Tag: giustizia

  • Castorina imbarazza il Pd, ma dice: votato dai vivi, non dai morti

    Castorina imbarazza il Pd, ma dice: votato dai vivi, non dai morti

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    Antonino Castorina di professione fa l’avvocato. È stato capogruppo del Pd in Consiglio comunale a Reggio Calabria e consigliere metropolitano con delega al Bilancio.
    Castorina è stato pure membro della direzione nazionale del Partito democratico. In occasione delle primarie del 2019 è diventato coordinatore regionale della mozione “Sempre Avanti” di Roberto Giachetti e Anna Ascani, ex ministra dell’Istruzione e ora sottosegretaria alo Sviluppo economico.
    L’ex capogruppo è stato, inoltre, coordinatore regionale di “Energia democratica”, la corrente della sottosegretaria.
    Una carriera politica in ascesa, fino al clamoroso arresto nel 2020 nell’inchiesta sui presunti brogli elettorali a Reggio. Oggi Castorina è rinviato a giudizio per tentata induzione indebita nel processo Helios e indagato per concorso morale in falso ideologico nell’inchiesta sui brogli alle ultime amministrative reggine.
    Decorsi i termini della misura cautelare che gli vietava la dimora a Reggio Calabria, l’avvocato è pronto a rientrare nella sua città e nel consiglio comunale dopo un anno e mezzo. Ha deciso di parlare in esclusiva a I Calabresi.

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    Palazzo San Giorgio, il municipio di Reggio Calabria

    Avvocato Castorina, a Reggio i morti votavano per lei?

    «Per la seconda volta consecutiva sono stato tra i pochi consiglieri a superare le mille preferenze in tutti i seggi della città.
    La storia dei morti che mi avrebbero votato è sconfessata prima dal Tar e poi dal Consiglio di Stato. I due organi di giustizia amministrativa hanno chiarito la validità delle comunali di Reggio del 2020. Inoltre, negli atti di indagine a mio carico non c’è alcuna contestazione sul presunto voto dei defunti. Anche perché i loro nomi – proprio perché morti – non possono essere nei registri elettorali. Una fake news bella e buona, usata ad arte per creare suggestione e provare a fare un processo fuori dal Tribunale».

    Il Tribunale del Riesame a febbraio 2021 ha parlato di «vero e proprio sistema di alterazione dell’espressione del voto». Cosa dice a riguardo?

    «Il Riesame si è espresso sulle esigenze cautelari e non sul fatto. Su questo si esprimerà un altro Tribunale quando ci sarà il processo. Mi preme specificare che abbiamo fatto ricorso contro la decisione del Tdl in Cassazione. Tuttavia, la stessa Procura aveva già revocato i domiciliari con il divieto di dimora e poi ha dato parere favorevole alla cessazione della misura».

    Il Presidente di Seggio Carmelo Giustra aveva parlato di un vero e proprio “accordo con Castorina” sui brogli durante l’interrogatorio del dicembre 2020. Lei aveva un davvero questo accordo?

    «Se si legge tutto l’interrogatorio, si può capire come in nessuna parte si sostiene che io ho dato indicazioni di fare brogli. E non è un mistero che il presidente di seggio sottoposto a misura cautelare sia stato interrogato ben tre volte: ciò significa che le sue dichiarazioni sono state alquanto contraddittorie».

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    Giuseppe Falcomatà, il sindaco “destituito” dalla legge Severino

    Quindi non c’erano liste di anziani il cui voto sarebbe stato espresso da altre persone…

    «Di sicuro, durante la campagna elettorale esistevano liste di potenziali elettori che potevano essere intercettati: giovani, anziani, stranieri, tutte le categorie. Alterare la libera espressione del voto non fa parte della mia cultura. Per questo motivo, non avrei mai praticato alcuna alterazione. Inoltre, ritengo che sia molto complicato o addirittura impossibile taroccare i consensi: un seggio elettorale è composto da sei persone, oltre le forze dell’ordine e i dipendenti comunali a presidio degli stessi».

    Lei è imputato nel processo Helios. Secondo l’accusa avrebbe cercato di assumere persone amiche nell’azienda dei rifiuti di Reggio Calabria. Reato o clientela?

    «Lo chiarirà il processo. Io ho fiducia nella giustizia».

    Ma Castorina cosa pensa del clientelismo politico?

    «Io ho fatto politica sempre per passione e per amore del mio territorio, sin da quando ero rappresentante a scuola, all’Università e militavo nel Movimento giovanile. Non vivo di politica, faccio l’avvocato. Perciò il mio impegno politico non si inserisce negli scambi di favori».

    Torna in consiglio comunale, riabbraccerà il Pd?

    «La mia casa è il centrosinistra moderato, riformista e cattolico. La mia idea è quella del Pd. Il Pd si dovrà determinare.
    Tuttavia, tengo a dire una cosa: se se una persona come me – non condannata ma solo indagata – non può stare nel Pd, lo stesso principio dovrà essere applicato a tutti i soggetti indagati o condannati che militano o hanno ruoli nel partito. Io quando ho subito la misura cautelare ho subito comunicato la sospensione dal Pd e da tutti gli incarichi, compreso quello in direzione nazionale.
    Nelle prossime settimane manderò una lettera al segretario regionale Nicola Irto e a Enrico Letta per capire quel che accadrà».

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    Nicola Irto, il segretario regionale del Pd

    Ci sono malumori o mal di pancia da quelle latitudini per il rientro di Castorina nel Pd?

    «Bisogna chiederlo a quelli del Pd. Io non ho malumori con nessuno».

    Ha ricevuto solidarietà dal suo partito in questo anno e mezzo?

    «Ho ricevuto tanta solidarietà umana. Per quanto riguarda l’aspetto politico, ho evitato qualsiasi contatto o rapporto con esponenti della politica calabrese, fino alla revoca delle misure cautelari e al reintegro in Consiglio. Ritenevo inopportuno fare altrimenti».

    Ha mai pensato di dimettersi?

    «Neanche per un istante. Le dimissioni avrebbero significato una ammissione di responsabilità che non ho mai immaginato di avere».

    Falcomatà “destituito” dalla legge Severino, il cui referendum abrogativo ha fatto flop alle urne, che ne pensa?

    «È una legge giustizialista, totalmente sbagliata e che danneggia le comunità. Mi auguro che molto presto Giuseppe Falcomatà possa tornare al suo ruolo istituzionale».

  • ‘Ndrangheta, arrestato in Spagna il boss Vittorio Raso

    ‘Ndrangheta, arrestato in Spagna il boss Vittorio Raso

    Vittorio Raso, considerato un boss della ‘ndrangheta, è stato arrestato ieri sera dalla polizia locale nel municipio catalano di Castelldefels (Spagna): lo riporta il quotidiano El País. Lo stesso giornale spiega che Raso è stato fermato nel corso di un controllo stradale di routine, mentre guidava con documenti falsi.

    Arrestato una prima volta in Spagna, nel 2020, venne poi rilasciato su ordine di un giudice, e da allora era latitante. Raso era stato arrestato una prima volta nell’ottobre del 2020 a Barcellona: la polizia gli attribuiva reati di appartenenza ad organizzazione criminale, usura e traffico di stupefacenti, considerandolo un personaggio di spicco della ‘ndrangheta calabrese radicata a Torino.

    Tuttavia, pochi giorni dopo, il tribunale dell’Audiencia Nacional lo rilasciò, affermando di non avere elementi sufficienti per ordinare il carcere preventivo nei suoi confronti (in quanto nel verbale a disposizione appariva solo la contestazione di un reato di usura). Una valutazione, scrive El País, che lasciò stupefatta la Polizia Nazionale spagnola.

    In seguito, l’Audiencia Nacional emesse un nuovo ordine d’arresto nei confronti di Raso, che nel frattempo aveva però già fatto perdere le proprie tracce. A gennaio di quest’anno, la polizia italiana ha sequestrato in un garage di Nichelino (Torino) oltre 400mila euro in contanti, insieme a orologi Rolex e gioielli dal valore di oltre 200mila euro, un ‘tesoro’ attribuito proprio a Raso.

  • 1992: come Tangentopoli (non) trasformò anche la Calabria

    1992: come Tangentopoli (non) trasformò anche la Calabria

    «Ci sono decenni in cui non accade nulla, e poi delle settimane dove accadono decenni», almeno secondo Lenin. Ripensando al 1992 sembra in effetti che la storia proceda proprio in questo senso. Trent’anni fa l’indagine partita dal Pio Albergo Trivulzio, Mani Pulite, e prima ancora le stragi di Capaci e via D’Amelio hanno distrutto la strada che la storia percorreva costringendo ad una deviazione. Il 1992 è ancora, evidentemente, troppo recente per poterne conoscere tutte le implicazioni e i protagonisti, ma sono sempre più chiare le conseguenze: non quello di semplice reset come si è detto, ma di una più raffinata sostituzione di vertici ormai resi inefficienti dal mutare del contesto mondiale.

    Corsi e ricorsi

    La storia italiana procede spesso per buchi, voragini di verità che inghiottono avvenimenti anche molto lontani. A questa regola non può sfuggire il 1992. E sempre questa regola prevede che queste voragini di verità affondino nel Sud Italia che dalla periferia della storia vede, ascolta e digerisce. Prepara il futuro, rimanendo nel passato.
    L’indagine di Di Pietro azzera una classe politica partendo da Milano, ma le scosse telluriche si fanno sentire in tutta Italia. Beppe Grillo aveva anticipato il terremoto giudiziario con una battuta sui socialisti che rubano, nel 1986. Oggi è capo di un movimento allo sfascio. Forse è uno dei pochi cambiamenti perché se si analizza il contesto nel quale nasce quell’evento, attraverso articoli e atti parlamentari, si trovano corsi e ricorsi storici.

    La crisi della politica e quella della magistratura

    Rifondazione avanzava una richiesta di reddito minimo, argomento ancora caldo, mentre la politica discute di riforme istituzionali. Presidente del Consiglio è Giuliano Amato, oggi presidente della Corte costituzionale. Il Governo discute sulla crisi economica con Paolo Savona – all’epoca presidente del Fondo Interbancario, oggi alla Consob – e propone di rilanciare l’Italia attraverso opere e infrastrutture che ricordano tanto quelle del PNRR.
    La credibilità della classe politica italiana non è mai stata del tutto recuperata da quegli anni, con la differenza che oggi la stessa crisi ha investito la stessa magistratura. È frutto di quegli anni il dibattito tra garantisti e giustizialisti, che in Calabria come ogni cosa si deforma e diventa un modo per nascondere altre voglie: da una parte vendette persecutorie e dall’altro malcelato senso di impunità.

    Schegge di 1992

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    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri (foto Tonio Carnevale)

    Secondo Gratteri, la riforma Cartabia è una “resa dei conti” della politica contro lo strapotere della magistratura. Una lettura tranchant e anche discutibile, che però mostra come le schegge delle rotture del ’92 siano ben conficcate nei giorni d’oggi. Soprattutto mentre in superficie il mondo cambiava, nel sottosuolo del potere che è sempre stata la Calabria, laboratorio di perversi accordi si trovava un modo di innestare il vecchio nel nuovo, creando organismi bicefali con due volti. Un modo forse per assicurare la restaurazione, ma che di certo ha precorso gli anni.

    Il Consiglio regionale del 1992…

    Nel 1992 presidente della Regione Calabria è Anton Giulio Galati e il Consiglio regionale è tutto maschile con l’eccezione di una sola donna, Maria Teresa Ligotti, prima a sedere su quegli scranni nelle fila del PCI. La scossa tellurica del ’92 emerge evidente in Calabria dalla composizione dei Consigli regionali del ’92 e, immediatamente successivo, del ’93. Nel ’92 troviamo uomini del secolo scorso fin dal nome come Domenico Paolo Romano Carratelli, avvocato, bibliofilo, scopritore di codici antichi o Pietro Dominijanni, socialista, a cui tanto deve il parco nazionale dell’Aspromonte. Oppure, ancora, figure più oscure come Giovanni Palamara, ex sindaco di Reggio Calabria, coinvolto in diverse inchieste, tra cui una che lo legava all’omicidio Ligato, poi assolto. Da quel setaccio della storia pochi riescono a continuare negli anni successivi allo stesso livello.

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    Palazzo Campanella, attuale sede del Consiglio regionale

    … e quello del ’93

    È, infatti, il Consiglio del 1993 che restituisce un’ecografia della Calabria di oggi: delle figure e dei potentati che in maniera diretta o indiretta ancora influenzano la Calabria. Saltano agli occhi Nicola Adamo e Pino Gentile, campioni di presenze nelle principali vicende calabresi e con importanti ruoli a livello nazionale. Nel ’93 sedeva anche Paolo Romeo, al centro oggi di alcune inchieste della procura di Reggio Calabria, condannato per associazione mafiosa e sapiente tessitore di legami. Scorrendo si ritrovano anche Mario Pirillo, poi divenuto parlamentare ed europarlamentare, e Amadeo Matacena attualmente latitante.

    Separatisti made in Sud

    In quegli anni, inoltre, in Calabria, Sicilia e Puglia nascevano le leghe meridionali. Movimenti separatisti dietro i quali spesso si ritrovano personaggi vicini al mondo della criminalità organizzata. Il movimento Sicilia Libera nasce a Palermo su input diretto di Leoluca Bagarella, si legge nella richiesta di archiviazione del giudice Scarpinato. Nel resto del Meridione erano state già costituite formazioni come Calabria Libera (fin dal 19 settembre 1991), Lega Lucana (già Movimento Lucano, costituita il 25 gennaio 1993), e tantissimi altri movimenti analoghi. Scarpinato raccoglie testimonianze ed eventi dallo scarso valore investigativo, ma dal prezioso contributo storico.

    Leoluca Bagarella

    Secondo le dichiarazioni di Tullio Cannella, questi movimenti facevano parte di un importante piano separatista a cui aveva partecipato la ‘ndrangheta calabrese, perché in Calabria si possono avere «appoggi con i servizi». Riferisce anche di una riunione tenutasi a Lamezia Terme tra esponenti politici anche della Lega Nord ed esponenti mafiosi delle varie regioni. Il piano era lasciare il sud alle mafie e il nord a nuovi soggetti politici. Il progetto separatista poi si arena per evidenti difficoltà, ma anche perché nasce un nuovo soggetto politico che sembrava ridare le giuste garanzie, sempre secondo quanto si legge dai collaboratori di giustizia, che è Forza Italia. In questo senso va anche parte dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, confermata in primo grado e poi ribaltata parzialmente in secondo grado. Quello che successe dopo è storia. Nel 1994 Forza Italia nasce.

    1992-2022: cosa resta trent’anni dopo

    Al Sud e in Calabria Forza Italia raccoglie il consenso che aveva la DC e che ha conservato fino all’arrivo della Lega di Salvini, eletto senatore proprio in Calabria. Dunque, nessuna differenza? Dopo trent’anni in Italia le disuguaglianze sono aumentate, i problemi atavici della Calabria sono rimasti, ma addosso ad una popolazione molto ridotta e sempre più anziana. Giusto qualche donna in più alla regione.
    Pare proprio che in questa periferia si appresti il futuro e si accalchino i cambiamenti. Perciò, sarà bene che almeno per una volta l’Italia dia un’occhiata e faccia i conti con la Calabria e i segreti che le ha affidato.

    Saverio Di Giorno

  • Barbara Corvi: 13 anni di misteri senza risposte

    Barbara Corvi: 13 anni di misteri senza risposte

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    Sparita nel nulla. Senza un soldo in tasca, senza un cambio di abito, senza un bacio ai due figli. Nessuno ha più notizie di Barbara Corvi, allora trentacinquenne, dalla fine di ottobre del 2009.
    Una sparizione improvvisa, da Amelia nel Ternano, poche ore dopo “l’ufficialità” in famiglia di una sua relazione extraconiugale. Da questa vicenda, è emerso il sospetto dell’ennesimo caso di lupara bianca.
    E si teme che il lungo tempo trascorso possa avere reso vano l’intervento degli inquirenti che, a distanza di 12 anni dalla “sparizione” della giovane donna, avevano identificato il presunto colpevole nel marito, Roberto Lo Giudice.

    Roberto Lo Giudice, marito di Barbara e suo presunto assassino

    Barbara Corvi: un caso di lupara bianca?

    Prima arrestato e poi scarcerato dal tribunale del riesame di Perugia, l’uomo attende di conoscere la data fissata per l’udienza preliminare, in cui il Gup deciderà se andare a processo o archiviare per la seconda volta.
    Cinquant’anni, nato a Reggio, un cognome “pesantissimo” sulle spalle (anche se fuori dagli affari criminali della famiglia), Roberto Lo Giudice è la persona su cui la Procura di Terni punta l’attenzione quando nell’aprile del 2019 riapre le indagini.
    Per i magistrati, lui avrebbe ucciso, con l’aiuto del fratello Maurizio, Barbara nel pomeriggio del 27 ottobre 2009 e farne scomparire il corpo. La tragica, ultima pagina di un romanzo familiare di botte e umiliazioni.

    Infedeltà e lupare: un vizio di famiglia?

    La “colpa” di Barbara: avere intrecciato una relazione extraconiugale.
    Una storia tremenda che, nelle ipotesi dei magistrati umbri, sembra identica, nella sua mostruosità, a quella di Angela Costantino, la cognata di Barbara.
    Angela aveva sposato Pietro, il fratello di Roberto, ed era stata fatta sparire dalla sua casa di Reggio nel 1994, quando aveva appena 25 anni.

     

    Anche per lei, stabilirà la magistratura nel 2013, l’unica colpa fu avere intrecciato una relazione extraconiugale durante un periodo di carcerazione del marito boss. Furono gli uomini del clan a prelevarla da casa e a farla sparire per sempre.

    Una marcia di Libera per la memoria di Barbara Corvi

    Nino il Nano e le altre gole profonde

    Figlio dello storico capobastone Giuseppe – ammazzato da un commando armato nel giugno del ’90 ad Acilia in provincia di Roma, nell’ambito della seconda guerra di ‘ndrangheta – Lo Giudice è stato tirato in ballo da Nino, un altro suo fratello. Nino, ex mammasantissima della famiglia, è da anni collaboratore di giustizia.
    Interrogato dai magistrati della Dda di Reggio, il pentito racconta di un incontro in Calabria, a circa un anno dalla scomparsa della donna, in cui il fratello Roberto gli avrebbe confermato, «con un cenno del capo», che a togliere di mezzo Barbara Corvi sarebbero stati lui e Maurizio.

    Alle dichiarazioni di Nino “il Nano, presto, seguono le parole di altri due pentiti.
    Il primo, Consolato Villani, è un pezzo grosso del clan e racconta di come è venuto a sapere che «Barbara ha fatto la fine dell’altra».
    Il secondo, Federico Greve, risponde alla ’ndrina alleata dei Rosmini e racconta agli inquirenti di come Lo Giudice lo avesse minacciato di «murare il figlio tossicodipendente come aveva fatto con la propria moglie». E poi le intercettazioni del figlio di Barbara, che in un’ambientale del 2020 descrive alla compagna la frustrazione e il timore che la madre possa essere «finita nell’acido, senza tracce».

    Conti correnti e pc: le prove dell’accusa

    E ancora i soldi, fatti rimbalzare da un conto a un altro ma rimasti sempre nella disponibilità dell’uomo, e le intrusioni sul pc privato della Corvi, fino alle finte cartoline spedite da Firenze per depistare le prime indagini.

    Nino Lo Giudice, detto “il Nano”, il principale accusatore di Roberto

    Questi elementi convincono la Procura ordinaria a richiedere l’arresto di quell’uomo violento che, sostengono i pm, si sarebbe “liberato” della moglie. Tutto questo prima di iniziare, pochi giorni dopo la denuncia di scomparsa, una nuova relazione con un’altra donna che da Reggio si trasferirà in Umbria, con un figlio al seguito, nella casa di proprietà di Barbara Corvi.
    Una vicenda complessa, figlia del mondo al contrario delle coppole storte, e cucita sulla pelle di una giovane che non sopportava più la vita insieme al marito.

    I dubbi dei giudici e la scarcerazione

    A questa storia non hanno creduto fino in fondo i giudici del Riesame che, accogliendo le richieste dei legali di Lo Giudice, ne hanno disposto la scarcerazione in attesa della chiusura delle indagini.
    Troppo tardive le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Ancora: troppo vago l’accenno del capo che confermerebbe la colpevolezza dell’indagato. Nessuna certezza assoluta, inoltre, che Barbara Corvi non si sia allontanata volontariamente. Troppo fragili, infine, le ricostruzioni sui tentativi di depistaggio operati dall’indagato per confondere le acque.

    Così le conclusioni del Tribunale della libertà hanno in parte ridimensionato il carico accusatorio nei confronti di Roberto Lo Giudice ma non hanno “smontato” gli avvocati di Libera che affiancano i genitori della donna scomparsa nella loro ricerca di verità. Così come non hanno scoraggiato i tanti cittadini e le associazioni che da anni continuano a chiedere: «Dov’è Barbara»?

    Una battaglia di verità per Barbara Corvi

    Tenere alta l’attenzione, preservare la memoria, continuare a chiedere giustizia: l’Osservatorio sulle infiltrazioni mafiose e l’illegalità dell’Umbria ha preso molto sul serio l’impegno al fianco dei familiari di Barbara Corvi.

    Marce e manifestazioni e poi la gigantografia della giovane mamma esposta sui municipi dei tanti paesi che si sono uniti alla battaglia. Anche Libera ha voluto inserire il nome della ragazza tra le vittime innocenti di mafia anche se il suo corpo non è stato mai ritrovato. È la prima donna che figura nell’elenco dell’Umbria.
    E ora, in occasione del prossimo compleanno di Barbara, una nuova spinta nella ricerca di quella verità raccontata dai pentiti e ipotizzata dai pm ma sempre negata da Lo Giudice. Secondo lui la moglie si sarebbe data volontariamente alla fuga, tagliando completamente i ponti col passato, figli e genitori compresi.

    E allora ecco le testimonianze, i ricordi, i pensieri che verranno raccolti in lettere, una per ogni 27 dei prossimi mesi, da rendere pubbliche a cadenza regolare.
    La scriveranno associazioni e pezzi delle istituzioni, personaggi famosi e semplici attivisti, tutti accumunati nella ricerca di verità e giustizia per l’ennesima vittima, in un elenco interminabile, di violenze maturate tra le mura di casa.

  • Calabria da cinema: Anita Ekberg e quel processo a Castrovillari

    Calabria da cinema: Anita Ekberg e quel processo a Castrovillari

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    Negli anni Cinquanta si assiste in Calabria a un grande successo del cinema. Già durante il fascismo i calabresi andavano in massa a vedere i film che si proiettavano nelle piazze: gli operatori dell’Istituto Luce arrivavano con un furgone, sistemavano un telone bianco sulla facciata di una casa e proiettavano pellicole di propaganda del regime. Nel dopoguerra le sale cinematografiche erano sempre affollate e molti spettatori, a volte costretti a stare in piedi, visionavano una pellicola anche due o tre volte.

    Il cinema sbarca in Calabria

    Nell’inverno del 1949 a San Giovanni in Fiore fu girato Il lupo della Sila e per diversi giorni gli abitanti ebbero occasione di vedere attrici e attori famosi come Vittorio Gassman, Amedeo Nazzari e Jaques Sernas. La simpatia e le attenzioni dei giovani sangiovannesi era tuttavia rivolta alla bellissima Silvana Mangano, la star reduce dallo straordinario successo di Riso amaro. Il film, diretto da Coletti, su soggetto di Steno e Monicelli, voleva avere una impronta realista e una sensibilità etnografica. In realtà, però, si tratta di un cupo melodramma che ripropone l’immagine del calabrese geloso e vendicativo e tradizioni popolari inventate come la gara del taglio degli alberi.

    Dalla Sila all’Apromonte

    Il lungometraggio ebbe un discreto successo e l’anno seguente Ponti e De Laurentiis producono Il brigante Musolino. Dalla Sila si passa all’Aspromonte ma i temi che caratterizzano la nuova pellicola sono gli stessi della precedente. Il protagonista personifica i caratteri stereotipati del calabrese: forte, spietato, violento, vendicativo e sanguinario. I delitti del romantico giustiziere si susseguono, lo scenario sociale è assente e il brigante si pone al di fuori della sua comunità, vittima di stato, mafia e chiesa. Calabresella viene cantata sia al matrimonio che durante la vendemmia.

    I calabresi come barbari

    Il lupo della Sila e Il brigante Musolino fornivano un’immagine negativa dei calabresi: genitori che per interesse sacrificano le figlie, gente che tradisce per paura e interesse, giovani irruenti, passionali e pronti a prendere il fucile per qualsiasi controversia e difendere l’onore della famiglia. I film, tuttavia, non suscitarono proteste e solo alcuni cortometraggi come Calabria segreta di Vincenzo Nasso furono aspramente criticati. Giornalisti e intellettuali calabresi rimproverarono al regista di avere rappresentato una immagine falsa della regione.

    Miceli scriveva che, dopo aver visto il documentario prodotto dalla Rai, era rimasto molto deluso e amareggiato. Si trattava di un film di «pessimo gusto» che rivelava una spaventosa ignoranza della regione. Il regista «supercivile», con duelli feroci e balenio di coltelli, presentava i calabresi come barbari, ignorando che la Calabria non era stata patria del banditismo e che il popolo era buono e laborioso, semplice e onesto, amante della famiglia, della casa e della patria. Anche la “Baronessa scalza” criticava su un giornale cosentino il cortometraggio definendolo una produzione cinematografica «nauseante» per aver presentato i calabresi come feroci e primitivi.

    L’altro cinema in Calabria

    Non tutti i cineasti condivisero le scelte dei grandi produttori cinematografici. Negli anni Cinquanta alcuni registi realizzarono documentari sulla realtà economica, sociale e culturale della regione. I calabresi e la Calabria si prestavano bene a tradursi in forme artistiche e alla sperimentazione cinematografica. Pescatori che cacciavano il pescespada con tecniche millenarie in un mare azzurro e trasparente, fedeli che si flagellavano con pezzi di vetro spargendo sangue lungo i vicoli dei paesi e donne che raccoglievano olive ai piedi di alberi secolari avvolti dalla nebbia, erano soggetti e luoghi ideali per girare un film.

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    Roma, l’ingresso degli studios di Cinecittà

    I contadini segnati dalla fatica e ammantati con panni consumati dal tempo, apparivano più interessanti di attori del grande cinema dalle facce regolari e vestiti con abiti inamidati provenienti da atelier; i paesi e le case abbarbicati su luoghi aspri e inospitali, le campagne arse dal sole, le montagne coperte da boschi impenetrabili erano più avvincenti dei paesaggi freddi e irreali costruiti negli studios di Cinecittà.

    I documentari e la cura per le immagini

    Alcuni registi erano affascinati da quella regione che ai loro occhi appariva come un luogo mitico, dove la natura era incontaminata e dove gli uomini vivevano in maniera semplice. Erano attratti da quella terra arcaica e spesso eliminavano ogni riferimento al reale che potesse inquinare il pathos della pellicola. A volte ricostruivano i rituali con attori di strada per renderli più spettacolari e drammatici. Lo stesso De Seta, il più bravo e originale tra i documentaristi, nel cortometraggio I dimenticati, per riprendere la festa dell’albero ad Alessandria del Carretto, chiese ai paesani di ricostruire alcuni momenti del rito.

    Gli autori dei documentari filmavano la Calabria che avevano già in mente. Puntavano su immagini suggestive che suscitassero meraviglia e catturassero l’attenzione degli spettatori. Accompagnavano le sequenze con voci declamatorie. Utilizzavano colonne sonore per drammatizzare le scene. Davano al montaggio un senso di ansioso reportage. Eliminavano tutto ciò che era ritenuto scarsamente cinematografico. Erano particolarmente attenti alle inquadrature e alla cura della fotografia. Le immagini “dovevano parlare da sole”. In un fotogramma o in una sequenza dovevano essere rappresentati cultura, passioni e lavoro di un popolo.

    La Calabria onirica al cinema corto

    Spesso finivano per creare un’atmosfera onirica, fatta di volti e gesti antichi, sguardi immobili, luoghi irreali e selvaggi. Immagini belle sul piano filmico ma inventate e astoriche. I registi del “cinema corto” documentavano il reale ma al tempo stesso ne offrivano una visione lirica, cinematografica nel senso classico. Esigenze estetiche li spingevano a vedere solo la parte arcaica della Calabria e a ignorare quella che si stava trasformando per effetto della modernizzazione. Preoccupazioni stilistiche li spingevano a disinteressarsi dei forti cambiamenti che si verificavano nelle campagne, a non tenere conto del fatto che la logica del profitto stesse annullando le diversità culturali, a sottovalutare il senso di sradicamento presente in larghi strati della popolazione, a non vedere che la cultura dei calabresi si stava trasformando.

    Qualcuno criticò tali documentari ricordando che la Calabria non era una terra semplice in cui gli uomini si accontentavano di mangiare e dormire, dove vigeva la logica della sopravvivenza, dove non c’erano momenti in cui il superfluo vinceva sul necessario, dove c’era una cultura collettiva fissata nel tempo a cui tutti si omologavano.
    I registi di documentari e cortometraggi ebbero comunque il merito di rifiutare trionfalismo, conformismo ed etnocentrismo con cui i colleghi del grande cinema avevano ripreso e riprendevano la Calabria.

    Antico vs Moderno

    Nelle loro pellicole non si vedono i volti felici di contadini che mietono il grano dei cinegiornali, ma visi scavati dalla fatica e dal sole; non più campagne ridenti e fertili, ma terre spaccate dall’arsura e allagate dai fiumi; non più paesi pittoreschi abbarbicati su incantevoli paesaggi, ma centri urbani fatiscenti e abbandonati all’incuria del tempo. Contadini, pescatori, pastori e artigiani, nei loro filmati appartengono a un mondo millenario dove l’agire quotidiano è fatto di gesti uguali e ripetitivi, gente anonima che lavora silenziosamente nella lotta per l’esistenza in una natura straordinariamente bella, ma spesso aspra e violenta, amara e ingrata.

    Raccoglitrici di olive negli anni ’50 (immagine tratta dalla pagina Facebook “Calabria Fotografia Sociale”)

    Nei cortometraggi i registi riconoscevano alle classi subalterne una dignità culturale che veniva denigrata da un vecchio meridionalismo e ignorata da un modernismo imperante. Scarsamente attratti dalla religione del progresso, si schieravano con la gente povera del Sud che pagava più di ogni altro il processo di modernizzazione. Proponevano col loro cinema una lettura etica e umanista della Calabria e dei calabresi, una visione che si contrapponeva a quella di intellettuali e politici che pensavano ad una rinascita della regione attraverso la distruzione della mentalità arcaica e retriva dei suoi abitanti.

    Pasolini e le critiche

    Nel dopoguerra tra molti calabresi si avvertiva una forte insofferenza nei confronti di una parte dell’opinione pubblica italiana che tendeva a presentare la regione come una terra arretrata. Nel 1959, in occasione di alcune dichiarazioni di Pier Paolo Pasolini sui calabresi, molti insorsero con commenti durissimi. Un giornalista scriveva che avrebbe voluto «sputare» sul volto dello scrittore il più profondo rancore e risentimento per le «espressioni bassissime» da lui rivolte alla sua gente.

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    Pasolini a Crotone

    La sua «sfacciataggine» era odiosa e, più che una risposta polemica, avrebbe meritato quattro poderosi calci «con le scarpe chiodate» di quei robusti boscaioli della Sila che «stillavano sudore e sangue per la quotidiana lotta di un tozzo di pane nerissimo». Il popolo calabrese era il più educato e il più generoso dei popoli, «ma guai a chi avesse cercato di calpestargli i calli!». Un altro periodico pubblicava la lettera aperta di un lettore che accusava Pasolini di avere usato nei confronti della Calabria le solite frasi «trite e ritrite» di chi è prevenuto: gli uomini della regione erano sani e belli e le donne erano abbronzate, efebiche, belle e affascinanti! .

    Il Rally del cinema: la Calabria sulla stampa nazionale

    Nello stesso anno, un fatto accaduto a Castrovillari suscitò un vivace dibattito sul “carattere” dei calabresi. Il 25 giugno, in occasione del Rally del cinema (gara automobilistica definita Mille miglia delle stelle), il marchese Gerini, con a bordo Anita Ekberg, durante una sosta presso un distributore di benzina, infastidito dalla folla che faceva ressa per ammirare da vicino la “Venere di ghiaccio”, ripartiva a forte velocità travolgendo venti persone. Secondo la stampa nazionale, il marchese, impaurito dai giovani che avevano perso letteralmente la testa per la diva svedese, partì con la Lancia Flaminia cercando di farsi largo tra la folla e mettersi in salvo. In una corrispondenza di Paese Sera si legge che, in ogni paesino della Calabria, folle di giovani assalivano puntualmente le macchine del rally prendendo gli equipaggi «a pacche, pizzicotti e sganassoni».

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    Eleonora Ruffo in posa sul balcone della sua casa romana (foto Archivio Istituto Luce)

    Si trattava di gente analfabeta e ignorante che perdevano la ragione di fronte a bellissime bionde come Eleonora Ruffo, che per il caldo sollevava le gonne ad altezze vertiginose! In realtà, secondo alcuni giornali locali, i giovani avevano mostrato solo un eccessivo entusiasmo per la Ekberg e qualcuno di loro aveva sputato e urlato contro Gerini dopo che questi li aveva insultati con gesti volgari e parole offensive. I castrovillaresi non erano selvaggi assatanati ma gente civile e ospitale: ragazze in costume tradizionale avevano accolto gli equipaggi con fiori e sorrisi e l’amministrazione comunale aveva offerto un pranzo a base di pollo arrosto e ottimo vino.

    Anita Ekberg e il processo a Castrovillari

    L’anno seguente, il 12 maggio 1960, Anita Ekberg, la celebre diva del cinema «dai capelli biondo-cenere e dalla pelle madreperlacea» che «camminava quasi sempre a piedi nudi e usava il reggiseno solo quando andava a cavallo», giunse in Calabria per testimoniare al processo contro Gerini. Quando scese dalla macchina davanti al tribunale di Castrovillari una folla di gente, in attesa da ore, l’accolse con un forte applauso. L’attrice, vestita elegantemente nella sua princesse nera con stola di visone selvaggio scuro, fu circondata da decine di fotografi e giornalisti.

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    Anita Ekberg in aula nel Tribunale di Castrovillari

    In aula, alla richiesta del Presidente della Corte di dichiarare la sua età, l’attrice rispose che quella non era una domanda da rivolgere a una donna. E, nella deposizione, scagionò il marchese dichiarando che i giovani erano diventati così invadenti da sedersi sul cofano della macchina. Disse, inoltre, che alla sua camicetta non mancava alcun bottone e che quel giorno era vestita come una collegiale: gonna e camiciola a maniche lunghe. Durante il processo, il presidente della corte fu costretto a far sgomberare l’aula per il clima esagitato. La deposizione della Ekberg fu persino oggetto di una interrogazione dell’onorevole Migliori al ministro di Grazia e Giustizia nella quale si chiedeva se, come attestato da foto comparse su giornali e rotocalchi, l’attrice si fosse presentata con abiti e pose in contrasto col decoro delle aule giudiziarie: gambe accavallate, décolleté a vista e braccia scoperte!

  • Beccato con 30 kg di hashish in auto

    Beccato con 30 kg di hashish in auto

    Beccato con 30 chilogrammi di hashish. La droga era nascosta in un’auto presa a noleggio. Erano le 4:30 di ieri, quando una pattuglia della polizia stradale, nel tratto aretino dell’A1, ha fermato per un controllo un’utilitaria. Alla guida un 46enne, calabrese residente da anni in Germania e noto alle forze dell’ordine, che all’alt dei poliziotti ha cercato una via di fuga attraverso il casello di Monte San Savino (Arezzo), in prossimità del quale è stato raggiunto e fermato. Nel corso della perquisizione dell’auto, dal bagagliaio, è spuntato un borsone pieno di buste e panetti di hashish per un peso di oltre 30 chili. Il 46enne è stato quindi arrestato e condotto in carcere. L’auto è stata sequestrata così come la droga e quattro telefoni cellulari dei quali l’uomo era in possesso.

  • Delirio e paura: il calcio a Reggio ancora appeso ai suoi 13 giugno

    Delirio e paura: il calcio a Reggio ancora appeso ai suoi 13 giugno

    Da un 13 giugno ad un altro. Dal traguardo della massima serie, allo spettro della scomparsa dal mondo del pallone. Ha del fascino (crudele) la casualità che fa coincidere la data del massimo risultato sportivo raggiunto dalla compagine amaranto, con il giorno che, in un modo o in un altro, potrebbe segnare la prossima ventura del calcio professionistico a Reggio Calabria.

    Ma da quel 13 giugno del ’99, quando un destro sbilenco di Tonino Martino mandò in orbita una città intera, al 13 giugno del ’22, con il presidente Gallo ai domiciliari e la società amaranto sul filo della sopravvivenza, di cose ne sono cambiate molte. E, tutte, in peggio.

    Il fallimento della storica Reggina Calcio nel 2015, la ripartenza dalla serie D con la famiglia Praticò al comando e il ripescaggio tra i prof, lo spettro del nuovo fallimento e l’arrivo tutto lustrini di Gallo con il sontuoso ritorno in serie B, fino alla guardia di finanza tra i campetti del Sant’Agata, con la Reggina trasformata in una banale “scatola cinese” attraverso cui il “presidente col catamarano” giocava con soldi, proprietà e sentimenti di una tifoseria intera.

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    Luca Gallo, presidente della Reggina

    Sull’ottovolante

    Da Foti a (forse) Saladini, passando per Praticò e Gallo: la storia recente della Reggina è come un gigantesco ottovolante a cui sono rimasti aggrappati tifosi, calciatori e semplici lavoratori. Un ottovolante che potrebbe smettere di correre se dovesse saltare la travagliatissima trattativa tra l’imprenditore lametino Felice Saladini e Fabio De Lillo, un passato in Campidoglio e alla Pisana e braccio operativo di Luca Gallo per nomina diretta dell’amministratore giudiziario Katiuscia Perna, terzo inevitabile invitato ad una tavola dove negli ultimi giorni (oltre al Gip del tribunale di Roma a cui spetterà comunque l’ultima parola), si sono aggiunti i molti che lamentano i «poi ndi virimu» con cui la società amaranto avrebbe saldato buona parte dei propri fornitori negli ultimi tre anni.

    Una giostra che non si è fatta mancare proprio niente, neanche il presunto interessamento di una serie di imprenditori cinesi a cui, in tempi non sospetti, Antonio Morabito – reggino di nascita, per anni pezzo da novanta della Farnesina ed ex ambasciatore d’Italia nel principato di Monaco – avrebbe suggerito proprio la società amaranto per la loro personale “lista della spesa” sul mercato italiano delle offerte. Una storia di cui si è persa traccia e che è costata all’ex feluca una delle accuse che lo vedono sotto processo a Roma in questi giorni.

     

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    Walter Mazzarri e Lillo Foti, protagonisti delle pagine più belle della storia amaranto in A

     

    E poi «il soggetto giuridico straniero» di cui ha parlato l’avvocato Giosuè Naso, legale di Gallo, che avrebbe dovuto rilevare la Reggina in seguito al sequestro preventivo che le società del patron amaranto avevano subito nel gennaio dello scorso anno, ed evaporato dietro i «non vendo» sogghignati dall’imprenditore romano in una conferenza stampa dai toni surreali, che a vederla adesso ricorda la «performance» della testata ne La grande bellezza.

    Ultima chance

    Il “toto mercato” indica in oggi, massimo domani, il termine ultimo per capire che sorte attende la Reggina. I tempi sono strettissimi, le procedure burocratiche che coinvolgono anche il Tribunale di Roma sono intricate, e il termine ultimo per l’iscrizione nel campionato cadetto incombe. Senza dimenticare che anche l’accordo per i debiti da spalmare con il fisco – poco più di una decina milioni – è ancora da mettere nero su bianco. Ma seppure risicati, i tempi ci sarebbero.

    Archiviati i tardivi appelli dei sindaci facenti funzione, e riposte le bandiere della disperata e bellissima manifestazione dei tifosi per le vie del centro al grido «Salviamo la Reggina», la città ora è come sospesa tra scariche di ottimismo dirompente e baratri di «non c’è nenti». Anche le invettive a Luca Gallo si sono attenuate con il passare dei giorni: tutto in secondo piano, in attesa di passare la nottata. E se, almeno ufficialmente, nulla trapela della trattativa in corso, i segnali di un possibile esito positivo continuano a rimbalzare sui mezzi d’informazione cittadina. Reggina Tv esclusa, visto che per ordine del direttore, sono stati sospesi tutti i servizi curati dalla corposa redazione giornalistica che per anni ha gestito la comunicazione ufficiale del club, con metodi vicini a quelli della Pravda.

    Alla ricerca del salvatore per la Reggina calcio

    Nonostante le astruse ricerche di riservatezza avanzate da parte della società dello Stretto, il nome di Felice Saladini è spuntato presto come possibile nuovo acquirente della Reggina. Giovane, preparato, calabrese “di ritorno”, ambizioso: il trentottenne lametino è alla guida del gruppo “Meglio Questo” di cui è fondatore e Ceo. Un piccolo impero nella gestione dei clienti con una buona crescita di fatturato negli anni che ha consentito all’imprenditore “emigrato” da Milano, di scalare i vertici del mondo economico calabrese. E se il mondo degli affari sembra sorridere all’imprenditore che potrebbe salvare la Reggina, la vera fissazione di Saladini sembra essere proprio lo sport. All’inizio fu il basket, con l’impegno preso alla guida della Planet Catanzaro traghettata fino alla B2.

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    L’imprenditore lametino, Felice Saladino

    Poi venne il calcio. Le cronache raccontano dell’interesse – siamo nell’agosto del 2020 – che Saladini avrebbe avanzato nei confronti dell’Arezzo, nobile decaduta di un calcio ormai sparito. Di quella trattativa restano però solo i rumors dei giornali. Discorso diverso invece il caso del Fc Lamezia, compagine creata proprio su input di Saladini che ha fuso le varie società cittadine e che nell’ultimo campionato di serie D si è piazzata al quarto posto. Ma il percorso è stato tutt’altro che semplice visto che gli ultras delle squadre interessate si sono messi di traverso all’intera operazione ingrassando i social di insulti e invettive e arrivando ad aggredire fisicamente il presidente della nuova società: proprio la sera della presentazione della squadra infatti, un gruppuscolo di esagitati raggiunse Saladini in un ristorante del centro e oltre alle parole quella volta, volò anche qualche schiaffone.

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    I tifosi della Reggina
  • Giustizia: tutti i referendum, quesito per quesito

    Giustizia: tutti i referendum, quesito per quesito

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Per i radicali, in prima fila da sempre, i referendum sulla giustizia non sono proprio una novità.
    Tuttavia, ora c’è un elemento politico inedito: la convergenza della Lega, che ha sostenuto la raccolta delle firme per i quesiti,
    Ancora: rispetto agli anni ’80 l’opinione pubblica è mutata profondamente.
    Non c’è più l’effetto choc della vicenda di Enzo Tortora.

    Enzo Tortora, l’uomo simbolo dei referendum sulla giustizia

    In compenso, le recenti controversie sull’Ordine giudiziario hanno avuto una fortissima esposizione mediatica. Testimoniata, tra l’altro, dal successo dei libri dell’ex capo dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara e da Alessandro Sallusti, direttore di Libero.
    I cittadini dovranno votare i cinque quesiti sulla giustizia approvati dalla Corte Costituzionale lo scorso 22 febbraio.
    Cosa accadrà se vinceranno i sì?

    Referendum Giustizia vs riforma Cartabia

    Prima di procedere, occorre chiarire un passaggio: in caso di vittoria dei sì, il sistema della giustizia subirà comunque delle modifiche incisive.
    Tuttavia, il Parlamento e il governo sono già all’opera su un progetto di riforma complessiva della giustizia (la riforma Cartabia).
    Come si rapporta questo progetto coi quesiti referendari?

    La ministra della Giustizia Marta Cartabia, impegnata nella riforma della Giustizia

    In alcuni casi, la riforma ignora i problemi posti dai quesiti. In altri, li affronta ma con minore durezza e solo in uno replica la richiesta dei referendari.
    Vediamo come.

    Primo quesito: incandidabilità (scheda rossa)

    La scheda rossa affronta in maniera diretta i rapporti tra magistratura, politica e pubbliche amministrazioni.
    Il quesito mira all’abolizione delle norme che vietano di candidarsi o, se eletti, di restare in carica (o comunque continuare a ricoprire incarichi pubblici) ai condannati in via definitiva per gravi reati dolosi.
    Inoltre, si propone di abolire la sospensione dagli incarichi pubblici prevista nei confronti dei condannati in primo grado per i medesimi reati.
    Che succede se vince il sì?
    In questo caso, decadenza, incandidabilità e sospensione non avverrebbero più “in automatico”, ma sarebbero decise dal giudice caso per caso.

    Scheda del primo quesito referendario: l’incandidabilità

    I sostenitori del sì citano soprattutto i casi (a dire il vero non pochi) di amministratori locali condannati, quindi sospesi, in primo grado e poi prosciolti nei livelli successivi.
    I sostenitori del no, al contrario ventilano il pericolo che i condannati per gravi reati, soprattutto di mafia, continuino a fare politica.
    Il problema reale, forse, è dato dal “caso per caso”. Ovvero, dalla discrezionalità lasciata nelle mani del giudice.
    Comunque, in caso di vittoria del sì non resterebbe il vuoto perché il codice penale, prevede per vari reati l’interdizione dai pubblici uffici.
    Sull’argomento la riforma Cartabia non prevede niente.

    Secondo quesito: limiti alle misure cautelari (scheda arancione)

    La proposta incide sui rapporti tra magistratura e cittadini indagati.
    A questi le misure cautelari si applicano in tre casi, disciplinati dal Codice di procedura penale: pericolo di fuga, alterazione delle prove e ripetizione del reato.
    Se vince il sì, sarà eliminata l’ipotesi di ripetizione del reato.
    I referendari mirano, con il quesito, a eliminare gli abusi nell’applicazione delle misure cautelari, soprattutto della carcerazione preventiva.
    I sostenitori del no, invece, citano alcuni reati costituiti da comportamenti ripetuti: stalking ed estorsione, per esempio, o alcune forme di truffa.

     

    Scheda del secondo quesito: le misure cautelari

    Il tentativo di riforma, comunque, si legittima su un dato numerico forte: negli ultimi trent’anni circa trentamila cittadini sono stati sottoposti ingiustamente a misure cautelari. E tutt’oggi un terzo dei detenuti è tale perché in attesa di giudizio.
    Anche su quest’argomento la riforma Cartabia tace.

    Terzo quesito: separazione delle carriere (scheda gialla)

    La separazione delle carriere è un altro cavallo di battaglia dei radicali.
    Se vince il sì, i magistrati non potranno più passare dai ruoli inquirenti a quelli giudicanti. Dovranno scegliere all’inizio della carriera se fare i pm o i giudici.
    I sostenitori del quesito sostengono che la carriera bloccata in un ruolo sia una garanzia di imparzialità.
    I sostenitori del no temono, invece, che i pm finiscano sotto il controllo diretto del Ministero della Giustizia.
    Attualmente, un magistrato può cambiare ruolo fino a quattro volte nella propria carriera.
    La riforma Cartabia va nella stessa direzione del quesito ma è leggermente più morbida, perché consente un solo passaggio.

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    Scheda del terzo quesito: separazione delle carriere

    Quarto quesito: chi valuta i magistrati? (scheda grigia)

    La legge, attualmente, prevede che i magistrati siano valutati ogni quattro anni da consigli giudiziari costituiti presso tutte le corti di appello.
    I pareri dei consigli devono essere motivati ma non sono vincolanti.
    I consigli, inoltre, sono costituiti da tre categorie di giuristi: magistrati, avvocati e docenti universitari. Al momento, solo i magistrati possono valutare i loro colleghi.
    Se vince il sì, anche avvocati e accademici potranno valutare i magistrati.
    I difensori del sì considerano il quesito una misura anticasta.

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    Scheda del quarto quesito: valutazione dei magistrati

    I sostenitori del no, al contrario, temono che i membri laici, soprattutto gli avvocati, facciano pesare nelle valutazioni i propri pregiudizi professionali. O, peggio ancora, che i magistrati possano essere influenzati nel loro operato dal fatto di essere valutati da avvocati.
    Anche in questo caso, la riforma Cartabia va nella stessa direzione, ma un po’ meno: estende la valutazione ai soli avvocati.

    Quinto quesito: elezioni del Csm (scheda verde)

    Con questa proposta, i referendari vorrebbero limitare il potere delle correnti.
    La legge, al momento, prevede che i magistrati che vogliono candidarsi al Consiglio superiore della magistratura devono raccogliere almeno venticinque firme dei loro colleghi.
    Se vince il sì, quest’obbligo viene meno.

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    Scheda del quinto quesito: candidature al Csm

    I sostenitori del quesito sono convinti, in tal modo, di eliminare gli accordi politici e i negoziati che accompagnano, di solito, le candidature al Csm.
    I sostenitori del no reputano che il quinto quesito non cambi di molto la situazione o non considerano le correnti quel gran male.
    La riforma Cartabia prevede la stessa cosa.

  • MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta della porta accanto

    MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta della porta accanto

    Ci sono circa 5.000 mafiosi italiani in Australia divisi in 51 clan di cui 14 di ‘ndrangheta. Questa la notizia con cui ci si è svegliati nel nostro emisfero la mattina del 7 giugno. Capita spesso di arrivare ‘tardi’ quando qualcosa accade in Australia; complice il fuso orario al nostro risveglio è già successo molto Down under. I principali canali di comunicazione australiani, dall’ABC (Australian Broadcasting Corporation) al The Guardian, hanno pubblicato nella notte la notizia, già commentata in radio e in tv locali, e twittata e condivisa sui social plurime volte, ripresa da un lancio stampa sul sito dell’Australian Federal Police. Nel leggere il comunicato stampa dell’AFP, prima ancora che le news rielaborate, si comprendono una serie di cose.

    Fbi e telefoni criptati: AN0M

    Primo: non si tratta di un’operazione in corso, ma di una serie di chiarimenti sull’operazione Ironside, altrimenti conosciuta come AN0M. Proprio un anno fa, l’8 giugno 2021, uno sforzo congiunto tra FBI americana e AFP australiana portava a centinaia di arresti, oltre 700 in tutto di cui 340 solo in Australia, in Australia, grazie a un’idea geniale: intercettare una app criptata, AN0M, che funzionava solo su un particolare tipo di telefono che costava oltre 2.000 dollari e non aveva accesso né a mail né a GPS, dunque irrintracciabile.

    Calabresi d’Australia e influencer della ‘ndrangheta

    App e telefoni, ideati appunto dalla FBI – che chiamò l’operazione Trojan Shield – erano stati introdotti nel mercato criminale grazie a degli “influencer”, cioè membri di spicco della criminalità australiana la cui voce e reputazione fosse in qualche modo adeguata per un’operazione di marketing. Tra questi, un certo Domenico Catanzariti, di Adelaide nell’Australia meridionale, che di giorno fa l’orticoltore, e nel tempo libero, dicono gli inquirenti, importa cocaina e altri narcotici dall’Europa grazie a un network di ‘ndrangheta e di altri trafficanti locali, tra cui altri australiani di origini calabresi, come Salvatore Lupoi e Rocco Portolesi ad esempio. Altri nomi, chiaramente di origine calabrese, sono quelli di Francesco Nirta e Francesco Romeo, arrestati nell’Australia meridionale. Gli arresti tra Stati Uniti e Australia e alcune indiscrezioni su questo caso sono quindi roba dell’anno scorso. Li hanno ripescati un anno dopo quasi in commemorazione di questa grossa operazione del 2021.

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    Il porto di Melbourne, dove molta della droga importata dai calabresi continua ad arrivare

    Il contributo dell’Italia

    Secondo: l’AFP chiarisce che molta dell’intelligence che si è riusciti a ricavare dall’intercettazione della piattaforma AN0M, è stata studiata in questi mesi grazie all’aiuto delle autorità italiane, di Europol e di Interpol, in particolare il programma I-CAN (Interpol Coordination Against the ‘Ndrangheta), in cui l’Australia è uno degli 11 paesi coinvolti. Per questo oggi, e non un anno fa, si riescono a dire una serie di cose a riguardo della presenza mafiosa nel paese, tipo il fatto che alcuni ‘ndranghetisti prendano ‘ordini’ dalla Calabria, o mantengano vivi i rapporti con la madrepatria, oppure che operino insieme ad altri gruppi locali su cui a volte esercitano un notevole potere.

    Come bande di motociclisti

    Terzo: c’è un problema di numeri. L’AFP dice che «ci sono 51 clan di criminalità organizzata italiana in Australia. Abbiamo identificato e confermato 14 clan di ‘ndrangheta in Australia, che contano migliaia di affiliati». E ancora «La nostra intelligence suggerisce che il numero di affiliati potrebbe essere simile a quello delle bande di motociclisti» che, per chi non lo sapesse, sono da anni il nemico numero uno delle forze di polizia nella criminalità organizzata australiana. Si è dunque calcolato, arbitrariamente e senza né conferma né smentita dalle forze dell’ordine, che si tratti di circa 5.000 affiliati, visto che appunto questi sono i numeri correnti anche per i motociclisti.

    Bikers di una gang australiana

    E gli altri 36 clan?

    Chi siano poi i 36 clan, di 51 menzionati, che non siano legati alla ‘ndrangheta non è dato ancora sapere. Probabilmente si tratta di altri gruppi criminali, a prevalenza italiana, legati a opportunità nel mondo del traffico di stupefacenti e/o ad altri gruppi minori. Ma il comunicato stampa non parla d’altro che di ‘ndrangheta e si ‘scorda’ di approfondire tutti gli altri ‘criminali italiani’. Visto ciò che si sa sulla criminalità di origine calabrese in Australia verrebbe da pensare che le affiliazioni mafiose siano un po’ più evolute e forse anche un po’ più specifiche del mero attributo etnico ‘italiano’, sebbene sicuramente dai contorni sfumati e di difficile comprensione.

    I 100 anni della ‘ndrangheta in Australia

    Volendo entrare ancora un po’ più a fondo in questa notizia, bisogna sollevare una serie di critiche. Innanzitutto, risulta strano il senso di urgenza e il senso di novità che accompagna questa notizia, non solo nel comunicato dell’AFP quanto in tutto ciò che ne è seguito. Sembrerebbe, a leggere le notizie, che si sia appena scoperta o confermata la presenza della mafia in Australia.
    Questo farebbe quasi ridere: l’Australia è l’unico paese al mondo dove la ‘ndrangheta – e solo la ‘ndrangheta in maniera strutturata – è presente da 100 anni. Anzi, si festeggerà il centenario a dicembre 2022, in ricordo della nave Re D’Italia che ha approdato a Fremantle, Adelaide e Melbourne nel dicembre 1922 portando i tre fondatori della onorata società dalla Calabria all’Australia.

    Adelaide, il pavimento del Museo dell’immigrazione

    Tanta confusione, anche per colpa nostra

    Questo aspetto leggendario della nascita della ‘ndrangheta australiana ne dimostra la forte valenza identitaria. Dal 1922, ciclicamente, l’Australia passa da momenti di panico mediatico a momenti di totale blackout nel capire, ricercare, perseguire la ‘nostra’ mafia. A volte a indurre la confusione sono state le autorità italiane: la commissione parlamentare antimafia negli anni ’70, interpellata dalle autorità australiane su alcuni eventi di sangue nelle comunità calabresi d’Australia, risponderà che non si tratta di mafia (la mafia è siciliana!) e che il mafioso non potrebbe comunque vivere così lontano dal Sud Italia. A volte, è stato per mancanza di fondi che si è smesso di analizzare il fenomeno: la famosa operazione Cerberus proprio sulla criminalità organizzata calabrese e italiana, guidata negli anni 90 dalla National Crime Authority, si chiuse al voltar del secolo per assenza di interesse e risorse.

    La culla della ‘ndrangheta in Australia

    Insomma, tutto si può dire tranne che la ‘ndrangheta sia un fenomeno urgente e nuovo oggi in Australia, quando nella storia del paese ci sono addirittura omicidi eccellenti legati a questi clan (se ne parlerà nelle prossime puntate della rubrica sicuramente). Inoltre, è in Australia – e non in Italia – che si sono per la prima volta definiti i caratteri organizzativi dell’Onorata Società – in contrapposizione con la mafia siciliana Cosa Nostra – principalmente all’epoca a Melbourne oltre che in una città del Nuovo Galles del Sud, Griffith – considerata la ‘culla’ della ‘ndrangheta platiota in Australia – in documenti di polizia del 1958 e poi nel 1964.

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    L’Italian museum di Griffith. La città del New South Wales è considerata la patria della ’ndrangheta in Australia

    Un pericolo tutto calabrese

    Un ulteriore riflessione meritano poi proprio i numeri che arrivano da operazione Ironside. L’AFP negli anni, principalmente dal 2006-2007 quando ha ripreso a occuparsi a tempo pieno di questo fenomeno, ha sempre ammesso che il ‘pericolo’ in Australia è sempre stato solo associato alla ‘ndrangheta. E che gli altri gruppi criminali a cui collaborano persone di discendenza o origine italiana non sono qualificabili come ‘mafie’ né sono cosi rilevanti come la ‘ndrangheta australiana.
    Inoltre, l’AFP lavora per mappe familiari quando si tratta di ‘ndrangheta – family trees – più o meno corrispondente alla ‘ndrina, basata sul cognome e sulle alleanze familiari.

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    La prima pagina del report del 1958 sulla Onorata Società a Melbourne

    L’Australia e la ‘ndrangheta della porta accanto

    In base alla ricerca condotta negli anni sulla ‘ndrangheta in Australia, alla sottoscritta risulta difficile pensare che ci siano “solo” 14 ‘ndrine soprattutto se ci si continua a chiedere chi siano i rimanenti 36 clan dei 51 annunciati. Si potrebbe invece ipotizzare una confusione tra ‘ndrina e locale, non inusuale all’estero, laddove 14 locali e/o 51 ‘ndrine potrebbero effettivamente corrispondere a più realtà. Il che potrebbe ridimensionare anche i numeri totali, nonostante l’affermazione del commissario AFP Nigel Ryan, riportata dal Guardian, secondo cui «è interamente possibile che qualcuno viva vicino a un membro della ‘ndrangheta senza saperlo».

    Il metodo Falcone

    Ma per saperne di più ovviamente si aspettano ulteriori dati. Fatto sta che non risulta contestato che la ‘ndrangheta australiana abbia sue connotazioni precise, storicamente rilevanti e totalizzanti nel panorama criminale ‘italiano’ del paese, dove i clan – soprattutto di origine aspromontana e ionica – offrono continuità e protezione criminale. Si tratta comunque di una notizia che fa ben sperare per il futuro degli sforzi antimafia in Australia. Infatti, come ricorda l’AFP, si è scelto di proseguire tali sforzi partendo dal metodo Falcone, quindi da un focus sul riciclaggio di denaro e il movimento di fondi illeciti nell’economia.

    Il problema non sta certo nella volontà o nella capacità delle autorità australiane nell’agire in questo senso, ma più che altro sta nella difficoltà tecnica di coordinare operazioni di polizia e processi trans-giurisdizionali all’interno di quello che è effettivamente uno stato-continente. Inoltre, il rinnovato interesse all’argomento porterà sicuramente dei finanziamenti e ricalibrerà le priorità delle forze di polizia nel paese che è conditio sine qua non per l’analisi corretta del fenomeno.

    Troppe sfaccettature per un solo metodo di contrasto

    Rimane però da chiedersi se sarà questo finalmente il momento di svolta della lotta antimafia in Australia, e cioè quel momento in cui le autorità down under finalmente inizieranno a perseguire il fenomeno ‘ndrangheta sulla stregua di quello che la ricerca criminologica degli ultimi anni riesce a intuire: un fenomeno multi-sfaccettato contro cui non funziona un solo metodo di contrasto e con diverse manifestazioni da Perth a Sydney, passando per Brisbane, Adelaide, Melbourne, Canberra e l’hinterland.

    Il cimitero di Melbourne, a Carlton, storica e attuale Little Italy e ultima residenza di molti calabresi, ‘ndranghetisti e non

    Particolarmente avvezza alla prossimità politica, con influenza e interesse anche ad alti livelli nazionali, capace ancora di vittimizzare alcune frange della comunità calabrese, meridionale e italiana, e inserita in modo totalmente integrato nella storia economica e sociale del paese, la ‘ndrangheta in Australia, a chi scrive, è sempre sembrata una delle formule più riuscite della mobilità mafiosa.

  • In Calabria arrivano i taser, ma è una buona notizia o no?

    In Calabria arrivano i taser, ma è una buona notizia o no?

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    Nella fondina di poliziotti, carabinieri e finanzieri calabresi potreste notare qualcosa di diverso. Un’arma in più: delle grosse pistole gialle, che possono sparare due elettrodi collocati su dei piccoli dardi. Al momento dell’impatto, i muscoli del soggetto colpito si contraggono, impedendone i movimenti per qualche secondo.

    Dal 6 giugno, il taser è a disposizione – in un numero limitato – delle forze dell’ordine di Gioia Tauro, Tropea, Cirò Marina, Soverato, Roccella Ionica, Paola e Sellia Marina.
    Non sono i primi agenti ad averlo. Già dal 23 maggio, i taser sono entrati a far parte dell’equipaggiamento dei loro colleghi di Catanzaro, Cosenza e Locri. E dal 31 maggio, il governo ha autorizzato la sua distribuzione alle forze di polizia di Crotone, Corigliano-Rossano, Vibo Valentia, Lamezia Terme, Melito di Porto Salvo e Rende.

    Queste pistole vengono viste soprattutto come un buon deterrente verso i violenti: secondo i sostenitori e le aziende che le producono, contribuiscono ad aumentare la sicurezza degli agenti e dei civili.
    Tra entusiasmi e sbrodolamenti, quello che manca è un dibattito serio ed informato sulla questione. I taser sono armi non letali, ma non sono esenti da rischi per l’incolumità delle persone che subiscono la scossa.

    Le prove balistiche finite male

    Le pistole ad impulsi elettrici sono comunemente note come taser a causa del principale player sul mercato.
    La Taser International è stata l’azienda più nota per la produzione di queste armi. Esiste ancora, ma ha cambiato nome in Axon nel 2017. Ed è proprio lei a fornire l’arma agli agenti italiani.
    La sperimentazione del taser a livello nazionale ha avuto una storia complicata. Se n’è parlato per la prima volta nel 2014, con Angelino Alfano come ministro dell’Interno e Matteo Renzi Presidente del Consiglio. Con la conversione in legge del decreto Stadi, venne autorizzata la prima sperimentazione.

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    L’allora ministro Salvini al centro nazionale di specializzazione e perfezionamento al tiro VIII Reparto Mobile

    Ma è nel 2018, con Salvini al Viminale, che l’iter è partito per davvero. L’acquisto dei taser era stato inserito persino nel contratto di governo tra Lega e Movimento 5 Stelle, per la formazione del Conte I. A luglio di quell’anno, 30 taser sono stati distribuiti alle forze dell’ordine di 11 città, per iniziare la sperimentazione.

    https://www.facebook.com/salviniofficial/videos/348241469201928

    Il 21 luglio 2020 arriva il primo stop. Le prove balistiche non sono andate bene. I dardi non avrebbero avuto la giusta precisione, e tendevano a staccarsi dal cavo elettrico. Problematiche che mettevano a repentaglio l’incolumità dei civili e degli agenti.
    Ai tempi, il dipartimento della polizia di Stato aveva spiegato in una nota che «sono state riscontrate delle criticità relative alla fuoriuscita dei dardi, che hanno dato risultanze non conformi alle previsioni del Capitolato tecnico». Una circolare del ministero ordina il ritiro dei dispositivi già dati agli agenti. Axon aveva protestato molto, ritenendo le sue armi conformi alle specifiche tecniche del bando di gara.

    Il 23 febbraio 2021, l’ex Taser International viene esclusa da un nuovo bando. Oltre ai già noti problemi tecnici, emersero nuove criticità, secondo quanto riportato da L’Espresso: dalle fondine sbagliate, alla mancanza di istruzioni in italiano.
    Il giorno dopo è il Viminale a sbloccare la situazione. Invece di istituire un nuovo bando, si sceglie una procedura negoziata: sarà l’offerta economica più vantaggiosa ad essere decisiva. Partecipano le tre aziende che hanno partecipato ai bandi precedenti, ma è di nuovo Axon ad avere la meglio.

     

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    Una schermata del sito della Axon

    Il taser è uno strumento sicuro?

    Il mese dopo arriva l’acquisto di 4.482 pistole TX2 della Axon per la sperimentazione in 14 città metropolitane. Tra queste c’è Reggio Calabria, il primo centro calabrese in cui Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza hanno i taser in dotazione.
    A parte il Silp, che ha denunciato la troppa fretta nell’implementare i taser, la maggior parte dei sindacati di polizia hanno espresso la loro soddisfazione.

    In Calabria, Gianfranco Morabito, segretario provinciale del Sindacato Italiano Unitario Lavoratori Polizia (Siulp) a Catanzaro, ha accolto favorevolmente la cosa: «L’utilizzo e la distribuzione di tale dispositivo eviterà il rischio del contatto diretto con l’antagonista fuori controllo, inibendone la furia aggressiva e dando il tempo necessario a contenerlo». Sulla stessa falsariga la reazione di Sergio Riga, segretario provinciale del Sap di Catanzaro.

    La destra canta vittoria

    Sia a livello locale che nazionale, è stata soprattutto la destra a cantare vittoria. Domenico Furgiuele, deputato calabrese della Lega, lo ha definito «uno strumento di non violenza che ha dato ottimi risultati».
    Come ha spiegato il sottosegretario Molteni, «l’utilizzo operativo del taser è stato avviato lo scorso 14 marzo e sta seguendo un cronoprogramma serrato», compreso della formazione degli agenti.

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    Molteni e Salvini

    L’intenzione è quella di estendere la dotazione a tutti i reparti delle forze dell’ordine «uno strumento indispensabile per tutelare l’incolumità e la sicurezza degli operatori delle forze di polizia, un’arma di difesa e non di offesa, di sicurezza e non di violenza, un deterrente straordinario per i nostri agenti di polizia».
    Quello che non emerge spesso nel dibattito è quanto il taser sia rischioso per chi lo subisce. Nonostante i proclami sulla sicurezza, “non letale” non significa priva di rischi.

    Eccessi di violenza

    Nel 2007, una commissione dell’ONU li aveva equiparati a strumenti di tortura, che violano la Convenzione contro la Tortura delle Nazioni Unite. Un modello diverso da quello attualmente in dotazione in Italia.
    Negli anni, sono molte le voci che si sono alzate contro queste armi, dalle associazioni, ai centri di ricerca, fino alle redazioni di alcuni giornali, che con il loro lavoro hanno documentato i dubbi, gli incidenti, le morti sospette.

    Uno degli aspetti messo più in risalto dagli attivisti è che la pistola ad impulsi elettrici renderebbe le forze dell’ordine più propense ad utilizzarla quando non ce ne sarebbe il bisogno. «Proprio per la sua minore letalità può essere usata con eccesso di disinvoltura», spiegava ad Huffpost Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty International.

    Quella disinvoltura che ha spinto Alex Galizzi, consigliere leghista della Regione Lombardia, a provarlo su sé stesso.
    Nel video, Galizzi dice convinto: «Non è un’arma». Ma non è vero. Per la legislazione italiana, infatti, è un’arma propria, soggetta alla regolamentazione sulle armi. Questo vuol dire che solo chi ha un porto d’armi può acquistarla, e non può essere portata in giro per strada.

    Tutto quello che non sappiamo sui taser

    È difficile dire che si è fatto tutto con la massima sicurezza possibile, come fa il sottosegretario Molteni, quando non esistono nemmeno studi scientifici e clinici sui pericoli delle scosse elettriche dei taser sulle persone.
    Come ha evidenziato uno studio portato avanti dal Dipartimento di Igiene e Sanità Pubblica dell’Università della Sapienza, a Roma, è stata la stessa Axon a commissionare più della metà delle ricerche. Un enorme problema di conflitto di interesse.

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    La Sapienza di Roma

    Sappiamo però che ci sono dei rischi. Le scariche del taser possono causare aritmia cardiaca a delle persone sane.
    Anche in questo caso, però, sono i soggetti più fragili ad avere la peggio, e ad essere più esposti a rischio di arresto cardiaco e di una possibile morte improvvisa.
    In particolare, a rischiare di più sarebbero i cardiopatici, le persone che fanno uso di droghe, o chi si sottopone a sforzi fisici prolungati (ad esempio, come chi scappa da un inseguimento della polizia). Inoltre, i pacemaker rischiano di subire delle interferenze.

    Arma letale

    Infine, la mortalità. Nel 2019, un’inchiesta di Reuters aveva svelato un dato allarmante: 1081 americani sarebbero morti tra il 1983 al 2018 a causa delle scariche dei taser della polizia. La maggior parte sono morti nei primi anni 2000. A subire le conseguenze sono state soprattutto le comunità afroamericane.

    Uno studio del Criminal Justice Service della Standford University era arrivato alla conclusione che la maggior parte della popolazione non poteva essere soggetta alle scariche del Taser. L’arma può essere usata in sicurezza solo «su individui in salute che non sono sotto l’effetto di droga e alcol, non sono in stato di gravidanza e non soffrono di disturbi mentali, a patto che il soggetto riceva una scossa standard della durata di cinque secondi su una delle aree del corpo approvate».
    Condizioni che un agente non può di certo garantire in situazioni di emergenza.