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  • BOTTEGHE OSCURE| Prega e distilla: Calabria alcolica e illegale

    BOTTEGHE OSCURE| Prega e distilla: Calabria alcolica e illegale

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    Produrre alcool ha rappresentato da sempre un lavoro pericoloso pure in Calabria. Quanti nel corso dei secoli s’improvvisavano produttori dovevano fare i conti con due temibili nemici. Le leggi governative punivano gli alambicchi clandestini con sanzioni e arresti. C’era poi il rischio che il prodotto distillato “fai da te” provocasse intossicazioni da metanolo, ponendo gli improvvisati lambiccanti a serio pericolo di vita. Ciononostante, vuoi per bisogno, vuoi per ignoranza oppure perché si seguiva alla lettera l’adagio popolare secondo cui “un bicchiere non fa mai male”, la Calabria dei secoli passati vanta una radicata tradizione di distillerie e alambicchi più o meno legali.

    Prega e distilla

    Nel 1775 venne colto con le mani nel prezioso liquido un frate della Riforma a Cosenza e arrestato per aver prodotto acquavite tra le mura del monastero senza le dovute autorizzazioni. È proprio nella quiete dei conventi calabresi, dove i frati univano il lavoro alla preghiera, che si producevano i migliori prodotti dolciari ed enologici. Il nostro, affezionato, don Vincenzo Padula, ci racconta che le famiglie ne facevano provvista annuale. Da un suo “pezzo” del 1864 veniamo a conoscenza dei risvolti sociali dovuti all’istituzione della legge sul dazio-consumo nel neonato Regno d’Italia. La legge prevedeva un’imposta su diversi beni, tra cui vino, aceto, alcool e acquavite.

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    Alambicco di rame per produrre Gin funzionante nel 1945 (Pagina Facebook Distilleria Fratelli Caffo)

    Per la vendita di quest’ultima nel comune di Bisignano si sarebbero dovuti pagare 14 carlini ogni due barili solo se superava i 59 gradi sull’alcolometro di Gay-Lussac. Tuttavia il letterato di Acri non mancava di osservare che «considerando che ciascuna famiglia ha il suo botticello di vino, e distilla ogni anno la sua provvisione di acquavite, noi chiediamo quanto vino, quant’acquavite si può mai vendere in piazza, perché il governo ne percepisca almeno ciò che basti a pagare gli agenti destinati alla riscossione».

    Alambicchi in ogni comune

    È lo stesso Padula a darci notizia che, sempre nel 1864, i «giovani intelligenti ed arditi» Raffaele Fera e Giovanni Noce avevano impiantato a Cosenza «una fabbrica di potassa con una distilleria, dando così un valore alle ceneri ed alle vinacce, che tra noi si buttano», ma che questi non avevano trovato appoggi e capitali. Le vinacce erano infatti semplici scarti della produzione del vino, e generalmente erano «mescolate al letame dopo che i maiali ne avevano mangiati i vinacciuoli». Nel 1879 veniva invece impiantata la distilleria a vapore dei fratelli Bosco e si riuscì a distillare circa 5mila ettolitri di vinacce.

    Nel Cosentino si distillava dovunque. E infatti le inchieste governative attestavano che «in ogni comunello vi sono degli alambicchi semplici e pochi a serpentino», che spesso servivano per recuperare «qualche botte di vino guasto». Una macchina distillatrice introdotta nel Rossanese nel 1883 giaceva «inoperosa». E leggi restrittive avevano distrutto la produzione di alcool mediante alambicchi nel circondario di Castrovillari.

    Nei dintorni di Cirò, oltre al rinomato vino, si produceva ottima acquavite. Nel 1849 gli alambicchi operativi erano 10. Come testimonia lo storico Giovan Francesco Pugliese, agli inizi del secolo erano molti di più, ma «dopo che l’acquavite si estrae in più luoghi, ed i rosolij ci vengono a migliaia di bottiglie a vil prezzo se n’è diminuito il numero». L’anice, «anisi di Cirò», restava comunque molto «stimato e ricercato». Il suo consumo, però, era ritenuto «pruova di cresciuta intemperanza, e di debilitati stomachi». Secondo lo storico, infatti, «non si beve caffè senza spirito».

    Il primato di Reggio

    Nell’Ottocento le distillerie e le fabbriche di liquori in Calabria erano tante, sparse nei territori delle tre province. Ma solo in poche riuscivano a emergere. In genere le fabbriche di liquori e quelle di “spirito”, cioè le distillerie, erano due produzioni separate. E solitamente le prime erano associate a quelle in cui si producevano dolci e confetture. Il primato ottocentesco nel campo della distillazione spetta alla provincia di Reggio Calabria. Intorno al 1890 vi operavano ben 22 fabbriche di “spirito”, 20 classificate come fabbriche che «distillano materie vinose e vino», le restanti due come «distillerie agrarie».

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    Fabbriche di spirito in provincia di Reggio Calabria, da Annali di Statistica, 1893

    Le prime utilizzavano 24 alambicchi a fuoco diretto, le altre, invece, alambicchi composti. Tutte insieme giungevano a produrre migliaia di ettolitri di prodotto grazie a 87 operai sparsi nei diversi comuni. In particolare erano operanti 4 fabbriche a Palmi, che impiegavano insieme 17 operai; 3 a Gallico, Gioia Tauro e Seminara, e una a Bagnara Calabra, Bivongi, Campo di Calabria, Laureana di Borrello, Reggio, Rosarno, Sambatello, Tresilico e Villa San Giovanni. Si contavano poi innumerevoli fabbriche di liquori, dolci, frutta candita, torroni etc.

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    San Giorgio Morgeto (RC), castello e fabbrica di liquori e profumi

    Catanzaro e Cosenza

    Nel Catanzarese, nello stesso periodo, erano 15 le fabbriche di “spirito” operative, sparse da Borgia a San Vito sullo Jonio, da Casino a Sambiase, da Cessaniti a Palermiti, Cirò, Nicotera, Monteleone. Negli opifici disseminati in questi comuni lavoravano 18 alambicchi a fuoco diretto. Impiegavano 72 tra lavoratori e lavoratrici.
    Nella provincia di Cosenza operavano, tra il 1892 ed il 1893, 21 fabbriche di “spirito”, ma di queste «soltanto 2 attive classificate fra quelle che distillano materie vinose e vino». Entrambe sorte a Cosenza, avevano due alambicchi che lavoravano «a fuoco diretto, producendo 219,95 ettolitri di spirito da 55° a 65°, corrispondenti ad ettolitri 128,44 di alcool anidro, ottenuto dalla distillazione di 9,544 ettolitri di vinacce». Le due fabbriche cosentine impiegavano complessivamente otto uomini. Tra le fabbrichette “miste” di liquori e dolciumi, spiccava a Rossano la ditta “Fratelli Bianco” che dava lavoro per una parte dell’anno a 24 operai.

    La Stregaccia di Rossano

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    Testata del 1919 della fabbrica De Florio da www. grappa. com

    La città bizantina è stata sempre una zona di fermenti imprenditoriali. Nel campo dei liquori, alla ditta dei fratelli Bianco si aggiunse presto quella dei De Florio. Le due realtà finirono per fondersi intorno agli anni ’20 del Novecento, dando vita – come ci ricorda Martino Rizzo – alla Fratelli Bianco & De Florio. La punta di diamante della produzione era un liquore chiamato Stregaccia ma si producevano ed esportavano anche all’estero biscotti, torroni, confetti e dolciumi in genere. Sciolta nel 1936, la ditta si trasformò in Fratelli De Florio & C. e rimase attiva fino al 1973.

    Amari e altri tonici

    Pubblicità fabbbrica liquori Bosco, Cosenza, 1903

    Nel 1920 il Silanus era la specialità dell’azienda Bozzo&Filice operante a Donnici, alle porte di Cosenza. La ditta, «premiata fabbrica di liquori con distilleria a vapore», produceva anche «Cognac distillato da puro vino, pari ai migliori francesi».

    Amaro Magna Sila (Enoteca Stanislao Felice, Cosenza 1928-1929, Archivio Centrale dello Stato, Marchi e Modelli)

    Preparato con erbe medicamentose colte sui monti dell’altopiano silano, si affermò alla fine degli anni ’20 l’amaro Magna Sila, veicolato da un marchio finalmente a colori su cui si leggeva: «Per le sue proprietà toniche è un potente ricostituente dell’organismo. Efficacissimo nelle convalescenze di lunghe malattie. Utilissimo nelle languide e stentate digestioni, nei bruciori, dolori di stomaco, coliche nervose e nelle flatulenze».

    Tra Ottocento e Novecento Catanzaro poteva vantare invece il rinomato Cassiodoro. Era il prodotto di punta della Pasticceria, Vini, Liquori di Paolino Michele Potortì che metteva in bella mostra i premi conseguiti e gli encomi del Ministero dell’Agricoltura. Il «sublime liquore», cui si diede il nome del celebre politico, letterato e storico di Scolacium (Squillace) era presentato come un piccolo miracolo in bottiglia: «Tonico, ricostituente, antifebbrile, aperitivo, stomatico, digestivo». Una panacea, insomma.

    Pubblicità fabbrica liquori Potorì, Catanzaro,1903

    Paisanella

    «Distillare è come imitare il sole che evapora le acque della terra e le rinvia sotto forma di pioggia» affermava Dioscoride Pedanio, medico del I secolo d.C. Nonostante i fervori creativi non è tutto “oro” ciò che viene distillato. Sull’altopiano silano è attestata da decenni una produzione oscura, contrastata dalle norme ma validata e vivificata dalla tradizione.

    Il giornalista e scrittore Amedeo Furfaro (Quante Calabrie, 2013) definisce quella della paisanella una «pratica produttiva popolare avente requisiti di antigiuridicità». Questo per due motivi fondamentali. La distillazione a livello casalingo ha sempre comportato l’evasione automatica di un tassa sulla produzione. E poi produrla in casa, senza controlli, esponeva a un forte rischio d’intossicazione da metanolo, sostanza altamente nociva e in alcuni casi mortale.

    Alambicchi silani: i segreti della paisanella

    Ciononostante la grappa era il corroborante per antonomasia dei contadini, dei mandriani, dei cacciatori e di quanti e quante si spaccavano la schiena dall’alba al tramonto. Trangugiare d’un sol colpo uno o più bicchierini permetteva di scacciare oltre al freddo e alla stanchezza gli affanni dell’esistenza per abbandonarsi a un profondo sonno ristoratore. I segreti della produzione della paisanella sono custoditi gelosamente dai montanari, al pari di quell’umile teoria di oggetti utili a darle vita.

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    Un vecchio alambicco silano per la produzione al livello familiare (Foto di Francesco De Rose nel libro di Furfaro)

    Secondo Furfaro (La paisanella, la grappa calabrese fuorilegge in Calabria Sconosciuta, 1987) occorrevano un fusto o marmittone (detto anche quararella), completo di cupola (cappiellu), cannuccia e treppiede (tripitu). La prima fase consisteva nel cambio della cosiddetta fezza (la zavorra del vino) dalle botti. Ciò avveniva nei mesi di marzo o aprile. Verso settembre, poi, la si riponeva nel fusto mescolata ad alcuni litri d’acqua.

    Il composto ottenuto veniva quindi portato a ebollizione a fuoco molto lento, aggiungendo man mano altra acqua dalla cupola, con la premura di cambiarla non appena diventava tiepida. Giungeva infine tanto agognato il momento in cui era possibile raccogliere, goccia dopo goccia, il prezioso fluido dalla cannuccia.

    Paisanella: da San Giovanni in Fiore a Longobucco

    Il “codice” dei vecchi distillatori silani ammette pure delle varianti. Colore, sapore e gradazione venivano opportunamente dosati a seconda dei gusti del produttore, che poi era spesso anche consumatore principale. A tal proposito a San Giovanni in Fiore si ravvisava una paesanella meno aromatizzata rispetto a quella che si produceva a Longobucco. Ad attenuare l’acidità del distillato contribuivano scorze d’arancia, pere, gusci d’uovo, fichi secchi e a volte qualche tozzetto di pane duro, mentre i lambiccanti più raffinati v’immergevano cedro o limone.

    Il primo “prodotto” della distillazione veniva generalmente “ripassato” più volte nello stesso alambicco o in un altro più piccolo in rame o in lamiera e, senza aggiunta ulteriore d’acqua, si poteva ottenere una gradazione superiore ai 40 gradi. Nonostante il suo essere fuorilegge, la paesanella che veniva prodotta in casa dai contadini tra i monti della Sila aveva un valore d’uso non indifferente. Essendo una produzione limitata e appannaggio dei ceti più umili, il distillato assurgeva spesso a dono da inviare a coloro i quali non lo producevano, cioè i borghesi. Così, divisi ma uniti nelle fragorose sbornie silane a base di paesanella, il povero e il ricco si davano alcune volte la mano, molto più spesso le lame.

  • Conti in rosso e luci ovunque: il primo grande crack di Cosenza

    Conti in rosso e luci ovunque: il primo grande crack di Cosenza

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    Chi non gli vuol bene (o è deluso) rimprovera due cose all’ex sindaco Mario Occhiuto: essersi concentrato sul voluttuario e il dissesto del Comune di Cosenza.
    Quest’ultimo non è colpa sua. O, almeno, non lo è del tutto. Gli si può rimproverare di non aver tenuto i conti sotto il livello di guardia, tanto più che lo Stato aveva iniziato a sforbiciare le sue rimesse dal 2011.
    Gli emblemi del voluttuario by Occhiuto restano le luminarie con cui ha tentato di abbellire, non sempre riuscendoci, varie zone della città.

    Parliamo dei famosi “cerchi” e dei santini di un improbabile Re Alarico che hanno troneggiato per anni, a costi non proprio leggerissimi.
    «Archite’ ricogliati ssì circhi», rappavano alcuni anni fa Zabatta e Solfamì, i re mascherati dell’hip pop satirico cosentino.
    Ora che i circhi non ci sono più (anche se Franz Caruso li ha rimessi in giro), è doverosa una riflessione: il dissesto di Cosenza non è colpa delle luci. Ma a Cosenza c’è stato un sindaco che ha messo il Comune in crisi per altre luci: Francesco Martire.

    Cosenza verso il dissesto: il primo grande debito

    Francesco Martire non era un archistar ma aveva lo stesso il pallino delle opere pubbliche.
    Esponente della sinistra storica, già deputato per tre legislature a partire dal 1865, aveva promosso la realizzazione della ferrovia Sibari-Sila.
    Nel 1876 Martire diventa sindaco di Cosenza, dove fa ricostruire il ponte Alarico e, appunto, realizza l’illuminazione a gas.

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    Il vecchio ponte Alarico (1883) in ferro, sostituito dall’attuale dopo la Seconda Guerra mondiale

    Per una città come Cosenza, il gasometro è la classica manna. Ma anche uno sproposito: costa un milione di lire dell’epoca, oltre venti milioni di euro attuali.
    Infatti, la Cosenza dell’ultimo quarto del XIX secolo conta circa ventimila abitanti e il suo bilancio è al massimo di duecentomila lire. Quindi s’impone il mutuo. Martire lo contrae a nome del municipio col banchiere napoletano Gaetano Anaclerio.

    Il contratto è un capestro: per garantirlo, il Comune emette 3.036 obbligazioni da cinquecento lire l’una, da rimborsarsi entro cinquant’anni. Più gli interessi ed eventuali penali. C’è chi mugugna. Ma tant’è: nella Cosenza di allora, chi non è d’accordo salta, più che in quella di oggi.
    È il caso di Antonio Coiz, il preside del Telesio, trasferito in Puglia qualche mese prima del prestito. Martire è intoccabilissimo, perché protetto da tutti. Dalla sua sinistra e dagli avversari.

    Inciucio d’epoca tra destra e sinistra

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    Luigi Miceli

    Alle spalle di Martire c’è Luigi Miceli, esponente della sinistra radicale, che fa la guerra al destrorso Francesco Muzzillo.

    Muzzillo sulle prime la spunta: la sua lista vince le elezioni del 1876. Ma Miceli, parlamentare di lungo corso ed esponente della Cosenza che conta, preme per lo sconfitto. All’epoca i pastrocchi non sono un problema, visto che il sindaco è nominato dal re su proposta del Consiglio comunale.
    Quindi Martire diventa sindaco. Ma, per tenersi la poltrona, ricorre a un espediente oggi molto in uso nei paesi dell’Europa orientale: riempie la giunta di avversari.

    Dissesto: la massoneria scende in campo a Cosenza

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    Pietro De Roberto

    Passano gli anni e le cose cambiano. Cambia anche il debito, che triplica per colpa delle clausole firmate da Martire e, va da sé, dell’insolvenza del Comune.
    Cambia anche la posizione di Miceli, bollito da anni di potere e insidiato dalla massoneria.
    Miceli, nel 1888, è ministro dei Lavori pubblici nel governo di Francesco Crispi. A Cosenza le logge “Bruzia”, guidata dal patriota Pietro De Roberto, e “Telesio” gli fanno la guerra.
    Allo scopo, i grembiulini preparano un trappolone: un incontro pubblico presso il teatro Garibaldi, promosso dal settimanale La lotta. Lo scopo del meeting è apparentemente innocuo: la richiesta di un reggimento del Regio esercito in città. Ma il dibattito diventa una requisitoria contro Miceli, che, nonostante il suo consistentissimo seguito politico, subisce una bella botta.

    A.A.A. sindaco cercasi

    Cosenza, che non ha un sindaco da tre anni ed è amministrata dal facente funzioni Giuseppe Compagna, va alle elezioni nel novembre 1888. Con una novità: il re non nomina più i sindaci, che sono eletti direttamente dai Consigli.
    Le elezioni sono tipicamente cosentine: venti liste per un totale di settantuno candidati. Con gli occhi di oggi, non sembrano grandi numeri. Ma per una città di poco più di ventimila abitanti in cui ha diritto al voto il quindici per cento circa dei residenti è tantissimo.

    Vince la lista sponsorizzata dalla loggia “Bruzia”, che si aggiudica sedici consiglieri su trenta. Ma è una vittoria parziale, perché arriva la parte più difficile: fare il sindaco.
    Le finanze di Cosenza sono vergognose: tre milioni di debito, saldato in minima parte (il Comune ha rimborsato solo duecentoventi obbligazioni). Più che un sindaco, in questa situazione, occorre un eroe.
    Infatti, il finanziere Angelo Quintieri, aristocratico e ricco possidente di Carolei, rifiuta la poltrona offertagli dalla “Bruzia”.

    Alimena sindaco

    Al suo posto accetta Bernardino Alimena, figlio del patriota Francesco e professore universitario a Napoli.
    Alimena sembra l’uomo giusto al posto giusto: giurista di prima grandezza (tra le varie, è l’avversario più accreditato del criminologo Cesare Lombroso) ha il prestigio necessario per dare lustro alla città e ottenere credito politico a Roma.

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    Bernardino Alimena

    Il  prof si dà subito da fare: denuncia il debito alla cittadinanza, inizia a tagliare i conti e, soprattutto, dà la caccia agli evasori, che anche allora non sono pochi.
    Come sempre, il rigore comporta l’impopolarità: gli elettori si ribellano e la giunta, piena di massoni, perde pezzi. E perde pezzi anche la loggia “De Roberto”: piuttosto che vedersela con gli elettori arrabbiati, i grembiulini si mettono in sonno.
    A fianco di Alimena resta il solo De Roberto, che muore nel 1890. Per il professore la situazione diventa critica: rimpasta due volte la giunta pur di restare in sella, ma niente da fare. È costretto a dimettersi appena sei mesi dopo la nomina.

    Dissesto, luminarie e lampioni

    In tutto questo, resta una domanda: come presero i cosentini di allora l’innovazione del gasometro? Secondo le cronache dell’epoca, malissimo: i rapporti di polizia giudiziaria riferiscono di lampioni presi a sassate in alcune zone. In particolare, nel rione Sant’Agostino, zona storica delle “lucciole”, e nel quartiere Santa Lucia, dove le professioniste dell’amore avevano iniziato a trasferirsi. Segno che, per certe attività, il buio fosse più gradito.

    Il debito, invece, è estinto nel 1924. Ma più per merito dello Stato, che ha nazionalizzato il sistema bancario, che del Comune.
    Nessuno, invece, ha danneggiato le luminarie di Occhiuto, che in compenso non hanno provocato il dissesto di Cosenza pur offrendo il loro modesto contributo alla causa.
    Ma questa storia ha un’unica morale, che vale oggi come a fine Ottocento: per chiarire i conti pubblici, non c’è luce che basti.

  • Terme Luigiane, finora solo annunci. Continua il dramma dei lavoratori

    Terme Luigiane, finora solo annunci. Continua il dramma dei lavoratori

    L’incubo lavorativo, che per i 250 dipendenti delle Terme Luigiane dura ormai da 6 anni, continua. Si sono avvicendati ben 4 presidenti di Regione e sono stati sottoscritti accordi alla Cittadella e in Prefettura. Ma gli stabilimenti si ritrovano ancora una volta chiusi. Eppure la stagione, «se solo si volesse, potrebbe ripartire domani mattina». Il “Comitato dei Lavoratori Terme Luigiane” ne è convinto ma è costretto a osservare come «centinaia di interrogazioni, denunce e istanze promosse da lavoratori, cittadini e da ogni parte politica» non abbiano risolto concretamente un problema «che sta diventando lo specchio di una Calabria che non funziona e che costringe i padri di famiglia, con immensa rassegnazione, a fare le valigie pensando a quanto il buon Dio abbia dato a questa terra e a come noi Calabresi siamo incapaci di mettere a frutto tali doni».

    Acque (e dignità) in mare

    Questo è esattamente ciò che sta accadendo alle Terme Luigiane: «Una realtà perfettamente funzionante da una parte e, dall’altra, qualcuno dotato delle giuste coperture, che ha scelto in maniera arbitraria di distruggere tutto nel tentativo di portare a compimento disegni a noi ignoti, sversando nel mare le preziose acque termali e la nostra dignità di lavoratori». Alla Sateca, «che ha da sempre gestito le Terme Luigiane, garantendoci – proseguono i lavoratori – occupazione stabile e correttamente remunerata, è stata tolta l’acqua termale contro ogni legge e contro ogni sentenza giudiziaria, preferendo il nulla a un qualcosa che funzionava e che ha dato la possibilità ad intere famiglie per intere generazioni di mantenere un livello di vita più che dignitoso e soddisfacente».

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    Una pozza d’acqua sulfurea nei pressi delle Terme Luigiane

    Terme Luigiane, l’aiuto di sindacato e chiesa

    Oggi i lavoratori si ritrovano «costretti a spezzare i sogni» dei loro figli e «nella condizione di non sapere cosa portare in tavola». Tra le istituzioni «che ci sono state sempre vicine (di fatto le uniche)», i dipendenti della struttura annoverano «la Cisl con Gerardo Calabria, che ha dall’inizio combattuto con noi questa battaglia e, nelle persone di Monsignor Leonardo Bonanno e di don Massimo Aloia, la Chiesa che ha provveduto a pagarci le bollette, a farci la spesa alimentare e, soprattutto, a manifestarci costantemente vicinanza e condivisione quotidiana delle nostre angosce».

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    Don Massimo Aloia, parrocco delle Terme Luigiane

    Finora solo buone intenzioni

    Il presidente della Regione Roberto Occhiuto il 15 dicembre 2021 ha ricevuto il sindacato Cisl e una delegazione di lavoratori «garantendo discontinuità con la precedente linea politica e assicurando che entro la fine dell’anno avrebbe risolto la situazione affinché si potesse iniziare a programmare la prossima stagione termale». Il 26 marzo 2022 lo stesso Occhiuto in un video messaggio ha comunicato l’intenzione della Regione di acquisire tramite Fincalabra le Terme Luigiane al fine di superare lo stallo e consentire la ripartenza dell’attività. «Cosa sia successo nel frattempo – afferma il Comitato – noi lavoratori non lo sappiamo e, tutto sommato, ci interessa poco. Quello che rileviamo con sconforto è che alla data di oggi nulla di fatto è cambiato e le prospettive di ripartire per la prossima stagione sono ormai estremamente ridotte».

    le Terme Luigiane e le riunioni che non risolvono

    Da quello che la Cisl comunica ai lavoratori e dalle informazioni che loro stessi riescono ad avere pare che continuino le interlocuzioni e le riunioni tecniche. Ma le soluzioni sembrano ancora lontane. «Ciò di cui né noi 250 lavoratori, né i 22.000 curandi, né le migliaia di assidui frequentatori delle Terme Luigiane riescono a capacitarsi – fanno notare ancora i dipendenti – è il motivo per cui le Terme Luigiane siano chiuse. Secondo la sentenza del Tar dell’8 novembre 2021, l’attività della Sateca sarebbe dovuta continuare senza soluzione di continuità e questo è stato impedito con la forza da parte delle due amministrazioni comunali di Guardia Piemontese e di Acquappesa e con la complicità della Regione Calabria che, in quanto proprietaria delle acque, avrebbe avuto l’obbligo, sia morale che istituzionale, di impedire un simile scempio e di assicurare il diritto a tutti i cittadini di curarsi».

    La politica «cieca» e il bene comune

    I dipendenti della struttura ribadiscono dunque come non sia accettabile «che in una terra assetata di lavoro come la nostra ci troviamo ancora una volta davanti a chi il lavoro potrebbe garantircelo immediatamente e questo viene impedito da una politica cieca ed egoista, incurante del bene comune e, soprattutto, indifferente a quanto sancito dalla magistratura».

    L’ennesimo appello a Occhiuto per riaprire le Terme Luigiane

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Il Comitato lancia dunque un ennesimo appello a Occhiuto: «Ripristini immediatamente una situazione di legalità, nella quale si dia immediata esecuzione alla sentenza del Tar, nella quale chi ha distrutto le Terme Luigiane venga punito e chi ci ha garantito da sempre giusti diritti abbia la possibilità di continuare a farlo. Presidente, faccia riaprire l’acqua, come è giusto che sia, e ci ridia la dignità e il futuro che meritiamo. La Sua sensibilità, la Sua cultura e formazione politica e il Suo ruolo Le consentono di trovare una “soluzione ponte” immediata che dia finalmente respiro a noi lavoratori e alle migliaia di curandi che aspettano con ansia una data di riapertura».

  • Viscomi come Renzi? Entopan, un business di sinistra

    Viscomi come Renzi? Entopan, un business di sinistra

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    Porte girevoli, conflitti di interesse e lobbying. Sono tutte questioni che tengono banco nel dibattito pubblico di questi mesi, soprattutto a seguito delle attività extraparlamentari del leader di Italia Viva e senatore Matteo Renzi. In particolare, destò molto scalpore la nomina dell’ex presidente del Consiglio nel Cda della Delimobil, società di car sharing operante in Russia, partecipata dalla banca statale Vtb. Certo, appena scoppiato il conflitto in Ucraina, Renzi lasciò quel Cda, ma l’assenza di una regolamentazione di queste attività per i parlamentari continua ad essere evidenziata dagli addetti ai lavori e non solo.

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    Il leader di Italia Viva, Matteo Renzi

    Lobby e silenzi

    Manca prima di tutto una legge sulle lobby. In Calabria ne venne approvata una nel 2016, ma non è mai stata applicata. Per i deputati della Repubblica, invece, il 12 aprile 2016 è stato approvato dalla Giunta per il Regolamento un codice di condotta che dispone “Qualora un deputato assuma una carica o un ufficio successivamente alla proclamazione, deve renderne dichiarazione (al Presidente della Camera, ndr) entro il termine di trenta giorni”. In caso di violazione di quanto disposto, è previsto che ve ne venga dato annuncio in Assemblea con conseguente pubblicazione della violazione sul sito web della Camera dei Deputati. Insomma, un corpus normativo molto flebile, a fronte di situazioni che possono essere più che rilevanti.

    Il Viscomi dimezzato: parlamentare e lobbista

    Antonio Viscomi, deputato del Pd ed ex vicepresidente della Regione Calabria rappresenta un caso emblematico. Possiede dal 31 marzo (deposito atto il 20 aprile) di quest’anno 50mila euro di quote della Entopan Innovation srl, società di progettazione, sviluppo, gestione e startup di interventi di innovazione tecnologica. Di questa società, dal novembre 2019 è anche consigliere di amministrazione, così come lo è dal gennaio 2020 di un’altra società che partecipa con quote alla prima, la Entopan srl.

    Dall’ottobre 2019 al gennaio 2020, Viscomi è stato anche nel Cda di Ehic srl; inoltre, dall’ottobre 2019 al marzo 2022 è stato nel Cda di Harmonic Innovation Hub srl; dall’ottobre 2021 al marzo 2022, poi, è stato presidente del Cda di Harmonic Innovation Research srl, tutte società “satelliti” di Entopan. Tra le dichiarazioni sulle cariche ricoperte sul sito della Camera, però, tutte queste cariche non risultano contenute in atti pubblicati ed è ipotizzabile, quindi, che Antonio Viscomi non abbia provveduto a dichiararle come previsto dalla citata normativa parlamentare.

    Entrambe le società in cui Viscomi ha attualmente cariche del Cda (Entopan e Entopan Innovation) si occupano, tra le altre cose, di instaurazione di regolari rapporti di collaborazione con Università e/o centri di ricerca, istituzioni pubbliche e partner finanziari. Tra le attività svolte, risulta anche lo svolgimento di attività di reti di relazioni, lobbying e marketing. Si legge nelle relative visure camerali, che le attività della società “si rivolgono alle imprese, agli enti, ai territori, alle comunità ed alle competenze che intervengono nelle diverse fasi che compongono l’intera filiera della ricerca e dell’innovazione”.

    I potenziali conflitti d’interesse di Viscomi

    Un business redditizio perché a fine 2020 Entopan Innovation srl, con un capitale sociale di oltre 4 milioni e 300 mila euro, ha fatturato 1milione e 971mila euro, mentre la Entopan srl, con un capitale sociale di 380mila euro, a dicembre 2019 aveva un fatturato di 1milione e 652mila euro.
    Certo, nel 2021 Entopan Innovation ha avuto il ruolo di advisor nell’ingresso di Cdp Ventura Capital Sgr spa (Fondo Nazionale Innovazione) – società del gruppo Cassa Depositi e Prestiti partecipata al 70% dalle società pubbliche Cdp Equity e al 30% da Invitalia – nella società calabrese Altilia srl, con un investimento di quasi 3 milioni di euro nel campo dell’intelligenza artificiale.

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    La sede di Cassa Depositi e Prestiti

    Nello stesso anno, la Entopan Innovation ha ricevuto un affidamento diretto dal Ministero della Cultura (a guida dell’esponente Pd, Dario Franceschini), per un importo certamente più modesto, 2800 euro oltre Iva. In entrambi i casi, però, la presenza del parlamentare Pd Antonio Viscomi nel Consiglio di Amministrazione della società, pare rappresentare un elemento di forte conflitto di interesse.

    Gli amici di sinistra…

    Viscomi non è l’unica presenza politica in questa galassia societaria. Già, perché presidente di Entopan srl è Francesco Cicione, molto vicino all’ex sottosegretario e deputato verdiniano Pino Galati. Cicione è stato vicesindaco di Lamezia Terme nella giunta di centrosinistra di Gianni Speranza dal 2008 al 2014. «Fare impresa è fare politica, e fare impresa così come la facciamo è la più alta forma di Carità» ha dichiarato il fondatore di Entopan Francesco Cicione in una intervista. «Operiamo in favore di imprese, start-up, spin-off, territori e comunità, accompagnando i processi lungo l’intera filiera dell’innovazione».

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    L’ex sottosegretario Pino Galati

    Con lui tra gli amministratori di Entopan, oltre alla moglie, Brunella Chiodo, c’è un altro innesto della citata Giunta Speranza, l’ex assessora Giuseppina Crimi, che è stata anche consigliera comunale a Lamezia dal 2002 al 2014. Nel Cda, inoltre, risulta anche lo stesso ex Sindaco Gianni Speranza.
    Tra gli “advisoring” della società, invece, è presente l’ex parlamentare dei Ds, Nuccio Iovene.

    …e i “Calabresi nel mondo”

    Gli ex assessori comunali di Lamezia, Cicione e Crimi, sono stati al centro del polverone sulla Fondazione “Calabresi nel Mondo”, sul quale pende ancora il processo di primo grado a carico dell’ex Presidente, appunto l’ex deputato Pino Galati, per la presunta gestione illecita e clientelare delle assunzioni.
    Oltre alle assunzioni di Crimi (che ne portò alle dimissioni da assessora comunale) e Cicione, risultavano anche quelle del cognato di quest’ultimo, Paolo Strangis e dei rappresentanti di Arci, Gennaro Di Cello e Francesco Falvo D’urso, oggi rispettivamente vicepresidente e graphic designer di Entopan srl.
    Nell’elenco degli assunti c’era anche Giandomenico Ferrise, figlio di Aldo Ferrise, anche lui assessore comunale a Lamezia Terme nella Giunta Speranza e oggi socio di Entopan Innovation srl.

    «Prima di entrare in Entopan conosceva già Francesco Cicione con cui condivideva valori ed alcune esperienze lavorative. Fondamentale, per la sua scelta di diventare socio di Entopan, è stata la collaborazione comune ad un progetto del 2012: Calabresi nel mondo. Lì è maturata la consapevolezza di avere un bagaglio condiviso di esperienze e valori e la voglia di iniziare insieme un percorso professionale» viene raccontato su Gennaro Di Cello su Effedi.

    La galassia societaria di Entopan

    Ricapitoliamo: Entopan srl è socia di Entopan Innovation srl (delle quali Antonio Viscomi è componente di Cda). In quest’ultima risultano anche soci oltre, appunto, al parlamentare Viscomi e all’ex sindaco Speranza e i suoi ex assessori Ferrise, Crimi e Cicione, anche la direttrice reggente dell’autorità regionale dei trasporti della Calabria, Filomena Tiziana Corallini, il costruttore Angelo Ferraro, vicepresidente della squadra di calcio Lamezia F.C. e già presidente dei “galatiani” di Alternativa Popolare di Lamezia Terme, l’ex Co.co.co. regionale Vera Tomaino, la cooperativa sociale Inrete (che ha il vicepresidente di Entopan come residente ed il già citato Francesco Falvo D’Urso nel Cda) e l’ex Prorettore dell’Unical, Luigino Filice.

    Abbiamo anche la società, iscritta nel registro delle imprese come startup innovativa, Harmonic Innovation srl. «La società ha per oggetto e con carattere prevalente la ricerca di base e pre competitiva, la progettazione, la prototipazione e lo sviluppo di concept e processi edilizi, tipologici ed architettonici, ad alto tasso di innovazione tecnologica, strategica e sociale». «La società, inoltre, potrà realizzare e commercializzare in proprio eventuali interventi immobiliari complessi finalizzati alla valorizzazione della ricerca sviluppata», si legge nella visura camerale.

    Le partecipazioni societarie

    Le partecipazioni societarie sono, tra le principali, quelle di Entopan srl per 155mila euro, la 2Effe Holding s.r.l. per 117mila euro (del citato Angelo Ferraro, col parente Antonio), 66mila euro di Valerio Barberis, assessore comunale del Pd di Prato (e nome papabile quale futuro Sindaco) e 17mila della Seshat s.r.l. che ha come amministratore unico Pietro Grandinetti, direttore tecnico della Ferraro spa.

    Harmonic Innovation hub srl, anch’essa registrata come startup innovativa, ha un capitale sociale più ingente, di quasi 2 milioni di euro. Entopan srl partecipa con quasi 1milione e 300mila euro, 255mila la 2Effe Holding s.r.l. dei Ferraro e 200mila l’ex parlamentare del Pdl, Santo Versace. Presidente del consiglio di amministrazione è un altro ex sindaco di Lamezia Terme, Pasqualino Scaramuzzino (il cui Consiglio venne sciolto per infiltrazioni mafiose), già candidato con “Forza Azzurri” alle ultime elezioni regionali.

    Insomma, tra partecipazioni, incarichi ed esponenti pubblici, la galassia di Entopan risulta un incubatore (redditizio) non solo di start-up, ma anche di interessi che certamente metteranno (almeno) in imbarazzo Antonio Viscomi, quale deputato in carica e membro della commissione Lavoro. Oltre che come esponente di quel Partito Democratico che nei mesi ha criticato Matteo Renzi a tutto tondo per i suoi affari extraparlamentari.

  • Trasporti green: la cura del ferro si fa coi treni ad idrogeno?

    Trasporti green: la cura del ferro si fa coi treni ad idrogeno?

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    Tra le tante voci del Pnrr dedicate ai trasporti, ci sono i treni ad idrogeno. Sei regioni italiane saranno le prime che nei prossimi anni sperimenteranno i treni che emettono acqua nel trasporto locale, sulle tratte non elettrificate. Lombardia, Puglia, Sicilia, Abruzzo, Umbria e Calabria potranno accedere ad un finanziamento di 300 milioni complessivi dedicato a questo esperimento.

    Queste regioni riceveranno le prime tranche nel 2023. Oltre all’acquisto dei treni, il piano è di installare 9 stazioni di rifornimento su 6 linee ferroviarie entro il 2026. Per la Calabria, il tratto interessato è Cosenza-Catanzaro.

    I finanziamenti europei saranno fondamentali per ammodernare il disastrato trasporto locale, che negli ultimi anni ha subito cali drastici nell’offerta e nel traffico ferroviari. Secondo il rapporto Pendolaria 2022 di Legambiente, in 10 anni l’offerta di treni si è ridotta di un quarto. Per non toccare il tema dell’alta velocità, dove regna la confusione.

    La Regione, inoltre, ha bisogno di liberarsi il prima possibile dei vecchi treni diesel. L’età media delle locomotive locali è di 21,3 anni. L’82,1% dei treni calabresi ha più di 15 anni.

    I treni a idrogeno sono una delle soluzioni messe in campo per gli anni a venire. In particolare, potrebbero essere una risposta per le tratte in cui è particolarmente complicato o costoso elettrificare le strutture esistenti. Ma ci sono molti fattori da considerare.

    50 sfumature di idrogeno

    Partiamo dalla base: l’idrogeno può essere usato come combustibile ecologico. Non emette anidride carbonica, ma vapore acqueo. Croce e delizia dell’idrogeno stanno nella sua produzione. L’elemento chimico più abbondante nell’universo, infatti, è poco presente in natura nella sua forma pura, la molecola H2. Di solito, lo si trova in forma combinata, cioè attaccato ad altri elementi, come nell’acqua.

    Per ottenerlo, bisogna separarlo dagli altri. Un processo che richiede molta energia. Ed è proprio qui che sta il problema. Ci sono molti modi per ottenere l’idrogeno, ma quello largamente più diffuso e conveniente è quello più inquinante. La maggior parte dell’idrogeno nel mondo viene ottenuto separandolo dal gas. L’idrogeno grigio, infatti, produce più gas serra delle combustioni del diesel.

    idrogeno-treni-pro-contro-nuova-tecnologia-greenOgni tanto, nei dibattiti politici si sente nominare l’idrogeno blu. È quello che viene prodotto da fonti fossili, ma per il quale la CO₂ viene catturata e stoccata.

    La versione più ecologica è l’idrogeno verde. Questo si genera tramite l’elettrolisi: in parole povere, si utilizza l’elettricità per separare l’idrogeno dall’acqua. Se questa elettricità viene prodotta da fonti rinnovabili, l’impatto sull’ecosistema diventa praticamente zero.
    L’idrogeno ha un altro grande vantaggio: può essere stoccato sottoterra quasi dappertutto.

    Il Coradia iLint

    Il primo treno ad idrogeno al mondo lo abbiamo visto sfrecciare già a partire dal 2018 tra le rotaie della bassa Sassonia, in Germania. Il mezzo, però, è stato creato da una società francese. Il Coradia iLint è stato progettato a partire dal 2014 dalla multinazionale francese Alstrom, una delle più grandi aziende produttrici di treni sul mercato europeo. La conosciamo bene anche in Italia: tra le tante cose, fornisce i treni elettrici POP, dedicati al trasporto regionale, e il Pendolino.

    Nell’iLint, i serbatoi di idrogeno sono posti sul tetto. Una cellula combustibile fa combinare l’idrogeno con l’ossigeno dell’aria, generando l’elettricità di cui si servirà il treno per muoversi. Una batteria in litio, invece, permette di conservare l’energia durante le frenate e di aumentare la potenza quando è necessario.

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    Il Coradia iLint

    Secondo i produttori, il calo delle emissioni sarebbe significativo. Per ogni treno ad idrogeno, si risparmierebbero 700 tonnellate di CO₂ l’anno, l’equivalente di quanto emesso da 400 auto.

    Nel 2023 lo vedremo anche in Italia: 6 modelli di questo convoglio sono stati comprati per la tratta Brescia-Iseo-Edolo. Trenord e Fnm vogliono sostituire l’intera flotta di mezzi diesel entro il 2025.

    I problemi dell’idrogeno

    L’ostacolo più grosso, al momento, è quello più banale: il costo. L’idrogeno verde è ancora molto lontano dall’essere competitivo, non solo rispetto alle altre fonti rinnovabili, ma rispetto ai diversi tipi di idrogeno.
    Un chilo idrogeno verde costa tra i 4 e gli 8 dollari, ben più del doppio rispetto a quello grigio (1,5 dollari). Quello blu si attesta sui 3,5 dollari. L’UE, però, prevede che entro il 2030 il prezzo di quello verde scenda a livello molto più competitivi e scenda quasi agli 1,5 dollari del grigio.

    Serviranno grossi investimenti iniziali, prima di arrivare a questo obiettivo. Soprattutto perché costano molto anche gli elettrolizzatori, le macchine che permettono la scissione tra acqua e idrogeno. Per farlo, l’Unione sta investendo 470 miliardi di euro nelle installazioni in tutti i paesi membri.

    costi-idrogenoSul fronte italiano, bisognerà trovare un modo di favorire al massimo l’utilizzo dell’idrogeno verde, a discapito degli altri. Una garanzia che ancora non abbiamo, come sottolinea Pendolaria 2022: «Se ha senso sperimentare questa soluzione su alcune linee dove l’elettrificazione è costosa e complessa, sarebbe bene aspettare i risultati prima di scegliere di farla diventare un’alternativa all’elettrificazione per il potenziamento dei collegamenti sulle linee ancora sprovviste».

    Rischiamo di cadere nella Maladaptation, uno dei problemi della transizione ecologica messi in un luce dall’Ipcc in uno dei suoi ultimi rapporti. È il paradosso delle buone intenzioni. Implementare male una soluzione ambientale rischia di fare più danni del previsto. Come piantare gli alberi sbagliati nel posto sbagliato, ad esempio.
    L’idrogeno, se prodotto da fonti fossili, non può essere considerato una soluzione ambientale. E rischia di pestare i piedi all’elettrico.

    L’idrogeno a Gioia Tauro?

    In Italia, l’obiettivo dichiarato dalla Strategia Nazionale Idrogeno è far arrivare al 2% la penetrazione dell’H2 nella domanda energetica finale. Entro il 2050, questa percentuale deve arrivare al 20%. Per ottenere questo risultato, bisognerà spingere sulla creazione delle Hydrogen valley, cioè gli hub in cui si concentra sia la produzione sia il consumo dell’idrogeno in un certo territorio.

    Tornando ai trasporti in Calabria, anche Ferrovie della Calabria si è mossa verso la transizione all’idrogeno. A maggio 2021, ha stretto un accordo con il Dimeg, il Dipartimento di Ingegneria Meccanica, Energetica e Gestionale dell’Unical per realizzare una centrale di produzione di idrogeno verde a Vaglio Lise, nei pressi della stazione di Cosenza.

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    Il porto di Gioia Tauro

    La Alstom, inoltre, sta già lavorando con la Regione per il trasporto ferroviario locale. E, durante il Regional Day della Calabria all’Expo 2020 Dubai, ha manifestato il suo interesse nell’investire nel porto di Gioia Tauro.

    «Potremmo sviluppare un concetto sinergico con il porto di Gioia Tauro per quanto riguarda l’idrogeno. La produzione di idrogeno potrebbe essere un’idea molto interessante, a partire dall’eolico e dal solare» ha detto l’ad di Alstom Michele Viale, collegato al Regional Day della Calabria all’Expo 2020 Dubai.

  • Zona grigia, il grande alibi in Calabria per non combattere la ‘ndrangheta

    Zona grigia, il grande alibi in Calabria per non combattere la ‘ndrangheta

    Lamezia Terme ha conosciuto nel 1991, nel 2002 e nel 2017 tre scioglimenti del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose. In una intervista del 2013 l’allora procuratore aggiunto di Catanzaro Giuseppe Borrelli ebbe a dire che «Lamezia è una città dove il legame tra la ‘ndrangheta e alcuni settori della società civile è talmente radicato che non viene percepito come una devianza sociale perché è digerito nello stomaco della città».

    Il caso Lamezia

    Sia come sia, subito dopo ognuno dei tre scioglimenti alcuni commenti paventavano complotti: «Il consiglio comunale di Lamezia Terme andava sciolto per presunte infiltrazioni mafiose? È l’interrogativo che si pongono in molti dopo aver letto con attenzione e scrupolosità la relazione del ministro dell’Interno… Sono in molti a domandarsi: perché sciogliere il consiglio comunale eletto nel 2015 a guida Mascaro e non quello eletto nel 2010 a guida Speranza? (…) Semplice: Speranza non poteva essere sciolto, “nonostante molti degli attuali amministratori hanno fatto parte, a diverso titolo, della compagine eletta nel 2010″, in quanto esponente politico del centrosinistra, area politica alla quale apparteneva e appartiene l’attuale Ministro dell’Interno», scriveva lameziaoggi.it.

    L’ex sindaco di Lamezia, Gianni Speranza

    Il Consiglio di Stato (settembre 2019) sciogliendo l’amministrazione Mascaro ha lasciato ai posteri questa analisi generale: «Il contributo determinante della mafia nel condizionare il voto popolare è tale da inficiare irrimediabilmente il funzionamento del consiglio comunale per un suo vizio genetico, essendo difficilmente credibile, secondo la logica della probabilità cruciale, che un consiglio comunale i cui componenti siano eletti in parte con l’appoggio della mafia, per una singolare eterogenesi dei fini, possa e voglia adoperarsi realmente e comunque effettivamente, non solo per mero perbenismo legalitario, per il ripristino di una effettiva legalità sul territorio e per la riaffermazione del potere statuale contro l’intimidazione, l’infiltrazione e il sopruso di un ordinamento delinquenziale, come quello mafioso, ad esso avverso per definizione».

    Il sindaco di Lamezia, Paolo Mascaro

    Mafia e zona grigia

    Il primo omicidio importante della storia criminale lametina avvenne nel 1970. Il boss locale Luciano Mercuri venne ucciso da un suo affiliato, Tonino De Sensi. Quella data fu l’inizio di una nuova era per la ‘ndrangheta locale che con la droga fece il salto di qualità. Eppure per decine di anni soltanto una minoranza intellettuale ripeteva che a Lamezia la mafia esistesse. La maggioranza dei notabili e dei politici si ostinava a considerare soltanto l’esistenza di «quattro delinquenti» e non della mafia. Così come oggi il mainstream insiste molto sulla presenza a Lamezia della cosiddetta “zona grigia”, una sorta di cuscinetto (o mondo di mezzo) che si frapporrebbe tra le cosche e la società civile e le imprese.

    Stereotipi e cliché

    Come da anni sta dimostrando nei suoi studi un valente studioso lametino, Vittorio Mete, «a causa della loro natura segreta e illegale, le mafie sono difficilmente (e comunque problematicamente) esplorabili sul piano empirico». Inoltre l’immagine pubblica delle mafie vive su stereotipi e cliché che creano una diffusa banalizzazione. Banalizzando non si riesce né a distinguere le differenze tra i diversi gruppi mafiosi né quelle «tra i singoli mafiosi, ai quali sono indistintamente attribuiti i medesimi tratti: il carisma individuale, il coraggio, lo sprezzo del pericolo, il fiuto per gli affari, l’elevato tenore di vita e altro ancora».

    Ci rendiamo conto che le “mafie regionali” sono diverse tra loro. Ma, per restare a Lamezia, non si distinguono tra di loro le varie cosche egemoni che pur presentano enormi differenze, ad esempio in termini di ricchezza, potenza militare, contatti politici, inserimento nei circuiti internazionali della droga. Una grande varietà e mutevolezza sparisce dunque nelle rappresentazioni dell’opinione pubblica e anche di molti studiosi.

    Tre tipi di imprenditori

    Nella relazione della Dia sul primo semestre 2018 si leggeva che Lamezia «convenzionalmente è ripartita in tre aree, rispettivamente di competenza dei clan Iannazzo, Cerra-Torcasio-Gualtieri e Giampà (cui si affiancano compagini di minor rilievo)». Se dovessimo descrivere i rapporti tra queste cosche e il mondo imprenditoriale lametino è utile ricorrere ai tre tipi principali di imprenditori, a loro volta articolati in sotto-tipi, che studiosi come Mete o Sciarrone hanno delineato.

    I subordinati

    Il primo di questi tre tipi di imprenditori presente a Lamezia è definito “subordinato”: essi sono assoggettati alla mafia «attraverso un rapporto fondato sull’intimidazione o sulla pura coercizione. Le attività di questi soggetti sono sottoposte al controllo dei mafiosi mediante il meccanismo della estorsione protezione». A loro volta, gli imprenditori subordinati possono articolarsi in due categorie: gli “oppressi” e i “dipendenti”. Gli oppressi sono coloro i quali pagano la protezione mafiosa in cambio della garanzia di poter semplicemente continuare a svolgere la propria attività. I dipendenti, invece, «non solo devono pagare la protezione ai mafiosi come fanno gli oppressi, ma devono ottenere la loro autorizzazione per poter svolgere la propria attività. Questi soggetti svolgono, infatti, la propria attività in settori in cui si concentrano gran parte degli interessi mafiosi della zona, come i lavori pubblici. Per poter operare in questi settori è necessario ottenere il “permesso” della mafia.

    I collusi

    Nella seconda categoria sono ricompresi i “collusi”. Tali soggetti sono dotati di risorse diverse e più ampie rispetto ai subordinati. Ciò gli consente di istituire “con i mafiosi un accordo attivo, dal quale derivano obblighi reciproci di collaborazione, scambio e lealtà». Anche i collusi possono articolarsi in due sottocategorie: da un lato ci sono gli imprenditori “strumentali”, che sono dotati di ingenti risorse di tipo economico, tecnico, politico o di altro tipo ancora; dall’altro ci sono gli imprenditori “clienti”, che instaurano con i mafiosi rapporti di scambio e collaborazione più duraturi e stabili nel tempo.

    Un esempio di imprenditori strumentali è dato dalle grandi imprese nazionali che operano nel campo delle opere pubbliche e che si aggiudicano appalti in terre di mafia. Uno per tutti, i lavori di ammodernamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria (Mete, 2011). Rimanendo sull’esempio di questa stessa grande opera, possono invece considerarsi imprenditori clienti le imprese locali legate alle mafie che lavorano in subappalto.

    I mafiosi

    Infine, una terza categoria di imprenditori è costituita dagli imprenditori mafiosi propriamente detti. In questo caso, si tratta di persone appartenenti ai gruppi criminali che operano nei mercati legali, sia per guadagnare “legalmente” sfruttando il potere che gli deriva dalla loro posizione, sia come attività di copertura volta al reimpiego di denaro proveniente dai traffici illegali.

    Com’è agevole dedurre da queste brevi note, il rapporto tra mafiosi e imprenditori può andare dalla coercizione alla collaborazione attiva. «Tale collaborazione dà generalmente luogo a giochi a somma positiva, cioè interazioni in grado di produrre un’utilità per tutti coloro che prendono parte al gioco».

    Zona grigia? Fuorviante

    Ora, considerando i molteplici rapporti tra imprese e liberi professionisti da una parte e le cosche operanti nel lametino dall’altra, la prima categoria (i subordinati) e la seconda (i collusi) ci dimostrano che è ormai fuorviante continuare a parlare di “zona grigia”. I subordinati (oppressi o dipendenti che siano) coltivano solo la speranza di mantenere buoni rapporti per poter stare sul mercato; i collusi al contrario instaurano interazioni che dovrebbero essere reciprocamente vantaggiose o complementari con le cosche.

    Mentre i subordinati non hanno alcun spazio di autonomia, i collusi svolgono attività autonoma che deve incastrarsi (come la chiave in una serratura) con l’interesse concreto del mafioso di riferimento. Si tratta di raggiungere «un compromesso fra partner che hanno utilità e convenienze differenti, ma complementari». Ora, sia una impresa di qualsiasi dimensione che un qualsivoglia libero professionista (medico, ingegnere, avvocato, commercialista…) intendono ottenere un vantaggio economico entrando in relazione con la cosca mafiosa. Il reddito del professionista e il profitto dell’imprenditore aumentano grazie a questo accomodamento o incastro con il mafioso.

    Comanda sempre la mafia?

    Il pezzo mancante di questo ragionamento (che mira a confutare la diffusa convinzione che a Lamezia o in altre città calabresi esista una zona grigia) è il seguente. In questi accordi collusivi non sempre i mafiosi sono i soggetti dominanti. Se ci sono imprenditori dotati di grandi risorse, o professionisti di grande prestigio, lo spazio di azione dei mafiosi infatti si riduce sensibilmente. Le interazioni tra mafia e imprenditoria sono così varie per cui il ruolo dei mafiosi cambia a seconda dell’attività.

    Gli appalti (e i subappalti) per le opere pubbliche possono essere appannaggio di imprese mafiose o di grandi imprese che trattano, con esiti variabili e incerti, con i mafiosi. Un supermercato, per fare un altro esempio, può essere taglieggiato dai mafiosi o può essere di loro proprietà. Se la “zona grigia” è definita (Rocco Sciarrone, 2011) «un’area relazionale fitta, che si colloca a cavallo tra legalità e illegalità… i professionisti, industriali, pubblici ufficiali e membri della cosiddetta società civile che senza dubbio sono collusi con le organizzazioni criminali come la ‘ndrangheta, non sono i servitori del potere mafioso ma sono i mandanti delle loro azioni e influenze illecite, perché i loro interessi economici e di potere, spesso coincidono con quelli dei clan».

    A Lamezia, così come in altre realtà calabresi, si continua a parlare di “zona grigia” dimenticando del tutto «la parte di società che è compenetrata o collusa con la ‘ndrangheta… che spesso rappresenta la parte più produttiva di essa, almeno nel meridione: il risultato è che qui al Sud si è creato un mercato drogato, con meccanismi particolari e difficilissimi da analizzare e sconfiggere, che rappresenta una parte assai considerevole dell’intera economia dell’area».

    Né mondo di mezzo né zona grigia

    I mafiosi non chiedono gentilmente, impongono, e come spiegò Puzo ne Il Padrino, «fanno offerte che non si possono rifiutare». Se questo è vero, è chiaro che il commerciante che paga il pizzo per ottenere la pace e tutti coloro che per quieto vivere accettano le richieste mafiose non stanno in un virtuale mondo di mezzo ma si schierano dalla parte della mafia.

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    Marlon Brando nel film Il Padrino, ispirato al romanzo di Mario Puzo

    La cosa è molto evidente, basta seguire la cronaca dei giornali, tra i cosiddetti liberi professionisti. Non ci sono tra di loro collusi ma professionisti che si mettono a disposizione oppure che non lo sono. La stessa cosa avviene con gli imprenditori e i politici. Ci sono aziende che chiudono se non hanno clienti, altre che senza clienti sopravvivono perché rientrano nelle aziende controllate dalla mafia; ci sono politici votati su imposizione dei mafiosi e altri no, e così via.

    Da una parte o dall’altra

    Alla società civile deve diventar chiaro che in Calabria la guerra ognuno, qualsiasi lavoro faccia, la combatte in uno schieramento legale oppure nell’Antistato, magari per paura, furbizia, accondiscendenza, pigrizia, avidità, qualsiasi sia la motivazione della scelta.
    Prendiamo il caso di Clarastella Vicari Aversa, l’architetta che con la sua denuncia ha scoperchiato il vaso di Pandora dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Ha condotto una battaglia in solitudine sostanzialmente per 14 anni, attraverso ricorsi amministrativi, tutti accolti al Tar e al Consiglio di Stato, una quarantina. L’Università disattendeva tutto ciò che disponeva la giurisprudenza amministrativa.

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    Clarastella Vicari Aversa

    La sua battaglia dimostra che i metodi mafiosi non li adoperano soltanto quelli con la coppola che definiamo criminalità organizzata. Dimostra che in Calabria, nonostante sentenze della magistratura per ripristinare il diritto, la sopraffazione, la prepotenza e il potere vengono esercitati in maniera spietata in qualsiasi settore. Lo stesso conclamato disprezzo per la meritocrazia, che osserviamo negli atenei così come nelle scuole e nell’amministrazione pubblica, dimostra come clientelismo e nepotismo, favoritismo e ricatto non siano fenomeni diversi da quelli che adopera chi chiede il pizzo o fa pagare tassi usurai, o concede un fido in banca.

    Una società dove le persone perbene, le imprese sane, i professionisti non corrotti, sono costretti a lottare per decenni per non soccombere, significa che la questione “mafiosa” va raccontata in un altro modo. Chi è causa del suo mal pianga se stesso, è il caso di ricordarlo talvolta a noi calabresi.

    Francesco Scoppetta
    Scrittore ed ex dirigente scolastico

  • Guerra ed energie alternative: l’industria navale è avanti

    Guerra ed energie alternative: l’industria navale è avanti

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    L’armatore Mario Mattioli inizia a lavorare nei primi ’80 nelle aziende di famiglia legate al Gruppo Cafiero Mattioli, dove ricopre numerosi incarichi, fino all’attuale presidenza di Ca.Fi.Ma. Cafiero Mattioli Finanziaria Spa.

    Per venti anni è stato membro del Consiglio confederale e del Comitato esecutivo di Confitarma-Confederazione Italiana Armatori.

    Dall’11 ottobre 2017 è presidente di Confitarma. Inoltre, è stato presidente di Assorimorchiatori. È inoltre vicepresidente dell’Accademia italiana della Marina mercantile, vicepresidente dell’Unione industriali Napoli con delega per la Formazione e il Centro studi.

    Siamo bombardati dalle notizie di guerra in Ucraina. Che caratteristiche presenta questo conflitto, visto dal mare? Come cambierà le nostre vite?

    «Le notizie che arrivano dai teatri di guerra sono sempre raccapriccianti. E guardare a questo conflitto dal mare non tranquillizza. La guerra in Ucraina e le relative sanzioni che Usa ed Europa stanno imponendo alla Russia aumenteranno la pressione sul commercio globale. L’interruzione dei traffici marittimi in queste aree si ripercuote sulle catene logistiche internazionali, con gravi conseguenze per vasti settori dell’industria che dipendono da tutte le importazioni e non solo da gas e petrolio».

    La guerra evidenzia la necessità di una transizione energetica più accelerata rispetto a quanto credevamo necessario. Quale contributo può dare l’economia marittima al ridisegno del sistema energetico nazionale?

    «La guerra ha imposto l’attuazione repentina della transizione energetica. Tuttavia, questa transizione è in corso da tempo nei trasporti marittimi. I dati dimostrano quanto lo shipping mondiale sia impegnato nella decarbonizzazione. In particolare a raggiungere la riduzione di Co2 decisa dall’Imo, che prevede entro il 2050 la riduzione del 50% delle emissioni rispetto al 2008. Serve, però, un’azione condivisa a livello internazionale, per evitare che interventi di diversa tipologia (e quindi con diversi impatti) adottati dai singoli Paesi danneggino la competitività.

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    Un’immagine della guerra in Ucraina

    Per lo shipping la partita si giocherà con l’individuazione di fonti del nuovo green fuel a cominciare dallo sviluppo delle reti di distribuzione e rifornimento. Ma per rendere concreta la transizione ecologica occorrono ricerca e sviluppo, strumenti finanziari adeguati e, soprattutto, occorre sapere che i tempi non sono così immediati come invece appare dai tanti slogan sul tema.

    La transizione è ineludibile, ma il governo ci deve sostenere. Le azioni e le proposte che potrebbero dare slancio al nostro Paese partono da un assunto semplice, che gli armatori ribadiscono con forza: rimettere il mare al centro. Confitarma si prepara così alle numerose sfide del settore, specie quelle che ci impegneranno nella rotta verso l’impatto zero».

    La globalizzazione è sorta dall’economia marittima e dalle rotte transcontinentali, che hanno generato il decentramento produttivo spinto. Sarà così anche nei prossimi decenni, oppure assisteremo a un ripiegamento della globalizzazione su scala macro regionale?

     «Il trasporto marittimo ha dato prova del suo ruolo strategico di garanzia alla continuità delle catene di approvvigionamento globale durante la pandemia. Anche di recente, ha consentito il regolare flusso delle merci e dell’energia da cui dipendiamo. Basti pensare che in Italia, in pieno lockdown (cioè nel 2020) il Covid ha colpito più il fatturato delle aziende con una flessione media del 20/25%, che la consistenza della flotta di bandiera che mantiene la sua posizione nella graduatoria mondiale con circa 14,5 milioni di gt. Quindi non credo che assisteremo ad una totale “regionalizzazione” della globalizzazione. Credo, tuttavia, che per alcune commodity strategiche i singoli Stati cercheranno di dipendere sempre meno dall’estero».

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    La nave Sky Lady del Gruppo Cafiero Mattioli

    Quale politica marittima dovrebbe esprimere l’Europa per essere attore delle trasformazioni globali? Quale sarebbe il ruolo del Mediterraneo in questo scenario?

     «Credo che Draghi nella sua recente visita al Parlamento abbia spiegato benissimo cosa è la politica europea del futuro. Innanzitutto, occorre maggiore attenzione al Mediterraneo, data la sua funzione di ponte verso l’Africa e il Medio Oriente. Non possiamo guardare al Mediterraneo solo come a un confine, su cui ergere barriere. Sul Mediterraneo si affacciano molti Paesi giovani, pronti a infondere il proprio entusiasmo nel rapporto con l’Europa. L’Ue deve costruire con i Paesi mediterranei, come dice Draghi, “un reale partenariato non solo economico, ma anche politico e sociale. Il Mediterraneo deve essere un polo di pace, di prosperità, di progresso”. Soprattutto nella politica energetica, i paesi del Mediterraneo possono giocare un ruolo fondamentale per il futuro dell’Europa. Specie se si considerano la posizione strategica del Mezzogiorno e la sua esigenza di sviluppo. Ciò è tanto più valido a seguito della guerra in Ucraina, che ha mostrato la forte dipendenza di molti paesi dalla Russia. In primis l’Italia, che importa circa il 40% del gas naturale dalla Russia».

    Joe Biden ha emanato a fine febbraio un ordine presidenziale con cui ha invitato le istituzioni di governo a regolamentare l’eccessivo potere di mercato delle tre grandi Alleanze nel settore del trasporto dei containers. L’Europa, invece, consente sino al 2024, grazie alla regola di eccezione (exemption rule), non solo la legittimità delle tre Alleanze, ma anche un carico fiscale molto vantaggioso, con un onere pari al 7%. Perché questa asimmetria forte tra il regolatore americano ed il regolatore europeo?

     «Purtroppo, lo scenario dei mercati mondiali è stato sconvolto dalla pandemia, iniziata circa due anni fa. Sono molte le situazioni critiche venutesi a creare, come dimostra la congestione nel porto di Shanghai, che ripropone problematiche vissute nel marzo 2021. Mi riferisco all’incidente della Ever Given nel Canale di Suez, che portò alla ribalta l’importanza del settore marittimo nei rifornimenti e la complessità delle catene di approvvigionamento globali.

    Siamo di fronte ad eventi inaspettati che incidono su un sistema equilibrato su cui tutti facevamo affidamento, e che sono strettamente connessi al rialzo dei prezzi di varie commodity e ai colli di bottiglia in alcune catene globali.

    Joe Biden, il presidente Usa

    Inoltre, la grave situazione dell’Ucraina innesca, oltre alle devastanti conseguenze umanitarie, ulteriori tensioni con evidenti impatti sull’attività economica mondiale, al momento ancora difficili da quantificare. L’aumento del costo del trasporto nel settore dei contenitori incide anche sull’inflazione: è chiaro che la legge del mercato determina situazioni in cui c’è chi guadagna e chi perde. Di fatto, le decisioni di Usa o Ue sono decisioni politiche. L’auspicio è che non si creino nuove problematiche per la logistica, già fortemente colpita dagli eventi straordinari degli ultimi anni».

    Quale impatto avrà il Pnrr sul mondo marittimo, nazionale ed europeo? C’è una visione per gestire le transizioni imminenti, oppure ci portiamo ancora dietro i fardelli del passato senza riuscire a determinare la necessaria discontinuità?

     «Il Piano nazionale di ripresa e resilienza è un’occasione irripetibile di rinascita e crescita del sistema economico nazionale ma necessita di una strategia orientata verso il mare che assicuri lo sviluppo di un sistema di collegamenti adeguato, con particolare attenzione alla transizione ecologica e digitale. Numerosi nostri partner europei, attraverso i fondi stanziati dal Next Generation Eu, investono risorse pubbliche per sostenere gli ulteriori importanti passi che le aziende del settore marittimo saranno chiamate ad effettuare sulla via della transizione ecologica.

    Di fatto, a fronte di investimenti di decine di miliardi di euro che gli armatori italiani continuano a fare per mantenere e incrementare elevate performance, l’industria armatoriale non sembra essere percepita come risorsa prioritaria del Paese. Il Fondo complementare al Pnrr, che mira a rendere le nostre navi più green, stanzia circa 500 milioni di euro. Qualora fosse un primo passo per verso il rinnovo green della flotta italiana, la partenza è buona. Ricordo però che, al momento rimane esclusa da questa misura una quota molto rilevante di navi appartenenti ad imprese radicate in Italia. Perciò servono altre iniziative. Anche in questo caso, credo che siano importanti sbocchi per i numerosi progetti che interessano lo sviluppo del Mezzogiorno».

    Un cantiere navale in attività

    Negli ultimi anni, gli interessi armatoriali in Italia si sono disarticolati. Sono nate, oltre a Confitarma, nuove associazioni datoriali. Perché si è determinata questa frammentazione? C’è possibilità che la frattura nel tempo si componga?

    «L’esistenza di rappresentanze diverse per gli stessi interessi è sempre un errore, anche nel caso degli armatori. Questo è ancora più vero in fasi storiche complesse, come la pandemia. Infatti, le divisioni, da un lato indeboliscono la categoria e, all’altro, confondono il regolatore politico che spesso “decide di non decidere”. Ad esempio, durante l’emergenza le due associazioni armatoriali hanno chiesto alla politica le stesse cose ma, per differenziarsi, lo hanno fatto in modi diversi. Il risultato è stato nullo. L’unità avrebbe creato un beneficio maggiore per le aziende di entrambe le associazioni».

     

     

  • Pnrr? Prima i diritti e poi i soldi

    Pnrr? Prima i diritti e poi i soldi

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    Marco Esposito è giornalista professionista di lungo corso. Già redattore economico di Milano Finanza e in forza a La Voce di Indro Montanelli, passa nel 1995 a Repubblica. Quindi, nel 2000, approda a Il Mattino di Napoli, dove guida la redazione economica.

    Insignito nel 2008 col premio Sele d’Oro per gli articoli sul federalismo fiscale, Esposito diventa nel 2009 responsabile delle Politiche per il Mezzogiorno di Italia dei valori. Entra nella giunta De Magistris nel 2011 come assessore alle attività produttive e vi resta fino al 2013, quando viene eletto segretario di Unione Mediterranea.

    Eposito torna al giornalismo nel 2015 e prosegue le inchieste sul federalismo fiscale. Nel 2018 pubblica con Rubbettino Zero al Sud. Due anni dopo esce per Piemme (Mondadori) Fake Sud. con prefazione di Alessandro Barbero.

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    La copertina di Fake Sud di Marco Esposito

    Il Piano nazionale ripresa e resilienza riprende due scenari: uno riguarda il “prima” dell’invasione russa, l’altro, ovviamente, il “dopo”. Cosa è cambiato? Quali saranno gli aspetti che dovranno essere manutenuti?

    «Il Pnrr è una risposta collettiva dei Paesi dell’Ue alla pandemia. Non era mai accaduto che si facesse debito comune. Forse un giorno scopriremo che questa reazione imprevista ha mandato all’aria i piani di chi, dall’esterno e dall’interno, puntava a destabilizzare l’Ue. Mi auguro che l’invasione russa e lo scontro sul gas portino una continuità strategica: solo le risposte collettive possono essere efficaci, appunto».

    Il Piano sembra rivolto essenzialmente al passato, ma pare privo di una visione strategica che proietti l’Italia, ed il Mezzogiorno in particolare, verso il futuro. Come si può correggere questa impostazione?

    «Un Paese sano ha grandi sogni e risorse per forza di cose limitate. I primi indicano la direzione di marcia e i secondi dettano in concreto i tempi di realizzazione. L’Italia però era, da tempo, un Paese malato, privo di sogni e quindi di grandi progetti. Così, lo ha denunciato il Parlamento europeo, nel Pnrr ci siamo impegnati soprattutto a “reimpacchettare” (non a caso, si è usato il termine “repackaging”) vecchi progetti, senza reale valore aggiunto. Correggere in corsa è difficile. Però credo che la crisi internazionale aperta dalla Russia spingerà l’Europa a rivedere il Pnrr, dilatandone i tempi rispetto al termine del 30 giugno 2026 e accelerando sull’innovazione energetica e digitale, con un occhio particolare alla sfida della comunicazione globale. Il Mezzogiorno italiano può essere protagonista in entrambi campi».

    Una metafora per il Sud: gli spagnoli sottomettono gli Incas
    Si parla del Mezzogiorno per conservarlo in naftalina. Il comportamento è simile a quello degli Spagnoli con gli Incas: chincaglieria in cambio le risorse del territorio. Stavolta lo specchietto per le allodole è nella riserva del 40% dei fondi. Come si può ribaltare questo apparecchio francamente irritante?

    «Prodi diceva che la regola europea del 3% per il deficit era stupida come lo sono tutte le regole rigide. Anche il 40% è stupido. Tuttavia credo che l’assenza di una soglia avrebbe portato risultati peggiori. Il punto è che a noi meridionali non dovrebbe importare di “quanti soldi” arrivano. Invece  dovremmo pretendere uguali diritti di cittadinanza: asili nido, tempo pieno a scuola, trasporti, sanità, assistenza sociale. Questi diritti non possono mutare in base alla residenza. Nel 2022 abbiamo assegnato un fabbisogno standard per i servizi di istruzione pubblica del 4,9% del totale nazionale al Comune di Milano e del 2,1% al Comune di Napoli, ma Napoli non è meno della metà di Milano e i suoi studenti non dovrebbero avere “per legge” meno diritto al tempo pieno o al trasporto scolastico. Per cambiare questo stato di cose dovremmo indignarci. Lo abbiamo fatto, nel 2018, contro gli zeri per gli asili nido e nel giro di un anno quegli zeri li hanno dovuti cancellare».

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    Asili nido: uno dei problemi del Sud secondo Esposito
    La formula magica, è: i bandi “competitivi”. Ma come si possono mettere a gara tra le istituzioni i diritti dei cittadini? Dove si è smarrito il senso della nostra Costituzione?

    «La logica dei diritti messi a bando tra territori è agghiacciante. Chi vorrebbe vivere in un paese che mette a bando i Pronto soccorso e poi trovarsi in un posto che ne resta privo perché magari l’Azienda sanitaria locale non si è attivata? E allora come si può accettare di costruire un asilo nido o una palestra scolastica in base all’abilità del Comune di presentare la domanda? Non capire la differenza tra il bando (necessario) per stabilire quale impresa debba costruire l’asilo nido e il bando (insensato) per decidere in quale posto è utile aprire il servizio è segno di pochezza di tutta la classe dirigente. Al riguardo, non ho visto finora una reazione sufficiente da parte di sindacati, associazioni di genitori e quella che definiamo “società civile”».

    Nella esecuzione degli investimenti del Pnrr si ripresentano i nodi mai risolti di un federalismo sgangherato. Quanto sta pagando il Mezzogiorno questa struttura istituzionale neofeudale che proprio al Sud dà il peggio?

    «Il Sud paga da sempre l’incapacità di fare squadra. Il federalismo, per quanto sgangherato, può essere governato se gli enti locali con interessi simili – Regioni, Città metropolitane, Comuni – comprendono l’importanza di operare insieme. Lo fanno con efficacia – è noto – tre Regioni come Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna che nella loro storia non hanno mai avuto un identico indirizzo politico. Le regioni del Mezzogiorno non lo hanno fatto mai, neppure quando tutti i presidenti appartenevano al medesimo partito. Michele Emiliano, presidente della Puglia, mi raccontò che in occasione di una Fiera del Levante aveva invitato tutti i colleghi meridionali per aprire un ragionamento comune. Ma dalla sede romana del Pd arrivarono telefonate ai singoli presidenti per invitarli a disertare».

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    Michele Emiliano, il presidente della Puglia
    Non esiste un Mezzogiorno: ce ne sono tanti, con problemi convergenti ma con un tasso di complessità spesso differente. Come può il Pnrr affrontare questo mezzogiorno “plurale”?

    «Questa storia dei tanti Sud, devo dire, non mi ha mai convinto. E’ ovvio che il Meridione non è tutto uguale. Forse è tutta uguale la Lombardia? O la Baviera? Il punto è che in statistiche fondamentali come il tasso di occupazione nella fascia di età 20-64 anni su 286 regioni europee le ultime quattro sono Sicilia, Calabria, Campania e Puglia. Ciò vuol dire che non in Italia ma in Europa c’è un gigantesco problema che riguarda un territorio che ha quasi il doppio degli abitanti della Svezia».

    Il Mezzogiorno vive un declino demografico accelerato, dovuto al calo della natalità, alla ripresa dell’emigrazione dei giovani e alla scarsa attrattività verso gli immigrati. Il Pnrr affronta questo problema che potrebbe cambiare radicalmente, tra qualche decennio, il panorama sociale dei territori meridionali?

    «Il Pnrr non solo non affronta il problema ma, addirittura, in alcuni bandi si dà per scontato che il declino demografico debba continuare. E si prende come riferimento non la popolazione del 2021 o, al limite, quella stimata al 2026 ma addirittura quella prevista dall’Istat per il 2035 nell’ipotesi che i flussi migratori restino stabili. Il che avverrebbe se il Pnrr non incidesse per nulla sulle opportunità a disposizione nei diversi territori. Ciò vuol dire che il Piano postula il suo fallimento. Detto questo, occorre capire che quella demografica è “la” sfida dell’intera Europa e la si vince se le nostre università diverranno attrattive per giovani di tutto il mondo. Quando è scoppiata la guerra in Ucraina, c’è stato il problema delle centinaia di studenti universitari indiani che dovevano lasciare le università di quel Paese. Il Mezzogiorno vincerà la sua sfida quando i giovani di qualsiasi paese del mondo penseranno che non c’è nulla di meglio per il proprio futuro di trascorrere gli anni di formazione in atenei prestigiosi e pronti ad accoglierli: Napoli, Bari, Cosenza, Palermo e così via».

    L’Università della Calabria
    Le organizzazioni criminali condizionano da sempre il funzionamento delle società meridionali. Quanto è elevato il rischio che questi soggetti si impadroniscano delle leve che governano gli investimenti del Pnrr per consolidare il loro potere?

    «L’interesse di organizzazioni criminali a intercettare flussi di risorse pubbliche non è un rischio ma una certezza. E non solo al Sud, come dimostrano le inchieste su appalti pilotati, dal Terzo Valico al Mose. L’attenzione quindi deve essere alta, senza però spingerci nell’errore di affondare Venezia perché qualcuno ha rubato sul Mose».

    Nella governance del Pnrr non pare emergere una piattaforma di comando e controllo in grado di contrastare l’inerzia di cui il Mezzogiorno è storicamente prigioniero. Potrebbe valere la pena di attivare la regola dei poteri sostitutivi quando emergono lentezze e ritardi delle istituzioni locali?

    «Se mettiamo al centro i cittadini, la risposta è ovvia. La Consulta è stata chiara nel chiedere allo Stato di definire i livelli essenziali delle prestazioni prima di attuare il Pnrr e la Costituzione lo è altrettanto nell’assegnare allo Stato poteri sostitutivi qualora i Lep non siano garantiti n tutto il territorio nazionale. Purtroppo la governance del Pnrr prevede poteri sostitutivi per l’ente locale che si assicura un progetto ma poi stenta a realizzarlo, non per l’ente locale che non si attiva affatto. Si può cambiare questa linea di marcia? Certo. Se ci convinciamo che è il tempo dell’ambizione, non della pigrizia».

  • Onda su onda: cacciatori di energia in riva allo Stretto

    Onda su onda: cacciatori di energia in riva allo Stretto

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    Gli spagnoli partirono da Bilbao in minibus, erano in zona rossa ma non volevano rinunciare alla ricerca. Fu un viaggio mediterraneo pieno di soste nell’Italia deserta, con destinazione Reggio Calabria. Erano i giorni in cui i delfini riprendevano possesso dello Stretto, mai così vicini alla costa, con tanta voglia di giocare. Due giovani studiose arrivarono da Lisbona (una era polacca) e fecero l’abbonamento al bus. Ricercatori indiani rimasero in città per più di un anno. Furono coinvolti in lunghi pranzi con professori e dottorandi, si parlava di onde e venti, in quello straordinario laboratorio naturale che è il mare fra Reggio e Messina.

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    Il campionato vele d’altura sullo Stretto (foto Maria Pia Tucci)

    Questa storia mi è tornata in mente leggendo la notizia del campionato vele d’altura tornato dopo tanti anni sullo Stretto “in un teatro unico al mondo”. La scienza, lo sport ci dicono quello che non sappiamo, che abbiamo rimosso: sulle coste calabresi anche il vento è un valore, crea buona economia e indotto, come dimostra il celebrato modello del Club Velico di Crotone, le realtà di valore mondiale di Gizzeria e Punta Pellaro per il kitesurfing.

    L’eccellenza internazionale del Noel e l’indifferenza delle istituzioni

    A Reggio poi il vento si studia, da anni, grazie al laboratorio NOEL dell’Università Mediterranea, che ha stretto accordi di collaborazione con l’irraggiungibile Imperial College di Londra, con ricercatori della Columbia University. Viene in mente quello studio Svimez, che sottolinea il valore degli atenei calabresi, soprattutto in rapporto con la povertà del territorio, con la carenza dei collegamenti e dei trasporti. Ecco un settore dove la regione ultima fa bella figura, almeno nei casi in cui l’università dialoga con il territorio.

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    Quei ricercatori australiani, indiani, americani, norvegesi, danesi, inglesi, francesi, spagnoli, polacchi, portoghesi stimolarono la curiosità dei cittadini, meno delle istituzioni. E cos’era quella strana piattaforma a 60 metri da riva, dalle parti delle Terme romane in via Marina? Nessun consigliere comunale ci salì, al contrario lo fecero studiosi di tutto il mondo.

    Le tempeste oceaniche in senso Stretto

    Ora che stanno per smantellarla, forse è il caso di raccontare a cosa è servita, insieme al professor Felice Arena, direttore scientifico del laboratorio NOEL (Natural Ocean Engineering Laboratory). Con una premessa: l’eccezione meteo-climatica di quest’area sta su tutte le carte nautiche, ed è legata alla conformazione dello Stretto.

    Il vento di canale soffia perpendicolarmente da Messina a Reggio per dieci chilometri, duecento giorni l’anno. Produce modelli in scala delle tempeste oceaniche, le correnti marine arrivano a due metri al secondo e possono generare energia, oltre che quei vortici che furono il terrore dei navigatori più verso Villa, nel mare aperto dove si incontrano Jonio e Tirreno e approdano i minuscoli pesci abissali (se volete divertirvi, per le correnti dello Stretto c’è anche un’app).

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    Il professor Arena impegnato in un seminario alla Columbia University

    La città potrebbe avere energia per un anno

    Il professore Arena dice: «Abbiamo studiato a Reggio quello che è stato costruito altrove». Decine le ricerche, che danno luogo a progetti internazionali, seminari, convegni. I sistemi studiati a Reggio sono riprodotti a Civitavecchia (Porto di Roma) e Salerno. Dove stanno per essere installate le turbine per produrre energia elettrica dalle onde marine.

    Si è creata a Reggio una piccola scuola. Arena è stato un allievo del professor Paolo Boccotti, un genovese che, a differenza di molti altri docenti che sono passati per l’Università reggina, ha scelto di fare tutta la carriera a Reggio alla Mediterranea. Evidentemente Boccotti ha colto le potenzialità del “teatro unico al mondo”, una galleria del vento naturale, più grande di qualunque laboratorio. Secondo una ricerca Enea, lo Stretto potrebbe arrivare a produrre 125 gigawatt/ora l’anno, il fabbisogno di una città come Reggio o Messina.

    Reggio può diventare luogo di scienza e ricerca

    Ecco quindi la piattaforma, o meglio la diga. Realizzata in cemento armato, con la parte attiva in acciaio. Uno dei progetti, in collaborazione con la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, prevede la conversione dell’energia delle onde in elettrica. Un altro, The Blue Growth Farm, studia la costruzione di una piattaforma multifunzionale in mare aperto, con vasche per l’itticoltura, con gestione automatizzata.

    Dove viene prodotta anche energia dal vento, con una turbina eolica da 10 MW (nata al Politecnico di Milano), e dalle onde, attraverso sistemi a colonna d’acqua oscillante con risonanza interna. «La scommessa vinta – sostiene Felice Arena, che ha esposto le sue ricerche negli Stati Uniti, in Cina, in India e in giro per l’Europa – è stata quella di portare ricercatori a Reggio e di internazionalizzare il NOEL. Inutile dire quanto sia importante per noi ascoltare prospettive diverse, farne esercizio linguistico. La città può diventare un luogo di scienza e di ricerca». Un bellissimo lavoro di squadra, passate parola.

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    A caccia di vento nel mare di Ulisse

    Ps: per chi avesse pronta l’obiezione “non hai parlato dell’inchiesta sull’Università Mediterranea”, la mia risposta è semplice: ICalabresi ne ha già scritto, e l’effetto non secondario di questi scandali è quello di oscurare le belle storie e le belle ricerche come questa, il buon piazzamento della Mediterranea nel recente report dell’Agenzia Nazionale di valutazione.

  • Il j’accuse del vescovo: chiesa e poteri, massoni deviati, politici come caporali

    Il j’accuse del vescovo: chiesa e poteri, massoni deviati, politici come caporali

    Francesco Savino è il vescovo di Cassano, territorio ricco, con una antica radice cattolica, ma anche tormentato dalla presenza di una potente criminalità organizzata. Ed è l’uomo mandato da Papa Francesco nella Chiesa calabrese.

    La voce pacata e lo sguardo mite non devono ingannare: Savino viene dalle lotte di Libera contro le mafie, è delegato presso la conferenza episcopale della Chiesa calabrese ai temi della Salute. E sa che qui è troppo spesso un diritto negato, assieme al lavoro e alla dignità.

    Non fa giri di parole. Sa pure che i responsabili sono da cercare nei legami tra certa politica e il malaffare, nella presenza di poteri trasversali che si sono impossessati di ampie porzioni della vita pubblica. E sa anche che lo sguardo severo va rivolto anche dentro la Chiesa, troppe volte in silenzio quando avrebbe dovuto gridare.

    E così, partendo dal messaggio del pontefice, Savino traccia la rotta di una chiesa militante, dentro la moltitudine delle persone, immersa tra la gente, alla ricerca di una via di liberazione che non lasci escluso nessuno. Quando Savino pronuncia la parola “liberazione”, una suggestione latinoamericana sembra insinuarsi nel salone della Diocesi. E invece siamo a Cassano, in Calabria. Ma forse non è così differente.
    CLICCA SULL’IMMAGINE IN APERTURA PER VEDERE L’INTERVISTA

    Michele Giacomantonio e Claudio Dionesalvi