Tag: Gente in Aspromonte

gente-in-aspromontePuò una montagna essere una Regione? L’Aspromonte sì.
Sospesa tra isole linguistiche e riti arcaici, modernità e tradizione, un piede nel passato e un braccio verso il futuro, la terra dei geositi e dei monoliti unisce borghi, territori, saperi, culture, speranze.
Lo fa attraverso le iniziative dei suoi protagonisti che sono le braccia e le gambe che conducono la Montagna ai due mari. Gente in e di Aspromonte all’opera per il futuro prossimo venturo.

  • GENTE IN ASPROMONTE | Il maiale sulla tavola reale dei Windsor

    GENTE IN ASPROMONTE | Il maiale sulla tavola reale dei Windsor

    Questa tappa di Gente in Aspromonte riguarda medie valli, allevamenti, suini, cooperative, testardaggine e riscatto dalla marginalità. Ne sono venuto a conoscenza da un intreccio di contatti passato per la Toscana e rimbalzato a Reggio Calabria. Capito di cosa si trattasse, ho creduto che la storia che segue dovesse essere raccontata. Perché è l’emblema di come l’impegno sociale, la cultura imprenditoriale, il riscatto dalla marginalità e le convergenze possano creare occasioni di sviluppo. Anzi, di sviluppo da una rinascita. Da un ritorno.

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    La cooperativa Maiale nero d’Aspromonte al gran completo

    Lungo la Statale 106

    L’appuntamento con i suoi protagonisti è ad Ardore Marina, a due passi da Locri, una novantina di km da Reggio da attraversare sulla SS 106. Dalla città, imboccando la litoranea, ci si tuffa in un percorso sospeso tra mare e monti verso sud. Oltrepassa promontori, scavalca scogliere, si incunea snodandosi tra i bianchi calanchi fino a gettarsi tra le gallerie della nuova superstrada. In primavera si aprono vallate aggredite e inondate dalla ginestra, dove, a volte, la macchia mediterranea è stata usurpata dall’impianto di eucalipti. Superata Palizzi, la nuova pedemontana sfuma sulla vecchia litoranea tra pinete, canneti e abusivismo edilizio. Il viaggio sulla SS 106 verso la Locride ha sempre il suo effetto: il filmato di un eterno conflitto, quella strana commistione dove l’arcaico si mischia al tempo immobile di una provincia che ruota intorno a un bar, a una cattedrale, a qualche esercizio commerciale; una provincia sfregiata dal cemento, dall’isolamento e da una sorta di determinismo ineluttabile a cui pare si nasca già inchinati.

    Maiali alllevati in semilibertà

    Il maiale nero allevato in semilibertà

    Arrivo ad Ardore alle 10 di un mattino che odora di pioggia. Mi aspettano in piazza Piero Schirripa e Attilio Cordì, fondatori della Coop Maiale Nero d’Aspromonte. Piero e Attilio hanno due passati molto diversi alle spalle, per formazione, retroterra familiare, percorsi di vita. Entrambi hanno lasciato qualcosa e trovato qualcos’altro in un’odierna comunione di intenti che li ha resi compagni per sorte, impegno e passioni. Parcheggio e me li trovo davanti. Il primo vestito da caccia, lo sguardo acuto dietro gli occhiali, e il secondo con la sua cartellina in mano e gli scarponi da montagna ai piedi. Un caffè al volo e ci spostiamo a Baracalli, verso l’allevamento di Fortunato Sollazzo, uno dei 18 che sono parte della loro cooperativa.

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    Fortunato Sollazzo fa parte della cooperativa Maiale nero d’Aspromonte

    Contrada Baracalli è una frazione del Comune di Benestare. Siamo a 400 metri sul livello del mare, nella media valle del comprensorio. Dall’alto, dove ci fermiamo a scattare qualche fotografia, l’allevamento si confonde tra la vegetazione. Attilio mi affianca e punta il dito davanti a me ad indicare qualcosa: «Lo vedi quel verro che corre?». Aguzzo la vista e, in corrispondenza al suo dito, noto una macchia scura che si aggira sulle pendici dei monti. «I nostri allevamenti seguono questi standard: la sostenibilità, il benessere animale, la semilibertà. Andiamo che ti presento Fortunato».

    Benedetta da Dio

    Quasi cinquantino, Fortunato è un tecnico installatore e un allevatore restato per passione: «Benvenuto!» Parte il secondo caffè. «Viviamo in una terra benedetta e conflittuale. Siamo figli degli arabi. Baracalli è un toponimo arabo: Baraq Allah, benedetta da Dio. Per anni, finché non ci siamo insediati, questi terreni sono rimasti abbandonati. Ma qui sono nato e qui voglio restare, seminando per raccogliere i frutti del mio lavoro. La mia azienda sorge nel 2017 come allevamento della razza appulo-calabrese. Quando è nata la cooperativa ho deciso di aderirvi e di cambiare tipologia di suino. Oggi mi occupo di maiale nero d’Aspromonte».
    Fortunato, come poi Piero e Attilio, mi spiegano che si tratta di una razza unica che ha rischiato l’estinzione e che differisce dal suino nero. Questi maiali portano con loro caratteristiche organiche e nutrizionali uniche e si distinguono dagli altri per la presenza di una coppia di bargigli sotto la mandibola, ancora oggetto di studio. Probabilmente la loro funzione è di regolare la sudorazione e la temperatura corporea di animali robusti che vanno dai 100 ai 120 kg e le cui carni, particolarmente apprezzate per la produzione di prosciutti e culatelli, hanno una qualità straordinaria.

    Una lotta contro l’abbandono

    «Alleviamo il fresco, non facciamo trasformazione. La cooperativa ci aiuta a vendere sia su base locale che su base nazionale. In pochi anni abbiamo raggiunto risultati eccezionali. La tipologia di allevamento che ho realizzato progetta il futuro guardando al passato: i maiali in antichità – e la storia dell’Aspromonte ce lo insegna – era allevato al pascolo, non stallato. L’allevamento massivo provoca cariche batteriche altissime. I nostri maiali vivono in semilibertà, hanno a disposizione lo spazio vitale che occorre affinché crescano sani, robusti e seguendo un ritmo naturale. Sono partito da zero, senza supporti o sovvenzioni. Oggi ho 13 dipendenti e mi batto perché le istituzioni capiscano l’importanza del mio lavoro e di quello degli altri allevatori. Finché la montagna e la media valle non sono state abbandonate, parlo degli anni ‘60 e ‘70, la campagne venivano pulite, i torrenti controllati. Oggi è tutto all’abbandono».

    L’allevamento di Fortunato sorge su un terreno argilloso, ricco di potassio, accanto al letto di una fiumara che non ha più argini. «Voglio lottare perché il minimo indispensabile sia realizzato, perché avvenga un ripristino dell’area rurale. E non sono il solo. Ho con me gli altri allevatori».

    L’unione fa la forza? Fuori dalla Calabria

    In tutti i viaggi che ho fatto, la Cooperativa del Maiale Nero d’Aspromonte è la prima – e forse unica – coop di medie dimensioni che ho incontrato. Per uno che ha vissuto diversi anni tra Umbria ed Emilia Romagna è respirare una boccata di aria. Quello che mi sono sempre chiesto è perché il modello cooperativo in una terra priva di grandi realtà imprenditoriali e vocata ad agricoltura, allevamento e turismo non riesca, con tutti i suoi limiti, ad attecchire. Fortunato ne fa un problema culturale: «Noi calabresi siamo individualisti e conosciamo fin troppo bene i meandri dell’invidia. Due sentimenti ottusi e controproducenti che ci dispongono gli uni contro gli altri. Manca completamente la cultura dell’impresa e del lavoro, non il lavoro. Con la terra si può vivere. Anche in Calabria. Io ho difficoltà a trovare operai: quando sentono maiali e fatica si intimoriscono. Ma il nostro non è un allevamento intensivo, non esci puzzando di stalla, letame ed urina. Puoi vederlo da te. Decenni di assistenzialismo hanno prodotto il disastro culturale che abbiamo sotto gli occhi, che poi si trasforma in disastro economico e sociale. Non scordiamoci la storia dei finti braccianti agricoli. Oggi paghiamo le conseguenze, trovandoci una serie di terreni abbandonati».

    Un seconda possibilità per gli ex detenuti

    È quello che ci ha tenuto subito a precisare Piero. Perché la cooperativa viene da lontano ed è uno dei tanti progetti avviati grazie all’aiuto dell’allora arcivescovo di Locri, Giancarlo Bregantini, in prima linea per sottrarre terreno al malaffare e promuovere una nuova fioritura della Locride: un’iniziativa partita dalla ricerca di esemplari di maiale nero in Aspromonte e poi concentrata sul miglioramento della specie. La cooperativa, infatti, è nata anche con l’obiettivo di dare una nuova possibilità di vita ad ex detenuti: «Ci sono due modi per aiutare i più deboli: o fai assistenzialismo, con i gli inevitabili danni che seguono oppure dai loro una canna da pesca insegni a pescare. Noi abbiamo deciso di dare le canne da pesca agli ex detenuti. Con loro abbiamo realizzato 40 ettari di serre e un’organizzazione con venti aziende di allevamento. Aiutare significa dare una vera chance di vita, dotando di gambe per poter camminare autonomamente. Con sacrifici, spesso attingendo alle nostre tasche, abbiamo messo su attività sociali e produttive al tempo stesso, aziende che operano sul mercato. La nostra ricetta è stata prendere soggetti deboli e farli diventare forti».

    Un cammino pieno di ostacoli

    E non è stato facile, perché «abbiamo subito tre interdittive antimafia, dato che lavoravamo con gli ex detenuti della Cooperativa Valle del Buonamico. Una cosa folle. Non avevamo nulla di che temere e infatti l’abbiamo spuntata sia al Tar che al Consiglio di Stato, ma abbiamo pagato un doppio prezzo molto caro, primo perché si tratta di procedimenti giudiziari costosissimi, secondo perché in prima battuta il progetto è naufragato».
    Piero, che da direttore sanitario dell’ospedale di Vibo Valentia, ha subito intimidazioni e attentati senza mai piegarsi – come anche riportato nei verbali delle testimonianze dell’inchiesta Rinascita-Scott -, si riferisce al progetto originario avviato con un finanziamento congiunto di Regione Calabria e MIUR di 670.000 euro. Una ricerca tesa a studiare le caratteristiche del suino nero d’Aspromonte per tipizzarlo e verificare, attraverso lo studio del suo DNA, se costituisse razza a sé.

    «In particolare dato che il maiale ha i suoi tempi, e non segue di certo quelli giudiziari, l’intera impalcatura della ricerca è venuta meno. La Regione ha proposto di recuperare la cosa in maniera cartacea, ma noi non abbiamo accettato. Però dopo dieci anni di percorso carsico, anche senza finanziamenti, con la nostra passione, abbiamo mantenuto in vita questa idea e poi siamo esplosi».

    I maiali con più omega 3 dei pesci

    Oggi la Coop Maiale Nero d’Aspromonte è una realtà che punta in alto. Mi racconta Attilio che «grazie alla preziosa collaborazione con il professor Pino Maiorana dell’ateneo di Campobasso il nostro percorso di ricerca prosegue. Prendiamo campioni di carne, li analizziamo, li categorizziamo e realizziamo la carta di identità del maiale che viene consegnata all’acquirente. Abbiamo scoperto che i nostri maiali possiedono caratteristiche uniche: un quantitativo di omega 3 superiore ai pesci con un rapporto con gli omega 6 pari a nessun altro; livelli importanti di topoferolo e di acidi grassi saturi e insaturi. E la presenza di buone proporzioni di acido leico e linoleico che richiedono sì una stagionatura più lunga delle carni, ma, in termini di qualità, l’attesa vale la pena».

    Il maiale aspromontano sulla tavola dei Windsor

    Attilio è un ritornato. Porta un cognome pesante e ritorna a nuova vita da un passato spietato che ha ripudiato affrancandosene completamente. Una rinascita, meglio che un ritorno, grazie a questo cammino fatto di impegno e di lavoro a contatto con la natura e gli animali. Attilio, per chi lo vuole e lo sa guardare, è un simbolo di riscatto. Oggi è coordinatore e direttore tecnico della cooperativa.
    Mi racconta anche che le loro carni, vendute e lavorate nelle aziende toscane e romagnole di assoluta eccellenza vengono servite sulle tavole delle Real Case di mezza Europa, Windsor e Grimaldi per primi. «Collaboriamo con nomi noti della gastronomia italiana come le sorelle Gerini in Toscana e Massimo Spigaroli, re del culatello di Zibello. Hanno colto immediatamente la qualità del nostro prodotto. E sono stati quelli che ci hanno realmente supportato. Oggi la cooperativa è un laboratorio in continua evoluzione. Come ti ha detto Fortunato, si tratta di una realtà che mette al primo posto il valore della sostenibilità e del benessere animale: un modello seguito da diciotto aziende, quattro delle quali si trovano qui ad Ardore».

    Il logo della cooperativa

    Non solo nero d’Aspromonte

    Ma dietro i maiali c’è di più: una strategia di lungo respiro che mira alla creazione di una filiera. Un obiettivo realizzabile non solo attraverso l’offerta di un prodotto di eccellenza, ma soprattutto promuovendo un cambio culturale: «Abbiamo avviato un progetto importante tra Locri e Crotone partito dalla collaborazione tra GAL Terre Locridee e Kroton per la creazione di un sistema regionale del suino nero. E abbiamo iniziato un percorso di qualità con le macellerie cui forniamo sia i certificati di tracciabilità, sia una sorta di bollino da esporre in vetrina per avvisare che in quell’esercizio si vendono i nostri prodotti. Che saranno forse un po’ più cari, ma con cui puoi stare sicuro di nutrire al meglio i tuoi figli. Parliamoci chiaro: in quattro mesi non puoi fare un maiale di 160 kg!».

    Peste suina: gli allevatori chiedono un incontro con la Regione

    Gli ostacoli che si presentano su questo cammino sono tre e tutti di differenti ordini: il primo è il nodo legato allo sviluppo di quella cultura del lavoro e della condivisione di cui parlava Fortunato Sollazzo; il secondo relativo alla necessità di una forte regia pubblica che sostenga e coordini lo sviluppo della filiera; il terzo connesso alla contingenza dell’epidemia di peste suina africana per la quale lo scorso 19 maggio la Regione ha emesso un’ordinanza che istituisce una zona infetta in ventisette comuni del comprensorio aspromontano, soggetta a diverse restrizioni e variabile a seconda dell’estendersi della malattia. Proprio in queste ore gli allevatori della zona, che è ancora salubre ma dove vige il divieto di macellare, sono in riunione per chiedere un tavolo tecnico alla Regione.

    La cittadella regionale di Germaneto

    «La Regione sia più vicina»

    Piero Schirripa non ha mezzi termini: «Sembra che le nostre istituzioni, e in particolare la Regione, siano restie. Nonostante il prezzo dei cereali sia aumentato a causa della guerra, la Calabria, a differenza di altre Regioni con i loro allevatori, non ci ha dato una mano. Abbiamo illustrato la situazione ai nostri clienti toscani e romagnoli che hanno deciso di aumentare il prezzo di acquisto del 15%. Il prodotto finale costa di più ma l’aumento del prezzo è quasi irrisorio per la loro fascia di compratori. A noi invece questa percentuale consente di proseguire la nostra attività. Tutto questo perché i nostri maiali sono insostituibili. Vorremmo che la Regione facesse di più».
    La Regione però in qualche modo ha cercato di fare il proprio lavoro. Lo scorso dicembre 2021 ha siglato un accordo di programma quadro insieme all’Agenzia per la Coesione Territoriale e diversi Ministeri per lo sviluppo dell’Area Interna – Versante Ionico Serre, in cui, nell’ambito del progetto di Biodistretto del Parco delle Serre e dei territori limitrofi, prevede «attività integrate di animazione e di accompagnamento verso il Distretto del Cibo, tra biodiversità ed agricoltura biologica».

    Menzione specifica è fatta per il maiale nero d’Aspromonte che rappresenta una delle razze (se sia razza è tutto da vedere) che sta «esprimendo anche importanti effetti economici». La Regione ha intuito il potenziale di questa filiera. L’accordo mette in relazione rafforzamento del capitale sociale, miglioramento delle condizioni economiche del territorio, tutela delle matrici ambientali non rinnovabili e conservazione del paesaggio, in un «modello produttivo e relazionale sostenibile dal punto di vista ambientale, economico e sociale», volano per quel turismo naturalistico, lento ed esperienziale di cui mi aveva parlato Nicola Pelle.

    Economia della montagna

    É quello che ha auspicato monsignor Bregantini durante il nostro breve contatto telefonico: «Noi abbiamo creato i punti, ora è compito della politica tracciare la linea e mettere in campo una strategia». Vedremo se si passerà dai documenti programmatici ai fatti. Perché il ruolo del settore pubblico in questo meccanismo è essenziale, sia per fare sistema, sia per costruire un’economia della montagna.

    L’arcivescovo Giancarlo Bregantini

    «Realizzarla è possibile. Noi stiamo facendo il nostro, ma serve più impegno. Guarda che cosa succede alle ghiande. Qui ne perdiamo tonnellate e non abbiamo a chi rivolgerci sul territorio. Se vogliamo acquistarne, dobbiamo spostarci al confine con il catanzarese. Io le comprerei a 35-40 euro a quintale per i miaiali. Perché non supportare la nascita di una cooperativa di ragazzi che si occupi della loro raccolta e vendita? Con i sistemi innovativi oggi a disposizione, basterebbero poche ore di lavoro per aggiungere un punto che rafforzerebbe la nostra filiera creando nuovi spazi di occupazione», mi racconta Fortunato.

    Verde e blu

    Restituire alla montagna la presenza dell’uomo non è un dettaglio: «Senza l’uomo la montagna crolla. Noi abbiamo inventato lo slogan “Se la montagna è verde il mare è blu”. Il pastore e il contadino devono tornare a essere i suoi custodi. Norman Douglas racconta vividamente come l’Aspromonte fosse battuto da mandrie di capre e di maiali che non erano semplicemente libere, ma condotte al pascolo come faceva il porcaro Eumeo. L’uomo irreggimenta le acque, ripara i muri a secco. Queste cose non vengono capite dalle istituzioni che arriveranno quando sarà troppo tardi. Abbiamo un’emergenza in corso legata alla presenza di insetti e parassiti come la processionaria che divorano le foglie dei lecci. Ce ne accorgeremo quando non avremo più alberi?».

    Non è l’unico problema: «Stesso dicasi – continua Piero – per al presenza poco regolamentata di lupi e cinghiali. Sono un anello del nostro ecosistema, ma non possono essere abitanti esclusivi. Il lupo aggredisce capre e pecore e senza una regolamentazione gli allevatori vendono il bestiame e chiudono le attività. Gli amministratori pubblici sono chiamati ad occuparsene perché vengono pagati per questo con i nostri soldi. Se non lo fanno, devono pagare. Serve una nuova mentalità: il futuro della forestale non è più legato alla presenza di agenti o guardaboschi che ci sono e non ci sono: bisogna fare spazio ad agronomi, tecnici dotati di moderne tecnologie, architetti ambientali. Porremmo un freno anche alla costante emorragia demografica», chiude Piero.

    Maiali della tenuta Macrì

    Un sistema complesso

    La relazione tra montagna verde e mare blu spiega in quattro parole la fragilità e la complessità del sistema-Aspromonte, del rapporto osmotico e dell’equilibrio tra l’altura e la costa. Di quell’interdipendenza che li rende una cosa sola e che dimostra quanto frammentazione e ordine sparso ostacolino visioni e strategie di sviluppo congiunto.
    Al ritorno imbocco la Limina, la cosiddetta strada dei due mari che taglia in due l’Aspromonte lambendo la Piana di Gioia Tauro. In radio passano Via del Campo. Ripenso a Piero e Attilio e alle loro storie. Ché è proprio vero che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori.

  • GENTE IN ASPROMONTE | Trekking, terme e sentieri poco battuti

    GENTE IN ASPROMONTE | Trekking, terme e sentieri poco battuti

    Il racconto del fenomeno escursionistico in Aspromonte è una storia che intreccia diversi operatori e altrettante generazioni. Ciò che le unisce non è solo la passione per i sentieri. È il senso della riscoperta, del riconoscimento e della ricerca di uno sviluppo altro che esula dalla logica del consumo di massa. Questo viaggio che comincia ad Antonimina, passa da Bocale e finisce a Reggio Calabria.

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    Uno scorcio del centro storico di Antonimina

    Racconta di tre generazioni di escursionisti che, inconsapevolmente, stanno fornendo un contributo cruciale alla valorizzazione e alla crescita dei territori dell’Aspromonte.
    Si tratta di Nicola, di Diego e di LucaRitornati o restati che, dal 1995 ad oggi, si sono messi in cammino prima soli e poi seguiti da un pubblico sempre più attratto dai cammini e dal trekking.
    Era già stato Luca Lombardi ad ammonirmi dal non pensare che l’Aspromonte conservasse questa verginità. Dalle storie di questi tre protagonisti è sortito un quadro che ha una storia trentennale. E che, col tempo e il mutare di certi stili, ha creato un comparto in cui operano molteplici realtà. Il viaggio di questa puntata non risiede tanto nello spazio, quanto nel tempo.

    (San) Nicola di Antonimina

    Appena sopra Locri, aggrappata alla montagna è appollaiata Antonimina. Un toponimo greco, un luogo “ricco di fiori” di 1.200 abitanti, con il suo culto per San Nicola di Bari e la sua varia di legno massello, un ritmo di vita quieto sopravvissuto ai terremoti del 1783 e del 1908. Antonimina è terra di pastorizia, uliveti, acque termali e caciocavallo, fratello del più famoso di Ciminà.
    Arrivo lì con Luca Lombardi ai primi di marzo in una giornata umida e annuvolata. Me la trovo di fronte come un grazioso presepe dominato a sinistra dal maestoso Monte San Pietro.
    Nicola Pelle, fondatore di Boschetto Fiorito e guida ambientale, ci aspetta in piazza. Il suo sorriso lo precede: «Benvenuti! Andiamo a prendere un caffè, prima di tutto».

    Non so bene se Nicola sia un restato o un ritornato, ma mi dice che questa è la sua nuova vita. «Ho una laurea in ingegneria informatica all’Unical, i miei programmi erano di partire per il Nord. In effetti ho vissuto fuori, convinto di dovere seguire uno schema che è il topos dei ragazzi calabresi. Poi ho scelto di tornare ad Antonimina. Collaboro ancora con il settore fotovoltaico di Siderno, ma punto a vivere solo di montagna. Adesso sono felice perché sono pagato per fare quello che mi piace».

    Nicola Pelle e Luca Lombardi

    Luca ride mentre camminiamo tra i viottoli che si imbudellano fin quasi nel ventre dell’Aspromonte. Li seguo arrancando. «Antonimina è un paese che, come molti altri, ha subito la piaga dello spopolamento. L’accoglienza diffusa, il nostro primo motore realizzato sfruttando la possibilità di creare ospitalità nelle nostre seconde case, ha riportato nuova vita. Chi viene qui è alla ricerca del selvaggio, dell’incontaminato, quasi dell’esotico. La sciura milanese che abbiamo ospitato qualche tempo era rimasta sbalordita dal fatto che la sconosciuta vicina di casa le avesse bussato alla porta con una tazza di caffè caldo da offrirle. Non riusciva a capacitarsi di un gesto simile. La ricchezza di Antonimina e delle esperienze che regaliamo è anche questa».

    Aspromonte trekking: Boschetto Fiorito

    Nicola, assieme a un gruppo di amici, appassionati di escursionismo, è tra gli animatori dell’associazione Boschetto Fiorito che promuove pacchetti dedicati a quello che definisce il turismo lento: «Accompagnando gruppi di italiani e stranieri che battevano i sentieri aspromontani, avevamo necessità di dare ospitalità. La ritrosìa dei miei compaesani guidati dal presupposto de “la casa è mia e non la do a nessuno”, ha piano piano ceduto il passo all’entusiasmo e agli affari. Siamo partiti così. A questo si sono affiancate le attività escursionistiche, il noleggio di attrezzature e materiale outdoor – ciaspole, tende e mountain bike elettriche per il cicloturismo – e l’accompagnamento in percorsi dedicati al turismo naturalistico, complice la vicinanza con il Monte San Pietro. Con un bando siamo riusciti a prendere in gestione una vecchia casermetta della forestale costruita ai primi del ‘900 e successivamente ristrutturata dal Comune in zona Zomaro. Un punto nevralgico per chi percorre il Sentiero Italia o la ciclovia, data la carenza di ricettività. Da lì non ci siamo più fermati, continuando ad arricchire la nostra offerta con le escursioni domenicali».

     

    Dalla montagna al museo di Reggio

    Arrivati a una terrazza che domina la vallata di fronte a cui svettano i Tre Pizzi del Monte San Pietro, Nicola di Antonimina si affaccia e il suo sguardo si perde. D’improvviso si volta e mi chiede: «Guarda quelle rocce. Non ti viene voglia di arrivare fin lì? Io ci salgo almeno una volta alla settimana e ogni volta mi chiedo come mai i locali siano così poco interessati al loro territorio. Per me è paradossale che lavoriamo più con gli stranieri che con gli autoctoni, pigri e meno curiosi. Ma parte del nostro lavoro è anche quello di incuriosire, di ravvivare la memoria, come i nostri genitori hanno fatto con noi. Stuzzicare i palati stranieri con l’esca dell’esotico è più semplice, vuoi perché il loro diventa più facilmente un viaggio dello spirito, vuoi perché il fascino del selvaggio e dell’incontaminato per popoli nordici come gli scandinavi, abituati a una montagna più curata e antropizzata, scaturisce naturalmente. La pandemia ha invertito il trend. Abbiamo avuto meno stranieri e più italiani. Il nostro modello di escursionismo non si limita alla montagna per la montagna, ma arriva alle visite al Museo Archeologico della Magna Grecia di Reggio Calabria dove sono custoditi molti reperti rinvenuti in questi territori, a Locri o Ianchina. Facciamo fare un viaggio a tutto tondo per compenetrare appieno i luoghi battuti. Un turismo che non è solo lento, ma bifronte: prevede una parte paesaggistica e una culturale capace di connettere biunivocamente entrambe le esperienze».

    Il mare a due passi dalla montagna: meraviglie del trekking d’Aspromonte

    Il fortino greco di Bregatorto

    Nicola è tra coloro che nel 2015 hanno partecipato come volontari ai sondaggi di scavo che hanno scoperto l’esistenza del Fortino di Bregatorto, tra le più vaste fortificazioni greche mai rinvenute nell’area della Magna Grecia. Si tratta di una struttura militare nell’area del Puntone di Bregatorto posizionata sul percorso che collegava l’antica Locri alle sue colonie tirreniche.
    Lo studio (qui la versione in inglese) pubblicato dal professor Paolo Visonà sulla rivista Fastionline dell’Associazione di Archeologia Classica, spiega che la fortificazione fu costruita per sorvegliare il passaggio che conduceva alle subcolonie locresi sull’altro versante. Simili strutture furono realizzate dai Greci di Rhegion e Kaulonia a Serro di Tavola (Sant’Eufemia), San Salvatore (Bova Superiore) e Monte Gallo (Placanica).

    Lo studio ha fatto ipotizzare che i Locresi si servissero di un sistema di difesa del territorio basato su una serie di punti di controllo, situati alla periferia della Chora e protetti da massicci circondati di mura. Le indagini topografiche condotte tra il 2013 e il 2015 da un team della Foundation for Calabrian Archaeology e dell’Università di Kentucky miravano a verificare questo modello e ad identificare altri siti simili.
    Me lo racconta mentre saliamo al rifugio: «Sono stati rinvenuti resti di fortificazioni, vasellame, e scarsamente metallo, data l’estrema umidità della zona. Alla fine è stato tutto reinterrato. Era impossibile partire con una vera e propria campagna di scavi senza fondi».

    A spasso tra i sentieri innevati in Aspromonte

    Il Turismo Lento come orizzonte di crescita

    La carenza di fondi, la cattiva suddivisione delle competenze, la mancanza di una chiara strategia di sviluppo e valorizzazione del territorio e dei suoi patrimoni contribuisce a rallentare un processo di rinascita che è in atto sottotraccia da anni e che contrasta con la disattenzione delle istituzioni.
    Basti pensare alla questione dei caselli e dei rifugi che resta una ferita aperta. Esiste una molteplicità di strutture spesso abbandonate o in rovina e suddivise per competenza tra Comuni, Comunità Montane, Calabria Verde e, collateralmente, Ente Parco. La mappatura più completa è stata curata da Alfonso Picone Chiodo, autore veterano della montagna, e realizzata dal CAI.

    Un patrimonio per il quale mancano spesso i fondi e le responsabilità di gestione vengono rimbalzate da un ente all’altro anche a causa di procedure burocratiche farraginose in cui è complesso districarsi.

    «In Aspromonte ci sono tante realtà che forniscono servizi di qualità. Parlo di piccole imprese e di associazioni che hanno costruito un modello dal basso tarato sulle caratteristiche di un territorio che non insegue il consumo del turismo, ma che ha comunque necessità di crescere economicamente. Se è vero che la Calabria ha una vocazione turistica, non è possibile né corretto calare dall’alto format preconfezionati che non le si addicono. Il modello aspromontano è quello del turismo lento, fatto di qualità prima che di quantità, di incontaminato, di selvaggio, di borghi, di natura, di memoria. Dobbiamo mantenere, non snaturare. La connessione tra tutti noi operatori dimostra nei fatti che, anche se un sistema di cooperative non esiste formalmente, la collaborazione spontanea e il mutuo soccorso non mancano. Puntiamo a un turismo di nicchia, ma sappiamo bene che per raggiungere certi obiettivi servono almeno tre elementi: il coordinamento con le istituzioni, la conservazione della memoria e la trasmissione dei nostri patrimoni. Credo che l’operazione più riuscita sia oggi la Ciclovia dei Parchi della Calabria – 545 km di percorsi ciclabili ben realizzati dal Dipartimento Tutela dell’ambiente della Regione Calabria e il settore regionale Parchi -. A parte questa iniziativa le istituzioni appaiono distanti anni luce dalla realtà che viviamo. Senza dialogo e sinergia, per me che sono anche una guida, è impensabile raggiungere obiettivi comuni e condivisi. Così come è impossibile avviare un modello cooperativo strutturato. Mi chiedo perché».

    Diego Festa

    Misafumera, Aspromonte trekking

    Nicola e il suo gruppo sono partiti dalla sensibilizzazione e dalla formazione, specie dei più giovani: giornate ecologiche, attività coi bambini, escursioni di promozione del territorio. «La parte economica è venuta dopo e non è ancora soddisfacente, mentre quella sociale continua ad esserci. Sono i nostri due polmoni, camminano di pari passo e l’uno è vettore dell’altro». La storia che mi racconta è il prosieguo di quella di Diego Festa, antesignano e memoria dell’escursionismo aspromontano, attivista e fondatore della srl Misafumera. Diego è un restato.
    «Nato alla marina di Bocale, ho iniziato a frequentare l’Aspromonte nel 1995 con il CAI e dal primo giorno sono rimasto folgorato dal tesoro che ho trovato. A quel tempo chi presidiava il territorio erano le organizzazioni GEA, Gente in Aspromonte, e CAI. Nel 1997 ho frequentato il corso per Guida Ambientale Escursionistica legata a Sentiero Italia. Eravamo agli albori e io sono entrato in punta di piedi: la montagna non era frequentata e noi venivamo guardati come alieni. Tutto è cominciato con l’incontro di Antonio Barca e Aldo Rizzo. Abbiamo costituito un’associazione e siamo partiti. I pochi che allora andavano a camminare erano impreparati sotto ogni punto di vista. Man mano, attraverso il CAI, iniziarono ad arrivare i primi gruppi di escursionisti dal Nord Italia. Così è cominciato tutto».

    L’esplosione dell’escursionismo in Aspromonte

    Oggi Misafumera è un ente economico che si occupa di escursionismo in tutto il Sud Italia, dalla Costiera Amalfitana a Lampedusa, ma conserva l’anima sociale da cui è partito. Negli anni si è battuto per la tutela del territorio e la difesa del suo ambiente, partecipando a campagne antibracconaggio, al rilievo, catasto e manutenzione dei sentieri in Aspromonte. Ha realizzato diversi progetti di educazione ambientale con le scuole del territorio reggino e partecipato a varie iniziative per la sua tutela.

    «Negli anni l’escursionismo in Aspromonte si è trasformato: si è abbassata l’età media, è fiorito il senso per la montagna. Nell’ultimo decennio c’è stato uno stravolgimento: dal 2016 una vera e propria esplosione della domanda raccolta dai tanti gruppi come Boschetto Fiorito che abbiamo incoraggiato ad operare. Non c’è dubbio che Internet abbia spinto molto questo processo. Ciò ha favorito uno sviluppo culturale che è oggi tutto in mano alla nuova generazione. Seppur più lentamente che in altri territori, il cambiamento è in atto».

    I colori dell’Aspromonte

    Le istituzioni assenti

    Diego è tra quelli che biasima le istituzioni. Ed è convinto che chi fa da sé faccia per tre: «Parlare di interesse degli enti locali o di amministrazioni per la montagna è una follia. O meglio, l’interesse c’è ma è collegato alle nomine. Un esempio per tutti, ormai datato, il ridimensionamento del Parco approvato dal Ministero e dall’Ente Parco: 10.000 ettari in meno, con un’area a tutela integrale che oggi lambisce il confine esterno del Parco e i territori dei Comuni che creano corridoi fin dentro il suo cuore. Spesso mi chiedo come stia proseguendo il progetto per la reintroduzione del Nibbio reale del 2021, a che punto sia la programmazione per altre progettualità, che strategia abbiano i Comuni e la Città metropolitana. Non riesco a darmi una risposta. Percepisco piuttosto un deficit di comunicazione e di confronto, una difficoltà a coinvolgere gli operatori nella co-progettazione. A quanto posso vedere l’unica cosa ben fatta e riuscita è la Ciclovia. Talmente ben fatta che è citata in diverse guide di settore. Non succede così spesso per la Calabria».

    PerlAspromonte: tutelare e riscoprire i patrimoni

    Misafumera è qualcosa che ritorna anche nella storia di Luca Laganà, cestista professionista reggino con un passato a Reggio Emilia e un presente a Reggio.
    È un ritornato, fondatore dell’associazione PerlAspromonte che, i prossimi 13 e 14 maggio, organizza a Gambarie il Festival Mana GI. É tra gli ultimi arrivati nel settore dell’escursionismo. «Mi trovavo a Monte Misafumera, avamposto Nord della montagna, quando ho incrociato quelli che oggi sono diventati i miei soci. Si è cominciato a parlare di cosa potessimo fare per il nostro territorio durante la stagione degli incendi. Siamo partiti con una raccolta fondi in crowdfunding con cui abbiamo acquistato attrezzi, guanti, scarponi antincendio da fornire a chi era impegnato nelle spegnimento. E abbiamo promosso la campagna di sensibilizzazione “Artisti Uniti per la Calabria”, producendo insieme a Christian Zuin, dj veneto trasferitosi a Monasterace il brano Per Rinascere . Oltre all’escursionismo, lavoriamo per formare e sensibilizzare la cittadinanza assieme alle Guide del Parco, Plastic Free e tante altre realtà. Il trekking non è solo un’attività diportistica, ma uno strumento per divulgare la memoria e la ricchezza culturale del nostro territorio. Il prossimo week-end sarà l’occasione per condividere esperienze e rafforzare una rete che c’è, ma è ancora troppo chiusa e deve crescere. Bisogna investire di più in cultura e tutela del patrimonio. Non a caso, uscirà presto il mio primo libro Cara Reggio, ti presento…, dedicato ai reggini che vogliono riscoprire il loro territorio. Non può esserci futuro senza consapevolezza del passato».

    Le risorse del tutto nel niente

    Questo paradigma del vuoto e del pieno – che da una parte ha tolto e dall’altra ha custodito -, del tutto nel niente, della ricchezza nell’abbandono, delle radici, della memoria è il filo rosso che collega le storie e le esperienze di Nicola, Diego e Luca. Tra attività sociali e ricerca di un modello di crescita economica disegnato sulle caratteristiche proprie dei loro territori, il turismo lento si fa strada. Diventa una cultura diffusa con cui riscoprire da dove veniamo, chi siamo e dove stiamo andando.
    Servono ancora molti tasselli per comporre il puzzle. Bisogna dissipare certe ombre per portare più luce, formando alla bellezza, al rispetto e alla tutela. Prima di tutto però serve chiarezza: attendiamo di capire come si siano concluse le indagini sugli incendi del 2021 e come sia stato affrontato il problema dello smaltimento abusivo di amianto con discariche abusive individuate nel 2014, nel 2019 e ancora nel 2021.

    Un problema che rischia di distruggere l’immaginario di incontaminato per cui l’Aspromonte viene visitato e desiderato. E l’escursionismo, con le sue generazioni che si passano il testimone battendo migliaia di ettari di territorio palmo a palmo, tra ricchezze naturalistiche e patrimoni culturali troppo spesso dimenticati e sottovalutati da istituzioni ed enti locali, può tracciare un sentiero da percorrere.
    Nelle scorse ore, e proprio mentre scrivevo, è stata messa in atto la più importante operazione internazionale contro la ‘ndrangheta mai realizzata. Oltre 200 arresti con esponenti di spicco finiti in galera in tutta Europa e i titoli delle pagine dei giornali di mezzo mondo dedicati alla criminalità dell’Aspromonte che, dalla Locride, allungava le sue braccia in mezzo mondo. É ormai noto come la strategia dei boss sia quella di tenere un basso profilo a casa: i territori di appartenenza devono versare nel sottosviluppo per restare schiavi del dominio criminale. Sostenere e narrare la vivacità della nuova economia che ho raccontato può invece segnare un punto a favore di crescita e legalità.

  • GENTE IN ASPROMONTE | Qualcuno volò tra i boschi dei primitivi

    GENTE IN ASPROMONTE | Qualcuno volò tra i boschi dei primitivi

    L’estate 2021 ha segnato per me uno spartiacque. Da Reggio la linea del fuoco si intravedeva appena, ma l’Aspromonte bruciava. Erano giorni torridi e lo scirocco soffiava forte: stavano andando in fumo 8.000 ettari di Parco e le faggete vetuste, parte del patrimonio UNESCO, erano in pericolo. Il versante più colpito era quello jonico, ma l’incendio era vastissimo e le colonne di fumo si levavano fino alla città.

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    Quel che resta degli alberi bruciati in Aspromonte nell’estate 2021

    Sentivo l’urgenza di restituire alla Montagna la dignità e il rispetto che meritava. Un paio di tentativi fallirono. Poi, quel bisogno fu seppellito da incombenze e quotidianità, coperto da uno strato greve di cenere, nonostante, al di sotto, la brace di quell’urgenza restasse viva.
    Lo scorso gennaio, per un caso fortuito, ho avuto il contatto di Luca Lombardi, una delle guide ufficiali del Parco. Dopo la nostra prima chiacchierata, quella brace si è riaccesa. Luca mi ha dato le chiavi per iniziare il cammino in Aspromonte.

    Il sistema invisibile

    «Della montagna e del parco bisogna scrivere di più, raccontando quello che accade. Quando ci si approccia all’Aspromonte, sembra che sia tutto da costruire, invece l’escursionismo guidato esiste da 30 anni. E, anche se molte cose possono essere poco visibili, c’è una rete di addetti ai lavori che opera, accoglie, valorizza la montagna. Io sono una figura ibrida: guida e operatore del turismo montano. Gestisco l’ospitalità di diverse strutture dell’accoglienza diffusa. Sono il collante tra le guide, la ricettività e le agenzie. Uno dei maggiori tour operator della provincia di Reggio si trova a Bova. Se ne parla poco, ma qui abbiamo società, strutture ricettive, aziende agricole, organizzazioni che ruotano attorno al mondo dell’Aspromonte e che riescono a fare sistema. Collaboriamo, ci scambiamo i clienti, parliamo. In linea di massima sono soddisfatto, ma si deve fare di più».

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    Luca Lombardi

    Luca e le guide sono tra chi ha alimentato una feroce polemica all’indomani degli incendi. Hanno sconfessato le prime dichiarazioni del presidente Autelitano mostrando, attraverso i dati Copernicus, come il fuoco avesse avuto origine e traiettorie differenti da quanto da lui ipotizzato. Sono attivisti che hanno scelto la montagna, parte di una generazione di trentenni che ha scelto di restare o ritornare. La generazione che, pur con le sue emorragie, ha sviluppato un senso per una sfida impossibile: investire in Calabria.

    Gianluca Delfino, il ritornato survivalista

    Tra di loro c’è Gianluca Delfino, animatore dell’associazione Kalon Brion Hug a Tree Movement, anni trascorsi nelle cucine francesi col cuore ai cavalli e al suo borgo di origine, Galatoni. Il nostro viaggio fisico e spirituale parte da lì per inerpicarsi fino allo Zomaro. Incontro a febbraio questo marcantonio biondo vestito da montagna, a prima vista più nordeuropeo che calabrese. Un caffè veloce a Cittanova e poi ci spostiamo col suo fuoristrada verso i ruderi del vecchio borgo medievale dove vive col padre e gestisce il suo maneggio, immerso nella natura tra cavalli, ulivi e animali. Dalla cittadina la strada, tra curve e uliveti, dirada nell’aperta campagna mentre saliamo lentamente verso la pedemontana.

    «Galatoni, nata intorno al 1250, è uno degli ultimi borghi appartenenti al feudo del casato di Terranova che comprendeva tutta l’area tra il Marro-Petrace e il Vacale toccando da un lato Rosarno e dall’altro la cresta della montagna. Si è formato quando i Taureani stanziavano e commerciavano nell’area. Terremoti e invasioni saracene li costrinsero a spostarsi verso una zona più interna dove poi sorse Terranova, con le sue terre e il suo castello, oggi terreni coltivati a uliveti secolari che hanno sostituito il gelso».
    L’auto si ferma. Siamo ormai in aperta campagna. Davanti a noi un casale in ristrutturazione sfida i ruderi che gli stanno di fronte, tra cui emerge quel che resta della chiesa di Maria S.ssima de Nives. In fondo, recinti e cavalli.

    Dalla Francia allo Zomaro

    Gianluca è uno dei ritornati: «Al rientro dal Piemonte, dove i miei genitori lavoravano in fabbrica, qui non c’era più nulla. Eravamo quelli che si sono portati il cavallo dalla Calabria. Un milione e ottocento mila lire al mese di pensione per accudirlo. Originariamente questa era una stazione di monta della Regione dove era presente il Nearco di Doria. Papà, da grande appassionato, voleva ricreare la razza calabrese. Lui e mamma erano istruttori di equitazione: appena arrivati, davano lezioni di ippica. Ho iniziato a lavorare nella ristorazione. Mi sono trasferito in Francia del Nord: mi pagavano bene. Ma mentre componevo i piatti, avevo impregnato l’odore di questi ulivi, lo scampanìo delle vacche, il gorgoglìo dei ruscelli dell’Aspromonte. Ho deciso di tornare».

    Poi sono partiti i progetti: «Avevo in mano un percorso in Scienze Naturali, una passione per i fermentati vegetali e un progetto sul fitorimedio e sulla coltivazione di Artemisia Annua col metodo di Teruo Higa. Volevo utilizzare i fermentati e riprodurre alcuni comparti microbici attraverso quella tecnica. La prima tappa in Italia fu dal professor Roberto Marino dell’Università di Padova: gli illustrai il mio progetto e decidemmo di partire per la Calabria dove abbiamo fatto sperimentazioni in pieno campo studiando i Probiotic Autogen Microrganism che, diluiti, potevano essere usati nelle stalle. Assieme a quelli anche il relativo terriccio. Questo accadeva cinque anni fa. L’iniziativa si spense per la penuria di fondi. Poi è arrivata la pandemia».

    La nascita di Kalon Brion Hug a Tree Movement

    Kalon Brion era già nata ed era ai suoi albori. Questa associazione dalla dicitura metà greca e metà bruzia conteneva già nel nome il suo manifesto: far sorgere il bello e il buono. Un bello che per Gianluca, Rocco e gli altri si trova in montagna, tra i boschi e le sorgive. Sono eco-operatori, appassionati di survivalismo, flora e fauna: si prendono cura del territorio, presidiano i sentieri, organizzano immersioni in natura.

    «La nostra associazione è nata da una comunione di interessi e intenti: monitorare il territorio, proteggere e valorizzare la montagna, vivere a stretto contatto con la natura, educare al turismo montano consapevole e al rispetto della biodiversità. Assieme a me ci sono persone come Rocco Calogero, poliglotta, un passato nella foresta boliviana, e la mia compagna, videomaker. Tutti con la stessa passione e competenze diverse. Veniamo da una lunga esperienza di animal tracking e monitoraggio dell’avifauna. Rocco ed io siamo gli unici in Calabria ad avere quest’abilitazione. In zona Taureana, siamo stati invitati a collaborare al piano di studio ambientale propedeutico a un progetto di riqualifica dell’area archeologica. Allora insieme al professor Tripepi di Scienze Naturali dell’Unical abbiamo monitorato il Chameleo chaemelon presente tra gli eucalipti della Tonnara di Palmi. Poi ci siamo accorti che c’era un deficit legato alla mappatura di flora e fauna a nord di Gambarie ed avevamo la sensazione che questa porzione di territorio fosse stata completamente abbandonata dalle istituzioni e dal Parco».

    Se boschi e logica scompaiono

    Scalando in auto la strada che serpeggia sui fianchi della montagna, Gianluca mi racconta di come, durante la stagione degli incendi, avessero mollato tutto l’ordinario per organizzare staffette di volontari a supporto delle operazioni di spegnimento: «Più i boschi bruciavano, più le nostre attività rischiavano di essere vanificate. La nostra missione è lavorare nel presente per il futuro. Puntiamo sulle scuole per uscire dalla logica che la prospettiva dell’Aspromonte sia di un parco giochi per il weekend. La montagna è vita e opportunità tutto l’anno. Nel bosco si entra sempre come ospiti: noi passiamo, lui resta. Ci chiediamo ancora perché il modello Aspromonte contro gli incendi sperimentato da Bombino non abbia trovato seguito. Una best practice fatta naufragare, salvo poi essere adottata da diversi altri parchi, come quello del Pollino, con evidenti risultati. Ma qui ci scontriamo con le logiche del non-senso».

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    Volontari di Kalon Brion impegnati a spegnere il fuoco durante gli incendi dell’estate 2021

    Mentre saliamo allo Zomaro, Gianluca è trasfigurato in Attis, giovane dio della vegetazione nella mitologia greca: «Abbiamo tutti la stessa origine e ognuno, nel suo profondo, conserva un richiamo primordiale che prima o poi lo porta a cercare il contatto con la natura. Noi lo aiutiamo a riaprire certi cassetti chiusi da tempo. Diamo le chiavi perché si ristabilisca il contatto profondo con ciò da cui veniamo. Il nostro campo base si trova allo Zomaro, nell’area dell’ex Ostello della Gioventù».

    L’area dell’ex Ostello allo Zomaro

    Zomaro è il punto più stretto del Parco e una delle sue porte naturali, allungato lungo il dossone della Melìa. Da qui si dominano il versante tirrenico e jonico. Tra le zone più umide dell’Aspromonte, lo Zomaro (Οζώμενος – acquitrinoso) straborda di una fitta vegetazione di faggi, abeti, pini e larici centenari e ospita sorgive di acque oligominerali. È li che ci trasferiamo dopo la tappa a Galatoni.
    L’ex Ostello allo Zomaro è un’area concessa dal comune di Cittanova con un bando per la ripulitura.

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    L’area dell’ex ostello di fronte al campo base di Kalon Brion

    «Cercavamo un quartier generale, un campo base dove svolgere le nostre attività all’aperto. Accogliamo e supportiamo ciclisti e turisti che fanno questa tappa lungo il loro cammino. Realizziamo attività di educazione al survivalismo e al natural living per grandi e piccoli, collaboriamo con le scuole proponendo laboratori didattici. Kalon Brion si è sempre distinta per il suo spirito di servizio verso il territorio e la montagna. Tanto abbiamo premuto e insistito perché quest’area dismessa potesse tornare patrimonio della comunità, fino a quando il Comune ha deciso di affidarcela: da tempo chiedevamo perché questa porzione di territorio dovesse restare abbandonata».

    Sotto al berretto di lana verde petrolio, dietro agli occhiali che riverberano la luce di mezzogiorno, sotto al peso di una montagna che sembra caricarsi sulle spalle, i suoi occhi celesti si accendono. Una sigaretta dopo l’altra, Gianluca scende dall’auto, allarga le braccia e mi invita ad entrare: «Quando abbiamo ottenuto le chiavi di questo cancello – racconta mostrandomi una recinzione rudimentale che cinge l’area – abbiamo festeggiato. Le prospettive erano grandi e poteva aprirsi una nuova stagione».

    Autogestione e natura

    Il breve sentiero che porta al campo base dello Zomaro fiancheggia a sinistra l’ex Ostello della Gioventù, unico punto in zona dove si sarebbe potuto alloggiare. «A vederlo dall’esterno sembra solido, ma è stato confiscato perché sede abusiva di opache riunioni e reso inagibile per via dei lucernari lasciati aperti. Ha all’interno 60 stanze, alcune con i mobili ancora nuovi, un forno a legna, un ristorante, ed è una delle pochissime strutture in Aspromonte non vandalizzate».

    A destra si apre lo spazio in concessione: 26.500 metri quadrati autogestiti, senza alcun finanziamento, che oggi sono il luogo dove si svolgono didattica, campi estivi, laboratori. Accanto, un piccolo prefabbricato attrezzato con un cucinotto. All’interno ci sono i lavori realizzati durante le attività: archetti per accendere un fuoco in condizioni di emergenza, cordame per reti, e tutto quanto necessario per soddisfare i bisogni primari in natura; ci sono anche reperti faunistici con cui viene spiegato, ad esempio, come e con quali materiali un volatile costruisce il suo nido. In un angolo le ricetrasmittenti e le fototrappole utilizzate per l’animal tracking, essenziale per mappare evoluzioni e criticità del territorio in base a cui orientare strategie di intervento. Comprese quelle contro il bracconaggio.

    Dalle Highlands allo Zomaro e dintorni

    Gianluca mi spiega anche che l’ecosistema della montagna non si limita ai pendii, ma scende a valle arrivando fino a mare: «Bisogna capire che ci troviamo in un punto unico al mondo. Gli scozzesi arrivano a studiare l’Ulivarella di Palmi perché si trovano minoliti presenti anche nelle loro Highlands. I ricercatori vengono qui a ricostruire la cronostoria dei movimenti della tettonica a placche e dell’orogenesi. Questo è il dato di realtà». È l’Aspromonte che con i suoi tentacoli di roccia arriva fino al Mediterraneo.
    Un’area unica in sue sensi: abbraccia un comprensorio molto più grande del Parco scendendo a valle e custodisce unicità da tutelare e valorizzare. «Bisogna progettare partendo dall’esistente, spesso trascurato», mi incalza Gianluca. Ed in effetti le opere di ripristino della rete di accesso al bosco e degli antichi sentieri annunciate a giugno 2020 da Regione e Comune di Cittanova, 180 milioni di euro sul PSR 2014/2020, non sono state ancora realizzate.

    I problemi con il Parco

    «L’atteggiamento delle istituzioni e del Parco deve cambiare. Bisogna capire che dobbiamo remare insieme nella stessa direzione. Se è vero che sotto la superficie le associazioni di animazione e promozione territoriale stanno creando sinergie, lo stesso non può dirsi per le autorità di gestione. Noi siamo quelli che fanno il tracciamento dei lupi e dei caprioli, siamo gli avio-osservatori, un lavoro non dovuto e non retribuito che mettiamo a disposizione. Anche da qui passa il futuro del Parco. Bisogna abbattere i muri comunicativi. Volevamo creare delle zone di controllo e monitoraggio della porzione nord dell’area montana di concerto con altre forze: dal Parco ci è stato risposto che le richieste non erano giunte, quando noi eravamo già in possesso dei certificati di avvenuta ricezione delle pec inviate».

    È un po quello che mi diceva anche Luca Lombardi: «Le guide rappresentano l’economia e le aziende all’interno del Parco, ma non siamo stati ascoltati. Abbiamo chiesto che certi processi portati avanti dalla precedente gestione fossero ripresi, che certe iniziative fossero promosse, che si puntasse l’attenzione su attività internazionali, come il Geoparco UNESCO o la Carta del Turismo sostenibile. Ci hanno respinti. Il Parco si è auto-isolato. Adesso, l’arrivo del nuovo direttore amministrativo Putortì fa ben sperare: appena insediato, ha incontrato le associazioni».

    Lo Zomaro mette le ali

    Il parco però sembra muoversi con nuove strategie. L’approvazione del progetto del Campo Volo a Zomaro proposto da CAP Calabria è un segnale. Si tratta di un’iniziativa dedicata all’aviotrasporto e alla flytherapy promossa da Giancarlo Fotia.
    Istruttore di volo, per la prima volta, accetta di farsi intervistare.

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    «Porto avanti questa idea da 10 anni. Non è stato facile. All’inizio ho ricevuto un coro di no. Il Parco non si tocca. Qualcuno mi ha anche detto “la montagna è mia”. Ma io ero convinto di sì. Sono andato a prendere tutte le mappe, ho effettuato ricerche catastali, realizzato studi per dimostrare che l’impatto acustico degli aerei da diporto fosse irrisorio, diversamente da quello di fuoristrada e moto che scorrazzano senza grande controllo».

    E così ha individuato il luogo ideale per mettere in pratica la sua idea. «La lingua di terra di 800 metri che ho individuato è un prato allo Zomaro che delimita il confine col Parco. È nel parco, ma nella particella 16: una zona DS per l’alta antropizzazione destinata dal piano comunale di Cittanova ad area pubblica per attrezzature collettive. É pianeggiante e priva di vegetazione. Dai sopralluoghi si è scoperto che non è nemmeno necessario sbancare. In poche parole si tratta di delimitare la pista con cinesini in plastica frangibile e maniche a vento, e porre estintori mobili. Si accederà e si uscirà dal punto più vicino del confine del parco. Non ci saranno opere murarie».

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    Fly Therapy in Veneto

    L’unione fa la forza

    «I campi di volo – continua Giancarlo – esistono già all’interno di altri parchi. Voglio lavorare insieme al Parco affinché il campo volo dello Zomaro sia un’occasione di sviluppo e di tutela per tutta l’area che versa in uno stato di abbandono e di scarso controllo. Altrove, grazie a queste forme di collaborazione, sono stati scoperti casi di abusivismo vari, dalla discariche alla caccia di frodo. La montagna è di tutti e a beneficio di tutti deve tornare. Ho intenzione di realizzare una scuola di volo e la fly therapy per bambini e ragazzi diversamente abili che possano vivere un’esperienza che può aiutarli».

    Le obiezioni al suo progetto non sono mancate. «Mi hanno accusato – racconta – di aver fatto tutto sotto traccia, ma carta canta: tutto è stato svolto con procedure di evidenza pubblica. Mi hanno obiettato che è una follia far volare aerei quando viene proibito l’utilizzo di droni nell’area. Ma i droni rappresentano un pericolo maggiore: hanno preso fuoco in volo, sono stati attaccati da rapaci, sono poco regolamentati perché utilizzano una tecnologia nuova. Voglio fare tutto coinvolgendo altre associazioni come Kalon Brion perché la tutela e lo sviluppo passano dalla sinergia. Bisogna lavorare tutti assieme».

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    L’area che ospiterà il campo volo vista dall’alto

    Particolare e universale

    Lo scorso 29 dicembre il Comune di Cittanova ha pubblicato la Delibera di Consiglio N. 45 con cui approvava lo schema di convenzione tra municipio ed associazione per la gestione del campo volo dello Zomaro. Il progetto è già approvato.
    Questa storia ha visto contrapporsi diversi attori della montagna: ambientalisti, attivisti, sacerdoti della natura, imprenditori e operatori che hanno lamentato un eccessivo impatto, appellandosi alla necessità di dare priorità a interventi di riqualifica più urgente. Allora mi chiedo: può una tale iniziativa essere la spinta per realizzare migliori servizi a fronte del fatto che il piano straordinario di riqualificazione della percorribilità interna al Parco, 10 milioni di euro, è in fase di realizzazione? Lo sviluppo si stimola andando dal particolare all’universale o viceversa?

    Prima di rientrare, ci muoviamo tra i larici centenari per arrivare a una sorgiva. La segnaletica con i dati delle acque è corrosa dalla ruggine. Sarà vecchia di almeno 30 anni. É vero: la Regione Aspromontana ha bisogno di servizi, di controllo, di sinergie, di presenza. Della sua comunità che la viva, sottraendola all’abbandono e al de-sviluppo.
    Il sole cala, la nebbia si solleva, attaccandosi addosso col suo abbraccio bagnato. É tempo di andare. Porto con me nel crepuscolo verso la città del terriccio sotto gli scarponi, una borraccia di acqua di fonte e lo sguardo appassionato di Gianluca.

  • GENTE IN ASPROMONTE| Il polpo di pietra

    GENTE IN ASPROMONTE| Il polpo di pietra

    L’Aspromonte è un polpo. Guardandolo dall’alto l’impressione è quella di osservare una testa di animale da cui si diramano, a raggiera, tentacoli di roccia che si fanno strada tra le valli e le gole fino a raggiungere i due mari, lo Jonio e il Tirreno. La sensazione è sorprendente: è come vedere un animale preistorico sputato fuori dalle acque che tenta di ritornarvi. E niente più di questo gioco di rimandi tra la montagna e il mare coglie l’essenza di un territorio complesso che nasce, cresce e si sviluppa, a vari livelli, come testa di ponte sospeso tra Europa ed Africa, Oriente e Occidente.

    Queste Alpi calabresi – ultimo anello del blocco granitico-cristallino della Calabria – sono vecchie di trecento milioni di anni. Si estendono per 80.000 ettari, molti ricompresi all’interno del Parco Nazionale, e attraversano 37 comuni della Città Metropolitana di Reggio Calabria. Racchiudono ventuno Siti di Interesse Comunitario, due Zone di Protezione Speciale e ottantanove geositi censiti, suddivisi in 5 aree geografiche omogenee.
    Si tratta di una ricchezza inestimabile e sfaccettata che comprende una stupefacente biodiversità e un sincretismo culturale unico in tutto il Mediterraneo.

    Pastorizia e sequestri

    Raccontare l’Aspromonte e anche solo approcciarvisi è complesso e può sembrare un’impresa titanica. Un pezzo di territorio misterioso, spesso assurto agli onori delle cronache per malaffare all’ombra di una vita pastorale che, per secoli, si è sviluppata senza grandi cambiamenti. Se non quando, tra gli anni Settanta e Novanta, è divenuto tristemente noto come il covo impenetrabile dell’anonima sequestri calabrese che, con i suoi feroci e sanguinari rapimenti, ha accumulato il capitale da reinvestire in svariate attività illecite, prima tra tutte il traffico internazionale di stupefacenti.

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    Pietra Cappa vista dall’alto (foto Pietro Di Febo)

    Ed è allora che Pietra Cappa, monolito tra i più grandi d’Europa, geosito oggi osservato e studiato a livello internazionale come un gigante geologico dalla caratteristiche uniche, per secoli simbolo di Persefone, divinità polimorfa, venerata come candida fanciulla, come donna satura di passione, come potenza degli inferi, come luce, simbolo di vita primaverile, come tenebra, emblema di morte e sonno invernale, la mamma dei pastori e di quella cultura agro-pastorale ormai in via di estinzione, è diventato emblema di ferocia.

    La montagna dei due mari

    Oggi questa terra eletta di emigrazione, con le sue enclavi linguistiche intrise di vergogna, un versante tirrenico a tratti tropicale e lussureggiante, e uno jonico brullo, arido e più impervio, rivive. Alla stagione dei sequestri, lo Stato ha risposto anche con l’istituzione dell’area protetta nel 1989 cui è seguita quella dell’ente gestionale nel 1994.
    La montagna ha cominciato a riemergere dalle acque di quell’oscura e fitta macchia mediterranea che per anni aveva custodito i suoi mirabili segreti, fatti di terre senza tempo, riti stagionali, culti religiosi, accatastamenti culturali in cui Bisanzio si mischiava a Roma, Atene e Gerusalemme, portando fino a noi tracce di un passato remoto ancora presente.
    La sua scarsa antropizzazione, la precarietà di vie di comunicazione rimaste identiche per secoli e l’isolamento sono gli elementi che hanno tramesso in modo vivido e, nel bene e nel male, in un certo qual modo ancora attuale la conservazione di strutture sociali, schemi culturali e pattern valoriali atavici.

    L’Aspromonte che si unisce

    Tre fenomeni diversi susseguitisi in un breve lasso di tempo hanno interrotto questo processo:

    • Il boom degli anni Sessanta con l’abbandono dei centri montani che ha favorito il de-sviluppo della montagna e della sua economia;
    • Le ondate di emigrazione che, dagli anni Settanta, hanno desertificato le piccole comunità;
    • L’avvento del paradigma digitale che, dagli anni Novanta, sta globalizzando i trend della cultura di massa.

    Al tempo stesso il pattern digitale, con la sua nuova rivoluzione industriale, si è rivelato formidabile per connettere, facilitare processi, moltiplicare, diffondere, avvicinare, divulgare. Persone, territori, operatori, ricercatori, turisti, escursionisti, imprenditori si sono trovati avvicinati, semplificati nel creare reti di interesse comune, facilitati nello scambio di informazioni, nelle procedure, nelle interazioni. La tecnologia ha dato una mano accorciando la dimensione dello spazio-tempo. E questo ha favorito il fiorire comunità di scopo, dall’animazione territoriale, al turismo, alle filiere produttive che, pur con i loro passi avanti, restano ancora ad uno stadio poco più che embrionale.

    L’Aspromonte e i suoi tentacoli

    La vera natura dell’Aspromonte è riemersa: non una mera montagna, ma una rete complessa e capillare di entità, paesi, borghi e comunità che ha vissuto con, per, addosso e in prossimità del monte. A maggior ragione l’Aspromonte è un polpo: perché i suoi tentacoli di pietra che attraversano luoghi e popoli sono i nervi di ciò che Gregory Bateson (gli chiedo subito scusa) ha definito ecosistema.

    L’Aspromonte oggi è più polpo che piovra: la ribalta per il riconoscimento di Global Geopark della rete Unesco, un rinnovato interesse escursionistico, promosso dalla passione e dal febbrile lavoro delle guide ufficiali, composte da operatori del turismo montano e da professionisti della ricettività diffusa, l’attenzione verso la cultura del chilometro zero, la semplificazione dei processi di comunicazione, la mutate priorità di vita e lavoro derivate dalla pandemia, l’interesse per le isole linguistiche, rendono oggi la Regione Aspromontana meta di rinnovato interesse e terreno fertile in cui germinano la piccola imprenditoria e l’associazionismo.

    Passato, presente e futuro

    Viaggiare in Aspromonte significa andare alla scoperta di un passato che resta presente e si prepara ad essere futuro. Vuol dire scoprire le radici di chi è andato, di chi è rimasto. E, soprattutto, di chi è ritornato, categoria che viene poco osservata ma che rappresenta il grande corso che scorre sottotraccia. Dei ritornati si parla poco, ma ci sono. E sono quelli che, forse più di tutti, svolgono un lavoro di cucitura tra quel passato e questo presente.
    Si tratta di giovani tra i 25 e i 35, come Gianluca, Nicola, Andrea, Rocco, con un passato di diversi anni in giro per l’Italia o all’estero, artigiani di vini, di cucine, agricoltura e cavalli che hanno deciso di rientrare. Con la loro esperienza e il loro bagaglio, contro lo stereotipo del «vatindi, non c’è nenti», sono ritornati per investire, senza negare gli ostacoli cui andavano incontro.

    Quelli che ci credono

    Sono quelli che ci credono. E sono i protagonisti di questo movimento che c’è ma non si vede. Affiancano i restati, come Tiziana, Luca, Pasquale, Piero, Attilio, stringono alleanze: fanno come le tegole del tetto, si danno l’acqua l’un l’altro.
    Sono i protagonisti del mio racconto, sono gli enzimi di questa infrastruttura umana, culturale, del cuore, della fiducia su cui ha puntato il professor Giuseppe Bombino, già a capo dell’Ente Parco durante gli anni del suo mandato.

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    Giuseppe Bombino, ex presidente del Parco

    Sono il buono che c’è e che bisogna sostenere. Attraverso i loro occhi, le parole, le attività, l’impegno, ho costruito le puntate che si susseguiranno con diversi scopi:

    • fare una fotografia di quello che oggi sta accadendo e che in molti non conoscono;
    • riflettere sulle criticità del territorio, del rapporto con gli enti pubblici e di certe operazioni culturali;
    • riaprire il dibattito sull’annosa questione dello sviluppo delle aree interne tornata in auge con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

    L’Italia interna è quella fatta di quasi 4.000 comuni, il 58,8% della superficie nazionale, popolata da circa 13,4 milioni di persone. L’Aspromonte ne è pienamente parte. E quando ho deciso di iniziare questo viaggio l’ho fatto con questo spirito di scoperta e ricerca: alla volta di territori, popoli, uomini e donne partiti, restati o ritornati.