiriciclaggio che lo aveva coinvolto in prima linea insieme alla Drug Enforcement Administration – la DEA americana – colleghi uruguayani e forze di polizia di Europol, aveva portato, solo un paio di mesi fa, il presidente del Paraguay Mario Abdo Benítez a chiedere le dimissioni di due ministri, per il loro coinvolgimento con dei narcotrafficanti tra Brasile e Paraguay.

    Le vie della coca: Paraguay e ‘ndrangheta

    L’operazione, infatti, si concentra sul ruolo che il Paraguay ha assunto nel panorama del narcotraffico da Bolivia e Colombia verso l’Europa sfruttando i container, la logistica e i network brasiliani da un lato, e i porti, la rete di distribuzione e la disponibilità di capitali in nord Europa. Che il Paraguay sia diventato un paese chiave per comprendere il traffico di cocaina dai paesi produttori, non è una novità.

    L’indice globale sulla criminalità organizzata redatto dall’Ong The Global Initiative Against Transnational Organized Crime nota come in Paraguay sia non solo aumentata la capacità di lavorare la coca, dunque diventando una tappa importante della catena di produzione, quanto sia anche aumentata la presenza – proprio per questo – di gruppi brasiliani sul territorio, come ad esempio il PCC – Primeiro Comando da Capital – temuta organizzazione criminale che da anni – si dice – essere in combutta con i peggiori (o migliori, dipende dai punti di vista) ‘ndranghetisti. Dal Brasile infatti, ‘ndranghetisti importatori di stupefacenti, hanno da lungo tempo stabilizzato una delle rotte più importanti dell’approvvigionamento di cocaina verso l’Europa.

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    Il Paraguay è una tappa fondamentale della catena di produzione e commercializzazione della cocaina

    Colletti bianchi in Sud America

    Questo lo sapevo sicuramente Marcelo Pecci, che infatti proprio a dicembre 2021 si era recato a Buenos Aires a incontrare l’esperto per la sicurezza italiana stazionato in Sud America. Avevano discusso anche di ‘ndrangheta, come ricorda proprio un suo tweet. In un’intervista rilasciata sotto Natale a La Nacion, il procuratore parlava molto lucidamente della presenza della mafia calabrese in Paraguay e avvertiva che membri di questa organizzazione nel suo paese «sono persone con preparazione accademica e senza precedenti penali», le cui attività commerciali «vanno da ristoranti a hotel, il tutto con un sistema di comunicazione attento e cifrato»; i soliti fixer in colletto bianco. Marcelo Pecci notava come ci fossero cittadini italiani indagati, ma come ciò non significasse che venissero necessariamente considerati parte dell’organizzazione.

    La ‘ndrangheta dietro la morte di Marcelo Pecci?

    Il procuratore paraguayano aveva compreso bene, dunque, che la ‘ndrangheta d’oltremare è una criminalità affarista, che si protegge spesso con la legge – nei gangli della società – e non dalla legge – come spesso fanno i gruppi di narcotrafficanti, con armi, forza bruta e terrore. Nonostante la chiarezza delle analisi di Pecci (decisamente più bilanciate di tante disamine italiane sull’argomento della ‘ndrangheta all’estero), e sicuramente complice lo shock della notizia del suo omicidio, è subito stata paventata, da alcuni canali di informazione italiani e non solo, l’ipotesi che dietro questo atto efferato ci fosse proprio la ‘ndrangheta. Non a caso si parla, in Italia, dell’ombra della mafia calabrese tra i possibili mandanti del crimine.

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    Marcelo Pecci, magistrato paraguayano ucciso sulla spiaggia di Cartagena, in Colombia

    Marcelo Pecci diventa pm antimafia

    A sostegno di questa tesi, sposata anche da canali spagnoli, proprio quelle indagini discusse da Pecci nel dicembre 2021, e alcuni arresti che ne sono seguiti. Non mancano riferimenti alla sua discendenza italiana. Tra i giornali italiani si intervistano magistrati, da Gratteri a Ingroia, perché speculino (ché di pura speculazione si tratta) su queste voci e in generale ché parlino dei rischi di chi è esposto in prima linea nella lotta al crimine organizzato. Non a caso poi Pecci, il cui ruolo ufficiale era ‘Fiscal Especializado contra el Crimen Organizado’, diventa nelle news italiane ma anche straniere “pm antimafia”. Perché quando si tratta di morire per mano di gruppi organizzati dediti, tra le altre cose, al narcotraffico e al riciclaggio, siamo noi – italiani, o meglio siciliani e calabresi – a saperne di più, nel bene e nel male.

    In quest’ottica la corsa a far commentare la notizia dai procuratori nostrani non è di per sé cosa stranissima: Gratteri ammette di non averlo conosciuto di persona e si concentra sui metodi “mafiosi” utilizzati. Vista la nota efferatezza dei narcos, Ingroia si chiede come mai non fosse protetto. Altri commentatori poi dicono che «è perfettamente possibile» che ci sia la ‘ndrangheta dietro all’omicidio.

    L’ex magistrato siciliano Antonio Ingroia

    Perché potrebbe non essere un omicidio di ‘ndrangheta

    Sarà anche perfettamente possibile ma è veramente improbabile per almeno tre ragioni con la natura del crimine organizzato di cui si occupava il procuratore Pecci. Primo, quei narcos efferati, come li definisce Ingroia, come già detto scelgono lo scontro diretto con lo Stato perché il loro potere si fonda – tra le altre cose – sulla paura (e non solo sul consenso) e sulla sopraffazione violenta di qualunque competitore: i loro mezzi sono pertanto molto più violenti che in altre parti del mondo e soprattutto impiegati senza necessariamente che ci siano delibere dall’alto del gruppo criminale, spesso molto più fluido nell’organizzazione.

    Questione di metodo

    Secondo, se si va a guardare quel metodo mafioso di cui parla anche Gratteri, non può non notarsi che se il metodo terrorista-brutale è stato certamente usato dalle nostre mafie (cade questa settimana proprio il trentennale del morte di Giovanni Falcone), la ‘ndrangheta è stata molto più parsimoniosa di questo strumento soprattutto per “esterni” all’organizzazione. Bisognerebbe poi capire di “quale” ‘ndrangheta staremmo poi parlando, perché – come ci ha ricordato Pecci – in America Latina – soprattutto Paraguay, Brasile e Colombia – non sembra esserci capacità decisionale dell’organizzazione calabrese a questi livelli – quindi il massimo ipotizzabile è una partecipazione secondaria degli ‘ndranghetisti a una vicenda del genere.

    Terzo, infine, non dimentichiamo poi che un omicidio a migliaia di chilometri di distanza, in territorio altrui non è organizzabile in poche settimane (come in questo caso sarebbe successo se davvero l’operazione A Ultranza Py fosse la ragione scatenante) perché richiede contatti locali e supporto in caso seguano indagini dal carattere imponente; un’organizzazione cauta e sotto-esposta come la ‘ndrangheta dovrebbe, a rigor di logica, vedere un omicidio del genere come un’attività molto rischiosa e poco utile.

    Orgoglio e pregiudizio

    Detto questo, come mai si vuole tirare dentro per forza in questa vicenda la ‘ndrangheta, come mandante, o anche solo i metodi mafiosi? Da una parte perché la nostra concezione della mafia, come anche dell’antimafia, è etnocentrica e relativista: cioè, in molti magari pensano che la mafia, e dunque anche la ‘ndrangheta, siano non solo archetipo ma anche prototipo del crimine organizzato nel mondo. Così non è, le mafie sono in realtà tra le forme di crimine organizzato meno diffuse sul pianeta, senza volerne negare diffusione o pericolosità ovviamente.

    Inoltre, soffriamo in Italia – e ultimamente anche in Calabria – di orgoglio negativo nei confronti della mafia e della ‘ndrangheta. Il paese, l’Italia, che ha l’antimafia più forte del mondo (così va il noto adagio) – orgoglio positivo – ha anche le mafie più forti del mondo – orgoglio negativo. Così forti che diventa possibile, anche quando altamente improbabile, che siano i mandanti di un omicidio come quello di Marcelo Pecci.

    Conferenza stampa della Polizia colombiana dopo i 17 arresti nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio del procuratore Pecci

    Le indagini: 17 arresti e la pista che porta al clan Rocha

    Le indagini vanno avanti: ci sono stati almeno 17 arresti di individui di varie nazionalità in Colombia. Le piste sono concentrate, al momento, sul clan Rocha, un gruppo criminale su cui Marcelo Pecci indagava, legato al Primeiro Comando da Capital (PCC) brasiliano e dedito al traffico di stupefacenti da Bolivia, Perù e Colombia verso Stati Uniti, Africa ed Europa. Mentre ci auguriamo che si faccia presto chiarezza, oltre ogni ragionevole dubbio, su mandanti ed esecutori, e si riflette sul come si possano evitare in futuro altri atti così tragici, qui da noi sarebbe auspicabile mettere da parte il protagonismo, soprattutto quello negativo.

  • Colpito con una mazza di ferro all’uscita di scuola

    Colpito con una mazza di ferro all’uscita di scuola

    Ha aggredito un coetaneo all’uscita da scuola e lo ha colpito ripetutamente alle spalle con una mazza provocandogli delle lesioni. È accaduto a Gioia Tauro dove un minore è stato denunciato dalla Polizia di Stato con l’accusa di aggressione e lesioni nei confronti di un altro giovanissimo. Il provvedimento è scattato a seguito della conclusione delle indagini svolte dagli agenti della Polizia di Stato del Commissariato di Gioia Tauro, coordinate dalla Procura del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria, che hanno consentito di ricostruire la dinamica dei fatti e di individuare l’autore dell’aggressione. L’analisi delle immagini riprese dai sistemi di videosorveglianza presenti nell’istituto scolastico hanno permesso agli investigatori di accertare le modalità con le quali, all’uscita da scuola, la vittima è stata aggredita e colpita alle spalle con una mazza di ferro che è stata trovata poi a poca distanza da dove si è consumato l’episodio.

  • Reggio Calabria: la grande crisi, i poteri al tappeto, le comunità che resistono

    Reggio Calabria: la grande crisi, i poteri al tappeto, le comunità che resistono

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    «Il sindaco è sospeso, il presidente della Reggina è stato arrestato, il rettore si è dimesso, la nomina del Procuratore Capo della Repubblica è stata annullata. E a questo punto, anche il vescovo si guarda intorno preoccupato». Solo alla fine di questo piccolo viaggio sentimentale nelle pene di Reggio Calabria scoprirete dove ho ascoltato questa battuta.

    Tempi duri per Reggio Calabria

    Appartengo a quella categoria di reggini orgogliosi di esserlo, legato ai luoghi del cuore che sono di tutti: l’anfiteatro che una volta era il Cippo, il cinema Siracusa che non c’è più e ci hanno messo un fast food, le immense magnolie della via Marina. Ho quindi una certa resistenza a parlarne male, anche se i tempi sono disastrosi, e dal resto della Calabria un po’ sottovoce si guarda a Reggio con l’aria di chi dice: sempre loro.

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    Reggio Calabria, il cinema teatro Siracusa

    Sempre quelli che hanno ancora in testa la Rivolta oltre cinquant’anni dopo – fieramente divisi fra storici della rivolta popolare e nostalgici dell’eversione nera – quelli che piangono/rimpiangono Italo Falcomatà che appena eletto disse: «Noi siamo scalzi», una indimenticabile serie A con la Reggina durata dieci anni, la gloriosa “Viola” dei canestri, il primo comune capoluogo di Provincia commissariato per infiltrazioni mafiose, alti e bassi che nemmeno le montagne russe, il deficit che non c’è più, i cumuli di rifiuti che ormai fanno parte del panorama. Ma in piazza – come è successo domenica – vanno i tifosi, vogliono salvare la serie B.

    Quelle due foto guardano avanti

    Meno di una settimana fa i giornali locali hanno pubblicato una foto che mi ha colpito: c’era un teatro strapieno, era stata convocata la Consulta della cultura. Fra le tante decisioni annunciate, quella di circondare il Museo archeologico se si avvieranno i lavori per la sistemazione di Piazza De Nava, voluti dalla Sovrintendenza (progetto peraltro interessante).

    Una città che discute del suo futuro non è una città finita, anche se sindaco, rettore etc. Poi, un’altra foto: le file dei ragazzi in gita fuori dallo stesso Marc. Il 2022 è l’anno del Cinquantenario per i Bronzi, e non si può sbagliare. Chiedo solo, da cittadino, che le auto non passino davanti al Museo.

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    Il Museo archeologico di Reggio Calabria

    Falcomatà e il suo Pd

    Che succede a Reggio? Beh, tutta la città ne parla, come nel migliore dei programmi di Radio 3. Del sindaco Giuseppe Falcomatà, che si è chiuso nella Fondazione intitolata al padre, cerca di mettere su una biblioteca di testi sul Meridione, sperando che la legge Severino venga superata, o aspettando solo che il periodo di stop si concluda, dopo la condanna per la concessione del Miramare.

    Intanto è andato alla Villa, insieme al suo Pd, a ricordare il 25 aprile. L’ex vicesindaco, Tonino Perna, sta per pubblicare un diario sulla sua esperienza in Comune, e sicuramente non sarà lieve sul funzionamento della macchina comunale. Il centrosinistra, tranquillo come una palestra di kick-boxing, cerca un rimbalzo di popolarità e di passione. Ma le sezioni sono chiuse.

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    Giuseppe Falcomatà, sospeso dopo la condanna per il caso “Miramare” – I Calabresi

    Castronovo e Princi: due personaggi che non stanno a guardare

    La cronaca cittadina gira spesso intorno a due personaggi che potrebbero avere un ruolo forte in futuro. Uno è Eduardo Lamberti Castronovo, già candidato con la sinistra strapazzato da Scopelliti. Imprenditore della sanità in una Regione che dà alla Sanità il 70 per cento del suo bilancio, editore in video e ora anche direttore di Rtv, membro del Cda del Conservatorio musicale, proprio lui ha organizzato la Consulta della Cultura ed è fortemente critico con il Comune.

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    Cannizzaro e Princi

    L’altra è Giusy Princi, vicepresidente del consiglio regionale ma per la città soprattutto ex preside di un Liceo Scientifico con sezioni sperimentali, una eccellenza assoluta del territorio. La sua discesa in politica ha ricevuto critiche solo per una parentela: la dottoressa Princi è prima cugina del deputato di Forza Italia Francesco Cannizzaro, celebre per le sue promesse sull’aeroporto (a proposito, aggiungiamo lo scalo alla lista con sindaco, rettore etc) e per la sua idea di costruire un autodromo in zona. Anche la sinistra avrebbe candidato volentieri Princi.

    Che giustizia è mai questa (dalla Procura al povero Palazzo)

    L’ingresso Sud della città costeggia il torrente Calopinace: il visitatore si trova sulla destra il palazzo del Cedir, dove hanno sede uffici comunali e, all’ultimo piano, la procura della Repubblica. In questi giorni si consuma in quelle stanze una vicenda grottesca: dopo quattro anni, il Consiglio di Stato ha annullato la nomina a Procuratore Capo di Giovanni Bombardieri, che nel frattempo si è distinto per le inchieste sulla ‘ndrangheta e per una costante presenza nelle iniziative sociali e di solidarietà, senza mai eccedere nel protagonismo. Si spera adesso nella saggezza del Csm. Ma è di fronte al Palazzo del Cedir che prende ruggine il monumento alla burocrazia del subappalto, alle mafie dei lavori pubblici, ai ritardi dello Stato.

    palazzo-di-giustizia-di-reggio-calabria-il simbolo-del-fallimento-dello-stato
    Il Palazzo di Giustizia incompiuto di Reggio Calabria – I Calabresi

    C’era una volta il progetto del più bello dei Palazzi di Giustizia, dove sarebbero stati riuniti tutti gli uffici. Tre grandi edifici – la Torre, il Parallelepipedo, la Vela – 630 locali, 1030 posti-auto, un auditorium da 400 posti, grandi spazi esterni, una piazza orientata in modo da essere fresca anche d’estate. Il Palazzo di Giustizia di Reggio è il non-finito dei non-finiti, bloccato nel 2012 quando i lavori erano stati completati per l’80%.

    La ministra Cartabia si è impegnata recentemente con il presidente della Corte d’Appello Luciano Gerardis, le cronache locali registrano ogni mese un “primo passo” (simile a tante “prime pietre”), un avviamento dell’iter, lo sblocco del contratto. Intanto è un immenso cantiere chiuso. La chiesa vicina si ritrova chiusa per le infiltrazioni dell’acqua che arriva da un parcheggio mai aperto, la “Mazzini” aspetta di tornare una scuola, ma nel frattempo va in rovina. Servirebbe anche qui un girotondo di protesta, solo che ci vorrebbero migliaia di persone.

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    Il Mausoleo ritrovato a Reggio Calabria

    E quanto sia estenuante il capitolo dei lavori pubblici (magari Perna ne parlerà nel suo libro) lo dimostra la storia degli scavi davanti alla stazione Centrale. Nel 2016 scoprirono la base di un Mausoleo, databile alla prima metà del primo secolo, una costruzione di altissima qualità, senza eguali nella Reggio romana. Il professor Lorenzo Braccesi ritiene che possa essere il luogo della sepoltura di Giulia, figlia in esilio dell’imperatore Augusto, la segnalazione è dell’archeologo Daniele Castrizio. E sei anni dopo, evviva, il cantiere riapre.

    Reggio Calabria, i guai dell’Università e il relitto della Casa

    L’Università “Mediterranea” sta cercando di ripartire dopo un’inchiesta fotocopia di quelle che hanno colpito altri atenei. Con particolari grotteschi e un certo profumo di impunità, come se tutti sapessero già quello che stava per succedere. Noi a Rc non possiamo essere da meno, se il grande capo di Forza Italia in Sicilia chiama il rettore invocando protezione per il genero «bravo ragazzo, ma già bocciato sei volte allo stesso esame», come ha scritto il Domani nei giorni scorsi.

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    La facoltà di Architettura nell’Università Mediterranea di Reggio Calabria

    Lo scandalo di Reggio provoca qualche guaio supplementare, visto che era in discussione la creazione del campus a Saline, nei pressi di due cattedrali nel deserto come la Liquichimica e le officine meccaniche. En passant, ricordo che ci sarebbe da demolire anche l’orrendo scheletro della Casa dello Studente, costruita nel greto di un torrente.
    Detto questo, la “Mediterranea”, come Unical e Magna Graecia, si stacca – come ha testimoniato anche Svimez – dall’ultimità che la Calabria conserva (non orgogliosamente) in molti altri settori. Ha un buon Job placement e ricerche di livello internazionale. Difendiamola.

    La ragnatela dei luoghi utili

    Reggio può contare per fortuna su una grande rete di associazioni, che spesso suppliscono al welfare che non c’è. I centri di medicina solidale di Pellaro e Arghillà, il lavoro di ActionAid nelle scuole. Di Ecolandia non posso parlare perché sono miei amici, ma il riuso di un immenso fortino ottocentesco in una zona così difficile è un atto di eroismo.
    Invece conosco solo una o due persone del gruppo che ha trasformato la scalinata di via Giudecca da luogo sporco e malfamato allo spazio aperto dell’incontro, senza un euro ricevuto dal Comune. Poi scendi verso il mare e trovi le porte aperte di Open, dove vendono e pubblicano libri e la sera fanno anche sedute di “yoga della risata”. Altri luoghi, il teatro rimesso a nuovo del Dopolavoro Ferroviario, e l’associazione che gestisce invece la stazione di Santa Caterina.

    Si parla poco delle realtà e associazioni legati ad Agape, le case-famiglia, i centri anti-violenza, dove operano persone che hanno avuto una vita romanzesca che non possono raccontare. La palazzina confiscata e ora ristrutturata in via Possidonea dove a pianterreno c’è un laboratorio di sartoria, la bottega del commercio equo e solidale di via Torrione. Il Consorzio Makramé e associazioni come Reggio non tace, la Fondazione Civitas.

    La scalinata della Giudecca

    E quando in questi giorni è stata annunciata la creazione di un nuovo comitato antiracket, il mio pensiero è andato a quella signora che aveva aperto intorno al 2017 in via Torrione un laboratorio-forno di grani antichi, di prodotti senza glutine. Glielo bruciarono, il Comune offrì un altro negozio. Andò avanti qualche mese, ora ci passo sempre e lo vedo chiuso. Però mi piace prendere l’aperitivo in quel locale in via San Francesco da Paola, poco oltre il Duomo, il cui proprietario ha denunciato un tentativo di estorsione.

    Reggio è così, è fatta a macchie. Ci sono tanti circoli culturali di valore nazionale, il Touring club che adotta i paesi. C’è un Planetario a due passi dalla Regione, dove una prof di nome Angela Misiano forma studenti che poi vanno a vincere le Olimpiadi di Astronomia. Visitare, prego. C’è il Castello, solo che spesso è chiuso: l’edicolante/libraio fa da ufficio informazioni e ogni tanto ne parla su Fb, ma al Comune nessuno lo ascolta.
    Ci sono piccoli e accoglienti locali dove si cerca di fare cultura come Cartoline Club, proprio lì ho sentito quella battuta sul vescovo e mi è sembrata molto indovinata, perché questa Reggio deve imparare a ridere dei suoi lamenti. E ritrovare la sana rabbia dell’impegno, buoni esempi non mancano.

  • Daspo di 5 anni al tifoso del Vicenza per le frasi razziste rivolte contro i cosentini

    Daspo di 5 anni al tifoso del Vicenza per le frasi razziste rivolte contro i cosentini

    Daspo di 5 anni per il tifoso del Vicenza che ha pronunciato frasi razziste contro i supporter del Cosenza calcio.  È stato individuato dalla Digos di Vicenza e dalla Polizia Postale l’autore delle video registrato allo stadio Menti con gli insulti rivolti ai calabresi durante tra la formazione veneta e i Lupi. Si tratta di un 22enne vicentino senza precedenti penali. Non potrà avvicinarsi allo stadio Menti nel raggio di 500 metri. Sul fronte penale invece la Procura avvierà un indagine per il tenore delle espressioni pronunciate nel video poi rimosso dai social. Il giornale I Calabresi – attraverso il direttore Francesco Pellegrini –  ha già presentato stamane una formale denuncia contro il tifoso del Vicenza protagonista del video diventato virale.

  • Lo stratega e il braccio armato: i destini incrociati dei superboss Mancuso

    Lo stratega e il braccio armato: i destini incrociati dei superboss Mancuso

    Alcune date vanno cerchiate in rosso. La prima è il 21 luglio 2012. Luigi Mancuso torna libero dopo 19 anni passati in carcere. La seconda: 19 dicembre 2019, scatta la maxioperazione “Rinascita Scott”. Lo «zio Luigi», il «Supremo», viene arrestato a Lamezia su un treno in arrivo da Milano. La terza: 6 novembre 2021, la sentenza in abbreviato porta 70 condanne e 19 assoluzioni. La quarta: 25 novembre 2021, Giuseppe Mancuso (“Peppe ‘mbrogghia”) torna in libertà dopo oltre 20 anni di carcere duro.

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    L’aula bunker di Lamezia dove si svolge il processo “Rinascita-Scott”

    Il nipote più anziano dello zio

    La sentenza rappresenta il primo step giudiziario della clamorosa inchiesta contro le cosche vibonesi voluta da Nicola Gratteri. Lo scorso 9 maggio sono state depositate le motivazioni scritte dal gup Carlo Paris e, benché Luigi Mancuso sia sotto processo con il rito ordinario e Peppe Mancuso non sia coinvolto, c’è un capitolo in cui si parla molto di loro due. Sono zio e nipote. Ma il secondo (classe 1949) è più anziano del primo (1954). Il padre di Peppe “‘Mbrogghia”, fratello di Luigi, era il primogenito della “generazione degli 11”, il nucleo originario di fratelli da cui sono generate le varie articolazioni della famiglia.

    Un capo carismatico

    L’indagine, scrive il giudice, ha svelato «i collaudati rapporti tra ‘ndrangheta e massoneria deviata». Luigi è il «più carismatico capo di tutta la ’ndrangheta vibonese, probabilmente il più autorevole di tutte le restanti cosche calabresi agli occhi del Crimine di Polsi». Un collaboratore storico, Michele Iannello, che ha fatto parte del gruppo di Mileto fino al 1995, in un interrogatorio del 2018 ha detto che già all’epoca Luigi e Peppe erano considerati i vertici della ‘ndrangheta vibonese. Secondo Iannello, Peppe aveva la dote del Crimine, Luigi una ancora superiore.

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    Il pentito Andrea Mantella

    Non vuole «cose eclatanti»

    Un altro pentito, l’ex boss emergente di Vibo Andrea Mantella, dice di aver conosciuto Luigi tramite suo cognato, il lametino Pasquale Giampà. È «quello che ragiona meglio». Ha «un livello altissimo di ‘ndrangheta». Ed «evita sempre le cose eclatanti tipo gli omicidi». Viene indicato come «il più giovane Capo Crimine» e già come tale lo dipingeva, nel 2001, il collaboratore Francesco Michienzi.

    I «tre punti della stella»e gli anni delle stragi

    Ancora più evocativo è Cosimo Virgiglio, uno che dice di sapere molto di presunti intrecci tra ‘ndrangheta e massoneria: «So che a Gioia Tauro quando si faceva riferimento al capo dei Mancuso si intendeva Luigi Mancuso. Era considerato uno dei “tre punti della stella”». Gli altri due sarebbero stati Pino Piromalli (a Gioia Tauro) e Nino Pesce (a Rosarno). Una volta tornato in libertà, Luigi avrebbe riattivato, tramite i suoi emissari, i contatti con altri clan calabresi. In particolare, oltre che con i Piromalli, con i De Stefano di Reggio, i Coluccio di Siderno e gli Alvaro di Sinopoli. Zio e nipote, ai tempi dello stragismo, avrebbero avuto un ruolo di primo piano anche nelle trattative tra ‘ndrine e Cosa nostra.

    Il new deal del Supremo

    Ma è la «politica interna» del Supremo a cambiare la storia dei clan vibonesi. Riappacifica i vari gruppi sul territorio. Riavvicina i rami degli stessi Mancuso dopo le profonde spaccature del passato. Segna, così, «una nuova epoca per la cosca di Limbadi». Il giudice, a «riprova della notorietà della sua strategia “pacifista” e del suo ruolo di “Supremo” negli ambienti della criminalità organizzata e della massoneria», richiama diverse intercettazioni. Spesso si fa riferimento «all’autorevolezza di Luigi Mancuso, apprezzato sin da giovane per l’atteggiamento non aggressivo e tendente alla mediazione».

    La gente paga spontaneamente il pizzo

    Una politica di «concordia» e «consenso» che ha avuto «effetti inimmaginabili». Come la «condivisione, da parte tutti i Mancuso e, in particolare, da parte di Giuseppe Mancuso (il nipote con cui in passato s’erano registrati contrasti), dei progetti criminali dettati dal boss». E come «l’assoggettamento “spontaneo” della popolazione che, perfino, di propria iniziativa andava a pagare le estorsioni direttamente a Luigi Mancuso».

    Il dialogo tra Giamborino e Pittelli

    Giovanni Giamborino, presunto fedelissimo del superboss, la spiegava così al penalista ed ex parlamentare Giancarlo Pittelli: «Ormai è finita la storia…non c’è niente per nessuno… perché se vi… come facevano loro… facevano un’estorsione… vanno da un imprenditore questi scappano dai Carabinieri…perché non hanno fiducia avete capito… perché oggi va uno, domani va un altro dopo domani va un altro… questi non sanno dove devono ripararsi e nel cerchio non vanno perché non c’è un garante…invece se va Luigi in un posto e che non va perché vanno loro a trovare lui… avete capito le devono avere sicurezza… hanno tutte cose».

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    Un incontro fotografato dai carabinieri del Ros tra Giancarlo Pittelli (a sinistra) e Luigi Mancuso (a destra, al centro Pasquale Gallone)

    Cinque anni di gelo tra i due boss

    I due (Giamborino e Pittelli, tra i principali imputati del rito ordinario) parlano anche dei rapporti controversi tra i due vertici della cosca. Il primo racconta dei dissidi tra zio e nipote, che non si sarebbero rivolti la parola per cinque o sei anni. Poi si sarebbero riavvicinati, mentre era in corso il processo “Tirreno” a Palmi, grazie all’intervento pacificatore di Nino Pesce.

    Un cadavere nel terreno dello «Zio»

    Lo aveva raccontato anni prima anche il pentito Giuseppe Morano: «Peppe era più anziano di Luigi, però Luigi come persona era più carismatico lì nella zona, era la persona più intelligente, era diciamo il cervello della famiglia Mancuso, invece Peppe era più il braccio armato, era più criminale Peppe, era una persona, cioè se doveva ammazzare una persona l’ammazzava, non ci pensava; insomma, ragionava meno di Luigi. Luigi invece era uno più pacifico; allora dice che per questo avevano litigato un po’, perché Peppe aveva combinato un po’ di cose, addirittura, ho saputo che aveva ammazzato una persona e gliel’ha buttato vicino ad un terreno di Luigi, mi sembra che si diceva, per questo pure il litigio è scoppiato più forte, dice che ha ammazzato uno e lo ha lasciato lì vicino al terreno, che poi hanno inquisito a Luigi per questo fatto».

    La scelta del «portavoce» sancisce la pace

    A testimoniare la ritrovata unità tra i due boss sarebbe in seguito il fatto che Luigi avrebbe scelto come braccio destro, e «unico portavoce» durante il periodo di latitanza volontaria, Pasquale Gallone. Si tratta del fratello di uno «storico favoreggiatore della latitanza di Giuseppe Mancuso». Che ora per il suo ruolo di fedelissimo del superboss è stato condannato in abbreviato a 20 anni di reclusione.

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    Giovanni Giamborino

    Il «tetto del mondo»

    Parlando con Pittelli, Giamborino spiega che Luigi è «il tetto del mondo», il «più alto di tutti» e, rispondendo a una specifica domanda dell’avvocato, il «numero 1 in assoluto». Il concetto viene ribadito anche al cugino, Pietro Giamborino, già consigliere regionale. Che chiede: «È riconosciuto numero uno?». Giovanni assicura: «Si… si… si…». Ma «tutto… tutto … unanime…? Pure i suoi stessi?». Sì, «tutto… tutto… in tutta Italia!».

    I destini incrociati e le parole del pentito

    Ora le cose sono cambiate. Lo «zio», stratega raffinato e abile mediatore, è alla sbarra. Il nipote, più anziano e forse anche più temuto, è fuori. Condannato per aver ordinato un omicidio nel ‘91, oltre che per associazione mafiosa e narcotraffico, ha scontato il suo debito con la giustizia. «Ha un cimitero alle spalle», ha detto di lui il primo pentito dei Mancuso, Emanuele, in un’intervista esclusiva a I Calabresi. «Faceva tremare la gente già prima e oggi, dopo tutti quegli anni passati al carcere duro senza dire una parola, avrà in quel contesto una credibilità immensa».

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    Emanuele Mancuso (foto Facebook 2013)
  • Reggina, parla il legale di Gallo: «Un fondo estero interessato al club amaranto»

    Reggina, parla il legale di Gallo: «Un fondo estero interessato al club amaranto»

    «Gallo non ha nessuna intenzione di mettersi di traverso alla cessione della Reggina, già l’anno scorso c’erano state avanzate trattative per vendere la società». La notizia che tutta la Reggio sportiva aspettava arriva direttamente da Giosuè Bruno Naso, storico avvocato romano e legale del patron amaranto, finito giovedì scorso agli arresti domiciliari nella sua casa romana con l’accusa di autoriciclaggio ed evasione dell’Iva.

    L’interrogatorio

    Davanti al Gip Annalisa Marzano, l’imprenditore alla guida della società amaranto dal gennaio 2019, ha rilasciato una serie di dichiarazioni spontanee in cui ha provato a giustificare il suo operato rispetto alle pesanti accuse formalizzate dalla Procura di piazzale Clodio. Dichiarazioni in cui Gallo avrebbe ricordato i passaggi dell’acquisizione della società, sottolineando di aver compiuto tutti i passi alla luce del sole e rimarcando come quel rapporto insolito tra lui e il calcio fosse cambiato con il tempo e di quanto Reggio e la Reggina lo avessero coinvolto con il passare dei mesi.

    «Luca Gallo non vuole risolvere solo i suoi problemi – dice ancora a I Calabresi Giosuè Naso, difensore, tra gli altri, anche del “Cecato”, quel Massimo Carminati protagonista di tante pagine oscure dell’eversione “nera” dagli anni di piombo ai giorni nostri – ma anche quelli della Reggina. Non ha nessuna intenzione di affossare la squadra».

    Luca Gallo e la trattativa per la Reggina

    Il futuro della Reggina avrebbe potuto essere diverso rispetto a quello burrascoso (e dai tempi contingentatissimi) che si è andato disegnando in seguito all’arresto del presidente amaranto, accusato di avere trasformato la Reggina in una scatola cinese attraverso cui veicolare consistenti somme di denaro frutto del mancato pagamento delle spettanze Iva di tre società (la M&G Multiservizi, la M&G Service e la M&G Company) del suo impero commerciale. In seguito al sequestro preventivo che il tribunale di Roma dispose nei confronti di parte del patrimonio di Gallo (circa sette milioni di euro messi sotto sequestro nel gennaio del 2021) l’imprenditore avrebbe infatti messo in campo una serie di trattative per cedere le quote della società.

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    Luca Gallo nella sede di una delle sue società nel mirino della Procura

    Alla base della decisione di passare la mano – ipotesi sempre smentita, almeno ufficialmente, dalla società amaranto – ci sarebbe stata la possibilità, per Gallo, di “sbloccare” i soldi messi sotto sequestro dai magistrati romani. «Gallo si era appassionato a Reggio e alla Reggina, gli piaceva fare il presidente di una squadra di calcio – dice ancora l’avvocato – ma dopo il sequestro preventivo si erano create le basi per cedere la società ad un soggetto giuridico straniero. Ma poi non se ne fece nulla».

    Non un privato quindi, ma un fondo straniero che avrebbe formalizzato il proprio interesse per rilevare il 100% della società amaranto che, situazione debitoria a parte, rappresentava e continua a rappresentare un discreto investimento. La serie B è un capitale importante da cui partire. La storia, il blasone e l’amore incondizionato della tifoseria sono la ciliegina sulla torta, ma serve agire in fretta.

    I tifosi della Reggina al San Vito-Marulla di Cosenza
  • Carzo e Alvaro: le ‘ndrine a Roma da via Veneto a Tor Pignattara

    Carzo e Alvaro: le ‘ndrine a Roma da via Veneto a Tor Pignattara

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    Dai locali del centro a quelli della periferia, dai tram di piazza Risorgimento al traffico infernale della Prenestina, con il sogno nel cassetto di riprendersi i “gioielli di famiglia” che i magistrati del tribunale di Roma gli avevano portato via qualche anno fa. Quello degli Alvaro per la Capitale è un amore antico: è qui che all’inizio del millennio le coppole storte di Sinopoli e Cosoleto sono sbarcate per reinvestire il denaro del narcotraffico ed è a Roma che hanno continuato ad operare indisturbate e fameliche nonostante la pioggia di condanne subite, infiltrandosi nell’economia barcollante della Capitale con montagne di denaro contante.

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    Vincenzo Alvaro

    Ed è sempre a Roma che, per la prima volta nella storia delle “colonizzazioni” ‘ndranghetistiche, Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro avrebbero varato e gestito la prima locale romana di mafia in qualche modo indipendente dalla casa madre.

    La ‘ndrangheta a Roma: c’è posto per tutti

    Fu la direzione nazionale antimafia a mettere nero su bianco lo status particolare della città eterna rispetto all’infiltrazione delle cosche del crimine organizzato, non solo di origine calabrese: «A Roma c’è posto per tutti». La Dna si riferiva alla capacità economica sconfinata delle mafie e al fatto che un mercato come quello della Capitale fosse in grado di soddisfare la “domanda” di investimento reclamata dai clan che avrebbero potuto guadagnare senza necessariamente pestarsi i calli a vicenda.

    Una carovana per fare la guerra

    Uno “status” confermato anche da diversi collaboratori di giustizia che in più occasioni avevano raccontato di come «Roma e Milano non erano state oggetto di colonizzazione, esistevano dei piccoli insediamenti ma fuori dalle grandi città. Serviva per attirare meno attenzione». Uno status che era rimasto granitico nel tempo e che ora, sostengono i magistrati della distrettuale antimafia di piazzale Clodio, sarebbe stato modificato grazie all’intervento diretto della potente famiglia Alvaro che da Cosoleto e Sinopoli avrebbe consentito a Carzo (e alla sua interfaccia economica e finanziaria Vincenzo Alvaro) di inaugurare una nuova cellula autonoma all’interno del raccordo. Anche perché i numeri, c’erano. «Siamo cento di noi – racconterà intercettato dalla Dia nella sua abitazione romana il boss ad un sodale – e siamo una carovana per fare la guerra».

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    Murales al Quadraro

    Le mani sulle periferie

    Nel primo periodo di investimenti, gli uomini degli Alvaro si erano seduti al banchetto degli appalti mettendo i piedi direttamente sul tavolo, e rilevando in pochissimo tempo alcuni pezzi pregiati della storia della ristorazione capitolina – dall’Harris Bar al Cafè de Paris – per poi espandersi puntando comunque a rimanere dentro i confini del centro, alle spalle del Vaticano e tra i vicoletti di Trastevere.

    Ora, quella strategia così spregiudicata – e che era costata condanne pesanti ai rappresentanti della ‘ndrangheta a Roma – era cambiata. Gli uomini della montagna, che si erano sistemati in una villetta fuori mano, volevano inabissarsi per evitare di mettere inutilmente in allarme gli inquirenti: «dobbiamo starcene quieti quieti» racconta ancora Carzo ad un medico originario di Reggio ma da anni trasferito a Roma e che il boss rifornisce di cocaina per uso personale. E di strategie il boss venuto da Cosoleto ne aveva imparate tante: la sua scuola era stata il carcere e dietro le sbarre il suo “parco insegnanti” era stato il ghota della ‘ndrangheta calabrese: Antonio e Umberto Bellocco, Pasquale Libri, Domenico Gallico, Francesco Barbaro.

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    Operazione antidroga a Primavalle

    La ‘ndrangheta a Roma: Primavalle, Prenestino, Tor Pignattara, Quadraro

    Da loro, forse, Carzo mutua l’idea di spostare il mirino degli affari verso zone che danno meno nell’occhio. Il giro di società intestate alle solite teste di legno, vira così verso la prima periferia della città, quella densamente popolate dei quartieri popolari, dove le attività commerciali non si contano e se cambiano di gestione non sempre ci si fa caso. Primavalle, nel quadrante nord e poi il Prenestino, Tor Pignattara e il Quadraro a sud est, in un reticolo fuori controllo di società cartiere e “scontrinifici” che veniva buono per investire i soldi del clan. L’idea però è quella di rientrare anche nel salotto buono e l’occasione potrebbe venire dallo sblocco di tre ristoranti (due attorno alle mura del Vaticano, uno nel cuore di Trastevere) che erano stati sequestrati a Francesco Filippone e che «a giorni tornano liberi». Gli agenti della Dia sono arrivati prima.

  • Giocano ad Osso e Mastrosso, ma per i giudici non è ‘ndrangheta

    Giocano ad Osso e Mastrosso, ma per i giudici non è ‘ndrangheta

    Può capitare che una quindicina di uomini seduti attorno a un tavolo si salutino augurandosi «buon vespro, società» e sincerandosi che tutti siano «conformi». Che qualcuno di loro evochi i mitologici «cavalieri di Spagna Osso, Mastrosso e Carcagnosso», oppure delle «prescrizioni» risalenti «al 1830» e le «regole sociali» che vengono «dal Crimine». Che quello che sembra il più esperto di certe cose dica di essere – beninteso, «senza offesa» – se non tra i primi dieci, sicuramente «tra i primi quindici della Calabria».

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    Il modo in cui si salutavano i partecipanti alle riunioni nella bocciofila svizzera

    Onore, estorsioni ed eroina. Ma non è mafia

    Può capitare che si parli di una «società» che esiste dal 1970 e che «è onore, saggezza, rispetto». Che i convitati vengano rassicurati sul fatto che «c’è lavoro su tutto: estorsioni, coca, eroina; 10 chili, 20 chili al giorno, ve li porto io personalmente e poi non voglio sapere più niente…». E che tutto questo sia nient’altro che una spacconata, folclore, parole. Soprattutto, che non sia mafia.

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    Un altro frame del video captato dagli inquirenti nell’ambito dell’inchiesta “Helvetia”

    Dalle Serre a Frauenfeld

    Le riunioni sono state immortalate da una telecamera (qui il video diffuso da Rsi News) che i carabinieri di Reggio Calabria avevano piazzato, ormai un decennio fa, nel ristorante di una bocciofila nei pressi di Frauenfeld (Canton Turgovia). Ne è venuta fuori un’inchiesta che ha fatto epoca, “Helvetia”, sulla riproduzione delle dinamiche della ‘ndrangheta che da Fabrizia, paese sulle montagne delle Serre al confine tra Vibonese e Reggino, erano state trapiantate in Svizzera. Scattata nel 2014, l’indagine si era poi divisa in due tronconi e in primo grado il Tribunale di Locri aveva emesso una serie di condanne per associazione mafiosa.

    La cittadina svizzera di Frauenfeld

    Sentenze ribaltate: dal carcere duro alla libertà

    La tesi della cellula svizzera della ‘ndrangheta di Fabrizia – non mancano certo altre prove delle ramificazioni internazionali della mafia calabrese – è stata però in parte smontata già nel 2019 dalla Cassazione che, dopo qualche anno di 41 bis e una condanna a 14 anni nel primo troncone, ha scagionato definitivamente quelli che gli inquirenti avevano invece ritenuto il «capo società» e il «mastro disponente». Altrettanto storica è stata la sentenza con cui la Corte d’Appello di Reggio nel novembre scorso, dopo le prime 3 assoluzioni sentenziate già nel maggio del 2020, ha ribaltato il primo grado dell’altro troncone assolvendo anche gli altri 9 imputati «perché il fatto non sussiste».

    La sede della Corte d’appello di Reggio Calabria

    Affiliati ma innocui

    Di recente sono state depositate le motivazioni delle sentenza che, ancorché appellabili, cristallizzano un punto destinato a rimanere uno spartiacque della giurisprudenza sulla materia. Nel caso di specie i giudici non hanno ravvisato gli elementi previsti dall’art. 416 bis (associazione mafiosa) «non essendo emersa una qualsiasi forma di manifestazione esterna degli elementi essenziali della fattispecie legale tipica e, dunque, venendo a mancare, in definitiva, lo stesso fatto tipico enunciato dalla disposizione incriminatrice, attesa l’assenza di condotte esteriori, sul territorio estero in questione, e concretamente offensive ricollegabili al paradigma normativo del delitto associativo oggetto di contestazione».

    Non bastano le intercettazioni

    Fuori dal gergo giudiziario, è chiaro che i giudici reggini intendono mettere nero su bianco come per configurare il reato di mafia non basti assumere pose da malandrini, in un contesto ristretto come un tavolo di una bocciofila, e manifestare intenti criminali, senza che all’esterno di quel circolo ci sia prova di comportamenti realmente conseguenti. Tanto più che «la piattaforma probatoria dell’intero procedimento è costituita in massima parte, se non esclusivamente, da intercettazioni».

    «Impossibile dire che esiste quella ‘ndrina»

    Perché sia mafia, insomma, ci si deve avvalere concretamente del metodo mafioso e non solo enunciarlo. E di ciò occorre un riscontro nell’azione della cosca, la cui forza di intimidazione deve essere percepita come tale all’esterno. Altrimenti i giudici, almeno quelli che si sono occupati di questo caso, prendono atto «dell’impossibilità», sulla base di tutto quello che è confluito nell’indagine, di «affermare l’esistenza, nella cittadina svizzera di Frauenfeld, di un’articolazione di ‘ndrangheta».

    La sede della Corte di Cassazione a Roma

    Nessuna pena per le intenzioni

    Non basta nemmeno che vengano focalizzate delle gerarchie determinate con il conferimento di cariche e doti. Richiamando il contenuto di un altro recente pronunciamento della Cassazione (27 maggio 2021), i giudici della Corte d’appello di Reggio concludono infatti che «persino l’accertato possesso di una dote di ‘ndrangheta, come nel caso in esame, esige che il vincolo criminoso si sia esteriorizzato e l’ulteriore coevo accertamento – in capo all’agente – di una condotta materiale nell’alveo del consorzio illecito per poter così ritenere integrata una sua condotta penalmente rilevante (un fatto dunque) ex art. 416 c.p., piuttosto che un qualcosa di confinato nel perimetro delle intenzioni, come tali irrilevanti per il noto principio per cui cogitationis poenam nemo patitur». Tradotto: per quanto si atteggi a guappo, nessuno può essere punito per i propri – certamente esecrabili – propositi se alle parole non seguono i fatti.

  • Pisanò: il fascista che impallinò Mancini

    Pisanò: il fascista che impallinò Mancini

    Una campagna stampa virulenta. Ma anche un classico del giornalismo d’inchiesta contemporaneo, con tutti i pregi e i difetti del caso.
    La lunga requisitoria condotta da Il Candido, la più famosa testata d’inchiesta e di satira di destra nella Prima Repubblica, contro Giacomo Mancini vanta almeno un primato: è il primo dossier completo nei confronti di un leader politico di prima grandezza. Soprattutto, è la prima inchiesta andata a segno.

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    Giacomo Mancini in una foto d’epoca

    Mancini lascia la segreteria del Psi

    Iniziato il 26 novembre del 1970, il battage dura circa due anni. Al termine dei quali, il quadro politico italiano, di cui Mancini era una delle figure più importanti, cambia radicalmente.
    Il leone socialista, malridotto dall’inchiesta, lascia la segreteria del Psi. Giorgio Pisanò, diventato nel frattempo bersaglio anche di attentati mai chiariti (gli incendi alla sede milanese de Il Candido del ’72), approda in Senato col Msi.

    Il centrosinistra, infine, entra nella sua prima grande crisi, perché l’affermazione della Destra nazionale di Almirante, spinge la Dc su posizioni conservatrici.
    Il calo di Mancini, infine, cambia anche gli equilibri interni del Psi, che sprofonda nell’immobilismo della segreteria di Francesco De Martino.
    Tutto questo riguarda la grande politica nazionale. E la Calabria? È l’epicentro di questa vicenda che ancor oggi fa discutere.

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    Una delle prime pagine del Candido che attaccano frontalmente Mancini

    Il Candido: storia di un giornale “contro”

    Fondato da Giovannino Guareschi nel ’45, Il Candido nasce come foglio di satira rivolto al mondo cattolico, all’opinione conservatrice e, va da sé, al mondo neofascista. Il settimanale di Guareschi è un po’ l’alter ego settentrionale de l’Uomo Qualunque del commediografo napoletano Massimo Giannini, che pescava nello stesso bacino. I piatti forti della testata non sono solo i lazzi e le vignette (indimenticabili quelle sui comunisti “trinariciuti”), ma anche le inchieste. Una di queste, dedicata ad Alcide De Gasperi, finisce malissimo.

    Il papà di don Camillo aveva sostenuto, sulla base di documenti non attendibili, che De Gasperi, durante la guerra, aveva segnalato agli americani alcuni bersagli sensibili da bombardare. Querelato per diffamazione, Guareschi finisce in galera nella primavera del ’54 e vi resta un mese. Condannato a un anno di carcere, lo scrittore schiva la pena per amnistia. Un destino simile toccherà, circa vent’anni dopo, a Giorgio e Paolo Pisanò. Ma andiamo con ordine.

    Giacomo Mancini: il superministro calabrese

    Nel 1970 Giacomo Mancini è il politico calabrese più influente e potente di tutti i tempi. Già ministro della Sanità e dei Lavori pubblici nei governi di centrosinistra guidati da Moro, Mancini diventa segretario del Psi al posto di Francesco De Martino, di cui era stato il vice col quale aveva condotto la campagna elettorale del ’68, assieme al Psdi.
    I risultati, com’è noto, non furono lusinghieri. In compenso, le polemiche furono virulente. Resta memorabile quella condotta da Aldo De Jaco su L’Unità, che conia per l’occasione il primo – e più famoso – nomignolo su Mancini: il Califfo.

    Meridionalista fino al midollo, Mancini non si staccò mai dalla Calabria e dalla sua Cosenza, che cercò di privilegiare in tutti i modi. Tuttavia, la calabresità si rivelò un tallone d’Achille. Perché la Calabria, a inizio ’70, entrava di prepotenza nelle cronache nazionali. E non solo per gli ambiziosi progetti di sviluppo, promossi dallo stesso Mancini.

    Giorgio Pisanò: fascista, spia, contrabbandiere, giornalista

    Come ha ricordato in tutte le sue autobiografie, Giorgio Pisanò era uno di quelli che non ha mai potuto smettere di essere fascista.
    Già ufficiale delle Brigate nere della Rsi, Pisanò svolse missioni spericolate per conto di Salò durante la guerra civile. In particolare, si occupava di spionaggio e di sabotaggi. Per svolgere questi compiti, varcava più volte i confini militari tra la Repubblica di Mussolini e il Regno del Sud, allora sotto amministrazione angloamericana.
    Cosa curiosa, ne uscì sempre illeso. Al punto da ammettere, nel suo La generazione che non si è arresa, che i Servizi alleati sapessero tutto di lui ma non gli facessero nulla.

    Perché? La risposta oggi è persino banale: gli americani avevano deciso di salvare il salvabile del fascismo per impiegarlo in chiave anticomunista. Insomma, nasceva la Stay Behind italiana.
    Finita la detenzione a San Vittore e nel campo di concentramento di Terni, Pisanò si arrangia come può per sbarcare il lunario. Inizia come contrabbandiere al confine svizzero e poi si dà al giornalismo, dove si fa notare subito per le ricostruzioni sugli eccessi dei partigiani.

    Il fascista e i servizi segreti

    Difficile dare un giudizio assoluto su queste prime inchieste di Pisanò, dietro le quali non è difficile leggere le imbeccate e le veline dei Servizi segreti militari.
    Tuttavia, il loro valore storiografico è notevole, visto che vi si sono “abbeverati” tanti storici, accademici e non, a partire da Renzo De Felice per finire a Giampaolo Pansa.

    Del rapporto tra i Servizi e Pisanò resta una traccia in una velenosissima intervista rilasciata da Giacomo Mancini a Paolo Guzzanti e apparsa su Repubblica del 12 ottobre 1980: «Adesso nessuno apre gli occhi sul fatto che Pisanò, uno dei giornalisti amici del generale Aloia e dell’ex capo del Sid Henke stia pubblicando una impressionante documentazione».

    Il riferimento va all’inchiesta postuma di Pisanò su Aldo Moro. Ma questa è un’altra storia. Per quel che ci riguarda, è importante notare che nel ’68 Pisanò, che comunque si è fatto un “nome”, rileva il Candido dagli eredi di Guareschi. La partenza è in sordina: per attendere il botto ci vorranno due anni.

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    Giorgio Pisanò è stato anche direttore del giornale Il Candido

    La campagna stampa di Pisanò contro Mancini

    L’inchiesta di Pisanò su Mancini fu il classico fulmine. Non proprio a ciel sereno, perché nella Calabria dei primi ’70 prendeva forma un curioso (e inquietante) laboratorio politico: la rivolta “nera” di Reggio, guidata dal sindacalista Cisnal Ciccio Franco e sposata dal Msi di Almirante, che mirava a spostare a destra tutti gli equilibri e (squilibri) politici possibili.
    L’esordio è dirompente: Biografia di un ladro, recita lo strillo di copertina del Candido. E non è da meno il paginone centrale che reca lo stesso titolo e contiene la prima di circa trentasei puntate.

    Grazie a un’indiscutibile abilità editoriale, Pisanò cerca un target facile. E lo trova in Calabria (come più o meno ha fatto di recente Giletti). Abbraccia la rivolta di Reggio e picchia in testa ai leader calabresi. In particolare, il segretario del Psi.
    La campagna stampa è un crescendo di virulenza, ma anche di documentazione. E più crescono i documenti, più il linguaggio si appesantisce.

    Tra inchiesta e sfregio: la requisitoria del fascista

    Lo testimonia una striscia curiosa che, a partire dal ’71 diventa l’occhiello degli articoli: Mancini è un ladro. Oppure: Mancini sei un ladro. Il tutto ripetuto come un mantra.
    Pisanò non risparmia niente. Ad esempio, lo stile di vita dell’ex ministro: «Compagno socialista che tiri la cinghia-Consolati: il ladro Mancini se la gode anche per te».
    Oppure i finanziamenti per la sua campagna elettorale: «1968: ha speso un miliardo per farsi eleggere».

    Da manuale dello sfregio anche i titoloni delle copertine, rigorosamente bicromatiche: «Mancini, un uomo tutto d’un puzzo”. E ancora: «Il ladro Mancini non ci ha denunciati».
    Restano agli annali due battutacce che forse sono ancora il sogno dei titolisti più spregiudicati: «Si scrive leader si legge lader» e «Quelli che rubano con la sinistra sono Mancini».

    I contenuti sono roventi: si va dagli appalti dell’Anas ai legami con Cinecittà. Pisanò racconta un intreccio fitto di tangenti, fondi stornati e favoritismi spregiudicati. L’inchiesta non si ferma solo al segretario, ma coinvolge i suoi affetti, a partire dalla moglie donna Vittoria, e i suoi amici, ad esempio il produttore cinematografico Dino De Laurentis. Proprio il caso De Laurentis diventa la buccia di banana per Pisanò.

    In galera

    Mancini sommerge Il Candido di querele e qualcuna va a bersaglio. Ma è poca cosa. Invece si rivela più efficace la denuncia di De Laurentis, per un presunto reato decisamente più pesante della diffamazione: l’estorsione.
    Giorgio Pisanò e suo fratello Paolo finiscono in carcere a febbraio ’71 e vi restano per due mesi. Durante i quali tentano di esibire delle prove a loro discolpa (alcune bobine contenenti le registrazioni di colloqui tra Pisanò e De Laurentis).

    Ma, soprattutto, capitalizzano al massimo l’incidente con un diario dal carcere che appare a puntate.
    La tensione arriva al massimo e l’inchiesta deraglia: esce dai recinti del giornalismo e sfocia nello scontro personale.
    Alla fine della giostra, i Pisanò vengono assolti, De Laurentis si trasferisce negli Usa e Mancini si dimette. La segreteria del Psi torna dov’era prima. Cioè nelle mani di De Martino.

    Pisanò anticipa Tangentopoli

    Quest’inchiesta, tutta da rievocare e approfondire, ha un limite: Pisanò attribuisce al solo Mancini un meccanismo di finanziamento, essenzialmente illecito, che riguardava tutto il suo partito.
    Detto altrimenti, il giornalista milanese non si era “accorto” di aver anticipato Tangentopoli. Ma tant’è: allora era più facile colpire le persone che i partiti in blocco.
    L’inchiesta tutt’oggi resta divisiva: c’è chi osanna Pisanò e chi, al contrario, lo considera un prezzolato che mescolava verità e bugie per conto terzi.
    Chi potrebbero essere questi ultimi? La lista non è proprio corta.

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    Eugenio Cefis

    Gli utilizzatori

    In cima potrebbe esserci Eugenio Cefis, ex partigiano e potentissimo patron dell’Eni, che di sicuro odiava, cordialmente ricambiato, Giacomo Mancini.
    Attenzione: Pisanò, come riporta correttamente Paolo Morando nel suo Cefis. Una storia italiana (Laterza 2011) non aveva risparmiato strali a Cefis. E di questi strali c’è traccia anche nel dossier del Candido dedicato ad alcune vicende oscure del passato partigiano del presidente dell’Eni. Ma mentre gli attacchi a Cefis calano quelli a Mancini aumentano.

    Certo, non c’è prova che Cefis abbia finanziato Pisanò. Tuttavia, molti attacchi del Candido sembrano fatti apposta per compiacere Cefis. Il quale, c’è da dire, era abituato a rapporti particolari coi giornalisti, anche quelli più insospettabili. Ad esempio Mauro De Mauro, il leggendario cronista de L’Ora di Palermo che, secondo i giornalisti Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco, era finito a libro paga dell’Eni. Di sicuro, Cefis voleva far fuori l’ex ministro e l’inchiesta di Pisanò lo ha aiutato tanto.

    Compagni coltelli

    Secondo un’opinione diffusa, un utilizzatore dell’inchiesta del Candido sarebbe stato il socialdemocratico Luigi Preti. Saragattiano convinto e più volte ministro di settori delicati (le Finanze), Preti era un altro che non amava Mancini.
    Al punto di farlo intercettare, come sostenne l’ex segretario del Psi in un’intervista a L’Espresso. Preti, tra l’altro vicino ai demartiniani, imputava il calo elettorale delle due sigle socialiste proprio alla politica di Mancini.

    Inutile dire che la convergenza d’interessi con l’inchiesta di Pisanò c’era. E non solo perché il giornalista era originario di Ferrara, proprio come Preti. Ma soprattutto perché il Candido andò fortissimo anche in Emilia Romagna… quando si dice il caso.
    Altro dettaglio non irrilevante, sono le numerose lettere di plauso inviate dai cosentini a Pisanò. Tutti fascisti? Proprio no: il Candido, a Cosenza, lo si leggeva di nascosto ma tantissimo. E lo leggevano tanto anche i socialisti. Senz’altro i demartiniani. Ma non è un caso che, proprio allora, un demartiniano rampante si staccò da Mancini e ne divenne concorrente: era Cecchino Principe.

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    Cecchino Principe in un comizio d’epoca

    Fine della storia

    L’inchiesta terminò con un pari: Pisanò uscì dai processi ed entrò in Parlamento, Mancini iniziò la parabola discendente. Il suo ultimo ruolo di rilievo nazionale fu quello di “Craxi driver”, cioè di accompagnatore di Craxi alla segreteria.
    L’asse del centrosinistra, col declino di Mancini, si era spostato a Nord e puntava su Milano. Ma anche questa è un’altra storia…