La prima puntata di Lezioni di mafie, il programma condotto da Nicola Gratteri su La7, andata in onda il 17 settembre 2025, ci riporta alle radici antropologiche di una delle più potenti organizzazioni criminali del mondo quale la ‘ndrangheta calabrese. Attraverso il dialogo tra Gratteri, lo storico Antonio Nicaso e il giornalista Paolo Di Giannantonio, il programma è stato un interessante resoconto giudiziario, che si apre a un viaggio profondo nella psiche collettiva di una terra aspra, dove l’ombra della mafia coesiste con l’essenza stessa della cultura umana.
Come aspirante antropologo, vedo in questa narrazione un’opportunità unica per decifrare il crimine, quel tessuto sociale che lo ha generato e nutrito, trasformandolo da fenomeno locale in impero transnazionale.
La ‘ndrangheta emerge come un sistema rituale e simbolico che riecheggia le strutture tribali antiche del Mediterraneo meridionale. Nata sulle montagne della Calabria – come Gratteri evoca con passione, ricordando la sua infanzia a Gerace, un paese isolato tra rocce e silenzi – questa organizzazione è mera delinquenza economica, ma anche una vera e propria “religione profana” del potere.
Riti e iniziazioni, tra sacro e sciamanesimo
I riti di affiliazione, descritti nel programma con dovizia di dettagli storici da Nicaso, richiamano le iniziazioni sciamaniche o le società segrete delle culture preindustriali: giuramenti su sangue e croci, gerarchie basate su vincoli familiari e codici d’onore che trascendono la legge statale. Questi elementi non sono casuali: sono radicati in un’antropologia della sopravvivenza.
La Calabria, con il suo terreno impervio e la storia di emigrazioni forzate, ha forgiato comunità dove il clan familiare – la ‘ndrina – funge da rete di protezione contro lo Stato assente e le carestie storiche. Come osserva l’antropologo Edward Banfield nel suo classico Le basi morali di una società arretrata (1958), in tali contesti il “familismo amorale” diventa norma: la lealtà al sangue prevale sull’interesse collettivo, permettendo alla ‘ndrangheta di evolvere da bande di briganti ottocenteschi a holding globali.
Dalle antiche montagne, alla conquista del resto del mondo
Dalle montagne più dure verso i cinque continenti
Il programma illumina brillantemente questa metamorfosi antropologica. Partendo dai villaggi montani – luoghi di isolamento che favoriscono la coesione endogamica e il sospetto verso l’esterno – Gratteri e Nicaso tracciano il percorso della ‘ndrangheta verso i cinque continenti. Espansione economica, attraverso il traffico di cocaina o l’infiltrazione in finanza e politica, adattamento culturale darwiniano. La mafia calabrese, a differenza della più spettacolare Cosa Nostra siciliana, opera nel silenzio, un’etica del “non detto” che riflette il codice dell’omertà come meccanismo di difesa comunitario.
Eppure, qui emerge il dramma umano: l’infiltrazione silenziosa nelle istituzioni legali corrompe il capitale sociale, trasformando reti di solidarietà in catene di dipendenza. Pensiamo alle storie di resistenza raccontate nella puntata – imprenditori e cittadini che “dicono no” – come esempi di agency antropologica, di individui che rompono il ciclo culturale del conformismo mafioso per rivendicare un’identità autonoma.
Nicola Gratteri e Antonio Nicaso. La loro collaborazione è iniziata molti anni fa
Magistrato e antropologo
Ma ciò che rende Lezioni di mafie un gioiello non è solo l’analisi storica, bensì il suo invito a una riflessione etica profonda. Gratteri, con la sua voce rotta dall’esperienza di una vita sotto scorta, incarna l’antropologo militante: un insider che decostruisce la cultura mafiosa dall’interno, mostrando come essa sfrutti le vulnerabilità umane – paura, povertà, senso di appartenenza – per perpetuarsi. In un mondo globalizzato, dove la ‘ndrangheta usa il dark web e le criptovalute (temi accennati come anticipazione delle puntate successive), questa mafia diventa metafora di un’antropologia post-moderna, ibrida, fluida, capace di mimetizzarsi nelle economie legali. Eppure, il programma ci ricorda che le radici rimangono in Calabria, dove il paesaggio montano è sfondo, ma anche agente culturale che modella l’identità, la lotta alla mafia è una battaglia per reclamare l’umanità collettiva.
Scioglimento di Rende: «Sono passati circa venti giorni dalla nostra richiesta di accesso agli atti», spiega Marcello Manna, l’ex sindaco di Rende, nella sala convegni dell’Hotel Europa. Ma «finora senza alcun risultato», aggiunge Manna. La prefettura tace, forse perché da quell’orecchio non ci sente.
A questo punto, è lecito chiedersi: c’era davvero bisogno di una conferenza stampa alle porte di Natale solo per lamentare il silenzio delle istituzioni che hanno commissariato, la scorsa estate, il Comune del Campagnano per mafia?
Manna: Rende è Rende
Evidentemente non è solo questo. Magari pesa anche il fatto che «Rende è Rende, con tutto il rispetto degli altri municipi sciolti per mafia», che in Calabria sono circa il 50 per cento del totale nazionale.
«Che Rende è Rende non lo diciamo noi, ma la Camera di Commercio, secondo cui la nostra città ha il maggior numero di lavoratori, imprese e partite Iva». Già: ma allora perché la città universitaria si è trasformata, stando agli inquirenti, antimafia e non, da modello in sistema ed è passata dal mirino delle Procure a quello del ministero dell’Interno?
L’ex sindaco Marcello Manna durante la conferenza
Scioglimento di Rende: tutto un complotto?
Con la consueta abilità di consumato principe del foro, Manna evita le accuse dirette e, soprattutto, non evoca complotti. Non esplicitamente, almeno.
Sebbene la tentazione sia forte, l’ex sindaco glissa alla grande le domande dei giornalisti che cercano di cavargli qualche nome, magari per farci un titolone. Manna non dice mai che un ipotetico manovratore occulto potrebbe essere Roberto Occhiuto. Tuttavia, allude in maniera piuttosto esplicita. Infatti: «Dal verbale del Comitato per la sicurezza risulta che il sindaco di Cosenza si è astenuto sulla proposta di scioglimento». Ma le cose starebbero altrimenti: «A me Franz Caruso ha detto di aver votato addirittura contro, perché non vedeva i presupposti di una decisione così drastica». Invece, il verbale tace sulla presidente della Provincia di Cosenza e di Anci-Calabria, che forse avrebbe votato a favore.
Parliamo di Rosaria Succurro, organica al centrodestra a trazione Occhiuto…
Con la stessa abilità, Manna evita di fare l’altro nome, che pure potrebbe ispirare più di un titolista: quello dell’ex procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri.
E tuttavia l’ex sindaco si sofferma a lungo sulla sudditanza della politica calabrese nei confronti delle toghe. E, già che c’è, si leva qualche sassolino dalle scarpe. Ad esempio, sull’inchiesta Reset, condotta, ricordiamo, dalla Dda di Catanzaro a guida Gratteri. Ebbene, l’indagine «ha subito forti ridimensionamenti proprio sulle misure cautelari, irrogate in prima battuta». Come a dire: gli indagati tornano a piede libero, ma Rende è sciolta. E ce n’è anche per Mala Arintha, l’inchiesta condotta dalla Procura di Cosenza: «Ricordo che gli inquirenti hanno prodotto alcune intercettazioni che mi scagionavano solo dopo che il gip si era pronunciato contro di me». Perciò di «certi inquirenti non mi fido».
Scioglimento di Rende: un contesto da congiura
Forse il complotto non c’è. O, come tutti i complotti, è indimostrabile. Tuttavia, fa capire Manna, il contesto sarebbe tipico di una congiura.
E, come ogni congiura, anche questa avrebbe forti interessi alle spalle. Tra i principali, l’eliminazione di Rende per semplificare il percorso verso la città unica (e qui si tornerebbe al centrodestra di potere a guida Occhiuto).
Inoltre, la vicenda di Rende avrebbe l’esito tipico di tutte le congiure: «Con lo scioglimento per mafia si resta isolati». Sarà, ma Manna, circondato dagli esponenti del suo Laboratorio Civico e dai suoi ex assessori, a partire da Marta Petrusewicz, che ha subito il commissariamento da sindaco facente funzione, ha voluto ribadire di non essere solo né isolato.
Un momento della conferenza di Manna
Scioglimento di Rende: Mattarella risponda
L’ex sindaco rilancia: stiamo preparando un dossier che presenteremo al presidente della Repubblica.
Come a dire che Rende, già modello e sistema, diventa un caso grazie al ricorso al capo dello Stato, che si aggiungerebbe all’attuale ricorso al Tar contro la decisione del ministro dell’Interno. Il giudice non può essere a Berlino e forse non è nemmeno a Catanzaro. Tanto vale mirare in alto. Tanto più che la città ha già subito i suoi danni: i commissari hanno fatto scadere i termini per la rottamazione dei debiti.
Ma Manna sostiene di non aver nulla da rimproverarsi: «Anche se mi fossi dimesso, non sarebbe cambiato niente». Il bersaglio, insomma, non era tanto lui ma la città e la sua coalizione di maggioranza, «che forse ha avuto un torto: non essere organica ad alcun potentato». Il che significa essere alla mercé dei poteri forti, politici e giudiziari.
La riforma mancata
Le anomalie dello scioglimento di Rende non finirebbero qui, sostiene ancora Manna: «Non vi sembra strano che la commissione d’accesso era composta da militari che avevano indagato su Rende per conto della magistratura»?
E si potrebbe continuare. Peccato solo che lo scioglimento per presunte infiltrazioni mafiose sia un procedimento amministrativo che prescinde dai procedimenti penali (e dalle loro garanzie). Anche su tale aspetto, Manna ha qualcosa da dire: «Ricordo che di recente oltre duecento amministratori dell’Anci hanno proposto un progetto di riforma dell’articolo 142 del Tuel (che disciplina lo scioglimento dei Comuni per mafia)».
E in questa corsa alla riforma, che mirerebbe a garantire di più gli amministratori locali dalla discrezionalità dei burocrati e dei prefetti, Rende è stata in prima fila: «Ricordo anche che la segretaria nazionale dell’Anci ha ribadito che siamo stati i primi amministratori a proporre una riforma della normativa».
Prendersela con la normativa, elaborata in questo caso per gestire emergenze, può essere il minimo ma è comunque poco. Se questa riforma fosse passata almeno un anno fa, sarebbe stata davvero… manna dal cielo, per l’ex sindaco e la sua maggioranza.
E non è solo un modo di dire…
L’arresto di Patrizio Bevilacqua lo scorso sabato notte rappresenta un nuovo capitolo nelle vicende della criminalità legata ai clan rom di Reggio Calabria. L’uomo aveva già riportato una condanna per estorsione in relazione al caso Ventura. Stavolta lo hanno fermato mentre trasportava su un’Audi di sua proprietà un ingente quantitativo di stupefacenti assieme a dei bilancini di precisione.
Il tutto avviene a qualche giorno dalla conferenza stampa sull’operazione Garden contro la ‘ndrangheta reggina dello scorso 14 novembre. A condurla, la Guardia di Finanza del Comando provinciale di Reggio Calabria col coordinamento della Procura distrettuale antimafia diretta da Giovanni Bombardieri.
Il procuratore Giovanni Bombardieri
Il do ut des tra i rom e la ‘ndrangheta
L’indagine, che colpisce le attività delle cosche Borghetto-Latella e ha portato alle misure cautelari per 27 persone, conferma le ipotesi tracciate nell’inchiesta de I Calabresi sul nuovo ruolo dei clan rom all’interno della ‘ndrangheta. Secondo gli inquirenti, i rom dei quartieri Modena-Ciccarello e Arghillà sarebbero ormai organici alla criminalità reggina nell’organizzazione dello spaccio di stupefacenti, di traffico di armi, estorsioni e usura, in continuità con le vicende che riguardano anche altre aree della Calabria, come la Piana di Gioia Tauro, la Sibaritide, il Lametino.
In particolare i rom avrebbero fornito le armi da guerra trovate dalla Finanza. In cambio avrebbero ottenuto l’autorizzazione a esercitare i crimini in modo libero e autonomo. Potrebbero, infatti, contare su «un’organizzazione autonoma con all’attivo decine e decine di persone, soprattutto giovanissimi», hanno affermato alcune fonti investigative.
Una veduta del quartiere Arghillà
Patrizio Bevilacqua e i guai a casa Ventura
Si tratta di due vicende che seguono a un altro segnale inquietante: l’attentato intimidatorio dello scorso 24 ottobre alla famiglia Ventura. Ignoti, appropinquandosi all’abitazione dei Ventura, hanno esploso cinque colpi armi da fuoco contro la loro auto. Tutto ciò nonostante la Prefettura di Reggio Calabria avesse messo Francesco Ventura sotto tutela.
L’episodio è avvenuto dopo l’uscita di diversi articoli sul tema e a margine di un’ulteriore condanna riportata da Patrizio Bevilacqua per violazione dei sigilli. Osservando le immagini dell’attentato registrate dalle telecamere a circuito chiuso posizionate fuori dall’abitazione la mente torna gli anni Ottanta, quando a Reggio si sparava e vigeva una sorta di coprifuoco non dichiarato.
Patrizio Bevilacqua, la politica e i Ventura
Estorsione, trasporto e spaccio di stupefacenti, minacce: questi i segmenti di un filo che legherebbe Bevilacqua a logiche e azioni che vanno ben oltre la bassa manovalanza criminale per saldarsi al racket delle case popolari e alle nuove piazze di spaccio sotto il controllo dei clan rom.
In merito al tema delle case popolari, la ricostruzione pubblicata da I Calabresi dopo l’analisi dei verbali di alcune commissioni consiliari del Comune di Reggio tratteggiava una situazione opaca e caotica. L’avevano denunciata sia l’allora dirigente del settore, l’avvocata Fedora Squillaci, sia l’ex delegato al patrimonio edilizio Giovanni Minniti. Si va avanti così da diversi anni, senza trovare soluzione. E senza che, alla luce delle nuove notizie, la politica abbia speso una parola o un gesto di solidarietà verso i Ventura che da anni, anche alla luce delle risultanze delle loro audizioni in quelle stesse commissioni, denunciano una condizione di illegalità diffusa e perdurante.
Che diranno Ripepi e Lamberti?
Le domande (e le risposte) che una politica usualmente prodiga di dichiarazioni – ma in questo caso muta – non può più ignorare sono di due ordini.
Massimo Ripepi
Il primo riguarda quali provvedimenti si vogliono prendere per diradare la cortina di nebbia che regna sul settore dell’edilizia popolare del Comune di Reggio.
Il secondo concerne la posizione che Massimo Ripepi ed Eduardo Lamberti Castronuovo assumeranno nei confronti di Bevilacqua. Quest’ultimo con Ripepi è stato candidato al Consiglio Comunale. Con Lamberti, invece, intratterrebbe rapporti di lavoro tali da avere a disposizione, per stessa ammissione di Lamberti, le chiavi di casa sua.
Eduardo Lamberti Castronuovo
Entrambi i politici reggini hanno già da tempo lanciato la propria campagna elettorale per le prossime amministrative come papabili candidati sindaco.
In attesa di ulteriori sviluppi dei filoni d’indagine, non guasterebbe una presa di posizione da parte dei due.
Femminicidi e non solo. Un argomento tornato alla ribalta dopo l’assassinio di Giulia Cecchettin. La Fondazione “Attilio e Elena Giuliani” e l’associazione culturale Xenia dedicano un incontro-dibattito al tema Violenza di genere: conoscere, agire, educare, prevenire. L’iniziativa si svolgerà a Villa Rendano il 30 novembre 2023 alle 17, col patrocinio del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Cosenza, della Fondazione scuola forense della provincia di Cosenza e della Scuola forense “Bernardino Alimena” di Cosenza.
Villa Rendano, sede della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani ETS
Violenza di genere: la parola a prof e legali
La serata è aperta dai saluti istituzionali.
Li porgeranno:
• Walter Pellegrini, presidente della Fondazione “Attilio e Elena Giuliani”;
• Ornella Nucci, presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Cosenza;
• Claudio De Luca, presidente della Fondazione scuola forense della provincia di Cosenza;
• Laura Monteforte, direttrice della Scuola forense “Bernardino Alimena”.
Gli interventi nel dibattito, invece, sono a cura di:
• Antonella Veltri, presidente nazionale dell’associazione D.i.re;
• Rosa Masi, avvocata del Foro di Cosenza;
• Antonella Paura, avvocata, socia Ami (Associazione matrimonialisti italiani) e membro del direttivo della Camera civile di Cosenza;
• Vanessa Piluso, avvocata e legale del Centro antiviolenza “R. Lanzino” di Cosenza;
• Elisa Mazzei, docente di materie letterarie;
• Elena Palermo, docente di materie letterarie.
Introduce e modera la discussione Gabriella Coscarella, presidente di Xenia.
Il dibattito sarà arricchito dalla mostra grafica “La ribell(e)” di Luigi Fabbricatore Strigaro.
Per noi “spettatori” diventa tedioso e abbastanza confusionario ascoltare un’ora e quaranta minuti di lettura del dispositivo che in primo grado condanna o assolve i 338 imputati di Rinascita-Scott. Immaginiamoci cosa deve essere per quegli stessi imputati che attendono il loro nome – chi con la A, chi con la Z – con rassegnazione o speranza, intrecciando gli sguardi con gli avvocati perché non sempre si capisce cosa effettivamente dica il dispositivo in questione.
I numeri di Rinascita-Scott
Questa più o meno la situazione dentro e fuori dall’Aula Bunker di Lamezia Terme, con gli occhi della stampa estera ma anche di quella italiana che vuole fare i conti e li vuole fare facilmente. Quanti sono i condannati? Quanti gli assolti? Cosa significa oltre 2000 anni di carcere o 4000? Poi, come spesso accade (soprattutto nei maxi-processi), si comprende che non tutti i condannati sono uguali e non tutti gli assolti sono uguali. D’altra parte, è uno dei motivi di confusione di Rinascita-Scott, soprattutto all’estero: quanto è significativo il processo dipende da chi – non dal quanto – si porta a giudizio.
Ed in processi così grandi la differenziazione è complessa.
L’aula bunker di Lamezia Terme che ha ospitato il processo Rinascita-Scott
Nei grandi numeri di Rinascita-Scott ci sono certamente delle condanne importanti e le condanne sono la maggioranza. La cosa non sorprende, se si considera l’apparato accusatorio che mira a guardare l’insieme. Riportano i notiziari che 207 sono le condanne emesse nei confronti di capi e gregari delle ‘ndrine vibonesi. Tra questi sicuramente spiccano le condanne a trent’anni di carcere – sostanzialmente l’ergastolo – emesse nei confronti di Francesco Barbieri, Saverio Razionale, Paolino Lo Bianco e Domenico Bonavota. Li si considera i capi-mafia, membri apicali della provincia ‘ndranghetista del vibonese, tra quelli rimasti a processo in questa sede. Ma sono comunque non pochi, 134, i capi di imputazione che vengono meno fra assoluzioni e prescrizioni.
Nomi vecchi e nomi nuovi
Regge dunque l’impianto accusatorio per, diciamo, due terzi. Si mirava, ricordiamolo, a inquadrare come vecchi e nuovi clan di ‘ndrangheta della provincia di Vibo fossero arrivati a riconoscersi e riconoscere una provincia vibonese, sostanzialmente autonoma dal “Crimine” di Polsi. Al centro il paese di Limbadi dove risiede quella parte della famiglia Mancuso, capitanata per lungo corso da Luigi Mancuso, che spadroneggia sul territorio e fa da “mamma”, come si dice in gergo ‘ndranghetista. Significa dunque che a subire le condanne sono stati – con tutti i caveatdi quelle in primo grado e importanti diminuzioni delle pene richieste dalla procura – coloro che ci si aspettava le subissero. Individui, cioè, che in misura più o meno incisiva risultano affiliati ai vari clan della città e della provincia di Vibo.
Se ci si aspettava più o meno il successo dell’impianto accusatorio per quel che riguarda la mafia vibonese in senso stretto – d’altronde c’era già stata la pronuncia del processo abbreviato, che in appello ha confermato condanne per oltre 60 individui – quello che poteva incuriosire era il “trattamento” processuale dei cosiddetti imputati eccellenti, i colletti bianchi, protagonisti del processo forse più di tanti altri presunti mafiosi. Ed ecco che proprio qui arrivano delle sorprese.
Gianluca Callipo
Sicuramente alcune sorprese positive per imputati come l’ex sindaco di Pizzo, Gianluca Callipo e l’ex assessore regionale Luigi Incarnato, entrambi assolti. Così come per l’ex consigliere regionale Pietro Giamborino, condannato ad 1 anno e sei mesi a fronte di una richiesta di condanna a 20 anni di reclusione per reato associativo mirato al voto di scambio.
Non avendo ancora le motivazioni per questo verdetto odierno è difficile immaginare cosa la Corte abbia escluso come indizio di colpevolezza in questi casi. Nel caso di Giamborino la Corte di Cassazione già nel 2020 aveva chiesto al tribunale di merito in ambito cautelare di colmare alcune lacune motivazionali riguardanti «la probabilità di colpevolezza, la sussistenza del vincolo sinallagmatico tra il Giamborino ed il sodalizio criminale nell’interesse del quale egli avrebbe agito, in cui si sostanzia il patto politico-mafioso, sorto con riferimento ad una specifica tornata elettorale».
Il caso Giamborino
Infatti i vari eventi riferiti non sembravano confermare la «serietà» e la «concretezza» dello scambio e anzi essere caratterizzati da «genericità». Questo, si badi bene, nonostante i gravi indizi di colpevolezza che facevano risultare «non peregrino ipotizzare che il Giamborino abbia goduto dell’appoggio del locale di Piscopio nella competizione elettorale del 2002». Si legge nel dispositivo che Giamborino è stato condannato per il reato all’art. 346 bis (traffico di influenze illecite) ma per altri reati contestatigli gli viene riconosciuta la formula assolutoria «per non aver commesso il fatto» e perché «il fatto non sussiste». E ci si chiede se, dunque, quest’altra Corte di merito non abbia accolto quel consiglio della Corte di legittimità a essere più specifica del rapporto sinallagmatico e non ci sia infine riuscita in modo soddisfacente da provarlo oltre ogni ragionevole dubbio.
L’ex consigliere regionale Pietro Giamborino
Inoltre, sebbene sia pacifica la sua definizione giurisprudenziale, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa – così come quello di voto di scambio – rimane particolarmente ostico. E, pertanto, soggetto a grandi divergenze nella sua applicazione pratica. Risulta particolarmente complesso raccordare le varie condotte del colletto bianco, non affiliato, e ricondurle a un contributo volontario, specifico e consapevole al gruppo mafioso. E risulta ancora più complesso gestire in sede di merito quelle che sono doglianze di legittimità. Coordinarsi nel giudizio di merito come quello attuale con giudizi della Corte di Cassazione, che spesso intercettano questioni polivalenti nel tentativo di valutare situazioni a latere, per esempio legate alle custodie cautelari, è notoriamente materia complessa.
Rinascita-Scott e gli undici anni per Pittelli
Tra le notizie negative per gli imputati, sebbene con pene in parte ridotte rispetto alle richieste dei Pm, alcune dimostrano plasticamente la complessità del reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Tra queste spicca la condanna del colletto bianco per antonomasia di Rinascita-Scott, Giancarlo Pittelli. Ex senatore e politico, avvocato e uomo molto conosciuto nei suoi ambienti, Pittelli ha fatto parte in vari momenti anche delle logge massoniche locali, appartenenza che potrebbe aver amplificato la risonanza delle sue condotte.
Giancarlo Pittelli si è visto infliggere una condanna a 11 anni di reclusione
L’avvocato-politico è stato condannato a11 anni di carcere, a fronte dei 17 chiesti dalla procura. Ma questo sarà arrivato con non poca sorpresa a lui e ai suoi avvocati che da anni sono impegnati in ricorsi – ovviamente non solo loro – davanti alla Corte di Cassazione e al Tribunale del Riesame per chiarire la posizione dell’imputato, soprattutto per quanto riguarda la sua detenzione. Qui emerge la complessità di raccordare giudizi di merito con giudizi di legittimità che solitamente seguono.
Millanteria o no?
Già un anno fa, per esempio, la Corte di Cassazione, accogliendo un ricorso dei legali di Pittelli contro una decisione del Tribunale del Riesame, aveva confermato la rilevanza ai fini cautelari di alcune condotte dell’avvocato-politico imputato ma non di altri indicatori di grave colpevolezza. Ribadiva, in sostanza, che per il concorso esterno in associazione mafiosa serve più della millantata o reale “messa a disposizione” del professionista.
La Corte di Cassazione
Il Tribunale di Catanzaro, a cui la Cassazione aveva dunque rinviato il giudizio, nel gennaio del 2023 ha poi chiarito che la condotta dell’imputato di “messa a disposizione” fosse qualificabile come una millanteria del Pittelli. Ed ha altresì escluso che l’imputato abbia «usufruito o tentato di sfruttare particolari entrature, in ragione del suo ruolo, per agevolare la consorteria».
Anche qui, in attesa delle motivazioni del verdetto, è difficile valutare cosa il Tribunale abbia considerato grave indizio di colpevolezza in questo caso da giustificare invece gli 11 anni di condanna. Rimarrà certamente argomento del contendere in appello.
In carcere a lungo, poi l’assoluzione
Da ultimo, giova ricordare che mentre si aspettano le motivazioni della sentenza passerà ulteriore tempo. Ci sono persone assolte in questo processo, per cui la procura aveva chiesto 18 anni di carcere per reati associativi – ad esempio il nipote acquisito che faceva da autista allo zio, boss, per capirci – che stanno in carcere dal dicembre 2019. Per quanto valgano scuse e monete di risarcimento, resteranno private di 4 anni di vita e probabilmente anche della propria reputazione. Questo processo, complesso, lungo, titanico per ragioni che sono certamente comprensibili da un punto di vista dell’impianto accusatorio, porta a una serie di storture di difficile gestione da un punto di vista del rispetto dei diritti umani e della necessità – internazionale, europea, italiana – di gestire i processi in tempi brevi e soprattutto non punitivi.
Il procuratore Falvo
Si rimanda qui alle parole del procuratore di Vibo Valentia, Camillo Falvo, che nota come, nonostante la scelta dei maxi-processi possa sembrare discutibile, a volte viene giustificata dalle dimensioni del collegio giudicante. Ovviamente riconoscendo quanto ciò porti ad ulteriori problematiche su altri processi e pronunce future.
Realtà giudiziaria e storica
Ed ecco dunque che mentre aspettiamo le motivazioni – e mentre qualcuno forse mosso dalla voglia inesorabile di più “punitività”, si lamenterà di quelle oltre 100 posizioni di assoluzione e prescrizione – invito a ricordare che delle condanne dei processi c’è da gioire solo fino a un certo punto. E che secondo il principio costituzionale di non colpevolezza fino a prova contraria, ciò che tutti noi possiamo fare fino al passaggio in giudicato di questioni così complesse come la mafia, è analizzare criticamente la realtà, giudiziaria quanto storica, di ciò che i processi e poi le sentenze effettivamente dicono.
Il 25 ottobre 2023, a Milano, sono state arrestate 11 persone. A quanto pare le richieste d’arresto riguardavano 153 indagati. Una problematica lettura da parte del GIP sulla situazione mafiosa (anche quella giudizialmente accertata) in Lombardia, che ha subito portato la procura a un ricorso al tribunale del riesame.
I soggetti sotto indagine sono presunti affiliati a doppio laccio con organizzazioni di stampo mafioso calabresi, siciliane, romane e campane. Tutte “unificate” in un sistema di tipo confederativo tipico della città di Milano.
Si tratta di un’indagine di quasi tre anni. La Dda di Milano, che l’ha istruita, le ha dato il nome di “Hydra”, evocando quello del mostro mitologico a più teste. Ad occuparsene è la pm Alessandra Cerreti, con il coordinamento della procuratrice aggiunta Alessandra Dolci e del procuratore Marcello Viola.
Alessandra Cerreti, pm antimafia a Milano, durante un incontro pubblico
Milano, Varese e le tante teste dell’Hydra
L’indagine, come spesso accade, aveva preso le mosse dall’osservazione degli assetti criminali dopo una precedente azione investigativa. Si trattava di osservare il locale di ‘ndrangheta di Lonate Pozzolo (VA) in seguito al blitz del 2019 “Krimisa” e alla collaborazione intrapresa da alcuni affiliati del clan, siciliani.
Dall’osservazione degli assetti di ‘ndrangheta a Lonate Pozzolo tra il clan Farao-Marincola di Cirò, la ‘ndrina Iamonte legata al locale di Desio e a Melito Porto Salvo, e il clan Romeo-Staccu, di San Luca, l’indagine ha poi fotografato una serie di interazioni, ripetute e sistemiche, molto oltre la ‘ndrangheta. Di fatto comprendevano gruppi a composizione diversa: alcuni legati a cosche siciliane, da Palermo a Castelvetrano, altre a gruppi campano-romani. Il tutto riunito in quello che appare un consorzio, un sistema federato lombardo.
Tutti sullo stesso livello
Si legge nelle carte d’accusa di come si sia in presenza di «una imponente e capillarmente strutturata associazione mafiosa, operante prevalentemente nel territorio lombardo, in particolare, tra la città di Milano e la sua provincia, la città di Varese e la sua provincia, costituita da appartenenti alle tre diverse organizzazioni di stampo mafioso Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, avente struttura confederativa orizzontale, nell’ambito della quale, i vertici di ciascuna delle tre componenti mafiose operano sullo stesso livello, contribuendo alla realizzazione di un sistema mafioso lombardo».
Le ramificazioni delle società finite nell’indagine Hydra
Gli inquirenti hanno monitorato riunioni cui partecipavano rappresentanti di ogni gruppo. Gli obiettivi erano di vario livello: estorsione, truffa, riciclaggio, detenzioni di armi, traffico e distribuzione di stupefacenti, ma anche gestione di società di capitali per l’importazione di acciaio e ferro, o gasolio, investimenti per lucrare sull’Ecobonus, sui contratti durante il Covid (per Dpi e sanificazioni), sull’Ortomercato, su parcheggi di ospedali e varie altre attività inclusa la prossimità politica con parlamentari, sindaci ed altri esponenti regionali dei vari partiti.
Una delle riunioni monitorate dagli inquirenti
I soldi “lombardi” restano in Lombardia
Il sistema è ben oliato, come dice Gioacchino Amico durante una “riunione” a Dairago nel gennaio 2021, sottoposta a intercettazione ambientale: «Noi abbiamo in cassa a maggio… cash… per questo dobbiamo spendere (…) acquisteremo tutte le cose che ci va a costare, asse non asse… costruiremo tutto… sempre dove con i proventi di Milano, Milano… con i proventi di Roma, Roma… con i proventi di Calabria, Calabria… con i proventi di Sicilia, Sicilia…certo così noi sul territorio non abbiamo discordanze…(…) Non hai discordanze… è giusto è corretto non è che tu puoi prendere i soldi da Milano e te ne vai in Sicilia… (…) questi qua li devono pagare a me… abbiamo costruito un impero e ci siamo fatti autorizzare tutto da Milano…passando dalla Calabria da Napoli ovunque…»
Milano dagli anni ’80 a Hydra
Il “sistema Milano” di Hydra, pertanto, è presentato come autonomo per quanto partecipato. Questo non è certo motivo di sorpresa né di novità nel contesto lombardo, anzi. Da anni ormai non solo esiste “mafia” in Lombardia, ma questa mafia, che sia di matrice siciliana o calabrese, è altamente intimidatoria e soprattutto altamente specializzata. Lo dovremmo ricordare dai tempi di Antonio Papalia, capobastone aspromontano trapiantato a Nord, a capo della cosiddetta camera di controllo lombarda. Era un organismo decisionale che andava oltre la ‘ndrangheta a Milano e provincia, già a metà degli anni Ottanta, decenni prima di Hydra.
Il duomo di Milano, capitale degli affari della ‘ndrangheta
Oltre alla geografia delle riunioni mafiose e alle attività dei singoli gruppi, la novità di Hydra sta nell’impianto giudiziario, che vede – forse per la prima volta – fotografata non solo la collaborazione tra i gruppi, ma la divisione di risorse e responsabilità tra cosche siciliani, calabresi, campane e romane a Milano e dintorni.
Insomma, appare chiaro che il pubblico ministero voglia guardare al fenomeno dall’alto, con una cosiddetta helycopter view – una visione dall’elicottero – che vada oltre l’analisi della collaborazione, ma si concentri sulla sistematicità dei rapporti e sugli elementi di novità che questa sistematicità implica.
Le implicazioni dell’indagine
Ed eccoci quindi già a soppesare le implicazioni di questa indagine, nonostante sia ancora molto presto per definire i contorni delle responsabilità penali dei singoli individui. Implicazioni prettamente analitiche non seguono infatti lo stesso corso delle implicazioni giuridiche.
Appare acclarato da indagini pregresse e da una storia (non solo giudiziaria) ormai di mezzo secolo che le organizzazioni criminali in Lombardia collaborino. E che lo facciano come organizzazioni prettamente mafiose, cioè per interessi sia di profitto che di potere.
Esiste sostanzialmente un gruppo ibrido e misto. Però – ed è questa la novità paventata da Hydra – assume forme terze, autonome, sicuramente legate alle case madri ma di fatto con connotati diversi. Si costituisce quindi una morfologia mafiosa tutta locale.
Questo non dovrebbe sorprendere in un paese in cui ogni mafia assomiglia al suo territorio, socialmente quanto culturalmente. Questo poi è esattamente quello che succede altrove, incluso l’estero: le organizzazioni criminali sono tenute insieme da affinità e contesto e non da patti aprioristici e di fatto non sempre convenienti.
Il tribunale di Milano
Sembra avventato sostenere che il gruppo ibrido e misto – il sistema mafia lombardo – non possa disporre di un suo apporto intimidatorio proprio, come il GIP avrebbe sostenuto. Infatti, laddove sembra confermarsi l’esistenza dei singoli gruppi – raggruppati per “mafia” d’origine e come tali giudicati – e dunque la loro capacità intimidatoria, si potrebbe sostenere che queste capacità intimidatorie distinte si cumulino per un processo narrativo e costituiscano la forza intimidatoria del sistema mafioso in generale. E dunque, la riconoscibilità e la reputazione dei singoli affiliati come appartenenti a un sistema mafioso unico seguirebbe all’affermazione della loro capacità intimidatoria.
In questo senso l’esistenza di una cassa comune di supporto ai carcerati, caratteristica tipica dell’associazione mafiosa, rappresenta altro tassello di tale riconoscimento esterno quanto interno.
Detenuti a Milano
Dirà un presunto sodale che i pagamenti ai carcerati vengono prima dei pagamenti ai sodali, siano essi calabresi, siciliani o napoletani.
«I soldi servono per i carcerati (…) Stoppiamo tutti i pagamenti! per tutti! – Mandiamo un pensiero per i carcerati! Quello che tu riesci a fare, dopo qui! è la cosa principale, i carcerati…! – i carcerati devono essere i primi a fare. Poi che siamo ad attaccarci i calabresi, o i napoletani o i siciliani, i carcerati vanno mantenuti prima di ogni altra cosa a questo mondo!».
Il punto forse più interessante di questa storia è proprio il modo in cui si parla delle organizzazioni mafiose “siciliane”, “calabresi”, “campane” o “napoletane”.
Qui il caso Milano e Hydra – come d’altronde è avvenuto anche in passato – sono forieri di preziosi spunti per gli studi sulla mobilità mafiosa. Ciò che vediamo della criminalità organizzata (mafiosa) a Milano finiamo poi, storicamente, per vederlo altrove in Italia e all’estero.
Una scritta contro i meridionali nel Nord Italia
Il passaggio non è indifferente: dire i calabresi o i siciliani o i campani per indicare gli ‘ndranghetisti, i mafiosi o i camorristi è un modo di dire a cui siamo abituati ormai, soprattutto quando a parlare sono persone interne al sistema criminale. Però è un modo di parlare scorretto e pericoloso perché normalizza lo stigma “etnico” su certi popoli del sud, come se gli ‘ndranghetisti e i calabresi fossero di base la stessa cosa, o comunque ci fosse una componente “etnica” (l’essere calabrese) negli ‘ndranghetisti che li renda riconoscibili a priori. E siccome stiamo parlando di ‘ndranghetisti in trasferta, che calabresi a volte nemmeno lo sono più, questo è paradossale.
Collaborazione mafiosa e pregiudizi etnici
All’estero questa giustapposizione di termini sfocerà nel cosiddetto “pregiudizio etnico”, alimentato dal mondo criminale ma che trasmigra tra autorità e comunità. Prestiamoci attenzione, dunque, ché se l’etnicizzazione è parte del futuro della collaborazione mafiosa anche in Italia, come all’estero, abbiamo di che stare attenti.
Ieri, alle cinque e mezza del pomeriggio, la mia mente è andata al teletrasporto. Che stramberia, penserete. E a ragione.
Ma nel tumulto che mi ha investito quando Sasà Albanese mi ha confermato che Mimmo Lucano era stato (sostanzialmente) assolto, la ragione non c’entra. Perché in quel momento l’unico gesto che avrei voluto compiere era quello di abbracciare Mimmo, dal quale però mi separavano 130 chilometri. Mimmo, poco tempo fa mi aveva dichiarato in un’intervista che sarebbe andato in galera senza chiedere sconti di alcun genere. Condannatemi, aveva detto. Prendetevi fino in fondo le vostre responsabilità. Dopo aver coperto la distanza tra Reggio a Riace l’ho trovato lì dove m’aspettavo che fosse: in piazza, non in galera.
A Riace, il paese dei miracoli, dove umanità, solidarietà, amore non sono parole. Sono volti, baci, abbracci, sorrisi, mani che si stringono e si protendono per soccorrere chi zoppica, chi è stanco, chi è affamato.
Mimmo Lucano: Riace di tutti i colori
Mani di colore diverso, perché nella Riace di Mimmo il colore che conta è quello del sangue, uguale per tutti. Del cielo, uguale per tutti. Del grano o delle foglie degli alberi, uguale per tutti.
Abbraccio Mimmo a occhi chiusi, ma vedo bene che in quell’istante lui è il mondo intero, con le sue brutture e le sue bellezze. Imperfetto, a volte sordo. Però in momenti come questi meraviglioso.
Una bella immagine di Mimmo Lucano
Tanti amici e compagni sono lì, a condividere la luce dopo un tunnel buio e triste. Troppo, insopportabilmente lungo. Certo, nell’attraversarlo, Mimmo Lucano ha dimostrato una resistenza erculea. La tenebra nella quale ha camminato è stata penetrata da tanti raggi di sole: i suoi estimatori, sparsi in tutto il mondo. Tuttavia, credo che non ne sarebbe venuto fuori se non avesse avuto, dentro di sé, la forza delle sue idee. Incrollabili. Rocce che alcun corso d’acqua ruggente e violento avrebbe potuto trascinare via.
I principi di una vita, saldi in lui fin da ragazzo. Quelli l’hanno guidato già prima di Riace, e quindi hanno segnato anche quell’esperienza. Non poteva cedere e non ha ceduto. E anche il suo più grande timore, quello di perdere credibilità davanti alla sua gente, per colpa delle accuse e del processo, si è squagliato ieri come neve al sole. Una giornata storica (in questo caso certamente sì) terminata tra sorrisi e abbracci, tra canti e brindisi. Con il grande Peppino Lavorato, dalla solita postura fiera e gentile da vecchio combattente, a dirigere il coro di Bella ciao.
Più si va in là con gli anni, pensavo tornando a casa, più le occasioni per gioire si rarefanno. Sono gemme preziose da custodire gelosamente. Quella che abbiamo incastonato ieri nelle nostre vite è una delle più raffinate e pregiate. Il nostro Mimmo potrà continuare nella sua missione, che consiste semplicemente nell’aiutare il prossimo. Con la consapevolezza di poterlo fare perché la solidarietà, da ieri, non è più un reato.
I processi politici esistono. Quello che ha dovuto affrontare Mimmo Lucano, dal quale aveva subito una condanna di tredici anni, puniva una visione differente dell’accoglienza. Una idea migliore di essere “questa sporca razza”, come avrebbe detto Beckett. Insomma, una umanità migliore. La sentenza di primo grado puniva la solidarietà in un mondo costruito come sostanzialmente ostile verso “l’altro”, basato sulla disuguaglianza che accanisce i meno uguali, già discriminati, contro quelli che stanno ancora più sotto, gli ultimi.
Puniva in modo grottesco (e con motivazioni raccapriccianti per chiunque percepisca il senso del Diritto) una persona che aveva osato dimostrare che si poteva vincere l’egoismo, dando vita a una piccola oasi di uguaglianza e opportunità, di riscatto e rinascita. Verso quest’oasi si era rivolto anche lo sguardo internazionale, interessato a capire come fosse stato possibile in questa remota periferia del pianeta realizzare l’utopia di un mondo almeno un poco meno ingiusto.
Niente carcere e molta dignità: Mimmo Lucano
Fine dell’obbrobrio per Mimmo Lucano
Oggi l’obbrobrio è stato cancellato: il processo di secondo grado ridimensiona la pena da tredici anni a uno e mezzo per irregolarità amministrative e ne sospende l’esecuzione.
Tutto questo avviene dopo circa cinque anni dall’arresto e dalla fine di quella esperienza di umanità solidale, di rinascita di un piccolo paese, di ritrovamento smarrito di umanità. L’Appello nega le accuse più pesanti: associazione a delinquere, peculato, frode. A chi, con stupore degli accusatori, spiegava che nelle tasche di Lucano non c’era nemmeno un euro, la sentenza di primo grado replicava che questa povertà era frutto della sua furbizia. Un modo troppo semplicistico per dire che quella esperienza doveva spegnersi subendo anche l’onta dell’infamia.
Alla fine, più ancora della gravità della sentenza di primo grado, era questo l’oltraggio con cui seppellire Lucano: trasformarlo da realizzatore di idee coraggiose in un piccolo bandito. Non ci sono riusciti. Lucano non andrà in carcere per avere dato dignità a chi non ne aveva più e proseguirà quel che in questi anni non ha mai interrotto: costruire il suo piccolo prezioso mondo di accoglienza.
Sia scritto sui muri, sui libri di scuola, sia scritto e gridato nelle piazze: la solidarietà non è mai stata un reato.
Tira davvero aria buona a Buenos Aires: il 19 settembre scorso presso il Dipartimento Centrale della Polizia Federale argentina si è svolta una cerimonia solenne di presentazione ed inaugurazione del Departamento Investigaciones Antimafia, nato sul modello italiano della Direzione Investigativa Antimafia, la DIA.
Nonostante il nome e il chiarissimo legame con l’Italia, il focus della DIA Argentina non sarà soltanto sulle consorterie mafiose, tra cui ovviamente la ‘ndrangheta calabrese, protagonista del narcotraffico globale e dunque presente in America latina, inclusa l’Argentina.
Marcelo Pecci, magistrato paraguayano ucciso sulla spiaggia di Cartagena, in Colombia
Il nuovo dipartimento antimafia, infatti, esiste già da oltre un anno ed è stata la risposta più o meno concertata dei paesi latinoamericani a una serie di emergenze, incluso l’omicidio di Marcelo Pecci, pubblico ministero paraguayano ucciso nel maggio 2022 e che, tra le altre cose, aveva indagato anche sui rapporti di ‘ndranghetisti con trafficanti locali. Per l’omicidio di Pecci, a indagini ancora in corso, si è arrivati persino a sollevare l’immunità parlamentare di Erico Galeano, in Paraguay, per i presunti legami tra questi e il gruppo che avrebbe ucciso il pubblico ministero. Insomma, si tratta di criminalità organizzata particolarmente sofisticata e protetta dall’alto.
‘Ndrangheta in Argentina: la Santa a Buenos Aires
Ma la decisione di creare questo organo investigativo a Buenos Aires aveva anche due altre ragioni. Primo, in Argentina risiede il maggior numero di italiani all’estero, al pari o poco sopra gli Stati Uniti d’America (contando anche le seconde generazioni per esempio). Secondo, riporta il quotidiano La Nación, la decisione sarebbe arrivata dopo che uno dei capi dell’Arma dei Carabinieri italiana avrebbe rivelato che proprio in Argentina si sarebbe svolta la prima riunione della “Santa” fuori dall’Italia.
Italo-argentini sfilano per le strade di Buenos Aires
Una riunione in Argentina implicherebbe forse un ruolo di “tramite”, di “frontiera” riconosciuto agli ‘ndranghetisti in America latina che va un po’ oltre quello che si sa della presenza mafiosa italiana in queste terre. Oppure si potrebbe trattare soltanto di un ruolo di convenienza, proprio per l’assenza di densità mafiosa locale (meno concorrenza, meno disturbo) e per la mancata attenzione delle forze dell’ordine ai fenomeni criminali di questo tipo.
Non solo ‘ndrangheta: la Dia argentina
Fatto sta che la DIA argentina è la prima unità antimafia a nascere in America latina. Con oltre 60 agenti, fa capo alla Sovrintendenza alle Investigazioni della Polizia Federale e mira a perseguire non solo la ‘ndrangheta, ma anche altre organizzazioni para-mafiose (si menzionano le triadi della mafia cinese) che operano nel paese.
Ci sono già delle prime operazioni in cui l’unità ha riscosso successo. Nel luglio dell’anno scorso dieci persone sono state arrestate con l’accusa di aver commesso una truffa milionaria ai danni dell’aziendaTarjeta Naranja, mediante falsi acquisti. Ad agosto di quest’anno agenti della DIA hanno fatto irruzione in diversi uffici e abitazioni legati alla società Crypto CoinxWorld sia a Buenos Aires e provincia che a Santa Fe. L’azienda è stata denunciata per aver messo in atto schemi fraudolenti di tipo “piramidale”.
Una filiale dell’azienda truffata
Dunque, il focus della DIA in Argentina al momento appare molto ampio. E la ‘ndrangheta? Nel novembre del 2022, gli agenti dell’unità antimafia hanno portato a compimento l’arresto di Carmine Alfonso Maiorano in una località vicino a Buenos Aires. Originario di Cosenza, secondo I-CAN, il programma di scambio e cooperazione internazionale contro la ‘ndrangheta creato dall’Italia a mezzo di Interpol, Maiorano era associato o comunque facilitatore di clan calabresi ed era ricercato dal 2015 in seguito all’operazione Gentlemen della DDA di Catanzaro contro i clan della Sibaritide. In questo caso quindi, la DIA argentina ha agito da tramite dell’Italia via Interpol.
Cocaina e facilitatori
Bisognerà ovviamente aspettare per valutare l’operato di questa unità speciale antimafia. Nel frattempo sarebbe opportuno che si facesse chiarezza sull’effettiva presenza della ‘ndrangheta in Argentina, per evitare di partire col piede sbagliato. Sicuramente non si parte bene se una persona come Maiorano viene definito “capo-maximo” della ‘ndrangheta dai giornali a seguito del suo arresto.
Per i giornali in Argentina, Maiorano è un “capo-maximo” della ‘ndrangheta
Che esistano cellule di ‘ndrangheta in Argentina non è cosa nuova. Lo ha confermato anche di recente l’operazione Magma (2020) coordinata dalla DDA di Reggio Calabria. Sono emersi gli interessi sudamericani dei clan sia per quanto riguarda la cocaina sia per quanto riguarda la presenza di facilitatori – avvocati, imprenditori – che possono aiutare i latitanti (si pensi a Rocco Morabito, arrestato in Brasile e facilitato, tra gli altri, da un avvocato italo-argentino, Fabio Pompetti, proprio a Buenos Aires) e consigliare su investimenti locali.
A Buenos Aires per gli accordi
La cocaina è ovviamente ciò che più attrae i clan in Sudamerica e anche in Argentina. Ce lo ha raccontato, tra le altre, Operazione Santa Fe, della DDA di Reggio Calabria nel 2015. Riguardava un traffico di cocaina dalla Colombia alla Spagna organizzato e partecipato dai Bellocco, dagli Alvaro e altri clan di ‘ndrangheta.
Nella sentenza di Santa Fe del 2017 si legge che in data 06.09.2014, Vincenzo Alvaro, che commissionava la partita di cocaina, si sarebbe imbarcato da Lamezia, via Roma, alla volta di Buenos Aires per incontrarsi con un intermediario montenegrino, secondo accordi presi laggiù da Angelo Romeo. Buenos Aires era, appunto, il luogo dove si facevano gli accordi per il resto della regione.
Parte della cocaina – circa 150 kg – sequestrata in Operazione Santa Fe
Come dichiarato da Giuseppe Tirintino durante un’interrogatorio: «Poi noi parlavamo con le diverse famiglie, chi voleva investire e stabilivamo il quantitativo del lavoro che si doveva fare. … Il 90% delle volte qualcuno di noi andava là sul posto, in Argentina, Uruguay, o Brasile, da dove doveva partire il lavoro per vedere con i propri occhi che le persone erano fattibili per fare il lavoro, magari controllare la merce; una volta che la persona era andata là in Sudamerica e aveva visto che era tutto a posto, dava l’ok qua in Italia per consegnare i soldi».
Lo schema non riguarda solo l’Argentina, dunque, ma in Argentina trova terreno fertile anche per via di quelle che comunemente vengono chiamate le rotte “controintuitive” del narcotraffico, cioè rotte meno bazzicate, meno rischiose.
La ‘ndrangheta di Siderno in Argentina
Oltre alla cocaina, come già detto, in Argentina vivono alcuni facilitatori per i calabresi ‘ndranghetisti, come ci ha raccontato Operazione Magma.
Ma per quanto riguarda la “struttura” della ‘ndrangheta in Argentina, si può ipotizzare che molto sia ancora rimasto sommerso. Infatti, già nel 2012, in Operazione “Falsa Politica”, coordinata dalla DDA di Reggio Calabria, si vede come proprio l’Argentina fosse già crocevia di incontri e interessi dei clan, e non di clan qualsiasi, ma di quelli della Locride, di Siderno, e dunque delle loro propaggini internazionali.
Giuseppe “U Mastru” Commisso
Diceva Antonio Macrì durante un interrogatorio: «Premetto che vado spesso in Argentina; in occasione dell’ultimo mio viaggio Commisso Giuseppe ha insistito per venire con me perché voleva trovare i suoi avi argentini; il periodo era aprile 2010; in tutto siamo stati insieme sei giorni; con me c’erano tanti miei amici di New York, tutti oriundi calabresi, poi si è aggiunto anche un “canadese” tale Commisso Francesco che vive da tanti anni in Canada, mi pare che abbia un fratello detenuto, poi un mio amico di Vibo tale Ioppolo Nicola, imprenditore; abbiamo alloggiato tutti nell’Hotel Santa Rosa nella pampa argentina». Francesco Commisso, alias “Ciccio di Grazia”, già conosciuto alle cronache,è cugino di Giuseppe Commisso, capo della ‘ndrangheta sidernese, conosciuto come U Mastru.
Doppia anima
Ancora Calabria-Europa-America, il brand dei Sidernesi. Laddove spesso diventa noto lo ‘ndranghetista che dalla Calabria fa viaggi verso l’estero, meno noto è spesso cosa effettivamente faccia una volta all’estero. È ipotizzabile che se ‘ndranghetisti di rango elevato come Giuseppe Commisso vanno in Argentina, incontreranno persone di Siderno e dintorni che sono emigrate in Argentina e che si mostrano, consapevolmente o meno, vicine ad ambienti mafiosi. Sapere come si compongono e nutrono le reti di appoggio all’estero rimane la priorità e dovrebbe essere il primo interesse delle autorità straniere, proprio come la DIA argentina, poiché sono queste reti a supportare e attrarre la resistenza del fenomeno.
Buenos Aires
La dichiarazione di Antonio Macrì, infatti, conferma anche un’altra profondissima verità nella ‘ndrangheta odierna: l’esistenza non tanto di una ‘ndrangheta globale, ma di una ‘ndrangheta che si sposta all’interno di paesi migranti, come molti in Calabria, a doppia anima: a casa e all’estero.
Sono le reti dei paesi quelle che più facilmente nascondono – spesso involontariamente – i movimenti mafiosi (non sono le uniche). E in Argentina, queste reti sono parte integrante del tessuto sociale nazionale e dunque creano ancora più possibilità di ingresso e movimento dei capitali mafiosi. Ha tirato finora davvero aria buona a Buenos Aires, anche per la ‘ndrangheta.
Bisognerà attendere l’11 ottobre per conoscere la sentenza della Corte d’Appello di Reggio Calabria su Mimmo Lucano. L’ho cercato per avere le sue impressioni di prima mano. Ho con lui un rapporto d’amicizia cementato nel corso degli anni dalla condivisione di idee e principi. Tuttavia, ciò che penso della sua vicenda umana, politica e, ahimè, giudiziaria, non ha niente a che vedere con questo.
«Non mi sono occupato del problema migranti per avere visibilità, è stata una conseguenza di quello che già facevo prima. Da vent’anni e più questo è un argomento al centro del dibattito politico, tanto che i confini, il loro rafforzamento, sono diventati i confini delle nostre coscienze, barriere alzate per proteggere i propri egoismi. Egoismi contro i quali ho sempre lottato. Già da ragazzo ho partecipato ai collettivi, alle lotte sociali: ero affascinato. C’è chi preferisce fare sport o altro, a me è sempre piaciuto occuparmi degli altri. Quando ero studente ho vissuto il 68 della Locride. Eravamo legati al mugnaio Rocco Gatto, al Movimento Cristiani per il Socialismo, al prof. Natale Bianchi. Dopo a monsignor Bregantini. Lui non ha mai dichiarato di aderire alla teologia della liberazione, ma era stato un prete operaio. Ci siamo incontrati in occasione del primo sbarco dei Curdi».
Mimmo Lucano e la nascita del modello Riace
Un momento di svolta per Mimmo Lucano. «Sono diventato un attivista del movimento del popolo curdo soprattutto per la loro lotta al capitalismo. L’accoglienza è nata da subito con forti motivazioni politiche, questa è la differenza con altre esperienze in altri luoghi. È nato il cosiddetto modello Riace, che a mio avviso non è un modello perché è nato spontaneamente. È stato, questo sì, coerente con il mio impegno precedente contro la speculazione edilizia e la devastazione della costa. Abbiamo recuperato i luoghi vuoti, dove in passato c’era la vita della comunità contadina, con i bambini che giocavano per strada. Sono diventati luoghi d’accoglienza, risvegliando anche la nostra tradizione umanitaria, di rispetto per lo straniero. Non abbiamo costruito lager, ma piccole comunità globali. La solidarietà e l’accoglienza parlano di per sé di rispetto per la dignità umana, quindi sono una naturale opposizione alla cultura mafiosa, alla violenza. Come ha detto Wim Wenders, era un messaggio di valore universale».
Mimmo Lucano e Wim Wenders a Riace
Il pericolo Mimmo Lucano
Mimmo Lucano ci tiene a dare una forte connotazione politica al suo impegno per i migranti, come abbiamo visto. Una tragedia che affonda le sue radici nell’azione del capitalismo e del neo liberismo «che hanno sconvolto le terre abitate dai più poveri costringendoli a intraprendere i viaggi della speranza». L’esperienza di Riace, continua Mimmo Lucano, è stata messa all’indice perché pericolosa. Essa ha sbugiardato la predicazione sull’invasione in corso e quindi sulla necessità di rafforzare i confini e adottare politiche repressive. «Riace rappresenta un pericolo per la vendita delle armi, per il neoliberismo, per le guerre: se passa il messaggio dell’Umanità, l’unica arma che abbiamo utilizzato, tutta questa scenografia cade come un castello di carta. Anche la fiction con Beppe Fiorello non è stata mandata in onda perché, in prima serata su Raiuno, avrebbe raggiunto un pubblico vastissimo».
Beppe Fiorello nella fiction mai trasmessa dalla Rai
Né soldi né candidature
Gli chiedo del processo. «Il colonnello della GDF che ha testimoniato ha detto: “Attenzione, questo sindaco non ha intascato un euro”. Io non ho case, non ho barche, non ho nulla. Il giudice ha scritto una cosa, che si poteva risparmiare, utilizzando un’accusa e non una prova: io preferirei vivere in modo (diciamo) semplice perché devo simulare».
Mimmo Lucano ascolta i giudici mentre lo condannano a 13 anni e 2 mesi di pena
È un passo della sentenza di primo grado sul quale si è soffermato qualche giorno fa, sul Manifesto, il professore Luigi Ferrajoli: «C’è una frase rivelatrice nella motivazione della condanna, che si aggiunge alla massa di insulti in essa contenuti contro l’imputato: la mancanza di prove dell’indebito arricchimento di Lucano seguito alla sua politica di accoglienza, scrivono i giudici, dipende dalla “sua furbizia, travestita da falsa innocenza” e attestata dalla sua casa, “volutamente lasciata in umili condizioni per mascherare in modo più convincente l’attività illecita posta in essere”. Qui non siamo in presenza soltanto di una petizione di principio, che è il tratto caratteristico di ogni processo inquisitorio: assunto come postulato l’ipotesi accusatoria, è credibile tutto e solo ciò che la conferma, mentre è frutto di inganni preordinati o di simulazioni tutto ciò che la smentisce. Non ci troviamo soltanto di fronte a un tipico caso di quello che Cesare Beccaria stigmatizzò come “processo offensivo” nel quale, egli scrisse, “il giudice diviene nemico del reo” e “non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto”. Qui s’intende screditare come impensabili e non credibili le virtù civili e morali dell’ospitalità, del disinteresse e della generosità».
I giudici del Tribunale di Locri pronunciano la sentenza di condanna nei confronti di Mimmo Lucano
Luigi Saraceni, calabrese, già magistrato e parlamentare, ha detto che non sa se definire la sentenza drammatica o ridicola. «Il colonnello della GDF – prosegue Mimmo Lucano – ha dichiarato che non avevo motivazioni economiche, caso mai politiche». Ciò è smentito dai fatti, in quanto l’ex sindaco di Riace non ha mai accettato le proposte di candidatura che gli sono piovute addosso da più parti e in più occasioni: elezioni politiche, europee, regionali. «Per quanto riguarda i soldi, poi, io non sono proprio interessato al denaro, alla proprietà, ai beni materiali. La storia delle carte d’identità, per la quale sono stato condannato per danno erariale, è emblematica: le compravo coi miei soldi, e andavo a Reggio a mie spese».
Mimmo Lucano e il processo di ottobre
Gli parlo del progetto della Regione Sicilia (governo di centrodestra) di ripopolamento di venti paesi delle Madonie dando accoglienza ai migranti. «In Calabria abbiamo la legge 18/09, ma Loiero e Oliverio non hanno fatto nulla per applicarla. Ho ringraziato Oliverio per l’appoggio che mi ha sempre dato, ma questo gliel’ho voluto dire. Con i fondi FER o POR avrebbero potuto realizzare uno SPRAR regionale, inserendo nel progetto anche l’utilizzo dei terreni incolti. Purtroppo si è persa, almeno finora, questa possibilità».
L’ex presidente della Regione, Mario Oliverio, e Mimmo Lucano
Alla fine non posso fare a meno di chiedergli cosa si aspetta dall’11 ottobre.Risponde senza esitazioni: «Mi aspetto l’assoluzione per un processo che non avrebbe dovuto neanche iniziare, orchestrato da un potere senza volto e senza nome per distruggere un’esperienza che metteva in discussione tutto quello che andavano dicendo sul fenomeno migratorio. Ma se ciò non dovesse avvenire, voglio che si assumano fino in fondo le loro responsabilità, non voglio sconti di pena. Andrò in galera a testa alta». Usa proprio questo termine, in tutta la sua crudezza: galera. Senza girarci intorno, edulcorando nulla.
Ci salutiamo col solito calore. Rimango seduto, col telefono in mano. Sono stordito. Ci sono uomini che fanno la Storia, e Mimmo è uno di questi. Con la sua macchina trascurata, il suo conto corrente alla posta quasi a zero, la sua semplicità spesso disarmante. Nel 2016 Forbes l’ha classificato al 40° posto degli uomini più influenti al mondo. A distanza di 7 anni rischia la prigione per avere speso la sua vita aiutando il prossimo.
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