I carabinieri hanno trovato a Mandatoriccio il corpo senza vita di Domenica Caligiuri sul letto matrimoniale della casa in cui la vittima viveva col marito. La donna, 71enne, è stata uccisa a coltellate. Il cadavere sarebbe rimasto lì per due giorni senza che il marito dell’insegnante facesse trapelare all’esterno quanto era accaduto. Domenica Caligiuri, insegnante in pensione, secondo i primi accertamenti sarebbe morta giovedì scorso. Da quel giorno suo marito avrebbe continuato a fare finta di nulla, senza avvertire nessuno e comportandosi come se nulla fosse.
Il marito di Domenica Caligiuri interrogato a Mandatoriccio nega tutto
Tra moglie e marito, stando alle prime ricostruzioni, i litigi sarebbero stati frequenti. I due coniugi avevano altrettanti figli, che non erano però in casa nel momento dell’omicidio. Il marito di Domenica Caligiuri, rintracciato dall’Arma e tuttora sotto interrogatorio nella caserma del paese, starebbe negando di essere il responsabile dell’omicidio. I sospetti sul suo conto restano però tanti. A dare l’allarme che ha fatto scattare le indagini che hanno portato al ritrovamento del cadavere di Domenica Caligiuri sono stati i parenti della donna, preoccupati per il fatto che da un po’ di tempo non avevano notizie di lei.
Fuga dalla Procura di Reggio Calabria. Negli anni, l’ufficio requirente della città dello Stretto è stato l’avanguardia della lotta alla ‘ndrangheta. Gli anni iniziati, nel 2008, con l’avvento in città del “corso palermitano” targato Giuseppe Pignatone, ma anche Michele Prestipino e Ottavio Sferlazza, hanno segnato una svolta nella lotta al crimine organizzato.
Procura di Reggio Calabria: arrivano i palermitani
Giuseppe Pignatone, ex capo della Procura di Reggio Calabria
All’avvento dei palermitani, infatti, la lotta alla ‘ndrangheta nella provincia di Reggio Calabria era quasi all’anno zero, ferma agli anni del maxiprocesso “Olimpia”. In circa quattro anni di gestione, quel modello portò all’arresto di quasi tutti i boss di Reggio e provincia, che erano latitanti da decenni. Da Pasquale Condello, “il Supremo”, a Peppe De Stefano, l’elemento più carismatico del casato del rione Archi, fino a Giovanni Tegano, “l’uomo di pace”. E poi, ancora, le inchieste “Fehida”, che ricostruì la strage di Duisburg e la faida di San Luca. O ancora, spostandosi sulla Piana di Gioia Tauro, le operazioni “Cent’anni di storia” e “Maestro”, contro le cosche Piromalli e Molè. Oppure quelle “All inside” e “Vento del Nord”, sui clan Pesce e Bellocco. Un (iper)attivismo giudiziario culminato con l’operazione “Crimine”, scattata il 13 luglio 2010, che porterà alla fondamentale pronuncia dell’unitarietà della ‘ndrangheta.
Con Gratteri l’attenzione si sposta su Catanzaro
Una Procura d’avanguardia nella lotta alla ‘ndrangheta, insomma. A proseguire l’opera anche il successore di Pignatone, quel Federico Cafiero de Raho che, con metodi diversi, con una strategia comunicativa più “smart” ha portato l’ufficio del sesto piano del Cedir a fuoriuscire dalla dimensione provinciale ed essere ambito anche per la possibilità di far carriera. Gli stessi capi, Pignatone e De Raho, avevano, infatti, un curriculum importante nella lotta ad altre organizzazioni criminali, come Cosa nostra e camorra.
Nicola Gratteri durante il maxi processo Rinascita-Scott
Se, quindi, per circa un decennio, è stata la Procura di Reggio Calabria a dettare la linea del contrasto repressivo alla ‘ndrangheta, l’avvento di Nicola Gratteri a capo della Procura di Catanzaro ha spostato nel capoluogo di regione l’attenzione (anche mediatica) sul fenomeno ‘ndranghetista. Tutto ciò corrisponde anche a uno svuotamento che la Procura reggina sta subendo. Non tanto e non solo in termini numerici, quanto in termini qualitativi.
Il “decennio d’oro” della Procura di Reggio Calabria
Se, infatti, dal 2008 al 2018, la Procura di Reggio Calabria è stata un ufficio di frontiera, dove poter misurare le proprie doti di investigatore con quella che, unanimemente, è riconosciuta come l’organizzazione mafiosa più ricca e potente, negli anni successivi si è ritornati a quella dimensione ristretta che, nella scelta della collocazione, attira, quasi esclusivamente, magistrati locali oppure di prima nomina. Negli anni, infatti, diversi sono stati i magistrati che, conoscendo e fiutando la verve di Gratteri, hanno scelto di spostarsi nel capoluogo. Qualche esempio? Antonio De Bernardo, che alla Dda di Reggio Calabria ha colpito duramente le cosche della Locride. Oppure Annamaria Frustaci, che oggi è alla Dda di Catanzaro. O, ancora, Giulia Pantano, per anni pm antimafia con competenza sulla Piana di Gioia Tauro e oggi procuratore aggiunto di Reggio Calabria.
Vecchi e nuovi addii
Ma negli anni la Procura di Reggio Calabria ha perso magistrati che sono andati a occupare incarichi di primissimo livello. Da Giovanni Musarò, cui si deve il merito, da pm a Roma, di aver riaperto il caso Cucchi. A Matteo Centini, il pm che, andando via da Reggio, ha scoperto la caserma degli orrori a Piacenza. E, ancor prima, Beatrice Ronchi, che in riva allo Stretto aveva indagato sui rapporti tra ‘ndrangheta e magistratura e che da pm antimafia di Bologna lega il proprio nome all’inchiesta “Aemilia”, la più importante sulle cosche in Emilia Romagna. Ha deciso di allontanarsi dal sesto piano del Cedir anche Roberto Di Palma, uno dei massimi esperti di ‘ndrangheta, oggi procuratore per i minorenni.
Il Cedir a Reggio Calabria
Nei prossimi mesi si libereranno altri due posti in Dda: andranno via Francesco Ponzetta (pm con competenza sulla Piana di Gioia Tauro) e Antonella Crisafulli (che invece si occupa delle cosche della Locride). A fronte di perdite del genere, l’ufficio si è rimpolpato di un numero congruo di giovani magistrati, spesso di prima nomina. Fin qui, però, non sono riusciti a portare i risultati che un territorio come quello reggino necessiterebbe.
La Procura di Reggio Calabria decapitata
Tutto questo in un momento in cui anche l’immagine pubblica dell’Ufficio è stata scalfita dalla decisione del Consiglio di Stato che ha annullato (dopo quattro anni) la nomina di Giovanni Bombardieri a capo della Procura, definendola “illogica” nelle motivazioni. E sono tuttora vacanti due posti di procuratore aggiunto su tre. L’ultimo in ordine di tempo, il procuratore aggiunto Gaetano Paci che, dopo otto anni, ha ottenuto la nomina come procuratore di Reggio Emilia. È invece vacante da oltre otto mesi l’altro posto di procuratore aggiunto, quello lasciato libero da Gerardo Dominijanni, che si è insediato in Procura Generale il 15 ottobre 2021.
Il 30 giugno 2022, ad Adelaide, capitale dell’Australia Meridionale, un uomo è stato condannato per l’omicidio di un detective, Geoffrey Bowen, e il tentato omicidio di un avvocato, Peter Wallis, dopo 28 anni. Quest’uomo è Domenic(o) Perre, originario di Platì, in Aspromonte.
Emigrato da Platì in Australia
Emigrato con la sua famiglia in Australia nel 1962, come tanti altri dalle sue parti in cerca di fortuna, Perre è protagonista di uno degli eventi più chiacchierati della cronaca australiana: il cosiddettoNCA bombing. L’NCA era la National Crime Authority (istituzione non più esistente oggi, ma assimilabile all’attuale Australian Criminal Intelligence Commission) i cui uffici nel centro di Adelaide saltarono in aria il 2 marzo del 1994, a causa di un pacco bomba che era indirizzato a Geoffrey Bowen.
L’ufficio dell’Nca dopo l’esplosione del 1994 che costò la vita al detective Bowen
La bomba uccise il detective e ferì severamente l’avvocato Peter Wallis, con lui in quel momento, che perse un occhio nell’esplosione. La morte di Geoffrey Bowen è stata per 28 anni uno dei principali cold cases – casi irrisolti – in Australia, nonostante le indagini, sin da subito, si fossero concentrate su quest’uomo, Domenic Perre, che non solo aveva un chiaro motivo per uccidere Bowen, ma, a quanto pare, anche i mezzi per farlo.
Il 2 marzo 1994, poco dopo le 7 del mattino, un dipendente dell’NCA si apprestava a distribuire la posta del giorno.
“Potrebbe essere una bomba”
Un cartellino rosso nella cassetta della posta indicava che c’era un pacco in attesa di essere ritirato dallo sportello. Era un pacco Express rosso, bianco e giallo, indirizzato a ” Geoffrey Bowen, NCA”. Il mittente sembrava essere “IBM Promotions”.
Geoffrey Bowen arrivò nel suo ufficio al 12° piano alle 9 del mattino, chiamò l’ufficio postale e chiese se fosse arrivato qualcosa per lui. Stava aspettando alcuni reperti che gli sarebbero tornati utili per un processo a cui doveva presenziare il giorno dopo, contro un uomo di nome Perre.
Gli fu detto che era arrivato un pacco, qualcosa a che fare coi computer. E Bowen, confermando che non aspettava niente da IBM, scherzò, tragicamente: “Potrebbe essere una bomba!” Poiché si trattava di posta non attesa, il pacco fu scansionato, ma la scansione non mostrò alcuna anomalia. Alle 9.15 Bowen aprì il pacco.
Geoffrey Bowen, il detective ucciso dal pacco bomba
«Si sentì un forte crack, come un colpo di fucile o qualcosa di simile, e ricordo che Geoff emise un grido strozzato, un urlo, e cadde di lato. E poi – deve essere stato quasi istantaneo – c’è stato un enorme soffio di vento e un suono acuto che posso solo descrivere come elettricità statica molto forte. Ecco com’era. Sono stato immediatamente accecato. Quella è stata l’ultima cosa che ho visto».
Queste furono le parole di Peter Wallis, l’avvocato che lavorava con Bowen, e che appunto rimase gravemente ferito nell’esplosione. Wallis è morto qualche anno fa. Geoffrey Bowen rimase ucciso quasi sul colpo, all’età di 36 anni.
I soccorsi all’avvocato Peter Wallis dopo l’esplosione del pacco bomba
L’arresto di Domenic Perre
Nove giorni dopo l’esplosione, Domenic Perre fu arrestato e accusato dell’attentato. Perre era già noto alle autorità australiane perché era stato coinvolto fin dagli anni 80 nel traffico di cannabis. In particolare, nel settembre 1993, la polizia del Territorio del Nord aveva scoperto una piantagione di cannabis, composta da 10.000 piantine, in una località remota della Hidden Valley, che aveva un valore complessivo di oltre 40 milioni di dollari australiani. Francesco Perre, fratello di Domenico, fu arrestato insieme ad altre 12 persone, tra cui altri calabresi per lo più della zona Aspromontana.
Francesco Perre
Tra loro c’era Antonio Perre, zio di Domenic e Francesco, che all’epoca si trovava in Australia con un visto turistico. Antonio Perre era entrato in Australia dopo aver dichiarato falsamente di non avere precedenti penali: in realtà, era stato condannato per omicidio in Calabria e aveva trascorso 12 anni in carcere. Per l’operazione dell’Hidden Valley, Antonio Perre fu condannato a 18 mesi di reclusione ed estradato in Italia nel 1994. In seguito alla retata, si capì subito che le persone arrestate erano solo una parte dell’organizzazione criminale. Le indagini confermarono che Domenic Perre e altri erano i reali finanziatori dell’operazione.
La ‘ndrangheta? In Australia la chiamano Onorata Società
Comparve quasi subito l’ombra dell’Onorata Società, la ‘ndrangheta come viene ancora chiamata in Australia. Emersero collegamenti, incluse parentele molto scomode, tra la famiglia Perre ad Adelaide e le famiglie di ‘ndrangheta a Griffith, nel nuovo Galles del Sud, tra cui i Barbaro e i Sergi, che nei primi anni ’90 erano già notoriamente conosciuti come la Griffith Mafia, e abbondantemente collegati al commercio di cannabis e ad altre attività tipicamente mafiose, dall’estorsione all’omicidio alla corruzione politica nonché a un altro omicidio eccellente, quello dell’attivista-politico Donald Mackay nel 1977, tutt’ora caso irrisolto nonostante una commissione d’inchiesta abbia indicato le famiglie dell’Onorata Società di origine platiota quali responsabili dell’omicidio.
Il boss Pasquale Barbaro, ucciso a Sidney nel 2016
Geoffrey Bowen aveva guidato le indagini dell’Hidden Valley, e avrebbe dovuto testimoniare a processo contro i Perre e gli altri coinvolti, uno o due giorni dopo la sua morte. Le sanzioni per questo caso arrivarono nel 1997/1998 e segnarono l’inizio di una serie di condanne, per droga ma non solo, in capo a membri della famiglia Perre. Ma l’attentato all’NCA del 1994 rimase sullo sfondo, perché le indagini procedettero in modo schizofrenico.
All’inizio del settembre 1994, il direttore della pubblica accusa emise un nolle prosequi in relazione a entrambi i capi d’accusa contro Perre: non c’erano prove sufficienti. Ma l’ufficio del coroner, medico legale, dello stato dell’Australia Meridionale aprì una nuova inchiesta nel 1999. Gran parte dell’inchiesta ruotava intorno al comportamento di Domenic Perre prima e dopo l’attentato; si documentò la sua avversione nei confronti di Bowen che era diventata quasi un’ossessione. Si scoprirono molte delle menzogne che all’epoca furono raccontate alla polizia per confondere le indagini.
Victoria Square, Adelaide
Passarono quasi vent’anni da quell’inchiesta del coroner, ma quando la polizia dell’Australia Meridionale decise di riprendere in mano il caso, nel 2018, grazie a nuove prove finalmente disponibili, sostanzialmente decise di ripartire da li. Proprio dal comportamento di Perre e della sua famiglia, dal suo movente e dalla sua capacità di costruire un pacco bomba e porre in atto l’attentato. Il tutto ovviamente supportato da nuove prove forensi sull’esplosivo e sul DNA.
In attesa di leggere le motivazioni della sentenza, è necessario però riprendere quella scomoda domanda sui collegamenti alla ‘ndrangheta che erano apparsi già nel 1994, e mai sono stati effettivamente né chiariti né negati.
Nel 2018 l’accusa mi chiese di redigere una relazione – e poi presentarla alla corte – in qualità di esperta di cultura e mafia calabrese, da portare tra le prove a processo contro Perre. Le domande che mi vennero fatte erano su questi toni: «Esiste un modo per collegare la cultura calabrese e la (sotto)cultura mafiosa? Cosa hanno in comune, come si differenziano? Si può sostenere che il comportamento di qualcuno è in realtà legato a entrambe queste culture?».
L’equazione sbagliata tra Calabria e ‘ndrangheta
La tesi dell’accusa si basava sul presupposto che a prescindere dal fatto che l’imputato si identifichi o meno come membro della ‘ndrangheta, lui e la sua famiglia erano cresciuti e hanno vissuto in quella (sotto) cultura sia a Platì, sia in Australia. Si legge nell’atto di accusa: «Alcuni atteggiamenti culturali hanno un’influenza sulla valutazione di una serie di aspetti delle prove di questo caso, tra cui: l’importanza e la sacralità della famiglia; il ruolo delle donne; la sfiducia nell’autorità, in particolare nelle forze dell’ordine; la cultura del silenzio».
Australia: armi, droga e denaro sotto sequestro a seguito dell’operazione Ironside del 2021
Bisogna chiarire: il processo contro Perre dopo 28 anni dall’NCA bombing non è un processo alla ‘ndrangheta in Australia. Eppure, denota un chiarissimo cambiamento di approccio alla criminalità mafiosa da parte delle autorità australiane. Se da una parte è molto promettente, dall’altra rischia di creare ulteriori fraintendimenti sulla presenza dell’Onorata Società nel paese.
È promettente che si ammetta che esiste in Australia un sistema di potere criminale che si alimenta di una condivisa e cristallizzata cultura mafiosa, risultato di una manipolazione di comportamenti, valori e tradizioni calabresi che la comunità migrante ha portato con sé. Riconoscere come avviene la manipolazione della cultura migrante, cosa differenzia un mafioso calabrese, uno ‘ndranghetista, da un calabrese onesto è un passo fondamentale proprio per preservare quella stessa cultura migrante e non fare di tutta l’erba dei calabresi d’Australia un fascio.
La “trappola etnica”
Ma, allo stesso tempo, un focus culturale sulla mafia porta sempre con sé il seme della potenziale discriminazione. Si tratta della ‘trappola etnica’ che porta alcune autorità estere a presumere che certi atteggiamenti e certe forme di criminalità (quella mafiosa in primis) siano legati a una specifica comunità migrante, e che, di conseguenza, ci sia qualcosa di sbagliato nella cultura di uno specifico luogo, in questo caso la Calabria, che rende più probabile per coloro che da lì migrano essere coinvolti in certi tipi di criminalità. Questo è problematico in quanto non vero; i comportamenti mafiosi possono appartenere potenzialmente a tutte le culture, e sopravvivono fintanto che ci sono meccanismi economici e sociali che nulla hanno a che fare né con la cultura d’origine né con la migrazione (si pensi al supporto alla ‘ndrangheta dei colletti bianchi o dei politici o degli industriali, del nord e centro Italia come dell’Australia).
Un panorama di Platì
No, il processo contro Perre non è un processo alla ‘ndrangheta, ma è il primo processo australiano che davvero parla di ‘ndrangheta come sistema di potere a connotazione culturale, oltre il traffico di stupefacenti.
Salvo il diritto d’appello e altri step procedurali, Perre – attualmente in carcere per altra condanna legata a un’importazione di stupefacenti – sconterà forse una lunga pena carceraria. Rimane però da chiedersi, conoscendo la ‘ndrangheta sia calabrese che quella australiana, quanto di concertato ci possa essere stato dietro all’NCA bombing. Se davvero ci sono dei legami della famiglia Perre con il resto della ‘ndrangheta Australiana, viene appunto da chiedersi se qualcun altro sapeva, e approvava, quest’omicidio, o se qualcuno ha aiutato dietro le quinte, anche per far si che per 28 anni non si arrivasse a una condanna.
Rischiava di finire per strada, nel disinteresse del Comune di Reggio Calabria che avrebbe dovuto tutelarla, ma a garantirle ancora un tetto sotto cui dormire ha pensato l’Onu. E così, per la prima volta, in riva allo Stretto un provvedimento delle Nazioni Unite ha fermato l’esecuzione dello sfratto di una signora indigente. La donna non è l’unica ad aver corso questo rischio: sono 218 gli sfratti che il Tribunale cittadino ha deciso durante i due anni di pandemia, tutti in esecuzione nel 2022 dopo il blocco del biennio precedente.
Il Comune e la Prefettura latitanti
Gli enti dell’Osservatorio sul disagio abitativo, dopo aver lanciato l’allarme, avevano sollecitato il Comune e la Prefettura ad assumere delle misure operative per garantire il diritto alla casa alle famiglie sfrattate con reddito basso. ma, scrivono in un comunicato, «nessuna misura è stata adottata». Il Comune, infatti, «non ha neppure avviato le assegnazioni ordinarie per i casi di emergenza in graduatoria da dicembre 2020 e non ha fornito alcuna risposta alle istanze successive». Quanto alla Prefettura, «non ha costituito il tavolo sfratti richiesto dalla Ministra dell’Interno». Tant’è che la domanda di alloggio per sfratto che la signora ha inoltrato lo scorso dicembre attende ancora risposte.
Il Comune di Reggio Calabria
Uno sfratto a Reggio sul tavolo dell’Onu
A trovare una soluzione ha pensato Cesare Ottolini, membro della Segreteria nazionale Unione Inquilini e coordinatore dell’Alleanza Internazionale degli Abitanti. Ottolini ha presentato il 10 giugno scorso un ricorso al Comitato per i Diritti Economici, Sociali e Culturali dell’ONU. L’Italia, infatti, ha ratificato fin dal 2014 il Protocollo Opzionale del Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali. E l’Alto Commissario per i diritti umani dell’Onu ha accettato il ricorso il 22 giugno scorso. Il suo provvedimento chiede allo Stato italiano «di prendere misure urgenti per la sospensione dello sfratto» della donna. O, in alternativa, di offrirle una sistemazione che rispetti le sue esigenze.
Grazie al documento dell’Alto Commissario, l’avvocato della signora, Francesco Nucara, ha presentato ricorso al Tribunale di Reggio Calabria. E quest’ultimo lo ha accolto con provvedimento del 28 giugno 2022. Ad emetterlo, il GOT Anna Marraffa, che ha sospeso l’esecuzione dello sfratto del 29 giugno fissando l’udienza del procedimento per il 19 luglio prossimo.
Onu e Tribunale concordi, che farà ora il Comune di Reggio?
Esultano l’Osservatorio sul disagio abitativo, il CSOA Angelina Cartella e le associazioni “Un Mondo Di Mondi”, “Reggio Non Tace”, “Ancadic” e “Società dei Territorialisti/e Onlus”. «Per la prima volta nella nostra città – commentano in una nota – grazie all’intervento dell’Onu e la positiva risposta del Tribunale è stato affermato il principio di legge che l’esecuzione di uno sfratto è legale e quindi è possibile solo se viene garantito alla persona sfrattata a basso reddito il passaggio da casa a casa, mentre in caso contrario l’esecuzione è illegittima e deve essere fermata». Immancabile la stoccata finale al Comune: «Il Tribunale di Reggio Calabria con questo provvedimento ha dimostrato di rispettare il diritto alla casa sancito dai trattati internazionali mentre il Comune, purtroppo, continua a non farlo. Dopo l’intervento dell’Onu e la risposta del Tribunale, il sindaco f.f. Brunetti deciderà ancora di mettere il Comune fuori dalle norme del diritto internazionale?».
In Brasile è già una celebrità. Il suo caso sta dividendo l’opinione pubblica e gli esperti. E, probabilmente, lo farà ancora per un po’ di tempo. Perché in Brasile, Rocco Morabito, rimarrà ancora. Secondo quanto rivelato dalla stampa locale, lo stato carioca avrebbe bloccato l’estradizione di quello che è considerato uno dei boss della ‘ndrangheta più importanti, nonché uno dei narcotrafficanti più influenti a livello globale.
Rocco Morabito scortato dalla polizia federale brasiliana
Brasile: Morabito salvato dalla carceri italiane
Morabito potrebbe essere (temporaneamente?) salvato dalle carceri italiane per via di alcuni cavilli giurisprudenziali brasiliani. Avrebbe infatti commesso reati per i quali la sua estradizione in Italia potrebbe essere posticipata fino alla conclusione di un eventuale nuovo processo. Un caso piuttosto insolito – emerge da fonti brasiliane de I Calabresi – dato che, assai recentemente, la Corte suprema del Brasile (una sorta di organo a metà tra la Cassazione e la Corte Costituzionale) aveva confermato l’estradizione del boss calabrese.
«El rey de la cocaina en Milàn». Così il giornale El Observador definiva qualche tempo fa Morabito. Al momento della sua cattura era considerato il ricercato più pericoloso dopo Matteo Messina Denaro, la primula rossa di Cosa Nostra, irreperibile da decenni. Condannato in contumacia a 30 anni dalla giustizia italiana, comminata dopo che agenti sotto copertura lo avevano sorpreso a pagare 13 miliardi di lire per un carico di droga di quasi una tonnellata.
Originario di Africo, in provincia di Reggio Calabria, feudo della cosca di Peppe, “u Tiradrittu”, la definizione data dal giornale El Observador non è casuale. Morabito a 25 anni ha lasciato l’Aspromonte per Milano dove era entrato nel giro dei giovani rampanti del centro per curare lo spaccio di cocaina. Stando alla sua storia giudiziaria e criminale, tra il 1988 e il 1994 avrebbe fatto parte di un gruppo del narcotraffico, nel quale organizzava il trasporto della droga in Italia e la distribuzione a Milano.
“Tamunga” – questo il suo soprannome, dalla storpiatura dell’indistruttibile fuoristrada tedesco Dkw Munga. Restano nella “storia” del traffico internazionale di stupefacenti alcuni carichi di droga che Morabito avrebbe trattato. Nel 1993 di 32 kg di cocaina in Italia, operazione fallita a causa della cattura in Francia di un trafficante, e di 592 kg nel 1992 dal Brasile all’Italia, droga confiscata in quest’ultimo Paese. Da ultimo, un’operazione l’anno successivo con 630 kg di cocaina.
Morabito è detenuto in Brasile da circa un anno, quando, cioè, un blitz interforze lo scovò a Joao Pessoa insieme a un altro latitante, Vincenzo Pasquino, ricercato almeno dal 2019. Da quel momento si è iniziato a lavorare per la sua estradizione nel più breve tempo possibile.
Il business con le cosche della Piana
La sua figura emerge con grande chiarezza nell’inchiesta “Magma”, condotta dalla Dda di Reggio Calabria contro le cosche Bellocco e Gallace, attive proprio nel traffico internazionale di stupefacenti con il Sud America. Le investigazioni avrebbero di dimostrato come i Bellocco, uno dei casati storici della ‘ndrangheta della provincia di Reggio Calabria, avessero esportato anche oltreoceano le loro attività criminali, grazie alle relazioni con cosche come i Morabito e i Mollica di Africo.
Così, nell’area platense, tra Buenos Aires e Montevideo, i calabresi dialogavano da pari a pari con i cartelli sudamericani, coordinando l’acquisto e la spedizione di quintali di cocaina verso l’Italia e l’Europa. L’area platense, quella che si trova vicina al Rio della Plata su cui si affacciano quasi dirimpettaie Buenos Aires e Montevideo, capitale dell’Uruguay è diventata da tempo una zona su cui si sono installati vari gruppi di ‘Ndrangheta in contatto con i narcos di Colombia, Bolivia e altri paesi Centroamericani.
L’indagine prese avvio dopo il sequestro di 385 chili di cocaina rinvenuti in mare al largo di Gioia Tauro. Da quell’episodio la Guardia di finanza ha ricostruito la rete dei Bellocco che avevano da tempo ormai loro referenti in Sudamerica. Tra cui proprio Rocco Morabito, “Tamunga”.
Il primo arresto
Già nel 2017, infatti, era stato arrestato in un hotel di Montevideo dopo 23 anni di latitanza. In quell’occasione, “Tamunga” si celava dietro la falsa identità di un imprenditore brasiliano di 49 anni, di nome Francisco Cappeletto. Stratagemma, questo, che gli aveva consentito di ottenere una carta d’identità uruguayana.
Il documento falso ritrovato a Rocco Morabito
La cattura era avvenuta in un hotel di Montevideo, insieme alla moglie, una 54enne angolana con passaporto portoghese. Morabito risiedeva da 13 anni nella vicina località balneare di Punta del Este. Si sospettava che fosse fuggito in Brasile ma le indagini in Uruguay erano scattate dopo che aveva iscritto una figlia a scuola sotto il suo vero nome. A Morabito furono confiscati una pistola, un coltello, due autovetture, 13 cellulari, 12 carte di credito e assegni in dollari.
Specialista in evasioni
La revoca dell’estradizione di Morabito sta facendo discutere il Brasile. Anche perché il narcotrafficante calabrese è esperto in evasioni dalle carceri sudamericane. Nel giugno 2019, la clamorosa evasione mentre anche in quel caso era in attesa dell’estradizione.
Morabito sarebbe riuscito a fuggire insieme ad altri tre detenuti dalla terrazza del carcere ubicato nel pieno centro della capitale. Si sarebbe quindi introdotto in un appartamento confinante situato ai piani alti e, dopo aver derubato una donna, sarebbe scappato in taxi.
Scene da film, latitanze dorate, possibili anche grazie alla sua fitta rete relazionale costruita in Sud America. Fin dai tempi della vita a Milano, infatti, Morabito spicca per la sua capacità di inserirsi molto bene nei salotti più importanti dell’alta società. Anche con lo scopo di penetrare le istituzioni.
Rocco Morabito, supernacotrafficante arrestato dopo oltre 20 anni di latitanza
L’ordinanza è firmata dal segretario nazionale alla Giustizia, Josè Vicente Santini, uno dei fedelissimi di Bolsonaro. Ma la vicenda, anche sotto il profilo legale, non è così chiara. La legge in vigore in Brasile impedirebbe l’estradizione se vi sono procedimenti pendenti o condanne definitive in Brasile. Tale procedura può essere completata solo su richiesta della persona che dovrebbe essere trasferita. Oppure su autorizzazione della giustizia brasiliana.
Insomma, per qualcuno, Morabito potrebbe essere deportato in Italia solo quando il caso si fosse concluso. Ma altri giuristi sostengono che “Tamunga” potrebbe rientrare in Italia prima della conclusione di un eventuale nuovo processo. Ma per adesso il re del narcotraffico non tornerà in Italia, da dove manca (almeno ufficialmente) da oltre 30 anni.
Una domanda banale per iniziare: a che servonoi giornalisti in Italia?
La risposta è scontata: a fare da ufficio stampa ad alcune Procure. O dall’altro lato della barricata, ad altrettanti studi legali.
Poi servono nelle tornate elettorali: c’è sempre qualche inchiesta che azzoppa qualcuno o un virgolettato che fa comodo.
Ma i giornalisti servono, soprattutto, quando costano poco e quando si prestano, in maniera più o meno disinteressata, a far da carne da cannone.
Soprattutto, a livello giudiziario. Quanto tutto questo incida sulla libertà di stampa (e sulla correlata libertà di informazione, specie in Calabria) è facile da capire.
Informazione: Italia tra le ultime, la Calabria è peggio
Lo ha detto più volte l’Ocse: l’Italia è piuttosto giù nelle classifiche internazionali sulla libertà di stampa. E va sempre peggio, perché nel 2022 siamo scesi al 58esimo posto (su un totale di 180), come denuncia l’ultimo World Press Federation Index.
Il rapporto indica soprattutto una causa di questa situazione non brillante per un Paese occidentale: l’autocensura.
La libertà di stampa in Italia secondo l’ultimo rapporto di Reporter Senza Frontiere
Ci si autocensura perché si rischia tanto, a livello legale. Poi ci si autocensura perché si è pagati troppo poco per rischiare. Oppure perché gli editori, oltre che di spendere il meno possibile, si preoccupano di non dar fastidio ai padroni del vapore (sul quale sono a bordo o contano di salire).
In tutto questo, com’è messa la Calabria? Malissimo, va da sé. E la situazione è quasi impossibile da quantificare perché mancano dati precisi.
L’informazione in Calabria e le querele à gogo
Qualche mese fa l’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho aveva ribadito la necessità di tutelare i giornalisti dalle liti temerarie.
Questa dichiarazione finì in un appello firmato da quasi tutte le testate calabresi, inclusa la nostra, e da singoli giornalisti.
L’emergenza c’è. Anche se mancano i numeri per definirla. Qualcosa la si apprende dalla Polizia postale, che in seguito all’esplosione del giornalismo online, è diventata il terminal delle querele.
Queste, in Calabria, si aggirano grosso modo attorno al centinaio l’anno. Tantissimo, se si considera il totale degli iscritti all’albo e lo si proietta sulla popolazione regionale.
Altra domanda: che fine fanno queste querele? Una statistica giudiziaria è impossibile.
Tuttavia, non ci si allontana dalla realtà se si ipotizza che circa il 60% finisce in niente. In pratica, non arriva neppure all’avviso di garanzia.
Di quel che resta, una parte maggioritaria va a dibattimento. Più limitato il numero delle condanne (in pratica, il 15% del totale). Ma questi, ripetiamo, sono dati molto informali, da prendere con le pinze.
L’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho
Quando le querele imbavagliano
Se molte finiscono in niente, perché le querele imbavagliano? Innanzitutto, per i costi legali, che ci sono anche per i prosciolti.
Poi, ovviamente, per motivi di serenità. Peggio ancora con le richieste di risarcimento danni, che obbligano comunque a difendersi e non offrono le garanzie del procedimento penale.
Una rotativa in funzione
Qualche domanda a Cafiero
Il problema è semplice: querelare è facile. Ed è facile non perché le normative che regolano l’editoria e la professione sono in buona parte obsolete.
La facilità con cui si querela è dovuta alla giurisprudenza, che ha aumentato a dismisura le possibilità di far condannare i giornalisti.
E allora: Cafiero sa che si querela molto perché una buona fetta dei suoi colleghi magistrati ha aumentato la “querelabilità” a botte di sentenze? Inoltre, lui o qualche altro big in toga hanno mai pensato di far dibattere al Csm questo problema?
Redazioni a macchia di leopardo
Gli editori (parliamo di editoria periodica) si dividono in tre categorie: quelli che pagano, quasi inesistente, quelli che pagano male, i più, quelli che non pagano affatto.
Concentriamoci sulla seconda. Pagare male, in questo caso, significa pagare il minimo indispensabile. Ovvero, contrattualizzare decentemente solo i pochi redattori che servono per ottenere i finanziamenti pubblici e gli sgravi. Il resto, pazienza: si accontenterà di paghe da fame ottenute attraverso contratti borderline.
D’altronde, quanti part time, verticali od orizzontali, o co.co.pro coprono prestazioni professionali da tempo pieno e indeterminato?
Ciò comporta che più o meno tutte le redazioni siano a macchia di leopardo. Cioè che gli articoli uno condividano pc e scrivanie con part time che fanno il loro stesso lavoro. Gli esempi abbondano: tra questi la vecchia Provincia Cosentina (che chiuse i battenti nel 2008) e Calabria Ora/L’Ora della Calabria, che non esiste più dal 2014.
La vera minaccia alla libertà
La contrattualizzazione a macchia di leopardo non è solo colpa degli editori “taccagni. In buona parte, invece, è dovuta alla fragilità del mercato, che non consente l’editoria “pura”, che resiste, spesso male solo in alcune nicchie (inesistenti in Calabria). Gli editori calabresi sono sempre stati “impuri”, che non significa necessariamente cattivi. Sono imprenditori che hanno il core business altrove e usano i media per curare i propri interessi.
In Calabria nel mondo dell’informazione questo principio vale quasi per tutti, con la palese eccezione de I Calabresi.
Il resto, vuoi per mancanza di business, vuoi per prassi consolidate, segue le regole dell’aziendalistica, deformate sulle abitudini regionali: pagare poco e male, fino a ricorrere al nero.
In fin dei conti, la minaccia per eccellenza alla libertà di stampa è questa: un cronista pagato male e tutelato peggio (quanti sono i giornalisti coperti da assicurazioni professionali?) è un cronista che lavora male.
La bassa qualità dell’informazione in Calabria (e non solo)
Ma la poca libertà di stampa non è solo un affare degli addetti ai lavori. Riguarda anche il pubblico, perché spesso si traduce in informazione di cattiva qualità.
A questo punto, è scontata una domanda: perché una persona preparata e dotata delle qualità che fanno il buon giornalista dovrebbe imbarcarsi in un mestiere duro, a volte rischioso? E in cambio di cosa? Quattro spiccioli e la certezza di guai giudiziari, se va bene, o fisici, se va male?
Il caporalato
Altre testate sono sopravvissute attraverso due pratiche a rischio: la cooperativa di giornalisti (è il caso de Il Garantista) e l’affidamento a uno o più service (il Domani della Calabria e, più di recente, La Provincia di Cosenza). Le cooperative hanno una forte controindicazione: trasformano i giornalisti in imprenditori. In pratica, li costringono a fare un mestiere non loro. Questo quando funzionano. Ma, al riguardo, in Italia c’è solo il Manifesto che corrisponde ai criteri di una cooperativa vera. Per il resto, sono imprese mascherate, che scaricano sui dipendenti i rischi dell’imprenditore.
I service, cioè le agenzie stampa che gestiscono testate intere o loro singole parti, possono essere peggio. In queste forme di gestione, infatti, si annida il caporalato, perché il titolare dell’agenzia gestisce un forfait e non è detto che lo faccia in maniera trasparente.
Ad ogni buon conto le garanzie per i giornalisti rischiano di essere minime, visto che non sono infrequenti i casi in cui le eventuali querele sono a carico del service e non dell’editore…
L’informazione in Calabria: chiusure e fallimenti
Gli editori “impuri” sanno bene una cosa: che i giornali, comunque li si gestisca, sono aziende in perdita. Quando il costo supera gli utili “immateriali” (pubblicità alle proprie aziende, e possibili “attacchi” a concorrenti o politici ostili), di solito si chiude o si fallisce. È capitato alla Provincia Cosentina, ceduta dal gruppo Manna a un gruppo di giornalisti e fallita nel giro di tredici mesi. È capitato a Calabria Ora, fallito dopo vicende controverse. Più sfumata la storia del Garantista, che ha subito un cambio di gestione è poi è fallito.
Queste tre chiusure hanno lasciato strascichi pesanti di vertenze e questioni giudiziarie irrisolte. Più una tragedia: il suicidio di Alessandro Bozzo, storica firma del giornalismo cosentino.
Alessandro Bozzo: la sua tragica morte fece riaccendere i riflettori sullo stato dell’informazione in Calabria
Quanti peli ha la solidarietà?
Di Alessandro si ricorda un funerale commovente, un processo per far chiarezza sulla morte, qualche evento pubblico e due libri dedicati a lui. Della chiusura di Calabria Ora/L’Ora della Calabria, invece, si ricordano le polemiche e gli scandali.
Dei giornalisti, anche talentuosi, espulsi dalla professione non si ricorda nessuno, tolte le parole di circostanza. Del vecchio assetto dell’editoria periodica calabrese restano in piedi due testate: il Quotidiano del Sud (già della Calabria), e la Gazzetta del Sud, più una galassia di giornali online di diversa qualità e fattura. Il precariato è la norma, in questa situazione: vi si resiste solo passando da una testata all’altra, spesso in condizioni di estremo disagio.
Che libertà e che qualità si possono assicurare per questa via? Il resto, le indignazioni passeggere e le finte solidarietà sono chiacchiere.
Quando i giudici della corte d’assise di Locri fanno il loro ingresso in aula per la lettura della sentenza, lo stanzone al primo piano di piazza Fortugno è affollato dei parenti di Vincenzo Cordì, morto ammazzato nel novembre di 3 anni fa. Seduti ordinatamente sugli scaloni per il pubblico, indossano, tutti, una maglietta con il faccione sorridente del ragazzo. Tanti tra loro, la madre di Cordì e gli altri parenti che hanno presenziato all’udienza, piangono mentre la presidente Monteleone legge le condanne: fine pena mai per Susanna Brescia e per il suo amante Giuseppe Menniti, 23 anni per il figlio di lei Francesco Sfara. Sono loro 3, hanno deciso i giudici, ad avere organizzato e messo in piedi l’omicidio.
La sorella e la madre di Vincenzo Cordì all’esterno del Tribunale di Locri dopo la lettura della sentenza
Omicidio Cordì: cadavere ritrovato dai cacciatori
Cameriere in tanti ristoranti della riviera, Vincenzo Cordì era un ragazzo normale. Animo gentile e padre di una coppia di gemelli, Cordì è finito stritolato da un rapporto tossico: ammazzato – hanno stabilito in primo grado i giudici del tribunale di Locri – dalla compagna con l’aiuto del suo amante e di uno dei figli di primo letto della donna. Una storia tremenda, costruita su odio, gelosia e rancore, che è finita col costare la vita a quel ragazzone sempre allegro, stordito con una botta in testa e lasciato bruciare all’interno della sua auto quando era ancora in vita. A ritrovare il cadavere carbonizzato di Cordì, nel novembre del 2019, era stato un gruppo di cacciatori in battuta nei dintorni della “Scialata”, una delle zone più gettonate della zona per le scampagnate fuori porta, due giorni dopo la denuncia di scomparsa presentata dalla compagna Susanna Brescia.
Vincenzo Cordì e Susanna Brescia
Una questione privata
Archiviata quasi immediatamente dai carabinieri la pista del crimine organizzato – la vittima non era collegata agli ambienti della ‘ndrangheta – le indagini si erano spostate quasi immediatamente sul versante della sua vita privata. E quasi immediatamente era venuto fuori il rapporto burrascoso che si era ormai creato tra Cordì e la sua compagna. Un rapporto così controverso che avrebbe portato la Brescia, nel 2016, a drogare con della benzodiazepina il suo partner provocandone un incidente in auto che solo per un caso non ebbe conseguenze mortali.
I cellulari inchiodano i colpevoli
A inchiodare i presunti colpevoli di questo omicidio crudele, le tante tracce informatiche lasciate alle loro spalle. A cominciare dai loro cellulari, che si agganciano alle celle telefoniche nel luogo dell’omicidio, all’ora dell’omicidio e che, nonostante i tentativi di ripulitura, mostrano contatti frenetici nei minuti precedenti e successivi alla morte di Cordì.
E poi le telecamere a circuito chiuso che i carabinieri hanno spulciato una ad una, ricostruendo il percorso di vittima e carnefici, dal cancello di casa fino alle campagne che si inerpicano sulla Limina, passando per il distributore di benzina di Marina dove Menniti si sarebbe fermato per riempire la tanica di benzina necessaria al rogo. E poi gli screenshot del cellulare che gli indagati non avevano cancellato dai loro telefonini e che hanno aiutato gli inquirenti a ricostruire il giro di bugie e sotterfugi che gli indagati avevano messo in atto nel tentativo di indirizzare le indagini verso l’ipotesi del suicidio. Fino al dna della Brescia trovato sull’accendino antivento usato per bruciare il corpo del suo compagno.
È scattata all’alba l’operazione antidroga “Hermano” con l’arresto di 19 persone. I carabinieri hanno dato esecuzione a un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip su richiesta della Direzione distrettuale antimafia. Al centro dell’inchiesta ci sono diversi soggetti residenti a Taurianova, nella Piana di Gioia Tauro. Il blitz ha interessato anche le province di Milano, Parma, Verona e Vicenza. Gli indagati sono accusati di aver fatto parte di un’articolata organizzazione criminale, capace di gestire un fiorente traffico di sostanze stupefacenti. Stando alle risultanze investigative dei carabinieri, coordinati dal procuratore Giovanni Bombardieri, la droga veniva acquistata in Sudamerica e, passando attraverso il canale spagnolo, arrivava poi in Italia dove veniva rivenduta in diverse città settentrionali.
Il procuratore di Reggio Giovanni Bombardieri
Erano in contatto con narcos peruviani le 19 persone arrestate, sette in carcere e 12 ai domiciliari, nell’ambito dell’operazione “Hermano”. Tra i destinatari del provvedimento di arresto emesso dal Gip Giovanna Sergi, c’è Carmelo Bonfiglio, di 42 anni, ritenuto uno dei promotori e organizzatori dell’associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga. Stando all’indagine Bonfiglio teneva i contatti con i fornitori spagnoli e albanesi. Ma soprattutto con i peruviani. Con questi ultimi produttori di cocaina, infatti, secondo la Dda, gli arrestati avrebbero goduto di rapporti privilegiati grazie ai quali erano in grado di acquistare partite di droga a prezzi concorrenziali: 32mila euro al chilo a fronte di un prezzo di mercato che va dai 35 ai 40mila euro.
Carcere anche per Rocco Camillò di 44 anni, Diego Giovinazzo (46 anni), Palmiro Cannatà (62 anni), Salvatore Sanò (60 anni), Damiano Veneziano (33 anni) e Antonio Pedullà (36 anni). Il gip ha disposto i domiciliari per Antonio De Luca di 71 anni, Antonio Ranieli (71 anni), Francesco Macrillò (64 anni), Francesco La Cognata (44 anni), Maurizio Scicchitani (55 anni), Antonio Zangari (53 anni), Gino Carlo Melziade (50 anni), il peruviano Oscar Bruno Bagigalupo Lobaton (47 anni), Donato Melziade (63 anni), Endri Dalipaj (33 anni), Gioacchino Marco Molé (30 anni) e Riccardo Ierace (34 anni). Sono 56 gli indagati dell’inchiesta partita nel dicembre 2017 dopo un arresto per durante un controllo di polizia.
All’epoca, infatti, all’interno di un auto, i carabinieri trovarono 3 chili e 400 grammi di infiorescenze di cannabis indica essiccata. Da quel sequestro, si è risaliti prima a Palmiro Cannatà e poi a Carmelo Bonfiglio riuscendo così a ricostruire la filiera della droga, ma anche a delineare la struttura della consorteria criminale capace di gestire i traffici di marijuana, hashish e cocaina. È emerso che gli arrestati riuscivano a importare in Italia ingenti partite di droga. I carichi venivano nascosti in “scomparti segreti” all’interno dei veicoli utilizzati per il trasporto nelle principali città italiane, tra cui Milano e Roma. Lì lo stupefacente veniva suddiviso in dosi e smerciato.
Libri di cocaina
Per sviare i controlli delle forze dell’ordine e quelli in aeroporto, la cocaina smerciata dal gruppo criminale smantellato nell’ambito dell’operazione “Hermano” condotta dai carabinieri e coordinata dalla Dda di Reggio Calabria veniva trasportato in forma liquida, chimicamente intrisa nelle fibre di valigie o addirittura saturandola nei libri per poi estrarla attraverso processi chimici di reazione molecolare che ne consentono il recupero. Un metodo emerso in fase di indagini quando a Biella i carabinieri sequestrarono 250 grammi di cocaina trasportata in un trolley insieme a due bidoni di solvente che, secondo gli investigatori, sarebbe servito al processo inverso di estrazione della sostanza. Ai 19 indagati, sette in carcere e 12 ai domiciliari, viene contestata anche l’aggravante della natura transnazionale del traffico di stupefacenti.
I carabinieri, indagando, sono riusciti a scoprire che il coordinamento delle attività veniva gestito anche dall’interno del carcere di Ivrea. Per il gip Sergi, l’episodio è «degno di un best set cinematografico hollywoodiano». In sostanza, «una banda di detenuti, per la maggior parte sudamericani – è scritto nell’ordinanza – divulgava disposizioni all’esterno su dove, come e quando commercializzare cocaina, oppure ordinava dosi della medesima sostanza stupefacente da introdurre nel carcere e, per finire, dava indicazioni sul traffico della droga da e per l’Ecuador. Il tutto mediante l’uso illegale di un telefono cellulare munito di regolare sim card».
L’ombra della ‘ndrangheta
Alcuni indagati sono ritenuti affiliati alla ‘ndrangheta. Altri, invece, stando all’inchiesta, erano in contatto con personaggi legati alle cosche mafiose calabresi come i Papalia operanti a Milano o affiliati alle famiglie Molé di Gioia Tauro, Cacciola-Grasso di Rosarno, Ierace di Cinquefrondi, Manno-Maiolo di Caulonia e Facchineri di Cittanova. Tra gli indagati, infatti, c’è Luigi Facchineri per il quale il gip ha rigettato l’arresto. Agli atti dell’indagine, coordinata dal procuratore Giovanni Bombardieri, c’è pure la famiglia De Stefano di Reggio Calabria. Secondo i pm, infatti, con un esponente rimasto ignoto del clan di Archi, Carmelo Bonfiglio avrebbe anticipato 25mila euro per l’acquisto in Spagna e il trasporto in Italia di un carico di marijuana.
In tal senso, l’obiettivo generale della proposta è rendere la memoria di Barbara Corvi una prassi condivisa coinvolgendo persone e associazioni nel territorio umbro e non solo. Si intende così favorire la consapevolezza pubblica e la conoscenza sulla storia di Barbara Corvi affiancando la famiglia Corvi, le associazioni e la società civile rivolgendo insistentemente la domanda “dov’è Barbara?”.
***
La prima lettera per Barbara Corvi
Cara Barbara,
con questa lettera, nel giorno del tuo compleanno diamo inizio a un nuovo progetto- “lettere per Barbara Corvi” – perché la tua storia continui ad essere memoria collettiva di questo Paese.
Una storia la tua di quelle che si “vedevano solo nei films” come ci disse tua sorella qualche anno fa. Già, nessuno avrebbe immaginato che nella tua vita avresti fatto esperienza di quello che poi avremmo chiamato potere maschile e potere mafioso. Noi, come osservatorio regionale sulle infiltrazioni mafiose e l’illegalità, abbiamo scelto già dal primo giorno del nostro insediamento di esserci, di accompagnare la tua famiglia e le istituzioni nel faticoso e doloroso percorso della ricerca della verità.
Dal primo giorno abbiamo riconosciuto nella tua storia tracce di quel potere mafioso che si traduce in forme di violenza maschile e che si costruisce intorno a parole come onore, come ricchezza e riconoscimento. Abbiamo riconosciuto un modello di riferimento e un metodo, che ci riporta a storie lontane di donne scomparse, condannate a morte dalla ‘ndrangheta per le proprie scelte di vita.
Abbiamo voluto con determinazione, che la tua storia diventasse memoria collettiva in Umbria, affiancando il prezioso lavoro che già le donne di Amelia con il Comitato Barbara Corvi avevano avviato con cura e passione. Piano piano il tuo nome è diventato una storia nella Storia, il tuo volto sorridente è apparso nelle piazze dei comuni della tua regione. Con una frase: verità ora. Chiediamo, cara Barbara, e ci rivolgiamo a coloro che si nascondono dietro silenzi troppo complici, verità: chiediamo dove sei adesso, chiediamo giustizia. E lo facciamo nel grande rispetto verso la tua famiglia, i tuoi genitori e le tue sorelle, che da anni danno a tutti noi, lezioni di dignità.
Chiediamo a tutte e tutti coloro che potrebbero avere informazioni utili, ad Amelia e non solo, di contattare gli organi competenti: uno scatto di dignità e coraggio in un territorio che non dimentica e che con forza prende le distanze da dinamiche di questo tipo. La complessità della vicenda, legata anche al tema dei collaboratori di giustizia, impone cautela ma molta attenzione, per questo ci appelliamo anche a coloro che all’interno dell’organizzazione ‘ndranghetista, vogliano contribuire ad una scelta di umanità e di riscatto, raccontando la verità sulla scomparsa di Barbara. Continueremo a lavorare in questa direzione, senza cedere di un passo fino a quando non verrà ricostruita la verità.
Ma accanto alla denuncia, abbiamo voluto lavorare sulla proposta politica, perché anche questo era ed è il nostro compito. Abbiamo voluto che quello che è accaduto a te, possa non accadere a nessun’altra donna. Per questo, dopo anni di studio, approfondimento, dopo anni in cui abbiamo scelto di radicare le nostre scelte nella tua memoria abbiamo voluto fortemente avviare la costruzione di una rete per l’accoglienza, il supporto, l’accompagnamento alle donne che sopravvivono alla violenza mafiosa e alla violenza maschile, e che intendono intraprenderne un percorso di uscita ed autodeterminazione.
La presentazione del protocollo “Libere di essere” a Perugia
Da subito, insieme al Centro per le Pari Opportunità e alla rete dei centri antiviolenza Umbra, abbiamo lavorato a tessere una rete insieme alle Procure e alle Prefetture: una rete che da adesso è realtà. Stiamo completando gli ultimi passaggi burocratici, ma la sostanza è il “protocollo Libere di Essere” dedicato a te, alla tua memoria. Così l’Umbria diventerà la terra dell’accoglienza delle donne, diventerà la terra della possibilità concreta, e della speranza che diventa alternativa di vita.
In tuo nome verrà data accoglienza, formazione, lavoro, verranno demolite le basi di quel potere- maschile e mafioso- che influisce sulla vita, sui corpi, sulle scelte delle donne.
Donne che come te vogliono soltanto essere “libere di essere”.
Osservatorio regionale sulle Infiltrazioni e l’illegalità della regione Umbria
Nascondeva un chilo di esplosivo nel suo garage, ma una soffiata alle forze dell’ordine ha permesso di scoprirlo e per lui è scattato l’arresto. È appunto grazie alla segnalazione di una fonte confidenziale che oggi il personale della Squadra mobile di Vibo Valentia ha messo a segno il sequestro del pericoloso materiale. L’esplosivo si trovava all’interno del garage di un’abitazione nella frazione Vena del comune di Ionadi (Vibo Valentia).
Gli agenti hanno provveduto alla messa in sicurezza del sito, con la Scientifica che si è fatta carico del sequestro dell’ordigno, giudicato ad elevata pericolosità. Al suo interno, infatti, c’era quasi un chilo di polvere esplodente. Il sospetto è che lo si potesse utilizzare per atti di natura intimidatoria o offensiva per l’incolumità personale.
A occuparsi del coordinamento delle operazioni che hanno portato al rinvenimento dell’esplosivo nel garage è stato Camillo Falvo, procuratore di Vibo Valentia. L’uomo arrestato dovrà rispondere della detenzione dell’ordigno esplosivo. Al momento è scattata per lui la misura degli arresti domiciliari, confermata anche al termine dell’udienza di convalida celebrata sabato scorso.
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