Tag: fotografia

  • La Calabria che Mimmo Jodice ci ha insegnato a guardare

    La Calabria che Mimmo Jodice ci ha insegnato a guardare

    Ebbene sì, c’è un autore che era già stato in Calabria prima del festival di fotografia di Corigliano, quello che ha reso la nostra regione una tappa ineludibile della grande fotografia contemporanea. Ospite della Fondazione Napoli Novantanove, Mimmo Jodice ha ripercorso a fine millennio il viaggio di Norman Douglas, raccontato nel 1915 dallo scandaloso, quanto raffinato scrittore inglese in Old Calabria, diario di viaggi nell’antica Calabria, da Lucera al Salento, ma non solo. Come suggerisce il titolo del libro di Jodice, Old Calabria e i luoghi del Grand Tour, il suo percorso fotografico si muove fra le tracce di altri scrittori in viaggio, da George Gissing a Henry Swinburne, Alexandre Dumas, Edward Lear e Francois Lenormant, solo per citarne alcuni.

    Fuori dalla contemporaneità

    E dunque è una Calabria che evoca un tempo altro dalla contemporaneità quella di Jodice, le cui atmosfere sospese, dense di silenzio, inducono alla riflessione, a “perdersi a guardare”, secondo la frase di Fernando Pessoa che il Maestro ha trasformato nel tempo in poetica dalla felice cifra stilistica: «Osservare, indagare con gli occhi, con la mente, perdermi a guardare, contemplare, immaginare, cercare visioni oltre la realtà», scriverà nella biografia pubblicata da Contrasto il cui titolo, Saldamente sulle nuvole, è una citazione di quell’Ennio Flaiano che «l’arte è un modo di tenere i piedi poggiati saldamente sulle nuvole».

    Le immagini dei Bronzi di Riace

    È questa lentezza dello sguardo di Jodice, caparbiamente lontano dal virtuosismo dell’attimo decisivo bressoniano, che sottrae il viaggio alla dimensione documentaria per affidarlo ad un’interiorità visionaria e contemplativa, fino a trasformare la realtà in una sorta di paesaggio dell’anima, capace di accarezzare le nostalgie della memoria. Memoria che è soprattutto identità, in questa nostra parte di Mediterraneo vista come luogo di radici e stratificazioni che riprendono vita nelle immagini di certi luoghi o architetture. Tracce di identità altrimenti consegnate all’oblio, la cui ricerca è proseguita poi qualche anno più tardi con le immagini dei Bronzi di Riace, realizzate per la campagna fotografica affidatagli dalla Regione Calabria.

    Uno scatto di Mimmo Jodice a Santa Severina (KR)

    Jodice non fotografa la Calabria, la ascolta

    Come tra volto e anima, per Jodice c’è un legame indissolubile fra dimensione esteriore e interiore che caratterizza tutto ciò che riguarda il Sud, dove “si fondono bellezza scenografica del paesaggio e dimensione sociale che viene dal passato”, come dirà in un’intervista.
    E forse è questo, in fondo, il dono più grande che Mimmo Jodice ci ha lasciato: aver guardato la Calabria non come un “altrove” da raccontare, ma un luogo dove la bellezza non è mai solo estetica, ma memoria viva, carne e spirito.

    Da calabrese, non posso che riconoscere in quelle immagini il respiro lento della mia terra, la luce che indugia sulle pietre, il silenzio che sa dire “più di mille parole”, la malinconia che da noi è una forma d’amore. Jodice non fotografa la Calabria per spiegarla: la ascolta. E in quello sguardo sospeso, tra mare e montagna, tra mito e realtà, ci restituisce l’essenza di ciò che siamo: un popolo che resiste al tempo, ancorato alla propria storia ma sempre, ostinatamente, con i piedi poggiati sulle nuvole.

    Mimmo Jodice
  • Lamezia, la Fiat 600 e la casa messa a nudo

    Lamezia, la Fiat 600 e la casa messa a nudo

    “I trogloditi di Africo”: il titolo di un articolo pubblicato su “L’Europeo” nel 1948 è senza appello, come altrettanto impietose sono le foto di Tino Petrelli a corredo, che il tempo ha trasformato in icone neorealiste della miseria. Ce n’è una, oltre quella più famosa della classe con i bambini scalzi e la carta geografica della Calabria alle spalle, che mi è tornata alla memoria in questo momento, scattata all’interno di un ambiente che la famiglia condivide con un letto, un maiale ed una capra. So bene che a più di qualcuno il parallelo sembrerà eccessivo, ma l’associazione fra questa foto e quella del crollo della facciata di una palazzina di Lamezia Terme, avvenuto qualche giorno fa, ha un suo legame concettuale.

    La casa di Lamezia: la frattura simbolica

    La cronaca di eventi come terremoti, attentati, o fughe di gas ci ha abituati alla visione di interi palazzi sventrati che offrono la propria intimità al nostro sguardo come teatri dalle scenografie di vita interrotta. Cucine e letti disfatti, armadi aperti come confessionali forzati: gli interni più privati diventano scena pubblica, la rivelazione improvvisa di uno spazio intimo che insieme alla frattura dei muri porta con sé la frattura della distanza simbolica tra l’interno e l’esterno, ponendoci di fronte ad un intreccio complesso tra psicologia dello sguardo, estetica del disastro e tensione etica.

    Se da un lato la visione delle rovine suscita empatia e compassione per la quotidianità interrotta, dall’altro la stessa visione può alimentare un piacere segreto, una fascinazione che rientra in quella che Susan Sontag ha descritto come “l’attrazione del disastro”, dove l’atto del guardare si situa in una zona ambigua, oscillante tra compassione e consumo estetico della sofferenza. Sintomo, quest’ultimo, della tensione moderna tra documentazione e spettacolarizzazione che rinnova ogni volta l’interrogativo sui limiti morali del nostro desiderio di vedere, assai vicino, talvolta, ad una sorta di voyeurismo.

    Lamezia, la casa col punctum di Barthes

    Ma pur volendo distogliere lo sguardo da intruso, c’è qualcosa di diverso nel crollo di Lamezia, un dettaglio da punctum barthesiano che mi tiene incatenato a quell’immagine. Un elemento perturbante che emerge da quello spaccato di quotidianità agendo come una frattura semantica: una vecchia Fiat 600, apparentemente partecipe della normalità dello spazio domestico come in quel tempo non troppo lontano documentato da Petrelli. In realtà si tratta sicuramente di uno spazio dedicato a rimessa ma non solo, condiviso probabilmente con damigiane, bottiglie di pomodori e suppressate appese a stagionare, ma comunque contiguo alla casa.

    Epperò quell’accostamento tra casa e macchina, come in passato fra casa e animali, rimanda a una specificità culturale, soprattutto nel meridione d’Italia, dove in molti contesti la casa non era/è semplicemente un contenitore separato dalla vita economica e sociale, ma un organismo esteso, secondo una logica di prossimità e custodia: ciò che è prezioso, vitale o identitario viene collocato all’interno.

    La 600, icona della motorizzazione di massa e della modernizzazione italiana del dopoguerra, rappresenta una traccia biografica e culturale fortemente connotata, e la sua collocazione in uno spazio a portata di sguardo, contiguo a quello domestico, la trasforma in reliquia, oggetto d’affezione e al tempo stesso testimonianza di una temporalità sospesa, quasi un fossile domestico investito di una nuova aura simbolica. Non più strumento di spostamento, poggiata sui cavalletti al posto delle ruote, ma deposito di memorie, feticcio familiare che abita lo spazio come un ospite ingombrante ma accettato.

     La casa sventrata a Lamezia, vite e fragilità

    Nel più ampio contesto della mise en scène forzata della palazzina messa a nudo, i cui interni appaiono espressione di una comunità socialmente omogenea, quell’auto si presta a incarnare un simbolo di identità e di memoria collettiva della piccola comunità che è un condominio, raccontando una storia più ampia di vita, di cura e di perdita che appartiene a tutti noi. Alla fine, quelle stanze aperte come vite esposte ci ricordano la nostra fragilità; guardarle è guardare noi stessi, e capire quanto sottile è il confine fra certezze e perdita.

  • GBG il calabrese

    GBG il calabrese

    Per chi non le ha vissute da vicino, le persone diventano un collage disordinato di ricordi altrui, a volte solo impressioni. Specie in questa epoca social in cui la memoria sembra non appartenere più alla sfera privata della ‘bonanima’, ma essere un rito collettivo da performare. Difficile sottrarsi alla celebrazione planetaria del ricordo, al c’ero anch’io di un selfie o di un aneddoto.
    Per noi che siamo lontani da tutto, Calabria Saudita ci chiamano, Berengo Gardin è stato una di quelle meraviglie da toccare, alla San Tommaso. Un’incredulità che per trasformarsi in realtà trattenuta ha avuto bisogno di una cittadinanza onoraria e di un libro, edito nientemeno che da Contrasto. Un libro dal titolo che la dice lunga su quella distanza, Viaggio a Corigliano.
    Già, Corigliano, città del Festival che 22 anni fa ha regalato alla nostra terra un tocco di internazionalità, fra l’affetto dei tanti che ogni anno tornano numerosi sui luoghi di questo pellegrinaggio del cuore. Il Festival che ha unito la Calabria in un sentimento misto di orgoglio e riconoscenza.
    Addio Berengo, e grazie per i ricordi che ci hai lasciato da raccontare all’infinito.

  • Verso Sud con Gianni Berengo Gardin

    Verso Sud con Gianni Berengo Gardin

    Nel cuore pulsante del Mezzogiorno, dove il sole brucia la terra e il mare sussurra antiche storie, Gianni Berengo Gardin ha posato il suo sguardo, un occhio che non si limita a vedere, ma a narrare. È vissuto 94 anni, il maestro della fotografia italiana ci ha lasciato un’eredità che si lega profondamente col Sud, e in particolare con la Calabria, terra di contrasti e di verità nude, che egli ha saputo cogliere con la sua Leica, strumento di un artigiano che si definiva tale, rifuggendo l’etichetta di artista. “La foto migliore è quella che ha più cose da dire”, diceva, e nel Mezzogiorno ha trovato un universo di parole silenziose, di gesti quotidiani, di paesaggi che parlano di resistenza e di bellezza ferita.

    Berengo Gardin, veneziano d’adozione ma nato a Santa Margherita Ligure, era un antropologo dell’immagine, un poeta della realtà che, con il suo bianco e nero, ha dato voce a chi non l’aveva. Il suo rapporto col Sud è stato un dialogo costante, un viaggio d’amore e di impegno civile, come testimoniano i suoi scatti a Capocolonna, Pentedattilo, Stilo e il suo legame speciale con il festival di Corigliano Calabro Fotografia. La Calabria, con le sue rughe di storia e le sue cicatrici di modernità, è stata per lui non solo un soggetto, ma un interlocutore, un “luogo” dove il suo obiettivo si è fatto specchio di un’umanità viva e complessa.

    A Capocolonna, nel crotonese, Berengo Gardin ha fotografato l’anima di una terra che si aggrappa alla sua eredità greca, alla sua identità sospesa tra mito e abbandono. Qui, il suo sguardo ha colto il silenzio di un paesaggio che racconta millenni, ma anche la fatica di chi lo abita, di chi vive ai margini di un Sud spesso dimenticato. A Pentedattilo, il borgo fantasma aggrappato alle rocce della costa jonica, ha immortalato le pietre che sembrano parlare, le case abbandonate che custodiscono memorie di vite passate, in un bianco e nero che rende eterno il tempo sospeso. E a Stilo”, culla della Cattolica e di un Medioevo che ancora respira, ha catturato la spiritualità austera di una Calabria che si erge fiera, nonostante le sue ferite.
    Il suo legame con la Calabria si è consolidato attraverso il Festival di Corigliano Calabro Fotografia, che ha contribuito a fondare nel 2003 e dove tornava ogni anno, come un pellegrino della luce, per “respirare fotografia”, come lui stesso diceva. A Corigliano, non solo ha lasciato il suo segno con il progetto “Viaggio a Corigliano” (2004), un racconto visivo della città e dei suoi abitanti, ma ha anche incarnato un esempio per generazioni di fotografi, condividendo la sua visione etica e il suo rifiuto di un’estetica fine a sé stessa. “Non voglio interpretare, voglio raccontare”, ripeteva, e in Calabria ha raccontato una terra che non si arrende, che vive nei volti dei pescatori, nei mercati, nelle strade polverose, nei gesti semplici che diventano epici sotto il suo obiettivo.

    Il Sud di Berengo Gardin non è mai stato un cliché, né una cartolina pittoresca. È un Meridione vivo, fatto di contraddizioni, di lotte, di dignità. La sua fotografia sociale, ispirata dai maestri della Farm Security Administration come Dorothea Lange e dai grandi della Magnum come Henri Cartier-Bresson, ha trovato da noi un terreno fertile per esprimere la sua missione: documentare l’uomo, la sua fatica, il suo ambiente. Le sue immagini del marchesato crotonese e della Locride sono frammenti di un’antropologia visiva che restituisce al Sud la sua complessità, lontano dagli stereotipi di arretratezza o folklore. Sono immagini che parlano di un Meridione che resiste, che si trasforma, che porta sulle spalle il peso della storia e la speranza del futuro. Berengo Gardin ha fotografato il Sud con la stessa passione con cui ha immortalato Venezia, i manicomi di “Morire di classe” o gli zingari di Palermo.

    Ma in Calabria, forse, ha trovato qualcosa di unico: una terra che, come lui, rifiuta di piegarsi alla superficialità, che chiede di essere guardata con attenzione, con rispetto. Le sue foto di questa regione sono un canto d’amore e di denuncia, un invito a non distogliere lo sguardo da un Sud che, come lui diceva, “ha più cose da dire”. E oggi, mentre piangiamo la sua perdita, quelle immagini continuano a parlarci, a ricordarci che la fotografia, quando è vera, è un atto di giustizia, un abbraccio all’umanità.

  • Arles: foto, cocktail e umanità varia

    Arles: foto, cocktail e umanità varia

    I Calabresi ad Arles. Che detta così fa un po’ provinciale, ma un bagaglio leggero di autoironia è sempre d’aiuto. Azzardata quindi la decisione, e fatta la colletta, la trasferta inizia con la richiesta dell’accredito stampa, primo step ansiogeno di una lunga serie, segnato da controlli compulsivi della mail a intervalli di 10 min. Così, alla vista di quel “We are pleased to confirm your press accreditation for the 2025 edition of the Rencontres d’Arles”, un caloroso mix di sentimenti a base di gratitudine verso la Louise del Press Office ha fatto saltare tappi e scatenato abbracci da scudetto: allora è vero, si parte! Dal “Tito Minniti” di Reggio Calabria, Arles è oramai un sogno possibile, e la consacrazione della testata pure, da ora ufficialmente nota all over the world.

    E siccome certe distrazioni del DNA ti accompagnano ovunque scegli di viaggiare nel mondo, l’esordio da Totò e Peppino a Malano è segnato dal primo sgarro del budget, multa da euro 80 per omissione di tagliandino del parcheggio. Paese che vai, colore delle strisce che trovi, e anche quelle bianche da queste parti sono a pagamento; imparare ha i suoi costi.

    Il kit di sopravvivenza a prezzi salatissimi

    Arles, quanto mi costi?

    Vabbè, ma siamo comunque ad Arles, pazienza. Che in questo periodo dev’essere nell’occhio dell’anticiclone delle Azzorre, stabilmente intorno ai 40° in assenza di una qualsiasi refolella di vento. E lì si comprende la sezione del sito dei Rencontres dedicata al kit di sopravvivenza, 47€ fra cappello, ventaglio e bottiglia termica, con possibili aggiunte di tote bag e guida della città per un totale di 89€. Ancora di più si comprendono i visitatori con il kit fai da te, composto da busta di frutta e scorta d’acqua in bottiglie di plastica, rigorosamente con tappo europeo, il tutto a prezzi da supermercato.

    Installazioni umane deambulanti

    Ma le tappe di avvicinamento al senso della trasferta proseguono con altre scoperte: a inoltrarsi nella folla da overturism il primo appunto sul taccuino del bravo cronista è dedicato proprio allo spettacolo di varia umanità che sciamana per vicoli e piazzette, immediatamente ribattezzati i chARLatain. Gioco di parole necessariamente eccessivo, come richiesto da pezzo di costume: man mano che ci si accalca, si scopre che in mostra qui non ci sono solo fotografie, ma con quel trucco un po’ così, quell’abbiglio un po’ così e quell’espressione un po’ così, moltitudini di installazioni umane deambulanti fanno a gara nel contendersi l’attenzione.

    Un fenomenismo cresciuto negli anni, come del resto il tasso di occupazione di ogni centimetro di muro disponibile con mostre estemporanee, purché nella galleria a cielo aperto più famosa e desiderata del mondo dei fotografanti.
    All’atmosfera tendente al Barnum contribuiscono ovviamente le performance degli stessi fotografanti, dagli ambulanti della minuteira, la fotografia istantanea di strada fatta con grandi chassis di legno, ai concettuali dagli allestimenti simili a flash mob che si confondono con la vita che scorre intorno: invitati di un matrimonio che non sai se comparse di una scenografia, e residenti mimetici che riconosci dall’abilità di slalomisti fino al dileguamento in viuzze laterali.

    Les italiens

    In realtà il paese è piccolo assai, così che la probabilità di incontrare amici e conoscenti di fotografia è decisamente alta, soprattutto in questa settimana inaugurale; e se anche non dovesse accadere, si può sempre andarsela a cercare. In Rue du 4 Septembre, ribattezzata la via des italiens.

    È lì che ho incontrato molti amici e diverse nuove storie, che poi sono sicuramente le cose più interessanti di tutto l’ambaradan, quelle che ti mettono addosso il friccico del cercatore d’oro; per tutto il resto ci sono mappe & app.
    Fra le tante, Alessandro, che immerge le foto in un bagno di thè, così che assumono un colore diverso a seconda di quello usato, thè verde e così via, forniti da un altro palermitano, in arte Faidathè, produttore di un gin al thè, base dei cocktail con olive da giù offerti nello spazio-galleria affittato da Palermofoto.
    O Andrea da Pontedera, con una struttura mobile di 8 cubi di plastica simile al cubo di Rubik su cui sono stampate foto di famiglia che si compongono e scompongono, e ideatore di un progetto di beneficenza che passa per una stampante termica e la progressiva scomparsa della traccia fotografica che sarebbe lungo spiegare.

    E poi le mostre

    E poi, in un piccolo slargo della via, il Livres et Cafè, spazio gestito da Mimesis Edizioni, Gente di Fotografia, e Il Fotografo, sorta di ambasciata d’Italia ad Arles, e tappa obbligata per i connazionali in tour; da Joan Fontcuberta al nostro conterroneo reggino Alessandro Mallamaci, passando per Silvio Canini, sono molti gli autori che hanno presentato qui i propri libri in un’atmosfera assolutamente informale e cazzeggiante, con moka h24 sul fornello, come da promessa.

    Tutta gente che alla sera, quando si tratta di conquistare il diritto di sedersi in un ristorante turistico a prezzi da 3 stelle Michelin, dà vita a tavolate dalle geometrie variabili e talvolta improbabili, che appaiono comunque una rivincita sulle app di dating.
    Si, ma le mostre, la fotografia, vi starete chiedendo dopo essere arrivati pazientemente fin qui… beh, non crederete che ad Arles ci si vada per quello! Ad Arles si va per esserci e raccontarla!

  • Retromarketing: tu premi solo il bottone

    Retromarketing: tu premi solo il bottone

    Sono anni ormai che si parla di retromarketing, tutto un mercato legato all’effetto nostalgia che va dal gaming ai vinili, non disdegnando la fuffa alimentare delle cose buone fatte come una volta. Al ritorno di nicchia dell’analogico, solleticato dalla continua mercificazione del ricordo, in questa estate che stenta si aggiunge un nuovo – e ci vuole del talento per definirlo tale – prodotto: la macchina fotografica usa e getta!

    E pazienza se per lanciare il redazionale bisogna pur trovare qualcosa in stile new-age, tipo «è come se la nostra mente, con una macchina fotografica usa e getta a disposizione, si lasciasse andare alla vita più autentica, all’insegna della leggerezza», con testo dai toni sognanti a seguire; la cosa che fa realmente tenerezza è il dover spiegare come si usa!
    Non so se ricordate l’esperimento della tv svizzera che mise una decina di ragazzini davanti a un vecchio apparecchio telefonico con la rotella, chiedendo loro di cosa si trattasse e come funzionasse. Beh, siamo più o meno da quelle parti, considerato che una sezione del redazionale intitolata “Come funziona la Kodak usa e getta da 27 scatti?” immagina di doverlo spiegare ai potenziali acquirenti, posizionati evidentemente fra Generazione Z e Generazione Alpha, appena un passo dopo i Millennials, impelagati ancora con un piede nell’analogico.

    Quindi (copia-incolla testuale):
    “La prima cosa importante da sapere è che la pellicola da 27 scatti è già inserita e pronta, non dovrai inserirla. Inquadra e scatta: la Kodak ha un mirino ottico semplice per comporre l’immagine. Non c’è nessun display, ecco che cogliere l’emozione più autentica sarà semplicissimo (oltre che veloce).

    Avanza manualmente: dopo ogni scatto, ruoti una rotella sul retro per far avanzare la pellicola al fotogramma successivo.
    Flash integrato: ha un piccolo flash elettronico attivabile con un pulsante, utile per scattare in condizioni di scarsa luce o al chiuso.

    Sviluppo: Una volta esauriti i 27 scatti, porti la fotocamera in un laboratorio fotografico per lo sviluppo. Lì estrarranno la pellicola e svilupperanno le tue foto, spesso con l’opzione di riceverle anche in formato digitale.”

    Come dire che sebbene sia passato più di un secolo, con un tempo che va più veloce delle ere geologiche, il vecchio jingle della Kodak, quello dei tempi della Brownie a 1 dollaro, si dimostra immarcescibile: “You press the button, we do the rest”!