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  • Ponte di Calatrava, raddoppia il conto da pagare?

    Ponte di Calatrava, raddoppia il conto da pagare?

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    Il ponte di Calatrava potrebbe abbattersi sul Comune di Cosenza. Non fisicamente, ma con un salasso che metterebbe k.o. le già disastrate casse dell’ente. Cimolai Spa, l’azienda che lo ha costruito, ritiene che il suo credito nei confronti di Palazzo dei Bruzi non sia affatto esaurito. E chiede altri 19,2 milioni di euro per il lavoro fatto. Raddoppierebbe così il conto da saldare per il più grande inno alla grandeur cosentina, un gioiello architettonico che, a detta di molti, ora come ora collega il nulla al niente.

    Mancini, Calatrava e l’Europa

    Tutto ha inizio a cavallo tra il vecchio e l’attuale millennio. Alla guida del Comune c’è il primo sindaco eletto direttamente dai cosentini: Giacomo Mancini. È lui a siglare a inizio maggio del 2000 nel teatro Rendano l’intesa con Santiago Calatrava, vincitore di una selezione tra progettisti che lo vede imporsi su altri grandi nomi dell’ingegneria civile.

    Mancini e Calatrava al Rendano

    L’architetto e ingegnere spagnolo è già una star in patria e all’estero, ma il ponte cosentino sarà – meglio, dovrebbe essere – la prima opera a sua firma in Italia. Dal Rendano parte la prima sfida di Palazzo dei Bruzi, quella alle ovvietà. «La committenza», riportano i resoconti ufficiali di quella serata, ha voluto e avrà «un ponte che colleghi Cosenza con l’Europa», con buona pace dei cartografi e della tettonica a zolle così poco inclini alla retorica da aver già piazzato qualche millennio prima la città nel Vecchio Continente.

    Le ultime parole famose

    Passano un paio di mesi dalla première al Rendano e nel Salone di rappresentanza del municipio arriva pure la presentazione del plastico del ponte. Le fanno da contorno i primi dettagli tecnici e gli annunci dell’allora assessore all’Urbanistica – e di lì a breve sindaca – Evelina Catizone. Traendo forse ispirazione dal collega di Giunta ed esperto conoscitore delle volte celesti Franco Piperno, Catizone dichiara che «i tempi di realizzazione potranno essere contenuti fra un anno e mezzo e due anni. I costi: 16 miliardi (di lire, nda) per il solo ponte, 34 se si vorranno realizzare anche le opere di complemento, piazza e viali di collegamento alla città compresi».

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    Evelina Catizone insieme a Franco Piperno

    In quelle parole, cariche di ottimismo, si nasconde il segreto per rispettare il cronoprogramma e sconfiggere lo scetticismo generale. Basta infatti calcolare gli anni in questione come se fossimo su Giove, pianeta che per completare tutto il suo giro intorno al Sole impiega oltre 4.300 giorni terrestri. E che ha pure un satellite che si chiama Europa. Se la committenza avesse voluto collegare Cosenza a quello tramite il ponte di Calatrava tutto tornerebbe. E a un costo irrisorio per un’opera così audace.
    Secondo il meno confortante calendario gregoriano in uso dalle nostre parti tra quell’annuncio di metà estate del 2000 e il taglio del nastro, invece, di anni tocca contarne quasi una ventina. E il conto da pagare, già più salato del previsto, adesso rischia di schizzare – per restare in tema – alle stelle.

    Il tempo se ne va

    In omaggio alla tradizione italiana, infatti, nonostante l’opera «stia per passare alla fase esecutiva» a settembre 2001, per aggiudicare l’appalto toccherà attendere l’autunno del 2008, quando il successore di Catizone, Salvatore Perugini, è già a metà del proprio mandato da sindaco. I lavori, stando agli atti, dovranno durare 877 giorni (terrestri, nda). Ad occuparsene, questo l’esito della gara, sarà proprio la già citata Cimolai, colosso delle costruzioni in acciaio.

    Oltre ad aver già lavorato con Calatrava e il suo studio, l’azienda di Pordenone può oggi vantare nel proprio curriculum di aver partecipato «alla ricostruzione di Ground Zero a New York, al recupero sottomarino della nave Concordia e, tra le tante altre attività, ai lavori del New Safe Confinement di Chernobyl». A Cosenza non le tocca rimediare a disastri simili, per fortuna. Ma anche sulle sponde del Crati non mancheranno le tragedie – la morte di Raffaele Tenuta, operaio di una ditta impegnata in un subappalto – né le polemiche, come accaduto per un’altra opera progettata da Calatrava in Italia nel frattempo.

    Il ponte di Calatrava e i fondi Gescal

    Se a Venezia si scivola (e non solo), a Cosenza fa discutere il denaro utilizzato – o, meglio, la sua provenienza – per realizzare il ponte, il cui montaggio vero e proprio è partito solamente nel 2014 con un altro sindaco ancora, Mario Occhiuto, insediatosi tre anni prima. È Sergio Pelaia a sollevare il polverone dalle colonne del Corriere della Calabria. Già da tempo il giornalista ha rivelato con una serie di articoli che per anni la Regione ha fatto un uso allegro dei fondi Gescal. Cosa sono? Soldi detratti dalle buste paga dei dipendenti pubblici con l’impegno di realizzarci case popolari. Quel fiume di denaro, però, è finito disperso in mille rivoli, molti dei quali con l’edilizia popolare pare abbiano ben poco a che vedere.

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    Mario Occhiuto alla riapertura del cantiere del ponte di Calatrava (foto Ercole Scorza)

    Nell’elenco delle spese discutibili, si scopre a poche settimane dall’inaugurazione, ci sarebbero pure quasi 6 degli oltre 19 milioni di euro usati per costruire il ponte di Calatrava e le opere accessorie, il cui unico rapporto col sostegno a chi vorrebbe un tetto tutto suo a basso costo si concretizzerà tempo dopo nell’offrire saltuario riparo a qualche clochard.

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    Un rifugio di fortuna costruito da un clochard sotto il ponte di Calatrava nell’estate del 2021

    Paradosso nel paradosso, parte dei fondi Gescal legati davvero alle attività dell’Aterp è stata al centro di un’inchiesta che ha visto protagonisti anche più o meno grandi nomi della politica calabrese, quali Pino Gentile e Antonino Daffinà. Una storia tutta vibonese, quest’ultima, che si è chiusa poche settimane fa per gran parte degli imputati con l’equivalente giuridico dei tarallucci e vino: la prescrizione. A Cosenza invece, nonostante qualche protesta degli attivisti locali per il diritto alla casa, per liquidare la questione Gescal-Calatrava si è optato per una soluzione diversa. Altrettanto efficace, ancora più rapida: il tutto va bene, madama la marchesa.

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    Una simbolica protesta a Cosenza: 100 casette di cartone sul ponte di Calatrava per criticare l’impiego dei fondi Gescal

    Cimolai va all’attacco

    Il ponte di Calatrava, oggi intitolato a San Francesco di Paola, all’attenzione di un tribunale c’è finito lo stesso però, anche se finora non se n’è accorto nessuno. A luglio del 2019 Cimolai si è rivolta a quello di Catanzaro chiedendo che il Comune di Cosenza risponda davanti ai giudici di tutto ciò che l’azienda ritiene abbia provocato un «andamento anomalo dei lavori». L’elenco delle doglianze è lungo, ben 35 differenti riserve espresse su altrettanti avvenimenti. Le valutazioni dei singoli danni subiti a causa di quelle presunte anomalie vanno da circa 6mila a quasi 6 milioni di euro. Senza contare gli eventuali interessi maturati nel frattempo, sommandole tutte si sfiorano i venti milioni extra richiesti a Palazzo dei Bruzi.

    Un peso notevole nella stima delle perdite ha il lunghissimo stop ai lavori dovuto alle bonifiche del terreno che ha ospitato il cantiere. Il rinvenimento di ordigni bellici e rifiuti pericolosi nell’area ha impedito per anni a Cimolai di dare il via al montaggio della struttura e costretto la ditta a tenere per tutto quel tempo i componenti del ponte – che nel frattempo aveva costruito – chiusi nei capannoni in attesa di poterli portare a Cosenza. Ma non mancano i rilievi relativi a perizie di variante in corso d’opera, aumenti dei costi dovuti allo slittamento dei lavori, presunte discrepanze col progetto messo a gara. E poi, ancora, contestazioni sulle attività extracontrattuali che non sarebbero state retribuite a dovere, il fermo forzato e improduttivo di macchinari e personale tra un’interruzione e l’altra, finanche l’allagamento del cantiere durante una piena del Crati nel 2016.

    Il Comune di Cosenza si difende

    A Palazzo dei Bruzi, però, sono sicuri del fatto loro, pronti a smontare le accuse punto per punto. Reputano di aver sempre agito nel rispetto delle norme e degli accordi. Le richieste di Cimolai sarebbero quindi pretestuose e infondate dal punto di vista giuridico. L’ammontare dell’eventuale risarcimento, poi, del tutto sproporzionato rispetto a quello dell’appalto originario. Se davvero l’azienda avesse subito danni di tale portata, rilevano in municipio, avrebbe potuto esercitare il suo diritto alla risoluzione del contratto a lavori ancora in corso. Invece Cimolai ha continuato ad affrontare il rischio d’impresa per anni, salvo poi tornare a battere cassa a Cosenza qualche mese dopo la consegna del ponte di Calatrava.

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    Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza

    Alcuni ritardi, inoltre, sarebbero da addebitare ad altri soggetti coinvolti, come le Ferrovie dello Stato o la Provincia. In vista del processo il Comune ha anche assunto poche settimane fa un consulente tecnico, l’ingegnere Francesco Mordente, per far valere le proprie ragioni in aula.

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    Una parte dell’atto da cui emergono la causa in corso tra Cimolai e il Comune e l’ammontare del contenzioso

    Di generazione in generazione… in generazione?

    Il 26 gennaio 2018, giorno della faraonica cerimonia inaugurale cofinanziata dall’ancora amichevole Cimolai, Santiago Calatrava definì la sua creatura un ponte che «collega due generazioni: il sindaco Mancini, per il quale l’ho progettato, e il sindaco Occhiuto che è riuscito a portarlo a termine». Il verdetto di Arianna Roccia, giudice della Sezione specializzata per le imprese, servirà a chiarire se collegarle a una terza: quella che per finire di pagarlo dovrebbe sborsare quanto o più delle altre due messe assieme.

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    Cosenza, un momento della cerimonia d’inaugurazione del ponte di Calatrava
  • Qualcuno volò sul nido di Scanderbeg

    Qualcuno volò sul nido di Scanderbeg

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    Prima una, poi due, e infine tre evasioni rocambolesche. L’ultima volta che è fuggito, il soggetto “socialmente pericoloso” ha ferito un infermiere ed un carabiniere, dopo aver danneggiato i locali che lo ospitavano. Poi ha rubato un’automobile e si è schiantato contro un lampione, uscendo illeso dall’incidente. Ma i 2.500 abitanti di Santa Sofia d’Epiro, in provincia di Cosenza, non si sono scomposti. Ormai hanno adottato la Rems ed i suoi ospiti. «È chiaro che umanamente ci dispiace tantissimo, però non esiste allarme sociale che ci possa indurre al panico. La nostra cultura è fatta di accoglienza, incontro, musica, letteratura. Rinnegheremmo noi stessi se ci lasciassimo abbattere dalla paura e dagli egoismi», spiega Carmine Guido, musicista del gruppo rock Spasulati Band.

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    Sbarre alle finestre e muri alti tre metri nella Rems di Santa Sofia d’Epiro

    Dagli Opg alle Rems

    I sofioti sono una delle tante popolazioni arbëreshe, discendenti dai profughi giunti nel sud Italia sette secoli fa, quando gli antenati del presidente turco Erdogan conquistarono i Balcani e li scacciarono dalle loro case. Gli Albanesi di Calabria hanno sviluppato un’attitudine all’insilienza, la capacità di attecchire in territori remoti, cioè una forma di resilienza in trasferta. Da centinaia di anni resistono ai traumi e si organizzano in modo solidale. Una decina di loro lavora all’interno della Residenza Esecuzione Misure Sicurezza “G. Granieri”, gestita dal Centro di solidarietà “Il Delfino”. Ed è qui che le ripetute e drammatiche fughe di uno degli ospiti hanno svelato alcune delle falle giuridiche della legge 81/14 che finalmente portò alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari ed alla loro sostituzione con le Rems.

    Stop all’ergastolo bianco

    Queste strutture hanno natura più prettamente medico-sanitaria. La logica che sta alla base è quella riabilitativa: gli operatori sono medici, non carcerieri. Il loro scopo è quello di aiutare il paziente, curarlo, al fine di reintrodurlo nella società. Assomigliano più a presidi sanitari che a prigioni. Hanno, inoltre, messo fine all’ergastolo bianco. Se negli Opg non era previsto un termine massimo di durata della misura, con le Rems la tempistica non può essere superiore al massimo edittale della pena prevista per il reato. Lo scoglio più grosso da affrontare resta però la visione che la società ha di queste persone.

    Pericolosi a prescindere da responsabilità

    Lo stigma è ancora molto presente, accresciuto anche da una paura mediatica che viene costantemente proposta ed ampliata. C’è un forte desiderio che il reo venga neutralizzato piuttosto che rieducato, riabilitato o risocializzato.

    «Tali strutture non sono deputate alla detenzione – spiega il responsabile dell’ente gestore, Gianfranco Tosti – bensì alla rieducazione e cura degli autori di reato, per prevenire nuove eventuali azioni criminose. Queste persone non devono scontare una pena. Nei loro confronti è stato emesso un giudizio di pericolosità, a prescindere dalle eventuali responsabilità. Per questo motivo tali provvedimenti si applicano anche nei confronti di soggetti che nel commettere azioni violente sono stati considerati non in grado di intendere e di volere».

    La Rems “Granieri” vista dall’esterno

    Tuttavia, pur essendo di fatto delle residenze socio sanitarie rientranti nel Dipartimento Salute mentale, la responsabilità direzionale è affidata all’ASP di Cosenza tramite un medico psichiatra, con la funzione di Responsabile della Rems. In queste strutture non è prevista la gestione delle acuzie e di gravi scompensi psicomotori, per questo e per eventuali Tso – trattamenti sanitari obbligatori – le cure sono affidate al Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, all’interno degli ospedali.

    Terapia, non pena

    «Essendo una struttura socio-sanitaria – prosegue Tosti – noi non possiamo trattare Tso. Ci occupiamo della parte riabilitativa e sanitaria. Per ogni singola persona l’equipe redige il Ptrr (piano terapeutico riabilitativo residenziale, ndr) che può indicare lo stato di miglioramento della persona e nel corso di questi anni abbiamo cercato di costruire un approccio molto umano che è quello che da sempre a caratterizzato tutte le attività del Delfino.

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    Una stanza della struttura di Santa Sofia d’Epiro

    Il problema si pone quando tra i soggetti che ci sono affidati, qualcuno risulta incompatibile sia col carcere che con una struttura riabilitativa. Non rientra infatti nelle competenze e responsabilità del nostro personale il contenimento di azioni violente. Gli operatori al nostro servizio sono infermieri, educatori, assistenti sociali, OOSS, psicologi, tecnici della riabilitazione psichiatrica, altri addetti. Come possono arginare una persona che improvvisamente aggredisce cose e persone, e tenta di fuggire?».

    Rems: sembra un carcere, ma non lo è

    In Calabria la Rems di Santa Sofia d’Epiro è l’unica sul territorio regionale. Attivata nell’ottobre 2016, con due anni di ritardo, è stata realizzata in un immobile di proprietà dell’Asp. In questi 6 anni vi sono state ricoverate 52 persone, di cui 34 dimesse. L’edificio presenta i segni della mescolanza col sistema carcerario: mura alte tre metri, sbarre verticali e porte in ferro. Un rafforzamento dei sistemi di controllo è stato di recente richiesto dal sindaco, Daniele Atanasio Sisca, al prefetto di Cosenza.

    Un esempio di tolleranza e civiltà

    Nonostante la situazione critica, rimane alto il livello di collaborazione tra comunità locale e soggetto gestore: «La legge 81/14 – spiega Tosti – è stata precisa per le questioni strutturali. Nel contempo, abbiamo sempre cercato di creare spazi accoglienti, idonei alla cura. Gli spiacevoli episodi accaduti negli ultimi mesi non sono però riusciti a destabilizzare la nostra impostazione. E questo lo dobbiamo alla popolazione locale e alle loro istituzioni, il sindaco e il comandante della locale stazione dei carabinieri, che oltre a starci vicino, hanno sempre reagito con una civiltà ed un livello di tolleranza che dovrebbero essere da esempio in tutto il continente europeo».

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  • Bergamini, anche per la Cassazione «ombre» sulla morte di Denis

    Bergamini, anche per la Cassazione «ombre» sulla morte di Denis

    Anche la Cassazione vuole vederci chiaro sulla morte di Donato “Denis” Bergamini. Ad avvolgere «la tragica fine» nel 1989 dell’ex calciatore del Cosenza nei pressi di Roseto Capo Spulico ci sono ancora «numerose ombre», sostengono infatti gli ermellini, riporta Ansa Calabria. Le parole dei giudici della Suprema corte sul decesso del giocatore ferrarese sono arrivate al termine di un processo che vedeva imputato un cronista, alla sbarra per una diffamazione ai danni del magistrato Franco Giacomantonio.

    Quest’ultimo, da capo della Procura di Castrovillari, secondo il giornalista, si sarebbe mostrato fin troppo «pavido» nell’indagare sul caso Bergamini. Così facendo – sostenevano gli articoli su di lui – avrebbe favorito Isabella Internò, l’ex fidanzata del calciatore sulla quale gravano da anni i sospetti dei tanti, cosentini e non, che respingono l’ipotesi del suicidio del centrocampista.

    Nessun insabbiamento, critiche eccessive

    Per la Cassazione, invece, c’è poco da imputare a Giacomantonio nella gestione della vicenda Bergamini. Il procuratore, infatti, è colui che nel 2011 chiese al Gip la riapertura delle indagini. Nonché lo stesso magistrato che si impegnò «a svolgere, successivamente, una diffusa ed articolata istruttoria, servendosi di numerosi consulenti tecnici e svolgendo molte audizioni di persone informate dei fatti, in vista di un evidente obiettivo di fare luce sul controverso “caso giudiziario”».

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    La Corte di Cassazione

    Nulla da eccepirgli nemmeno per quanto riguarda la successiva archiviazione dello stesso caso. Per i supremi giudici «è formulata con ampie ragioni (che si snodano lungo 73 pagine di provvedimento), dando conto di tutte quante le indagini effettuate: dunque non una decisione superficiale, o peggio, deviata da una qualche parzialità». Senza contare, scrivono ancora, che Giacomantonio a Castrovillari è arrivato decenni dopo la morte di Bergamini e le relative indagini iniziali. Nessun insabbiamento da parte sua, quindi, per i giudici sebbene il legale della famiglia di Donato avesse fatto notare, all’epoca dei fatti, una certa titubanza del magistrato inquirente a far eseguire ulteriori esami sul cadavere. «Non bisogna aver paura della verità», le sue parole.

    Bergamini e le ombre: le parole della Cassazione

    Ma i dubbi su quella tragica notte di pioggia del 1989 e le successive indagini restano. Anche tra gli ermellini. Che, infatti, chiariscono che al momento la Cassazione «non è la sede per diradare alcuna delle numerose ombre che avvolgono la tragica fine di Denis Bergamini», ricordando al contempo che la stessa Internò è oggi imputata a Cosenza per il presunto omicidio del suo compagno di allora. Il caso, anni dopo l’archiviazione targata Giacomantonio, è infatti «riaperto a seguito della richiesta di riesumazione della salma del calciatore, avanzata dai familiari di Bergamini tramite l’avvocato Fabio Anselmo, con nuovi esami che hanno accertato il decesso per soffocamento».

    La lapide in ricordo di Donato Bergamini ai bordi della strada dove perse la vita
  • Nu core, ‘na chitarra e la mafia: bufera sui neomelodici

    Nu core, ‘na chitarra e la mafia: bufera sui neomelodici

    La Calabria ha bisogno di buoni esempi. Lo sentiamo dire nelle scuole, nei dibattiti, nei convegni. In tanti, però, si sono interrogati in questi anni sul un fenomeno dei cantanti neomelodici che strizzano l’occhio nei loro brani alle mafie e che spopolano tra i giovani e nei territori ad alta densità mafiosa. La Calabria non ne è esente: i neomelodici riempiono le piazze dei paesi e scatenano, giocoforza, un mare di polemiche.

    Il caso Merante

    Lo scorso, ha avuto grande eco la querelle sul concerto della nota cantante folk Teresa Merante a Melissa. Lo organizzava una associazione e aveva il patrocinio del Comune guidato dall’ex segretario della Cgil del Crotonese Raffaele Falbo. Il concerto ha ricevuto il niet della Questura per motivi di ordine pubblico. Le polemiche (e gli imbarazzi, soprattutto del sindaco) non sono mancate.

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    La cantante calabrese Teresa Merante, al centro delle polemiche nei mesi scorsi per la sua canzone “U Latitanti”

    Canti di malavita 4.0?

    Tra i titoli delle canzoni della Merante c’è Il Capo dei capi. Protagonista è Totò Riina, a cui la cantante dedica versi come «Tante persone lui ha ammazzato, dei pentiti non si è scordato. Anche Buscetta tra questi c’era, uomo d’onore lui non lo era (…) Due giudici gli erano contro ed arrivò per loro il giorno. Li fece uccidere senza pietà (…) l’uomo di tanto rispetto e onore rimane chiuso a S. Vittore». Ma tra i brani del repertorio della Merante figurano anche Malandrini cunfinati, L’omu d’onori, Pentiti e ‘nfamità e U latitanti.
    La canzone Bon Capudannu fa gli auguri per San Silvestro «ai carcerati, segregati in galera. Speriamo torniate in libertà, nelle vostre case gioia e serenità».

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    Raffaele Falbo, l sindaco di Melissa

    Reazioni contrastanti

    Falbo a Melissa si trincerava nel silenzio. A Botricello, invece, l’allora consigliere comunale (oggi sindaco) Saverio Puccio – insieme al consigliere comunale di San Luca e sindacalista della Polizia di Stato, Giuseppe Brugnano – proponeva un esposto alla Procura guidata da Nicola Gratteri. Chiedeva si valutasse il reato di istigazione a delinquere.
    le polemiche sono riesplose nell’aprile di quest’anno, A Casali del Manco, dove il concerto della Merante, patrocinato dal Comune, è saltato causa pioggia. La vicenda ha mandato su tutte le furie Francesco Sapia, deputato di Alternativa.

    Francesco Sapia

    Il parlamentare dichiarò: «Trovo incredibile che il Comune di Casali del Manco rinneghi la propria storia politica e culturale e patrocini il concerto di Teresa Merante, nel cui repertorio figurano brani di promozione della cultura mafiosa e di odio nei confronti degli uomini della polizia, con versi che addirittura incitano all’assassinio degli stessi tutori della legge. Sulla vicenda vorrò verificare, anche in sede ministeriale, se il patrocinio comunale possa considerarsi in questo caso legittimo e intoccabile». Tranchant la risposta del sindaco Nuccio Martire: «Non conosco la Merante».

    Trapper e parentele

    Dal folk alla trap. Niko Pandetta vanta 150mila followers su Facebook e oltre 646mila su Instagram. È nipote del boss catanese Salvatore Cappello, sottoposto al  41 bis dal 1993.

    Al parente aveva pure dedicato una canzone. Cappello era braccio destro di Salvatore Pillera detto “Turi càchiti” («fattela addosso», la frase che diceva alle sue vittime prima di sparare).

    «Zio Turi io ti ringrazio ancora per tutto quello che fai per me, sei stato tu la scuola di vita che mi ha insegnato a vivere con onore, per colpa di questi pentiti sei chiuso là dentro al 41 bis», si struggeva Pandetta. Tempo dopo, stando alle cronache, si sarebbe pentito lui di quella canzone. Sui giudici Falcone e Borsellino, invece, cantava: «Hanno fatto queste scelte di vita, le sanno le conseguenze. Come ci piace il dolce ci deve piacere anche l’amaro».

    Nel mirino degli inquirenti

    A ottobre 2021 il quotidiano La Sicilia dava la notizia di una indagine, poi archiviata, a carico Pandetta per concorso esterno in associazione mafiosa. Nel 2019 il Tribunale di Catania ha condannato il trapper in primo grado con rito abbreviato a sei anni e otto mesi e a 30mila euro di multa per detenzione e spaccio di stupefacenti a seguito dell’operazione “Double Track”. In appello, è arrivata una riduzione della pena.
    Il suo disco Bella vita si è classificato al 53esimo posto  tra gli album più venduti del primo semestre 2022. terzo album italiano di Warner Music dopo quelli di Irama e Capo Plaza.

    A inizio mese Pandetta avrebbe dovuto esibirsi a Fuscaldo, in provincia di Cosenza, in un bar sulla Statale 18. Ma il concerto non è andato in porto. «Tumulti, gravi disordini ed abituale ritrovo di persone pregiudicate e pericolose»: con queste motivazioni la Questura ha chiuso il locale.
    Ora, il prossimo 5 agosto, si esibirà allo stadio di Altomonte nel Cosentino. Ed è molto probabile che le polemiche non mancheranno.

    Anzi, ci sono già: il nome del trapper è emerso in alcune intercettazioni a carico del presunto boss catanese Domenico Mazzeo. Questi, in favore di trojan o di cimice, si era fatto scappare alcune frasi sui suoi rapporti con Paolo Nirta, figlio di Giuseppe, lo storico boss di San Luca. Una frase in particolare riguarda Pandetta, che si è esibito al diciottesimo compleanno del fratello minore di Paolo Nirta.

    De Martino, il neomelodico più richiesto in Calabria

    Classe ’95 e fiumi di followers su tutti i social. Idolo delle ragazzine e non solo. Daniele De Martino ha pubblicato una canzone contro i pentiti di mafia, definiti «infami» e «la vergogna della gente». De Martino questa estate impazza in Calabria tra eventi privati ed altri pubblici patrocinati dalle amministrazioni locali.
    Il 14 giugno è stato in piazza a Cessaniti (Vv), il 25 alla festa della birra di San Benedetto Ullano (Cs), il 28 a San Pietro in Guarano (Cs), il 17 luglio a Spezzano Albanese (Cs); il 22 luglio in un bar di Paola (Cs), mentre il 27 sarà in piazza a Seminara (Rc) e il 20 agosto alla Festa di San Rocco di Bocchigliero (Cs).

    Daniele De Martino in concerto

    Hanno fatto discutere, soprattutto, gli eventi nel Crotonese. Il 5 agosto De Martino si esibirà in piazza a Verzino. La manifestazione è patrocinata dal Comune, che tuttavia è guidato da Pino Cozza, vittima di una intimidazione mafiosa che lui stesso ha denunciato lo scorso aprile.
    Il 18 agosto De Martino andrà in scena a Rocca Di Neto, nella kermesse Rocca estate 2022 voluta dall’Amministrazione guidata da Alfonso Dattolo di Coraggio Italia.

    Molto scalpore ha destato anche il concerto a Cirò Marina dello scorso 17 luglio in occasione della festa di Sant’Antonio. Come riportato da Margherita Esposito su Gazzetta Del Sud, il parroco di Cirò Marina, Peppe Pane, ha preso le difese del giovane cantante. «Sono solo dicerie e non fatti reali. La voce su una sua presunta vicinanza a certi ambienti è tutta da dimostrare», ha detto don Pane.

    Intanto De Martino la scorsa estate è stato “pizzicato” a Palmi alla festa di nozze della figlia di un presunto narcotrafficante, Filippo Iannì, condannato in primo grado a 18 anni di carcere per aver organizzato un traffico di hashish e cocaina fra Marsiglia e la Calabria.
    «Chi nasce libero non può morire prigioniero ci vuole solamente pazienza per affrontare tutto questo», cantava De Martino alla sposa. E ancora: «Se senti il vento sfiorare stasera è lui che con uno spiraglio esce dalla sua cella».

    L’avviso del questore

    Nel giugno 2021, il questore di Palermo Leopoldo Laricchia ha emesso un “avviso orale” nei confronti del cantante. Il motivo? «In tempi recenti, sfruttando la popolarità conseguente alla propria professione, in diverse occasioni ha manifestato vicinanza agli ambienti malavitosi». Di più: «La non estraneità del trentenne palermitano al mondo malavitoso è sottolineata anche da altri comportamenti resi espliciti dallo stesso che ha pubblicato alcuni selfie che lo immortalano in atteggiamenti confidenziali con persone pregiudicate esponenti di famiglie di Cosa Nostra. Il cantante con il suo comportamento ha messo in pericolo la sanità, la sicurezza e la tranquillità pubblica. Ciò in ragione del fatto che gli espliciti messaggi consegnati in più occasioni ai moderni mezzi di comunicazione contengono gravi espressioni visive e verbali che implicano una istigazione alla violenza, un’esaltazione delle gravi azioni antigiuridiche connesse alla criminalità organizzata, un’accettazione e condivisione di comportamenti e azioni contrari ai valori morali della società civile e lesive delle Istituzioni dello Stato».

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    Un primo piano di Daniele De Martino

    Lo scorso mese, riporta una nota stampa di Libera, “in occasione dell’inaugurazione del Presidio Legalità a Potenza il procuratore a capo della Dda di Potenza Francesco Curcio ha ricordato il concerto del dicembre 2019 patrocinato dal comune di Scanzano Jonico (amministrazione poi sciolta per infiltrazioni mafiose) in cui si esibì proprio De Martino”. «È sintomatico di una società che non è basata sulla cultura della legalità non solo la presenza del cantante in questione, ma il fatto che sotto quel palco ci fossero migliaia di persone», disse Curcio.

    Il selfie col boss finisce in Parlamento

    Le canzoni di Daniele De Martino sono finite anche in Parlamento. La deputata emiliana del M5S Stefania Ascari, lo scorso maggio, ha presentato una interrogazione al Ministero della Giustizia.
    «Si è appreso della notizia di un cantante neomelodico De Martino, apparso su Facebook con i boss Spadaro e che canta contro un pentito; queste canzoni, così come scritte e interpretate, inneggiando alla peggiore forma di delinquenza, rappresentano un “pugno allo stomaco” per chi, come gli appartenenti alle forze dell’ordine, lavora ogni giorno rischiando la vita per estirpare dal Paese il cancro della criminalità organizzata. In tali testi, ci sono, infatti, alcune frasi che appaiono superare il limite della decenza e della semplice libertà di opinione o di espressione. I commenti che appaiono sotto i video e i post di questi presunti artisti della canzone destano perplessità e rischiano di fomentare un clima di illegalità e di ingiustizia. I messaggi che vengono diffusi attraverso questi testi non possono essere ricondotti a mere ricostruzioni artistiche e canore, ma equivalgono a espressioni di odio nei confronti delle forze dell’ordine e della magistratura e di esaltazione della criminalità organizzata e dei suoi componenti». Così si legge nell’interrogazione.

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    Stefania Ascari

    C’è chi dice no

    Il consigliere regionale della Campania di Europa Verde, Francesco Emilio Borrelli, in riferimento alla canzone di De Martino contro i pentiti ha dichiarato: «Ennesima vergogna, nel testo tutti i codici camorristi che indicano come infami chi collabora con le forze dell’ordine e minacciano ritorsioni. Avanti con proposta di legge su apologia di mafia e camorra».
    Prima ancora, il sindaco di Bari Antonio De Caro, presidente dell’Anci, nel 2019, in riferimento al brano Samara di De Martino, il cui video, girato nel quartiere San Paolo di Bari, vedeva ragazzi che impugnavano pistole e kalashnikov, dichiarò: «Non mi piacciono le pistole impugnate da ragazzi» e «non mi piace che il messaggio sia di esaltazione approvazione della violenza criminale […] non piace che il signor De Martino abbia girato il video in un quartiere, il San Paolo, che da tempo sta lottando per affrancarsi da quegli stereotipi che gli hanno impedito di crescere».

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    Antonio De Caro

    Ma la Calabria tace

    E la politica calabrese? Silente. Nonostante Daniele De Martino svolga eventi patrocinati dalle amministrazioni comunali di tutta la regione e riempia le piazze veicolando messaggi come quelli contenuti nelle canzoni Comando io e Nu guaglione e quartier che inneggiano alla mafia, nessuno, ad oggi, ha preso alcuna posizione pubblica.

  • Cosenza a mano armata

    Cosenza a mano armata

    Il 1981 a Cosenza fu l’anno di due record particolari: gli omicidi (diciannove nel solo capoluogo) e, soprattutto, le rapine a mano armata.
    In particolare, gli assalti ai furgoni o ai vagoni portavalori. In quest’ultimo caso, il bersaglio preferito dei Vallanzasca ’i nuavutri era il treno Cosenza-Paola.
    Allora, in quella tratta, non esisteva la galleria. Perciò, il percorso sui binari della Crocetta era piuttosto lento e accidentato. Insomma, la zona ideale per i banditi.

    Record in punta di pistola

    Iniziamo con una cifra tonda: le rapine a mano armata del 1981 a Cosenza sono 136 in tutto.
    Questa cifra è l’apice di una escalation iniziata cinque anni prima. Al riguardo, la semplice lettura dei numeri dà un quadro impressionante.
    Nel 1976 le rapine sono solo dodici. Salgono a quarantacinque nell’anno successivo e arrivano a sessantacinque nel 1978.
    Nel 1979 si registra un leggero calo (sessantuno “colpi”) e nel 1980 risalgono di molto: novantasei.

    Ma cosa spinge la mala di Cosenza a emulare le gesta di quella del Brenta e, più in generale, delle “batterie” dei rapinatori a mano armata che in quegli anni terrorizzano l’Italia, almeno da Napoli in su?
    E soprattutto: possibile che le bande cosentine avessero sviluppato dal nulla (e praticamente da sole) questa “expertise”?

    La parola al pentito

    In uno dei consueti verbali-fiume, l’ex boss Franco Pino rilascia alcune dichiarazioni inequivocabili.
    La prima riguarda l’ascesa criminale dei gruppi cosentini, avvenuta proprio attraverso le rapine: «Eravamo cani sciolti, poi cominciammo a fare gruppo dando l’assalto ai vagoni portavalori sulla tratta ferroviaria Paola-Cosenza» (appunto…).
    Nella seconda dichiarazione, più generica, Pino fa un riferimento esplicito alla compartecipazione di forestieri, in particolare catanesi.

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    Il boss, poi pentito, Franco Pino

    Questa affermazione, tra l’altro, è riscontrata da una retata del 19 gennaio 1981. In quell’occasione finiscono in manette trentuno persone, sei di questi sono pregiudicati di Catania.

    Come nasce una ’ndrangheta

    La storia è risaputa fino alla noia, ma occorre un richiamo per chiarire meglio il concetto: con la morte del vecchio boss Luigi Palermo detto ’u Zorru (1977), la mala cosentina cambia struttura.
    Perde l’aspetto popolare, col suo sottofondo di “bonomia”, e mira a diventare una mafia.
    Una cosa simile, per capirci, a quel che nello stesso periodo accade a Roma, in particolare con l’ascesa della Banda della Magliana.

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    La Banda della Magliana

    Le batterie criminali cosentine confluiscono nei due gruppi che si contendono a botte di morti il controllo del territorio: il clan Pino-Sena e quello Perna-Pranno.
    Le rapine portano soldi, pure tanti, che servono a finanziare le cosche che, come tutte le attività, hanno costi non indifferenti: le paghe ai picciotti o ai killer, l’acquisto delle armi e della droga, le spese legali e l’assistenza ai familiari dei carcerati.
    Ma, anche per questo, le rapine sono un criterio di selezione dei picciotti o aspiranti tali.

    Da “grattisti” a “sgarristi”

    Un’altra frase di Franco Pino definisce con grande efficacia questo processo: «Eravamo grattisti e siamo diventati sgarristi».
    Tradotto in soldoni: i rapinatori più bravi, cioè capaci di tenere il sangue freddo e di non usare a sproposito le armi, entrano nelle cosche col grado di picciotto.
    Assieme a loro, agiscono i professionisti indipendenti: i catanesi menzionati da Pino (e quelli finiti in manette), ma anche romani.
    Il meccanismo è piuttosto semplice: il boss “benedice” e le batterie miste, di picciotti e indipendenti, eseguono. Quindi una quota del bottino finisce al capo e il resto viene diviso.
    Questo spiega perché i colpi diventano sempre più spettacolari e lucrosi. Ad esempio, il celebre assalto al furgone della Sicurtransport.

    Cosenza a mano armata: l’assalto alla diligenza

    L’episodio è uno dei più clamorosi nelle vicende criminali cosentine. Sia per il bottino, novecentotrenta milioni dell’epoca, sia per la dinamica, ricostruita anche dal collaboratore di giustizia Dario Notargiacomo nelle pieghe del processo Garden.
    È l’11 agosto 1981. Il portavalori viene seguito a distanza proprio da Notargiacomo, che fa da staffetta a bordo di una moto potente.
    Ed è sempre Notargiacomo a segnalare ai suoi l’arrivo del furgone, che finisce in una trappola micidiale.

    Un camioncino, messo di traverso sulla strada, blocca il portavalori. Contemporaneamente, un’altra auto, alle spalle del mezzo, impedisce la retromarcia.
    Quindi escono fuori i rapinatori: uno di loro spara contro il parabrezza, un altro infila un candelotto di dinamite nel tergicristalli.

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    Mario Pranno

    Sembra la scena di uno di quei poliziotteschi che all’epoca sbancavano ai botteghini.
    Invece è una storia vera, che prova la determinazione con cui i cosentini tentano di non essere secondi a nessuno. Che ci siano le cosche dietro quest’operazione, lo prova la successiva retata, in cui le forze dell’ordine recuperano parte del malloppo e fanno scattare le manette ai polsi di sei persone.
    Tra queste Mario Pranno e Francesco Vitelli.

    Un “milanese” in trasferta

    Nelle rapine cosentine c’è anche chi ci ha rimesso la carriera criminale.
    È il caso di Ugo Ciappina, uno dei più celebri rapinatori italiani.
    Classe 1928, di famiglia comunista originaria di Palmi, Ciappina partecipa alla Resistenza, dove suo fratello Giuseppe ha un ruolo forte: è contemporaneamente dirigente del Pci clandestino di Como e ispettore politico delle brigate Garibaldi.

    Ugo Ciappina in una immagine d’epoca e in una foto di pochi anni fa, ormai anziano

    Nel dopoguerra, Ciappina tenta vari mestieri. Poi mangia la foglia e assieme a varie persone, tra cui un ex fascista, fonda la Banda Dovunque, detta così perché agiva dappertutto. Grazie a questa batteria, il Nostro si fa un nome nella ligera, cioè la mala milanese.
    Tant’è che riprende alla grande l’attività una volta uscito di galera da dove entra ed esce di continuo.

    La rapina di via Osoppo a Milano

    Nel 1958 partecipa a uno dei colpi più sensazionali dell’epoca: la rapina a un portavalori a via Osoppo, nel cuore di Milano.
    Il bottino è lautissimo: 114 milioni di lire di allora, ancora non toccati dall’inflazione. Preso e condannato, esce di carcere nel 1974.
    Eppure proprio a Cosenza, Ciappina prende uno scivolone: lo arrestano sempre nel maledetto 1981 per un tentativo di rapina alla Banca nazionale del lavoro. Ma evita la condanna.
    Alla faccia della città “babba”…

  • Delitto Belsito: il gup infligge sessantotto anni di carcere

    Delitto Belsito: il gup infligge sessantotto anni di carcere

    il gup di Catanzaro ha condannato tre persone nel rito abbreviato del processo per l’omicidio di ‘ndrangheta di Domenico Belsito, avvenuto nel 2004 a Pizzo.
    Hanno ricevuto 30 anni di condanna Nicola Bonavota e Francesco Fortuna.
    Otto anni per il collaboratore di giustizia Andrea Mantella; assolto Pasquale Bonavota. Belsito fu ferito a colpi di arma da fuoco mentre si trovava in un bar di Pizzo e morì due settimane dopo nell’Ospedale di Vibo Valentia.

    Omicidio Belsito: esecutore e mandante

    Secondo l’accusa avrebbe sparato Francesco Scrugli, ucciso a Vibo nel 2012. L’omicidio, secondo la Dda di Catanzaro, sarebbe maturato per dinamiche interne ai clan, impegnati in una lotta interna alla famiglia di ’ndrangheta dei Bonavota di Sant’Onofrio per definire la spartizione dei territori di competenza.
    A processo con rito ordinario, invece, c’è Salvatore Mantella, ritenuto mandante dell’omicidio e cugino del collaboratore di giustizia che avrebbe partecipato materialmente al delitto.

  • Cocaina dalla Calabria a Messina, in arresto anche il boss Nirta

    Cocaina dalla Calabria a Messina, in arresto anche il boss Nirta

    I Carabinieri del Comando Provinciale di Messina hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 18 persone (per 13 è stato disposto il carcere, per 3 gli arresti domiciliari e per 2 l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria), accusate a vario titolo di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, in particolare cocaina. Tra gli arrestati il boss ‘ndranghetista Paolo Nirta, in affari con i trafficanti messinesi.

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    Il procuratore Maurizio De Lucia

    L’inchiesta, coordinata dalla Dda guidata dal procuratore Maurizio de Lucia, nasce dagli accertamenti fatti dal Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Messina dal febbraio 2021, a seguito delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, che ha parlato di una strutturata associazione di trafficanti di droga che operava principalmente nella zona sud della città di Messina.

    Il ruolo della famiglia Nirta

    La banda aveva di fatto quasi interamente monopolizzato l’approvvigionamento in città della cocaina, che poi veniva spacciata al dettaglio a Messina, ma anche nel comune di Tortorici, dove c’era un’autonoma piazza di spaccio gestita da alcuni degli indagati. L’organizzazione si approvvigionava da un esponente di spicco della famiglia Nirta, ai vertici della ‘ndrangheta calabrese. In carcere oggi è infatti finito il figlio di Giuseppe Nirta, detenuto all’ergastolo per la faida di San Luca, e fratello di Sebastiano e Francesco Nirta, all’ergastolo per il loro coinvolgimento nella strage di Duisburg in cui vennero uccise sei persone.

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    Giovanni Strangio, la mente del commando che agì a Duisburg

    Doppi fondi e telefonini riservati

    Il fornitore si serviva di un’articolata rete di corrieri, alcuni dei quali incensurati e tutti residenti nella provincia di Vibo Valentia, che si occupavano della consegna della droga “a domicilio” fino a Messina. Particolarmente ingegnose erano le modalità di trasporto della cocaina dalla Calabria a Messina. Per sfuggire a eventuali controlli, in particolare nell’area degli imbarcaderi dei traghetti, gli indagati utilizzavano auto modificate in alcune parti della carrozzeria con doppi fondi in cui nascondere la droga. I calabresi, inoltre, avevano dato ai complici messinesi telefoni riservati.

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    Imbarcaderi a Messina

    Tre kg di cocaina dalla Calabria a Messina

    Nel corso delle indagini sono state documentate varie forniture di sostanze stupefacenti dalla Calabria alla Sicilia, che hanno portato al sequestro di 3 chili di cocaina. Oltre alla città di Messina, i vertici dell’associazione erano in grado di rifornire di stupefacente pusher che operavano nella cittadina di Tortorici con i quali avevano creato un canale privilegiato di fornitura. A Tortorici quattro ragazzi avevano avviato un commercio di stupefacenti e quasi settimanalmente acquistavano la droga a Messina. L’operazione di oggi, condotta dai carabinieri, ha impegnato oltre 120 militari del Comando Provinciale di Messina, impiegati anche nelle provincie di Reggio Calabria e Vibo Valentia. (ANSA)

  • MAFIOSFERA| Droga: crolla la ‘ndrangheta nel traffico globale

    MAFIOSFERA| Droga: crolla la ‘ndrangheta nel traffico globale

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    L’11 luglio scorso sono state depositate le motivazioni della sentenza del maxiprocesso “European ’ndrangheta connection – Pollino” al tribunale di Locri. Nel febbraio 2022 il primo grado si era infatti concluso con 12 condanne per complessivi 172 anni di reclusione e 5 assoluzioni. Le motivazioni confermano in sostanza gran parte della ricostruzione dell’accusa, notando il ruolo di spicco del clan Pelle-Vottari di San Luca nel narcotraffico europeo.

    Il controllo del mercato

    L’operazione si era distinta per gli arresti incrociati, avvenuti in un unico Action day, il 5 dicembre del 2019, tra Italia, Germania, Paesi Bassi e Belgio, coordinati da Europol e Eurojust. Pollino ha fatto luce su una vasta e complessa rete di importazione di narcotici, principalmente cocaina, in Europa e in Sud America: famiglie di ‘ndrangheta storiche, dalla Locride al resto del mondo, avevano dimostrato di avere un ruolo di coordinamento e di gestione del mercato.

    Qualche settimana fa, il 28 giugno, l’operazione antidroga ‘Hermano’ condotta dai carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria con il coordinamento della Direzione distrettuale antimafia reggina ha portato all’arresto di 19 persone. Hermano riguarda i clan della piana di Gioia Tauro, precisamente sul territorio di Taurianova, ma con proiezioni, e arresti, anche a Milano, Parma, Verona e Vicenza. L’obiettivo ancora una volta il narcotraffico, gestire i traffici di marijuana, hashish e cocaina dal Sud America fino all’Italia.

    Il 7 giugno scorso, infine, il tribunale di Trieste ha eseguito 38 ordinanze di custodia cautelare e disposto il sequestro di due milioni di euro contro narcotrafficanti attivi tra Italia, Slovenia, Croazia, Bulgaria, Olanda e Colombia. L’operazione Geppo2021 aveva portato al sequestro di 4.3 tonnellate di cocaina al porto triestino, il terzo sequestro più grande d’Europa.

    Dal Sud America all’Est Europa

    Rivelano le indagini, anche quelle giornalistiche, che si trattava dei giri di prova di un’alleanza tra il Clan del Golfo e importatori europei. Il Clan del Golfo, anche chiamato Urabeños, è uno dei gruppi di narcotrafficanti più importanti della Colombia, che conta fino a 2000 affiliati. Gli importatori in Europa invece sono un gruppo italiano legato alla ‘ndrangheta ma attivo anche a Roma e a Milano e una rete di individui provenienti dall’Est Europa.

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    Colombia: la cattura di Otoniel, considerato il capo del Clan del Golfo

    Queste tre operazioni non sono le uniche, ma le più rilevanti nel recente periodo. Cosa hanno in comune? Una notevole densità di rapporti con soggetti e organizzazioni criminali estere. Nel processo Pollino si erano visti i rapporti con trafficanti di Guyana e Suriname e con distributori turchi. Nell’operazione Hermano ci sono rapporti con fornitori peruviani. E nella maxi-operazione Geppo2021 compaiono colombiani, albanesi e bulgari.

    L’internazionale della cocaina

    Ovviamente, che la ‘ndrangheta sia un’organizzazione internazionale dedita all’importazione di stupefacenti già si sapeva. Sono noti, ad esempio, i rapporti con dei gruppi criminali brasiliani, come il Primeiro Comando da Capital (PCC) attivati e mantenuti per l’approvvigionamento della cocaina dai porti del Sud America all’Europa. Altrettanto noti sono gli avamposti dell’onorata società in Africa e nel resto dell’Europa. Lo aveva già confermato l’operazione Platinum nel maggio 2021, grazie anche ad approfondite indagini giornalistiche.

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    Una grafica sulla rete internazionale del narcotraffico (fonte Limes)

    I traffici illeciti che spaziano dall’Europa all’America passando per l’Africa, vedono i clan calabresi cooperare e forgiare vere e proprie partnership con Albanesi, Rumeni, Colombiani, Messicani, Brasiliani, Bulgari, Serbi e via discorrendo. È oggi normale, nelle ordinanze di custodia cautelare, dalla Calabria alla Lombardia, vedere tra gli arrestati sia italiani che stranieri. Questa ibridizzazione delle reti del narcotraffico porta a una serie di riflessioni che hanno a che fare sia con la natura dei traffici illeciti sia con l’identità della ‘ndrangheta in questi traffici.

    Le regole del narcotraffico

    Innanzitutto, il narcotraffico si muove con regole che non sono della ‘ndrangheta, nonostante il ruolo di spicco che la criminalità calabrese ha assunto e consolidato negli anni. Prendiamo la cocaina. Il mercato globale della cocaina si muove sui canali dei traffici legali, tra porti, marine, aeroporti, strade, utilizzando – sfruttando – la logistica interconnessa della nostra epoca. La produzione della cocaina è ai massimi storici negli ultimi anni, complici politiche sociali malriuscite del Sud, in paesi come Perù, Bolivia e Colombia, e drammatici flop della “guerra alla droga” (war on drugs) da parte del ricco Nord, come Stati Uniti, Canada, ed Europa.

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    Il consumo di cocaina è incostante aumento

    A questo aumento della produzione e della disponibilità del narcotico, si affianca l’atomizzazione dei gruppi criminali: in breve, c’è più gente che produce e vende la coca, c’è più gente che l’acquista. La retorica che la ‘ndrangheta controlli il mercato della cocaina europea è soltanto questo, retorica. Non solo si tratta di un mercato incontrollabile – in cui qualunque gruppo criminale alle giuste condizioni può effettivamente entrare – ma anzi, il dominio del mercato della cocaina è assolutamente concorrenziale.

    Uniti per gli affari

    Se si considera l’ascesa dei clan balcanici – che in alcuni casi hanno imparato il mestiere dai nostri corregionali ‘ndranghetisti, iniziando dalla manovalanza ai porti di Brindisi, Bari, Genova, Livorno ad esempio – si vede chiaramente come il settore in questione permetta a chi abbia denaro da investire, disponga di una gestione efficace della logistica e abbia la capacità di trovare sodali disponibili di entrare e acquistare velocemente una fetta del mercato.

    Questo implica che da una parte i clan di ‘ndrangheta hanno perso parte del loro tanto sbandierato controllo e dominio del mercato della cocaina e hanno imparato che senza collaborazione con altri nodi della rete non si sopravvive. Allo stesso tempo questa perdita di posizione non necessariamente si traduce in un guadagno minore, essendo appunto il mercato molto florido: c’è più cocaina per tutti i gruppi criminali che sanno collaborare, e le partnership cambiano quando serve agli affari.

    Ci sono un italiano, un peruviano e un albanese…

    In operazione Hermano, per esempio, leggiamo di come un gruppo calabrese utilizza come canale di approvvigionamento principalmente per cannabis e hashish dei partner albanesi, ma in seguito a un debito contratto con loro, cercano e trovano un gruppo di peruviani, stanziato a Milano e con broker anche italiani, per l’approvvigionamento di cocaina che permette un guadagno più alto e dunque permetterebbe loro di saldare il debito più velocemente.

    Un uomo della Dia intercetta una telefonata

    «Decisamente, se non ci sono i soldi, si può risolvere con macchine [ndr, cocaina, per saldare il debito con gli albanesi]».
    «Abbiamo litigato pure io con tutti…con gli albanesi, pure Flamur s’è incazzato con me (…)».
    «Ma lo sai che io ho perso diecimila euro qua con questi figli di puttana [il gruppo peruviano], ti ricordi quella sera che ti dicevo io che avevo anticipato io i soldi per le tre Pande [riferimento ad automobili, per intendere partite di cocaina]?».
    «E come fai a perdere diecimila euro… (…) vieni che ci andiamo insieme e le recuperiamo».
    «E certo che le devo recuperare, sto aspettando che viene zio qua a Baggio».
    «Perché per questo figlio di puttana qua, perché avevo preso impegni con Flamur»
    «Gli dici, Flamur, qua è successo questo, questi qua ci hanno preso per il culo e non rispondono più, hanno preso ancora giorni e a me non mi va di fare più figure di merda con le persone, basta!».

    Il potere della reputazione

    A questo si deve aggiungere una seconda riflessione. Certamente l’identità della ‘ndrangheta si fonda su un potere reale, concreto, che interferisce con la vita della gente di Calabria e non solo, dall’estorsione all’intimidazione, dalla violenza all’infiltrazione nella politica paesana o cittadina. La ‘ndrangheta ha ancora oggi un potere intimo, familiare, locale.

    Ma diverso dall’aspetto identitario locale e familiare, è il potere economico prettamente criminale dei clan, che una volta sui mercati globali non hanno bisogno di identificarsi come ‘ndrangheta o mafia, ma utilizzano la solidità della loro reputazione di acquirenti e fornitori che saldano i conti e sanno aggirare le forze dell’ordine. Proprio come si legge anche dall’intercettazione precedente e in quella successiva che proprio di questa solvibilità parla.
    «Sistemiamo così che è la migliore cosa perché non voglio fare casini perché dopo perdo l’amicizia capito? (…) Perdo la stima che avevo io su di lui e lui proprio mi dice ma che persona sei, capito?».

    Nessuno è infallibile

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    Finanzieri in azione nel porto di Gioia Tauro

    Se le due anime dell’organizzazione criminale stanno insieme da un punto di vista analitico, da quello meramente fattuale questa unità non aiuta a comprendere il successo – o il fallimento – nei mercati illegali. Infatti, ricordiamoci anche che le operazioni contro narcotraffico sono iniziative fallite, intercettate dalle forze dell’ordine quindi andate male. Ci mostrano clan che a volte faticano a far tornare i conti, altre volte sbagliano a fidarsi di qualcuno, altre volte ancora incappano in problemi dalla fornitura alla distribuzione, fino al pagamento. E non capita poi così di rado. Di questo, in fondo, ci si può rallegrare: sicuramente neanche la ‘ndrangheta è infallibile, quanto meno nel frammentato e concorrenziale mercato degli stupefacenti.

  • Aggredito ex sindaco di Roccabernarda: al vaglio la posizione di due 17enni

    Aggredito ex sindaco di Roccabernarda: al vaglio la posizione di due 17enni

    L’ex sindaco di Roccabernarda, comune di poco più di 3 mila abitanti in provincia di Crotone, Francesco Coco, 73 anni, è stato ricoverato in gravi condizioni, ma non sarebbe in pericolo di vita, nell’ospedale di Catanzaro a seguito di una violenta aggressione subita nella notte mentre stava rientrando a casa. Da una prima ricostruzione due persone, con volto coperto, avrebbero atteso Coco davanti casa e mentre stava entrando nel giardino colpendolo alle spalle con un bastone e causandogli ferite gravi tanto che i sanitari intervenuti hanno deciso di trasferirlo nel reparto di neurochirurgia dell’ospedale del capoluogo calabrese dove è attualmente ricoverato in osservazione.

    Al vaglio la posizione di due 17enni

    L’aggressione è avvenuta poco prima della mezzanotte. Gli accertamenti avviati dagli investigatori dell’Arma hanno portato verso due diciassettenni nei confronti dei quali non è stato ancora emesso alcun provvedimento giudiziario. La loro posizione è al vaglio dei militari anche allo scopo di comprendere le motivazioni alla base del pestaggio. Sono stati sequestrati anche degli indumenti utilizzati dagli aggressori poi abbandonati nelle campagne circostanti durante le rocambolesche fasi della fuga a piedi. I carabinieri stanno anche procedendo all’esame delle telecamere di videosorveglianza pubbliche e private presenti nell’area per raccogliere eventuali altri indizi

    Ex maresciallo noto per le posizioni contro la ‘ndrangheta

    Coco, che nel 2006 è stato anche insignito del titolo di cavaliere della Repubblica italiana, è un ex maresciallo dei carabinieri noto per le sue posizioni contro la criminalità organizzata. A Roccabernarda è stato sindaco, a capo di una lista di centrodestra, dal 2002 al 2007; eletto successivamente consigliere nel 2017 ha rivestito anche il ruolo di consigliere provinciale dal 2020 al 2021. Negli anni scorsi è già oggetto di gravi intimidazioni: nel 2019, quando era consigliere comunale, gli è stata incendiata l’auto.

    Il sindaco di Roccabernarda, Luigi Foresta, insieme a tutta l’amministrazione, ha espresso un messaggio vicinanza e solidarietà a Coco: «Siamo vicini con la mente e con il cuore – afferma – al nostro concittadino. Atti del genere sono vergognosi, inauditi e incidono negativamente sulla tranquillità di una intera popolazione. Siamo certi che le autorità competenti troveranno i colpevoli di questo vigliacco gesto così da permettere giustizia nei confronti del Maresciallo e di tutta la sua famiglia».

     

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  • Delitto a Mandatoriccio, confessa il marito

    Delitto a Mandatoriccio, confessa il marito

    Il delitto di Mandatoriccio costato la vita alla 71enne Domenica Caligiuri ha il più scontato dei colpevoli: suo marito Luigi Carlino. L’uomo, 73 anni, fermato poco dopo il ritrovamento del corpo della vittima non ha retto alle domande degli inquirenti. Crollato durante l’interrogatorio, ha confessato di aver ucciso sua moglie. Stando alle informazioni trapelate avrebbe descritto modalità e tempistiche dell’uxoricidio nei dettagli.

    Mandatoriccio, dopo la confessione del marito l’autopsia

    Carlino avrebbe anche fornito ai militari del Reparto territoriale di Corigliano Rossano, che stanno svolgendo le indagini, le indicazioni per fare trovare il coltello con cui ha ucciso la moglie. L’arma, però, non è stata ancora trovata. Il corpo di Domenica Caligiuri si trovava all’interno dell’abitazione della coppia a Mandatoriccio, sul letto matrimoniale sporco di sangue. Ora sarà l’autopsia a dover chiarire ulteriori particolari sull’accaduto e verificare se il racconto del marito corrisponda al vero. Secondo le prime ipotesi, l’accoltellamento della donna risalirebbe a un paio di giorni fa e il movente sarebbe da ricondurre ai frequenti litigi della coppia. Luigi Carlino avrebbe però continuato a comportarsi normalmente, finché i parenti della vittima, non avendo più notizie di lei, hanno allertato le forze dell’ordine. Quindi, la macabra scoperta nella mattinata di oggi.