In Calabria, l’economia è cresciuta del 5,7%. Questo dato è in linea col resto del Mezzogiorno ma inferiore di circa un punto da quello nazionale.
Il territorio ha risentito dei contraccolpi delle vicende epocali succedutesi nell’ultimo biennio, a partire dal Covid a finire col conflitto russo-ucraino.
Bankitalia: crescita frena per colpa della guerra
Lo confermano le analisi del rapporto annuale della filiale regionale di Bankitalia, che delineano una sorta di ripartenza “frenata”.
I risultati della ricerca sono stati illustrati a Catanzaro dal direttore Sergio Magarelli e dai ricercatori Giuseppe Albanese (coordinatore), Antonio Covelli, Enza Maltese, Graziella Mendicino e Iconio Garrì.
Le conseguenze negative del conflitto in Ucraina – si apprende dal rapporto – si avvertono nei settori ad alta intensità energetica. Questi settori pesano per il 9,6 % del totale del valore aggiunto regionale (8,5 in Italia), in ragione delle oscillazioni tariffarie che hanno determinato forti rialzi dei costi di produzione.
La presentazione del rapporto di Bankitalia a Catanzaro
Le aziende prevedono, da questo punto di vista, solo un parziale assorbimento dello shock. Il quale dovrebbe avvenire attraverso una riduzione dei margini di profitto e incrementi dei prezzi di vendita. Ma tutto questo avrà conseguenze sul potere di acquisto delle famiglie in materia di elettricità, gas e prodotti alimentari.
In Calabria va meglio l’edilizia
Il settore industriale ha avuto il maggiore giovamento dalla ripresa, in particolar modo l’edilizia, grazie alla crescita di investimenti pubblici e incentivi (superbonus). Più graduale l’impatto positivo sui servizi. C’è stato comunque un recupero di redditività e liquidità delle imprese anche per l’ampio ricorso alle misure pubbliche con boom del ricorso a nuovi prestiti con garanzia dello Stato e aumento del grado di indebitamento. Gli spiragli positivi per il 2022, ha spiegato Magarelli, sono legati all’attuazione del Pnrr. Il Piano, infatti, prevede in Calabria investimenti su infrastrutture e servizi pubblici da sommare ad altri interventi con risorse nazionali ed europee, assolutamente da non perdere.
Il pane prodotto dai fornai calabresi è eccellente. Ancora oggi rimane il principe della tavola e tutti gli altri cibi sono semplici sudditi. Un proverbio non a caso diceva: “Non c’è cibo di re più gustoso del pane”. Appena sfornato il suo odore e il suo sapore non sono paragonabili a nessun’altro cibo e, mangiandolo, si ha una sensazione di purezza e di gioia. Il pane è sacro, donato agli uomini dagli dei e per Aristofane non bisognava raccogliere le briciole che cadevano a terra perchè appartenevano agli eroi o ai “daimoni”.
Il prelibato pane di Cerchiara calabra
Il pane di grano era un sogno
In passato era l’alimento più importante nella dieta dei calabresi e, non a caso, si diceva: quannu alla casa c’è llu pane, c’è tuttu e si c’è lla farina, l’ùogliu e llu vinu, ‘a casa è kina (quando a casa c’è il pane, c’è tutto; e se c’è la farina, l’olio e il vino, allora la casa è piena).
Nel Settecento, Swinburne annotava che i contadini, dopo aver zappato tutto il giorno, si nutrivano con pane reso più saporito da uno spicchio d’aglio, una cipolla e un pugno di olive secche. Nello stesso secolo Spiriti, tuttavia, precisava che due terzi dei campagnoli non sapeva nemmeno cosa volesse dire pane di grano: quelli più fortunati utilizzavano farina di germano o granturco ma la maggior parte consumava pane di lupini o castagne. Se il re di Francia desiderava che nei giorni di festa i contadini mangiassero un pollo, egli sperava che quelli calabresi si satollassero di pane bianco con qualche cipolla o un pezzo di formaggio.
Galanti aggiungeva che il pane scarseggiava a causa delle continue carestie e quello disponibile era in genere duro e rancido: si preparava poche volte l’anno e, nelle famiglie più povere, solo a Natale e a Pasqua.
Pane secco da grattare o bagnare
Infornato ogni tre mesi e conservato sopra graticci appesi al soffitto, dopo qualche tempo diventava talmente duro da dover essere mangiato bagnato nell’acqua o raschiato col coltello. Cento anni dopo dopo Franchetti confermava che i contadini calabresi vivevano con un pane tanto secco che per mangiarlo dovevano grattare col coltello nel cavo della mano e versarselo in bocca a bricioli o nelle minestre di erbe cotte nell’acqua con un po’ di olio e sale «quando ne avevano».
Pastore fra le strade di San Giovanni in Fiore
Nei grandi centri urbani il pane prodotto dai fornai era riservato a nobili e galantuomini e una signora ricca era chiamata «donna di pane bianco». Dal 1878 al 1883 nella provincia cosentina, in una situazione alimentare notevolmente migliorata, si consumava pane di frumento in 93 paesi, in 5 qualche volta e in 53 mai. Nel 1812, un relatore dell’inchiesta murattiana comunicava che nei villaggi della Calabria Citeriore, specie nei circondari di Celico, Spezzano, Aprigliano, Rogliano, Scigliano e Carpanzano, il pane era di castagne o di segale, nel resto della provincia di frumentone e solo a Cosenza, Rossano, Corigliano e Cassano, di grano.
I contadini consumavano u mursiellu, detto altrimenti agliu o agghiu e, per il resto della giornata, si sfamavano mangiando pane di frumentone, segale, lupini o castagne. Padula annotava che il massaro, il più agiato tra i contadini, coltivava il grano per venderlo ai galantuomini e si saziava di pane bianco solo nei giorni solenni dell’anno. La moglie infornava il pane una volta al mese e lo appendeva al soffitto per lasciarlo indurire, così da consumarne di meno: pani tuostu mantena casa, ma ci volevano denti di ferro per frantumarlo e quindi lo si mescolava con la minestra. Pasquale confermava con amarezza che i campagnoli erano soliti lasciare ammuffire il pane per risparmiare legna e offrire al palato cibo meno appetitoso. Il pane della «gente mezzana» era di frumentone e segale, quello dei «buoni possidenti» di grano e quello dei contadini di frumentone, castagne o avena.
Si consumava generalmente pane di granturco e di segale nelle zone di montagna e di grano misto a orzo negli altri territori. I contadini lo condivano con olio e sale e, a volte, come companatico utilizzavano sarde salate, olive o peperoni. La sera cenavano con una minestra calda di verdure o legumi. In media un colono mangiava 1.400 grammi di pane di granone o di segale, una minestra di patate e verdure di 900 grammi o di legumi di 400 grammi.
Oggi si presenta morbido e delizioso, ma il pane nero non troppi anni fa era duro e dal sapore forte
Pane di Calabria: così duro da tagliare con l’accetta
I campagnoli più poveri si alimentavano con pane di frumentone o di segale e, in tempo di carestia, di orzo, lupini, cicerchie e fave. Comune era anche il pane di castagne e Dorsa ricordava che il contadino calabrese, parco nel suo vitto, aveva sempre i suoi vàlani, castagne lesse o baloge e i suoi pistilli o mùnnule, castagne disseccate al calore del fuoco che spesso gli «servivano di pane».
Le donne del cosentino portavano le castagne al mulino per farne farina, ma il pane che se ne ricavava dopo qualche giorno diventava così duro che per tagliarlo si utilizzava l’accetta. Uno studioso affermava che un pane di castagne del diametro di quattro pollici richiedeva almeno un’ora di masticazione e faceva molta pena guardare la povera gente costretta a nutrirsene. Anche il pane di segale, pur se alcuni sostenevano che era sostanzioso, era duro, nero, viscoso, disgustoso e di difficile digestione.
Il pane che provoca nausea, febbri maligne e cancrene
Col pane di segale si preparava un pane leggero e di facile digestione ma bisognava fare attenzione perché la contaminazione con lo sperone di segale o grano cornuto (alcune spighe prendevano la forma dello sperone di un gallo o di un cornetto nero) rendeva il pane nauseante e nocivo. Uno studioso del Settecento scriveva che la claviceps purpurea della segale spesso aggrediva anche il frumento e da quel pane dal sapore disgustoso provocava confusioni, nausea, stanchezza, ubriachezza, diarrea, febbri maligne, dolori alle braccia e alle gambe e persino cancrene.
Ramage ricordava che i giornalieri dei paesi silani, vivendo nella «più nera miseria» e nutrendosi per lo più di pane fatto con farina di castagne, durante l’inverno emigravano in massa in Sicilia e in altre regioni «alla ricerca di cibo». Nel circondario di Cirò una sarda salata con due pani, una cipolla e un pugno di olive in salamoia, formavano il pranzo quotidiano di un bracciante che maneggiava la zappa almeno otto ore al giorno. Secondo Padula i giornalieri si saziavano con pane di segale, frumentone, castagne e orzo o con una mistura di veccia, fave e lupini. Non bevevano vino se non quello ricevuto in dono e si cibavano di carne in occasione della macellazione del maiale o quando «suonava in tasca una lira di più».
Minestre di foglie cotte nell’acqua marina
Per rinfrancare le forze cavavano dalla tasca un cantuccio di orribile pane da mangiare scusso o accompagnato da agli e peperoni. I braccianti del Tirreno se la passavano peggio: si saziavano con una minestra di «foglie» cotte nell’acqua marina e pane di granone mentre il pane bianco, detto pane de buonu, sempre presente nelle mense dei ricchi, era prerogativa dei malati.
Un colono del Vallo di Cosenza d’inverno mangiava a colazione e a cena pane di granturco e fichi secchi e a pranzo minestra di fagioli o patate; nelle altre stagioni a colazione e a cena pane di grano, una sarda, una fetta di formaggio o un pezzo di carne salata e a pranzo una minestra di fagioli, patate o cavoli conditi con olio e sale.
Solo in occasione di lavori particolari come lavendemmia e la mietitura si saziavano con pane di grano, carne affumicata, castrato o altro. Un colono, piccolo proprietario o affittuario dei paesi silani, in inverno a colazione e a cena mangiava pane di granturco o di castagne e una cipolla con olio e sale, a pranzo minestra di fagioli o patate; nelle altre stagioni a colazione e a cena pane di segale o di grano, formaggio e sarde, a pranzo minestra di fagioli freschi, patate e cavoli.
Il pane del litorale jonico
Un giornaliero del litorale jonico in inverno a colazione e a cena consumava pane di granturco, olive in salamoia o pesce salato, a pranzo minestra di verdure; nelle altre stagioni a colazione e a cena pane di grano, cipolle e formaggio, a pranzo una minestra di verdure. Nei giorni festivi si beveva il vino e si univa alla minestra la pasta fatta in casa. Pastori e vaccari per tutto l’anno mangiavano a colazione pane di granturco e ricotta, a pranzo minestra di verdure e a cena pane di granturco e formaggio.
Verso la fine dell’Ottocento, durante il viaggio di circa un mese sulla nave che portava negli Stati Uniti, gli emigranti mangiavano carne e pane bianco e ciò creava meraviglia tra chi considerava tali cibi un lusso, tanto che, per indicare un uomo sfinito e ammalato, si diceva che si era «ridotto a pane di grano».
Kasbah, borgo, villaggio: il quartiere dell’autostazione è un mondo a sé rispetto al resto di Cosenza. Contenitore di storie e di vite, migranti e stanziali. All’alba, nel silenzio della città che ancora dorme, il quartiere si sveglia prima degli altri tra i rumori dello scarico della merce, le saracinesche che si alzano e il furtivo guardarsi intorno di chi ha trascorso la notte sulle panchine e sa che deve dileguarsi prima che arrivi il primo autobus carico di pendolari.
Il buongiorno multietnico dell’autostazione di Cosenza
Una pattuglia della polizia è all’ennesimo giro di controllo e avanza lenta tra le corsie ancora deserte. Nel Buongiorno si intrecciano le lingue. Ognuno ringrazia il suo dio. Il bar sforna cornetti, prepara i primi caffè e comincia svogliatamente a popolarsi. Davanti al money transfer prende forma la mesta processione di chi è in attesa di un aiuto economico da familiari lontanissimi e chi conta i soldi che oggi invierà a casa.
Crocevia di storie e persone: l’autostazione di Cosenza
Il cinese Chang diventa Ciccio
In una città in cui i pochi turisti restano incompresi e ci si affida ai gesti per comunicare, il paradosso è che qui i negozianti, anche i più anziani, si sono assicurati un repertorio di frasi per interagire in inglese con clienti di tutte le nazionalità. Nella dimensione comunitaria del borgo i nomi, quelli impronunciabili, si reinventano in chiave cosentina. E così Kaunadodo, che arriva dal Mali, per qualche bizzarra associazione diventa Tonino, mentre Chang che è cinese, per tutti è Ciccio. Il tempo è scandito da arrivi e partenze. I ragazzi nordafricani con i dreadlock, belli come statue, si mischiano agli studenti che a partire dalle sette scendono dai bus in arrivo dai paesi della provincia, incrociano le badanti col velo che tornano a casa dalle notti trascorse ad accudire gli anziani.
Mamma africana con il suo bambino tra le corsie dell’autostazione di Cosenza
Degrado o luogo come un altro?
I viaggiatori di passaggio vanno ad acquistare nei bazar gestititi dai cinesi, la comunità araba mangia il kebab dall’egiziano e fa la spesa nelle macellerie halal e nei supermercati che vendono prodotti internazionali. Le ragazze nigeriane si sistemano le treccine con i cosmetici acquistati all’african shop. Qui acquistano prodotti specifici per la loro pelle e trucchi che valorizzano l’incarnato. Ci sono sguardi indignati e sguardi indulgenti. Per alcuni questa babele è causa di degrado e criminalità, per altri è un luogo come un altro.
I cosentini non si sentono al sicuro
Il dato di fatto è che i residenti non si sentono al sicuro. Nei condomini quasi tutti hanno potenziato sistemi di allarme e telecamere. «Guardi qui», Anna mostra il suo cellulare, «24 ore su 24 controllo dal mio telefono cosa accade davanti alla porta di casa. Se c’è qualcuno un beep mi avverte. Viviamo così, con la paura costante di rientrare nel portone o nel parcheggio e trovare qualche malintenzionato». I palazzoni che fanno da cintura intorno all’autostazione sono edifici eleganti con appartamenti di metrature smisurate rispetto agli standard attuali. Ogni amministrazione comunale che si è succeduta ha promesso il trasloco delle corsie dei bus con il loro pesante carico di inquinamento atmosferico. «Argomenti buoni solo in campagna elettorale – sbotta una signora davanti al supermercato – ormai abbiamo smesso di crederci. Questo era un quartiere di famiglie, professionisti, negozi. Adesso abbiamo spazzatura, traffico, degrado, prostitute, ubriaconi e risse».
Autostazione Cosenza: l’amicizia possibile e il compare cinese
I nomi sui citofoni, cancellati e sovrascritti, dicono qualcosa della geografia di questi condomini multietnici in cui al profumo del soffritto preparato dalla vecchietta del primo piano si mescola l’odore dell’aglio dell’adobo filippino. Arriva su, fino al quinto piano, dove incontrerà le note speziate del pollo in padella affondato nel riso basmati della tradizione pakistana. È tutto un dualismo, un alternarsi, passato e presente, nuovo e antico, prossimità e lontananze. Molti negozi storici resistono, convivono muro e muro con i negozi che aprono come funghi per assecondare le esigenze della popolazione multietnica che gravita intorno all’autostazione. Certe volte i rapporti si trasformano in amicizia, un commerciante cinese ha dato al figlio il nome di un collega italiano e gli ha chiesto di battezzarlo. Certo non è sempre così, ci sono situazioni di conflitto sempre sul punto di esplodere. Bande rivali che ogni tanto seminano il panico.
«Sono i ragazzi cosentini a darmi fastidio»
«Questo è un porto – dice un esercente che non vuole esporsi e chiede di restare anonimo – e nei porti si sa, arriva di tutto: la gente per bene e i disperati. Ma se vuole saperlo a me danno più fastidio gli italiani, i cosentini, i ragazzi che ho visto crescere nel mio quartiere e che oggi sono diventati degli sbandati. Mi presentano la tessera del reddito di cittadinanza e pretendono non la spesa ma i soldi. È una continua richiesta, snervante, ossessiva. Gli rispondo: ma c’è scritto banca sull’insegna? Che rabbia. Certe volte sono costretto a chiudere prima, è l’unico modo che ho per sfuggire. A questo siamo arrivati».
Nel “porto” cosentino c’è tutto un flusso di migranti in partenza e in arrivo, che segue le rotte del lavoro o della sua ricerca, dalla raccolta nei campi alla vendita ambulante. E c’è un indotto cospicuo, di cibo e servizi, dalle ricariche telefoniche al trasferimento di denaro, dal parrucchiere specializzato nelle acconciature afro al disbrigo pratiche burocratiche e interpretariato.
La vecchia trattoria si trasforma in supermercato multietnico
«Quando ho aperto, i miei colleghi mi guardavano male. Mi accusavano di aver reso questo posto più pericoloso perché frequentato dagli stranieri. Oggi devono riconoscere che sono stato un imprenditore lungimirante. Avevo visto lungo«. Massimo De Luca ci è cresciuto tra le corsie dell’autostazione, dove gestisce un supermercato di prodotti internazionali “I cinque continenti”. Oggi vende tapioca e aringhe essiccate negli stessi spazi in cui suo padre, negli anni ’60 serviva ai tavoli della sua trattoria i viaggiatori che arrivavano a Cosenza con la littorina, quella col portapacchi sul tettuccio. «C’erano diverse trattorie in questa zona ed erano una tappa obbligatoria per i pendolari. Venire a Cosenza significava godere della gioia di mangiare un piatto caldo prima di ripartire».
Tra gli scaffali di “Cinque continenti”
Serve uno sforzo notevole per immaginare questo posto e ricostruire lo scenario completamente diverso che ruotava intorno alle corsie della stazione degli autobus: l’alimentari-trattoria Scarpelli, il deposito del pastificio Amato, Forgione Calzature, il Paradiso dei Piccoli, il Salone del lampadario. L’ultimo ad abbandonare la sua storica sede è stato Giordano il Musichiere, mentre la trattoria De Luca ha cambiato pelle e si è adeguata ai tempi. Prima Conad Margherita e poi supermercato multietnico. «Tutto è iniziato quando ho cominciato a vedere che la clientela si stava modificando – racconta De Luca – . Cinesi e filippini mi richiedevano dei prodotti, ho cominciato ad ordinarli, poi ho capito che la mia strada era proprio quella di differenziarmi, di rendermi indipendente”.
Dopo filippini e cinesi con l’istituzione dei i centri di accoglienza legati allo Sprar (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati) sono arrivati i nordafricani, tantissimi. Ragazzi e ragazze, intere famiglie. Hanno un disperato desiderio dei profumi e dei sapori dei loro paesi d’origine: il cibo è il ponte che tiene saldi i legami, li ancora alle loro origini. «Qui c’è un movimento di persone incredibile – spiega De Luca – puoi averne contezza solo se lo vivi come me dall’interno». E non solo nordafricani, cinesi, filippini. «Argentini, venezuelani, brasiliani sono in forte aumento. E non dimentichiamo il flusso degli studenti Erasmus».
Quasi tutti bravi ragazzi, poche teste calde e qualche amico
De Luca difende la multietnicità dell’autostazione. «Sono quasi tutti bravi ragazzi, a parte qualche sporadica testa calda. Mai avuto un problema nel mio negozio: entrano, comprano, pagano. E spendono anche nei negozi intorno, non solo qui. Dobbiamo vedere la presenza dei migranti come una risorsa, non come un problema». De Luca critica però la gestione dell’area: «Per contrastare il degrado non serve togliere i servizi. È stata eliminata la sala d’attesa, hanno tolto le panchine. A cosa è servito?».
Ciccio Caruso è diventato adulto dietro il bancone di generi alimentari che gestisce fin da quando era un ragazzo. Il suo core business sono i panini imbottiti, è riuscito a convertire alla schiacciata piccante anche i suoi amici cinesi del vicino ristorante orientale. Ma è anche amico dei ragazzi arabi che gestiscono il piccolo market halal alla sua sinistra. «Siamo tutti sulla stessa barca – scherza – alla fine andiamo oltre la nazionalità e la lingua. Siamo colleghi e in qualche caso anche amici».
arabo e italiano: due lingue che si mescolano all’autostazione di Cosenza
Serve un posto di polizia permanente
Per Caruso la questione da affrontare riguarda l’afflusso di pendolari. «Gli autobus arrivano nelle corsie dell’autostazione già vuoti, fanno scendere i viaggiatori, in particolare gli studenti prima di arrivare qui. Questo per me significa perdere la parte più cospicua dei miei potenziali clienti. Bisogna migliorare i servizi – dice – rendere quest’area più accogliente e quindi più sicura, magari con un presidio permanente delle forze dell’ordine».
Quando gli ultimi autobus abbandonano le corsie, restano cumuli di spazzatura, gli ambulanti trascinano la merce verso casa. Si sentono le risate di un gruppo di ragazzi fermi sul muretto con una birra in mano. Il lampeggiante annuncia un nuovo stanco giro di perlustrazione. È tutto a posto. O almeno così sembra.
L’origine del Brunello di Montalcino e del Chianti? Se non è calabrese, poco ci manca. Per ora è solo un’ipotesi. Ma c’è chi ritiene, spiegandolo, che il Sangiovese abbia origini meridionali. Appunto tra il Pollino e lo Stretto.
Manna Crespan, ricercatrice del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria
Le parole delle dottoressa Manna Crespan, ricercatrice del Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria), giorni fa aveva avanzato questa ipotesi. E il parterre è stato il Concours mondial de Bruxelles, ospitato proprio in Calabria. La notizia non è sfuggita ai giornalisti di Repubblica.
Quello della Crespan è uno studio genealogico della vite e dei vitigni. La ricercatrice – si legge sul pezzo di Repubblica.it – cita anche i nomi assunti dal Sangiovese anche in Calabria: Nerello a Savelli (Crotone); Nerello campotu a Motta San Giovanni (Reggio Calabria); Puttanella a Mandatoriccio (Cosenza); Corinto nero a Scalea (Cosenza).
La Crespan poi continua: «In provincia di Arezzo il Sangiovese era conosciuto con l’appellativo di “Calabrese”».
Nessuno probabilmente se n’è accorto ma il bergamotto, che è certamente un prodotto DOP (denominazione di origine protetta), da maggio 2019 è diventato anche DOT, di origine toscana.
Al numero 14 di Rond Point Schuman – nel cuore del quartiere Ue di Bruxelles – si trova l’edificio dove hanno sede molti enti e uffici di rappresentanza delle Regioni italiane. Ed è stata proprio la Regione Toscana a concedere alle associazioni Profumi di Calabria e Calabresi in Europa, la grande sala convegni all’ottavo piano dello stabile. La sala utilizzata per un evento di promozione del bergamotto.
La Regione Calabria a Bruxelles
Eppure la Regione Calabria a Bruxelles ha un suo spazio nello stesso edificio e continua a pagare un consistente canone di locazione per i suoi uffici. Non li usa e non si fa vedere lì da tempo.
Di recente anche I Calabresi ha provato a visitare la sede. Ma chi lavora lì ci ha confermato che quegli spazi sono chiusi e inattivi da diverso tempo. Una vicenda che restituisce il mancato legame della Calabria con il cuore delle istituzioni europee. Una regione che adesso si trova ad affrontare tra mille incertezze la sfida del Pnrr.
Arrivare all’aeroporto di Lamezia è prendere subito confidenza con una certa idea di Calabria: una sorta di anticamera di ciò che attende il viaggiatore, inoltrandosi, dopo il volo, nei diversi territori. Aver attraversato i precari tendoni di plastica, crea l’effetto del viaggio nel provvisorio-permanente: l’ampliamento del nostro aeroporto “internazionale”, per sopperire agli angusti spazi dentro un’aerostazione realizzata ormai oltre cinquant’anni fa, che diventa simbolo del non finito anche in una struttura pubblica! Un luogo sempre malamente rimaneggiato. In cui muovendosi tra i negozi delle eccellenze, dagli orafi, agli editori, ai pasticceri, dichiara il doppio volto della Calabria dei contrasti. Le eccellenze e la precarietà, il chiaro e lo scuro.
L’aeroporto di Lamezia
L’incompiuto, il precario e le eccellenze
Così, nella seconda parte del viaggio, ci rivolgiamo, brevemente, anche al neocommissario al sistema aeroportuale della Calabria, Marco Franchini. Al quale chiediamo se oltre a razionalizzare le priorità trasportistiche, si preoccuperà di dare dignità architettonica a questi incompiuti, irrisolti manufatti: una porta dal cielo, in cui arriva gente da ogni luogo. Proseguiamo dunque, nell’itinerario nella Calabria del buon cibo, dell’accoglienza, dei paesaggi unici e contrastanti, della montagna e del mare, della cultura, dell’arte, della buona impresa, dell’agroalimentare competitivo, di alcune eccellenze nella ricerca.
Fuori dal gregge
Una regione che nel contesto del Sud manifesta interessanti potenzialità, soprattutto in questi anni, con ancora tante risorse, energie, da spendere rispetto ad un Nord affaticato che ha sfruttato ormai molte e più carte da giocare. Una Calabria in cui nel “gregge” ci sono pecorelle che restano nel recinto solito, buone, mansuete, obbedienti ai pastori di turno. Mentre diverse altre iniziano a saltare lo steccato e sono quel “fuori recinto” che fanno la differenza e alle quali guardiamo con ammirazione, curiosità, speranza. Viaggiare tra questi contrasti, che sono fondativi e identitari della Calabria, fare spazio alle luci, nelle ombre, è dare visibilità al cambiamento. Che c’è e fa sempre fatica ad emergere. Ed è attribuire valore culturale, sociale, economico allo sforzo di provare a rendere diversa questa terra, una volta e per tutte.
La Cittadella nel nulla
Dirigendosi verso Catanzaro, a una decina di chilometri dall’aeroporto, intercettiamo la Cittadella regionale e universitaria. È uno dei tanti luoghi del nulla in cui l’esercizio del potere si palesa nella retorica di un insieme di costosissimi edifici amministrativi e universitari. Con il grande Policlinico ospedaliero, ennesimo palazzone fuori scala in un paesaggio di campagna dai suggestivi tratti arcaici.
Il policlinico di Germaneto
L’incubatore di start up
A Caraffa troviamo ad attenderci, fuori da un edificio ex industriale riusato, Gennaro Di Cello. Calabrese vivace, intelligente, generoso, sfugge ad ogni classica, rigida classificazione professionale. Autore di preziose ricerche di design grafico (in alcune delle collane più recenti e originali della Rubbettino, c’è la sua firma), uno dei “dominus” di Entopan, il primo incubatore di startup in Calabria, con un livello di innovazione e reti internazionali, pari a quelle di importanti università, con le quali Entopan dialoga e collabora dalla sua fondazione.
Il progetto dell’hub per l’innovazione che vuole realizzare Entopan
I talenti “coltivati” in casa
Visita allo spazio che odora di “serra” per i talenti calabresi, e non solo, con tante postazioni di lavoro per giovani aspiranti imprese innovative, entusiasmo e visione. In attesa della sede definitiva che, per scelta, sarà un pregevole recupero di un edificio esistente. E tanta speranza di una nuova Calabria che dialoga con il resto del mondo.
Le eccellenze agricole calabresi
Lamezia esiste? Qualcuno ha scritto che è solo cartelli stradali, e poi una serie di centri urbani esplosi, tanti capannoni, un grande sberciato ospedale, il pontile Ex Sir, un lungomare incompiuto e ormai già consunto, cui fanno da contrasto quella estesa parte della Piana del Lametino, ricchissima di produzioni agricole eccellenti con aziende che hanno capacità di competizione ed export internazionali.
La coltivazione di fragole ad Acconia di Curinga
Il marchio della qualità
Qui è nata la candidatura di un forte Distretto del Cibo, che raccoglie anche il Reventino – dove nel capoluogo Soveria operano l’editore Rubbettino, il Lanificio Leo, la Sirianni produttore di arredi per scuole e comunità, aziende soprattutto affermate anche fuori dalla Calabria -, e qui si sta lavorando ad un marchio di originalitàper le migliori produzioni agroalimentari.
L’architettura ardita e le ombre
Verso Catanzaro, la città che si staglia nella sua confusa, articolata morfologia collinare, scorgiamo il bellissimo ponte di Riccardo Morandi, una delle poche ardite architetture viarie di questo geniale progettista, sul cui restauro grava l’ombra di pressioni malavitose, che ci auguriamo non ne pregiudichino la longevità, essendo testimonianza rara di opera d’ingegno. La città capoluogo regionale ha una bellissima passeggiata storica nel centro, ricca di palazzi, di slarghi collettivi accoglienti, chiese di pregio, una interessante offerta museale di arte contemporanea, e una serie edifici modernisti di qualità del geniale architetto Saul Greco, nato a Catanzaro, che ha realizzato opere straordinarie in tutto il mondo.
Il ponte Morandi a Catanzaro
Tra caos urbanistico e rigenerazione
Un godimento tuttavia alterato, qui come altrove, da una infinita quantità di automobili che intasano ogni spazio destinato al pedone. Pregiudicano una vivibilità alta di questi luoghi. E sono l’esito del perenne, banale, lamento dei commercianti, ovvero “che le strade chiuse al traffico non generano vendite”! Nel caos urbanistico della moderna città “esplosa” di Catanzaro, si intravedono la serie di originali opere di Arte Urbana del collettivo “Altrove”, giovani locali attivissimi nella rigenerazione urbana e culturale, e nella parte bassa, verso il mare, il ristorante stellato di Luca Abbruzzino che ha scelto di realizzare l’alta cucina locale, ovvero la tradizione e il contemporaneo in un mix eccellente e di grande gusto!
L’arte al Parco
Superando l’intricato groviglio di viadotti, sovrappassi, ponti che Catanzaro ha realizzato nello scomposto puzzle urbanistico per garantirsi una minima funzionale mobilità, si lambisce il Parco della Biodiversità. Che accoglie opere d’arte di grandi autori contemporanei, tra i quali Antony Gormley, Jan Fabre, Michelangelo Pistoletto. Un luogo che merita una visita apposita. Così come il vicino sito storico, di straordinaria bellezza, in cui queste sculture sono state in un primo tempo installate: la Roccelletta di Borgia.
Il Parco della Biodiversità a Catanzaro
La sfida nell’urna
A Catanzaro si voterà per le Comunali il 12 giugno. Una campagna elettorale vivace, appassionata, vede contrapposti alcuni candidati come Wanda Ferro, Valerio Donato, e Nicola Fiorita. La sfida è aperta e si gioca sull’equilibrio tra continuità di modelli tradizionali e spinte ad un nuovo e vero volto di una politica sensibile ai giovani, agli artigiani, ai servizi, alla qualità dei luoghi, alla rigenerazione urbana, e culturale, affinché sia la volta buona per iniziare dalle città calabresi a voltare pagina e uscire fuori recinto!
Denunce che la Filcams Cgil porta avanti da anni e che ha richiamato, da ultimo, meno di un mese fa nell’iniziativa realizzata a Pizzo dal titolo “Idee e proposte per una terra accogliente ed un lavoro di qualità”.
La cucina di un ristorante italiano
La retorica delle imprese
Sono rimasto colpito, non particolarmente, dal fatto che anche il vostro giornale ha usato il classico schema per denunciare una situazione che viviamo ogni giorno, nella quale proviamo a tutelare e difendere i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori; ispettorato del lavoro che diventa oggetto di accusa (quando dovrebbe essere noto che la riforma dell’ispettorato e le politiche di austerity sulla pubblica amministrazione partono da lontano, qualcuno ricorderà la retorica tutta liberale delle imprese che non decollano perché strozzate dal cappio dei controlli) anche quando gli organici sono stati ridotti all’osso; il sindacato, come sempre, assente. Assente dal racconto che si fa della nostra società, assente dal dibattito politico, nei tavoli istituzionali che contano e dove si fanno le scelte, specie nel settore del Turismo e della ristorazione in Calabria.
Mentre in Cittadella si azzuffano per i gadget
Mentre i vertici della Regione litigano su gadget e marketing, la condizione di chi lavora sta sempre di più peggiorando ed il caso da voi sollevato è solo la punta dell’iceberg di una deregulation che ormai è diventata sistema. Ed in questa condizione il sindacato agisce provando a rappresentare e tutelare lavoratrici e lavoratori con fatica quotidianamente.
Il sindacato non è assente
Si può essere d’accordo o meno con il pensiero delle organizzazioni sindacali, criticarne l’azione ma è ingeneroso affermare che siamo assenti. Nei luoghi di lavoro, troppi pochi ancora, dove le lavoratrici ed i lavoratori scelgono di essere rappresentati dal sindacato il mondo del lavoro è più tutelato e i diritti vengono rispettati, non automaticamente ma attraverso un lavoro faticoso portato avanti spesso in solitudine. Solitudine ed isolamento che le aziende fanno subire ai rappresentanti sindacali, a lavoratori e lavoratrici cioè che con coraggio scelgono di esporsi e di farsi portavoce dei propri colleghi. Sono loro a pagare il prezzo più alto in termini di minacce, ricatti, discredito, umiliazioni continue. Per loro, più che per funzionari e dirigenti come me, chiedo maggiore rispetto ed attenzione anche da parte di chi, come la stampa, svolge una funzione fondamentale per la tenuta della democrazia in questo nostro Paese.
Si corre il rischio di penalizzare i più deboli
Articoli, come il vostro, nel denunciare situazioni di degrado, nella nobile intenzione di tutelare i più deboli, rischiano di penalizzarli maggiormente perché si da l’idea chelavoratori e lavoratori siano abbandonati al proprio destino e siano destinati ad essere soli e senza una possibilità di riscatto; così si fa il gioco di chi sfrutta e agisce violando ogni elementare normativa legislativa e contrattuale. Grave e colpevole sarebbe stata l’assenza di un sindacato chiamato dai lavoratori per essere rappresentati e tutelati; in questo caso nessun contatto, nessun SOS è stato lanciato, se non attraverso la denuncia pubblica.
Politica e istituzioni assenti, non i sindacati
Viviamo in una condizione per la quale, anzi, paradossalmente ed in molti casi, sono i lavoratori stessi che ci chiedono di allontanarci, quando con la nostra iniziativa cerchiamo di avvicinarli e li invitiamo a farsi rappresentare per tutelare i loro diritti e la loro condizione; lo fanno per paura, innanzitutto, più che per sfiducia, perché preoccupati di perdere quel poco che si riesce a portare a casa attraverso il proprio lavoro.
Chi è assente, nonostante le denunce quotidiane che il sindacato continua a lanciare è la Politica, sono le Istituzioni che hanno smesso di occuparsi delle condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori. Basta guardarsi le rassegne stampe e le nostre posizioni nel momento in cui la Regione Calabria, dentro la Pandemia, elargiva ristori, indennizzi e finanziamenti a pioggia senza verificare se quelle imprese rispettassero le leggi e i contratti nazionali.
Fausto Orsomarso, assessore regionale al Turismo (foto Alfonso Bombini)
Orsomarso invita a parlare le aziende, non i sindacati
Quando, come nel caso raccontato dal vostro articolo, un’impresa ruba i soldi ai lavoratori per risparmiare sulle tasse crea un danno non solo al singolo ma all’intera collettività, perché quelle tasse dovrebbero servire a finanziare ed a migliorare i servizi pubblici, le pensioni e i sostegni per chi un lavoro non ce l’ha. Più povero è il lavoro e più povera è la condizione generale della società. Ma di questo pare importi poco a coloro che indirizzano e gestiscono la spesa pubblica, impegnati più a costruire alleanze e consenso. Basti pensare che agli Stati Generali del Turismo (la ristorazione fa parte di questo settore) richiesti fortemente dal sindacato, l’assessore regionale al ramo ha invitato a parlare solo i rappresentanti delle aziende e con questi intende decidere le politiche del settore e la distribuzione delle risorse.
La necessità della denuncia
In questo contesto il sindacato prova ad agire e dice ai lavoratori ed alle lavoratrici di Cosenza e della Calabria, noi ci siamo, incontriamoci. Perché supponiamo sia meno complicato lanciare una denuncia pubblica, a volto coperto e senza esporsi, che costruire le condizioni che permettano a tutti i lavoratori di rapportarsi con la propria impresa a testa alta ed esponendosi in prima persona. Ma se la denuncia deve servire a qualcosa, a cambiare radicalmente cioè, la condizione di chi lavora nel rispetto delle leggi e dei diritti contrattuali conquistati a fatica, grazie al sindacato, la rappresentanza è l’unica via maestra; quella che guida il nostro agire quotidiano dentro e fuori i luoghi di lavoro, affinché situazione di degrado e sfruttamento come quella da voi raccontata non debbano esistere. Noi ci siamo, vogliamo esserci, di questo vi chiedo di tenerne conto.
In primavera si è conclusa a Rende, sotto i capannoni di un’anonima area fieristica, una grande kermesse mondiale del vino, il Concours Mondial de Bruxelles. Erano 310 sommelier professionisti provenienti da 45 nazioni, suddivisi in commissioni, hanno valutato i 7.376 vini internazionali in concorso, di cui 5.083 Rossi e 2.293 Bianchi, provenienti da circa 40 Paesi.
Erano 310 i sommelier impegnati nel Concours Mondial de Bruxelles
Vino di Calabria: la pattuglia al Concours
L’Italia con 1.396 iscritti, dopo la Francia (1.645) e prima della Spagna (1.368). E tra i tanti vini italiani in competizione insieme a regioni habitué del Concorso come Sicilia (202 etichette in gara), Toscana (186), Puglia (185) e Veneto (105), spicca quest’anno la partecipazione della Calabria, terra enoica sin dalle origini ma sinora piuttosto disdetta dai grandi recensori del vino e dai sommelier mondiali, con ben 143 etichette.
Istantanee dal Concours Mondial de Bruxelles a Rende
I “produttori” calabresi hanno risposto con grande entusiasmo portando in concorso 11 DOP e IGP tra cui Calabria IGT (82), Terre di Cosenza DOC (24) e Cirò DOC (18). Il Concorso «consente di offrire un’esperienza concreta e autentica di promozione per il nostro settore vitivinicolo, che vanta certamente un primato, quello di essere la terra delle origini del vino, grazie all’arrivo della vite dall’oriente, 2500 anni fa». Dichiarazioni impegnative dell’assessore all’agricoltura Gallo, tra i promotori insieme alla Regione di questa vetrina del vino mondiale.
Gli influencer e il vino di Occhiuto
I vini calabresi negli ultimi decenni sono davvero cresciuti molto di qualità e di prestigio, soprattutto per merito di enologi e vignaioli di territorio, e intorno ai filari e alle vigne cresce anche la solita retorica sviluppista di politici e influencer del vino. Era inevitabile.
Anche in questa occasione si è parlato molto di “grande occasione di visibilità per la Regione”, di “marketing territoriale”, di “settore strategico”, di “vere e proprie eccellenze calabresi”. Il presidente Occhiuto, pure lui produttore di vino, ha dichiarato che «dopo il successo ottenuto al Vinitaly, dimostreremo anche in questa occasione che abbiamo realtà che non hanno nulla da invidiare al resto del Paese e al resto del mondo. E benvenuti in Calabria, terra accogliente, passionale, autentica».
Il presidente della Regione Roberto Occhiuto
Resta il vino di Calabria dopo la sbornia del Concours
Ora, passata la sbornia retorica dei Concours e delle kermesse enologiche, resta il vino. È utile ricordare che c’è, o almeno c’è stata, un’altra dimensione del vino e della Calabria enoica che fa da contrappeso a una certa vanagloria alla moda dei sommelier e della standardizzazione del gusto in tema di vino. Un mondo sempre più ribaltato sugli interessi dei comunicatori professionali, degli allestitori di fiere, dei compilatori di guide stellate. Apparati economici che, come accade col turismo, fanno business e appaiono sempre più lontani dalla realtà viva della terra, dagli umori di una tradizione, dalla storia e della vicenda concreta di chi vive le vigne.
Troppi ormai gli elementi astratti da un’attenzione antropologica e culturale che incontrava quelli che una volta il vino lo facevano davvero per berlo. I paragoni con l’attualità non reggono.
“Vino al vino”, libro di Mario Soldati
Mario Soldati: la bibbia del buon bere
Chi si ricorda, per esempio, di Mario Soldati? Il suo Vino al vino è una summa, un’opera omnia, documento di una sensibilità e di una intelligenza senza eguali. Soldati ci lascia tre volumi, ciascuno dedicato a un itinerario, usciti il primo nel 1969, il secondo nel 1971 e il terzo nel 1975. Per chiunque scriva di vino e di cibi, di luoghi e di incontri, questo di Soldati resta un sacro testo, una sorta di bibbia laica del mangiare e bere bene andando in giro per l’Italia di provincia. Un modello, ancora oggi, per orientare e correggere non solo stile e scrittura, ma anche l’etica e l’estetica del modus operandi e narrandi di certa gastronomia televisiva alla moda che oggi fa audience.
Il pellegrinaggio alcolico di Soldati
Soldati nelle sue divagazioni ci rimette sulle tracce di ambienti inediti e spesso oramai cancellati dalla geografia contemporanea della nostra regione, un tempo ricca di umori provinciali. Così è la sua Calabria del vino, che fu re-visionata da Soldati negli anni settanta, per misurarne lo stacco dei tempi nuovi dopo il tramonto della stagione esotica degli scrittori stranieri del Grand Tour. Soldati se la gustò con i sensi e lo sguardo di un narratore di dettagli, un sapido poeta del quotidiano e delle piccole cose. Un pellegrinaggio fatto in nome della cultura materiale e per il gusto di compiacere la propria vitale golosità, piuttosto che per un’esigenza di marketing turistico.
Lo scrittore Mario Soldati
Soldati di sé diceva che viaggiava soprattutto per andare da un vino. Amava doppiamente il vino. Come alimento e sostanza dal corpo vitale, come essenza aleatoria e spirituale. Il vino come la vita «è fatto per dare piacere consumandosi». A dispetto della angusta gamma descrittiva di qualità organolettiche e compilazioni tecniche ostentata invece dai degustatori professionali di vini oggi tanto venerati dai media. «Non sono un tastevin, non sono un professionista dell’assaggio».
Sputare sentenze e sputare vino
Chi fa l’assaggiatore di mestiere, chi assaggia vino, sputa sentenze con la stessa facilità con cui sputa il vino (e lo deve sputare se non vuole rapidamente ammalarsi). Ma un dilettante come me non può e non è giusto che possa, e deve dunque affrontare impavidamente il rischio di una malattia». Per Soldati, il vino è individuo. Esattamente come gli uomini, il vino per Soldati è «immisurabile, inanalizzabile se non entro certi limiti, variabile per un’infinità di motivi, effimero, ineffabile, misterioso». Altro che disciplinari e bilancini per le Docg.
Perciò, anzitempo, non sopporta la globalizzazione, la sofisticazione, la genericità del gusto medio, le descrizioni standard. Il vino è da capire e bere, dunque, solo se si va a farselo amico direttamente sul posto. Altro che accontentarsi dei ridicoli referti televisivi da rubrica enologica dei sommelier alla moda: «Come si può descrivere il sapore del vino? Le parole non bastano mai, si articolano al massimo su una ventina di aggettivi, sempre la stessa musica».
Cos’è il vino di Calabria? Le persone che lo fanno
Insomma banalizzarne il carattere è prima che un imbroglio mediatico, un delitto estetico, materiale e morale. E proprio in Calabria, alle prese con la difficoltà a raffigurare a parole la complessità di sensazioni accese dal «gusto concreto del Britto», con la scoperta di un «nuovo» vino Soldati saprà aggiungere una pagina memorabile alla sua fede filosofica e antropologica nel vino. Descrizione e degustazione contano davvero molto poco. Il vino è per sua essenza singolare, un prodotto dell’umanità affabile e fuori mercato. Un dono. Il gusto di un vino per Soldati «significa qualcosa solo in rapporto alla persona che lo beve», e aggiunge che il gusto di ogni vino è imprendibile. Il vino, come gli uomini, «ha sempre qualcosa di astratto».
Cos’è il vino per lo scrittore Mario Soldati? Le persone che lo fanno
A Soldati del vino interessano perciò le persone che lo fanno e, allo stesso modo, pure dei cibi coloro che li cucinano. Con inarrivabile curiosità, arguzia e ironia, una straordinaria capacità descrittiva di uomini e situazioni, Soldati nel 1975 ci raccontava anche nei suoi passi calabresi una tradizione della cucina e dei vini in un Sud del lavoro contadino ancora vivacissimo. Oggi lontanissimo, anzi irrimediabilmente perduto, perché quei paesaggi e personaggi, quelle cucine e quei prodotti non esistono più.
Ruffiane guide enogastronomiche
Oggi quella tradizione locale del buon gusto, ingenua per certi versi, ma profondamente vera e sana, popolata da campagnoli e galantuomini per i quali produrre vino genuino era innanzitutto un imperativo morale, è stata sostituita anche da noi da un mondo variopinto e fatuo, popolato da scaffali pieni di etichette, da cloni locali degli enologi e dei gourmet televisivi, sedicenti esperti, winemakers e redattori di patinatissime e ruffiane guide enogastronomiche. Libertà anarchica dalle mode e autonomia dal mercato. Questo predicava già allora Soldati, scrittore del desiderio, ghiottone e bevitore omerico.
Soldati che ama poeticamente «violenza e resistenza» di una Calabria ancora «isolata e anarchica», «scontrosa e ribelle», percorre per intero la regione evitando cantine di produttori industriali ed etichette griffate, schiva ogni pubblicità e predilige la scoperta e la varietà, l’unicità della specialità domestica da apprezzare affidandosi all’ospitalità «nella religiosa compagnia di pochi amici» calabresi che lo accompagnano in una memorabile serie di tappe locali del suo viaggio che divaga alla ricerca della tradizione enologica e degli umori più genuini della Calabria rurale di allora. La sua ricerca fa appena in tempo a cogliere anche da noi gli ultimi veri sapori autarchici.
La bottiglia di Savuto regalata da Mancini a Soldati
Come per la piccante – e ancora minoritaria – «Sardella di Crucoli», da Soldati mangiata a cucchiaiate «usando una sfoglia di cipolla dietro l’altra». C’è la scoperta della valle del Savuto, con la sua antica tradizione enologica. Istradato al Savuto da una memorabile bottiglia regalatagli dall’amico Giacomo Mancini, Soldati fu a Rogliano alla ricerca degli umori più genuini e meglio custoditi della vecchia Calabria rurale. La valle più alta del fiume Savuto tra le colline di Marzi e Rogliano, non ancora attraversata dalle autostrade, era zona di produzione tipica del Savuto, il vino che«sta a Cosenza come il Barolo sta a Cuneo».
Giacomo Mancini regalò una bottiglia di Savuto allo scrittore Mario Soldati
Il vino del prete di Rogliano
Qui lo scrittore ha la ventura di assaporare questo vino locale in una particolarità mitica, il «Succo di pietra» dei Piro. Un nettare di Savuto purissimo prodotto dalla famiglia di Francesco Piro e dalle sue «cechoviane sorelle» di cui, a Rogliano, Soldati fu ospite. Poi è la volta di un’altra grandiosa rivelazione enologica. Mentore Don Alberto Monti, «l’immagine nera e allungata del parroco di Rogliano». Il prete che in un’apparizione quasi mefistofelica, in un buio da cripta gli si fa incontro per proporgli un indimenticabile assaggio. Ecco allora che dalla sua «tonaca miracolosa» spuntano due magiche bottiglie senza etichetta: «Savuto è solo il Britto», sentenzia solennemente il prete di Rogliano. E il «Britto», che in dialetto locale «vuol dire bruciato», è l’alchimia suprema del Savuto, con l’incanto superbo di un colore «rosso rame».
Il prete del Britto, don Alberto Monti
Un vino sublimato dal «gusto concreto», che il buon Soldati dichiara «diverso» da tutti gli altri, misterioso e ineffabile, un elisir di lunga vita insieme «giovane e maturo». Il Britto è davvero la varietà di Savuto più fine, ottenuto da un mélange misterioso e ben calibrato di ben sette, anzi, forse, nove-dieci vitigni autoctoni di antichissima origine.
Soldati lo acclama estasiato dalle sue «liquide trasparenze», quasi fosse «il fondo oro-rame di un’icona infernale» che racchiude nel suo mistero etereo il fascino più autentico di una tradizione millenaria, simbolo sopravvivente di un territorio aspro e ricco di storia.
L’umile vino Donnici di Piane Crati
Anche se a ben vedere l’emblema enologico e antropologico di quella Calabria del vino ancora orgogliosamente domestica e antituristica, autarchica e retrò, festeggiata con entusiasmo sovversivo da Soldati, si esprime piuttosto in una bottiglia dell’umile Donnici di Piane Crati «che l’indipendente stradino Eugenio Bonelli pigiò l’anno scorso nella modesta ma onesta cantina dove noi adesso lo beviamo». Con lo stesso spirito Soldati torna anche miticamente a rivisitare altri vini-emblema della Calabria enologica, come il Greco, il «succulento Mantonico», il Pellaro, e infine, giunto nell’enoica e magnogreca terra crotonese, passa in esame il celebre Cirò dal «guizzo vivo e pungente».
Il Cirò Megonio Librandi, fresco vincitore del titolo di Miglior vino d’Italia
A Cirò Soldati fa ragionamenti preveggenti sul futuro del vino nelle società tecnologiche. Di fronte ad un Gaglioppo o Magliocco delle vigne del leggendario marchese cirotano Susanna è spinto a fantasticare pensando che il «sapore che un certo vino ha oggi mentre è giovane sarà vanificato: il mistero del vino di un tempo sarà svelato soltanto il giorno in cui qualcuno inventerà il computer organolettico, capace non di archiviare i componenti chimici del vino, ma di descrivere il suo gusto e il suo profumo, e, soprattutto, di riprodurlo fornendone campioni anche a distanza di secoli. Allora, forse, tutto sarà senza inganni, come nell’Età dell’Oro». Si parla di vino, ma con uno stile che fa già contenuto. «L’assoluta leggerezza della scrittura di Soldati – sono parole di Pier Paolo Pasolini – significa fraternità».
Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini
L’apocalisse modernista dopo il Boom
Ma anche sul paesaggio Soldati, progressista-conservatore, ha le idee chiare e ragiona da esteta. Della foga edilizia dell’Italietta immemore e caotica che fa spazio all’eclettismo nella bengodi del Boom, scrive: «Ci pare di veder sorgere, sull’immemoriale ragnatela di questi vicoli, la peggiore delle profanazioni, l’abominio di case nuove costruite arieggiando all’antico: con falsi mattoni, false terracotte, false ceramiche falsi ferri battuti: polite hostarie, palazzotti residenziali per i ricchi, e magari nights gotici o rinascimentali. L’unica soluzione, forse sarebbe quella, semplice e poetica, ove l’area del bombardamento, ripulita dalle macerie più trite, e coltivata in un disordine naturale ma non eccessivo di fiori, cespugli ed erbe, circonda i ruderi del del campanile, che si levano così, con la loro grazia, magra e schietta: un’oasi di contemplazione, un monumento di doppia memoria per i cittadini del presente e dell’avvenire, facilmente e pericolosamente dimentichi di tutto il passato».
A Soldati il tempo ha regalato almeno la fortuna di non vedere realizzata ovunque, in Calabria e in Italia, «la peggiore delle profanazioni» che paventava: la perdita della memoria, il gusto che si smorza e si abbassa al falso per assaggiare piacevolmente il peggio. In vino veritas.
Sapete perché sulle porte delle cucine dei ristoranti c’è scritto “vietato entrare”? Perché non ne uscireste vivi.
Dietro quella soglia c’è un mondo capace di evocare spettri da rivoluzione industriale: lavoratori frenetici, impegnati nel muoversi provando ad ostacolarsi il meno possibile; comandi che si sovrappongono con furia quasi ci si trovasse nella fase cruciale di una battaglia, tra nuvole di vapore e fumi; pentole che bollono; mestoli appesi e piatti da riempire; griglie roventi e la fatica di uomini e donne quasi come dentro una trincea.
Venti euro a turno di lavoro, spesso in nero, con durata dei turni parecchio flessibile. Quando invece c’è un contratto, le tutele si smarriscono dentro prassi consolidate, ben note e tuttavia taciute. Ferie che risultano in busta paga ma non sono godute, inesistenti assenze ingiustificate conteggiate per riequilibrare il divario tra le somme dovute da contratto e quelle realmente pagate, importi relativi a periodi di malattia versati dall’ente di previdenza e incredibilmente trattenuti dal datore di lavoro.
Escludendo qualche studentessa impegnata nel fare la cameriera per racimolare un po’ di denaro, la maggior parte delle persone che sta dentro questo girone infernale è prevalentemente fragile sul piano culturale, scarsamente scolarizzata. E, dunque, meno consapevole dei propri diritti, poco incline a rivendicarli. Facili prede per quanti volessero massimizzare i loro profitti sulla carne viva dei lavoratori.
La brandina nel retrobottega
Angela ha poco più di vent’anni, è minuta e sembra più piccola, ma ha già una bambina e molto bisogno di lavorare. Per questo accetta di buon grado di fare spesso il doppio turno, lavorando mattina e sera in uno dei ristoranti di Cosenza. Purtroppo abita lontano da Cosenza e non potrebbe fare in tempo ad andare a casa e tornare tra la fine di un turno e l’inizio del successivo, quindi ha messo una brandina sul retro del locale. Lì si sdraia per poco meno di un’ora, si leva le scarpe e prova a chiudere gli occhi, mentre i suoi colleghi poco distanti lavorano.
Ristoranti a Cosenza: l’orata sfuggita dal congelatore
Una mattina cuochi e lavapiatti entrarono nella cucina di un noto ristorante della città per cominciare la loro giornata di lavoro e trovarono sul pavimento un’orata. La scena dovette sembrare vagamente surreale: un pesce, pure bello grosso, sul pavimento. Era evidentemente caduto la sera prima, mentre qualcuno aveva preso qualcosa dal congelatore. Il pesce era lì da tutta la notte, doveva essere buttato, con sommo disappunto del proprietario del ristorante che aveva tuonato: «Qualcuno questa orata la deve pagare!». E infatti qualcuno la pagò, trovandosi una cospicua trattenuta in busta paga.
Se le buste paga potessero parlare
Giovanni non ha molta dimestichezza con le buste paga, lo sguardo va dritto alla somma che sta alla fine della pagina e quello gli basta. Una volta però scorrendo i dettagli scopre che ha fatto quattro giorni di assenza non giustificati dal lavoro. Lui è uno che invece non si assenta mai e trova il coraggio di chiedere spiegazioni al datore di lavoro.
«Non ti preoccupare – spiega l’imprenditore con voce rassicurante – è solo per una questione di tasse». In realtà anche alcune buste paga di altri colleghi riportano ogni tanto la stessa voce in sottrazione di somme di denaro per assenze mai avvenute e la ragione è legata alla necessità di far avvicinare lo stipendio reale a quello veramente accreditato secondo contratto.
Restate a casa: cuciniamo noi
Durante il lockdown molte realtà della ristorazione hanno affrontato la crisi dei locali vuoti ripiegando sull’asporto. Meno clienti, ovviamente, ma era un modo per non fare morire l’impresa. A soffrirne sono stati i lavoratori, che a turno sono stati impiegati nelle cucine, come Fiorella e gli altri che ufficialmente erano in cassa integrazione, ma la trincea di pentole e fornelli non l’hanno mai potuta lasciare. «Eravamo ogni giorno al lavoro, non tutti assieme perché non c’era bisogno di tanta gente contemporaneamente, ma a rotazione. Saremmo dovuti stare a casa, e invece eravamo al lavoro»
I grandi assenti
In queste storie ci sono alcuni grandi assenti: i diritti e la loro consapevolezza, l’Ispettorato del lavoro, che magari qualche ispezione potrebbe pure farla, il sindacato. Il protagonista incontrastato è il bisogno che attanaglia un numero sempre maggiore di persone, piegandole a condizioni che facilmente possono essere considerate inaccettabili. Ma anche la retorica di quanti con sufficienza affermano che «la gente non vuole lavorare».
Quando state in un ristorante e lo sguardo vi va verso l’ingresso delle cucine, rivolgetelo subito altrove: “Non aprite quella porta” potrebbe non essere solo il titolo di un vecchio film dell’orrore.
Ci sono giganti e fragole a Curinga, borgo calabrese che sembra un quadro di Van Gogh. Il personaggio illustre del paese vive da mille anni in località Corda. È il platano orientale, patrimonio italiano, medaglia d’argento al contest 2021 “European Tree of the Year”. Un monumento verde, probabilmente piantato dagli stessi monaci basiliani che qui fondarono l’eremo di Sant’Elia.
Il platano millenario di Curinga
Fragole e tramonti
Puoi entrarci dentro e cantare, ballare, riposare. L’apertura a grotta è larga tre metri e dell’altezza del gigante si narra da anni. Venti, venticinque, trenta metri.
Le piante di fragole sono milioni, in questo pezzo di Tirreno dell’istmo catanzarese che adesso si chiama Riviera dei tramonti. Negli anni Ottanta e fino a una decina di anni fa era un vero paradiso. Oggi servirebbe una varietà locale che ancora non esiste, ma iniziano a nascere campi di sperimentazione per crearla.
Pino Galati, presidente della Cooperativa Torrevecchia
“Sabrina”, la fragola capricciosa
La “Sabrina” è il tipo di fragola che ha attecchito. Capricciosa e gentile, ostinata e fragile come il cristallo. Non a caso ha un nome di donna. I filari traboccano di frutti rossi e sodi al punto giusto. La raccolta è una corsa contro il tempo: domani mattina dovranno essere sui banchi dei mercati, la loro perfezione è fugace ed entro tre giorni sfumerà. È questa la condanna, una specie di sortilegio per compensare tanta bellezza.
«Lo senti il profumo? È così forte che si può raggiungere un campo di fragole anche ad occhi chiusi». Dopo quarant’anni con le mani nella terra, Pino Galati si muove nelle piantagioni come fosse a casa sua. Dal 2010 è il presidente della Cooperativa Torrevecchia che, nata nel 1978, tiene insieme alcuni fragolicoltori della piana di Lamezia Terme.
Nove piccole aziende, tra Curinga e Pizzo, che, in totale, fanno numeri di tutto rispetto: una produzione annua di 10mila quintali, di cui solo il 30 per cento destinate al mercato calabrese. Il restante 70 per cento va nelle altre regioni italiane. «Il nostro è un territorio storicamente vocato a questo tipo di coltivazione – spiega Galati, 61 anni, – fin dagli anni Ottanta era una coltura leader, qui si produceva un frutto di una qualità molto al di sopra degli standard. Oggi, è inutile negarlo, le cose non vanno più tanto bene».
Acconìa, il posto delle fragole
Acconìa, frazione marina di Curinga, è il posto delle fragole. Rischia di perdere il suo primato e le ragioni sono due: la mancanza di manodopera e la genetica. «Abbiamo coltivato per tanto tempo una varietà di provenienza Californiana, la Cammarosa – continua Galati, – oggi sostituita dalla Sabrina, proveniente dalla Spagna. In questo passaggio, dettato dalle leggi del mercato, abbiamo perso alcune delle caratteristiche che facevano delle nostre fragole un frutto inimitabile altrove». L’obiettivo è tornare a produrre un prodotto peculiare. «L’Università di Forlì sta lavorando alla creazione una varietà autoctona che sia specifica della zona di Curinga. Siamo in una fase sperimentale che sta dando ottimi risultati».
Sapore, colorazione, tenuta e consistenza sono i parametri con cui si misura la qualità. «Basta guardarsi intorno per capire che noi coltivatori continuiamo a dare l’anima per portare sui banchi dell’ortofrutta un prodotto eccellente, ma il futuro non è roseo». La preoccupazione maggiore riguarda la manodopera. È diventato sempre più difficile reperire raccoglitori, nonostante le tutele del contratto.
I lunghi filari di piante di fragole a Curinga
Un’azienda leader, che lavora in solitaria, non associata alla cooperativa è la Vito Galati, cognome molto diffuso nel Lametino. Al contrario delle altre, vende in Calabria il 70 per cento della sua produzione, mentre il 30 per cento parte per l’Emilia Romagna, la Lombardia e, a sud, per la Sicilia. Si possono trovare le “sabrine” dai fruttivendoli di nicchia, quelli che hanno anche l’annona di Reggio Calabria, le merendelle del catanzarese e i pomodori di Belmonte, nella grande distribuzione, nei mercati. Maggio è il mese più felice nel posto delle fragole, il periodo della fase fenologica, quella della piena vitalità.
Tommaso Galati, ingegnere informatico tornato da Firenze per lavorare nell’azienda di famiglia
«Impossibile non avere problemi con la ‘ndrangheta»
Tommaso Galati, 31 anni, figlio di Vito, 56, è un ingegnere informatico che da Firenze è rientrato nel villaggio agricolo di Acconìa, per lavorare nell’azienda di famiglia, accanto al padre, agli zii.
«È un lavoro faticoso ma molto dinamico. Bello perché significa stare a contatto con la natura». Tra i filari, mostra le “crude”, le mature, le colture fuori suolo, la tecnologia a basso impatto ambientale. «Purtroppo non sempre si viene ripagati dei sacrifici fatti, è il motivo per cui i più giovani non si dedicano alle attività agricole». Anche suo cugino Dario, stessa età, lavora in un’altra azienda, sempre di forte tradizione familiare. Spesso discutono di tecniche, futuro della produzione, export e trasporti che non aiutano, distese ariose e cappe irrespirabili in territori dove «è impossibile non avere problemi a causa della presenza della ‘ndrangheta».
Mancano le reti di impresa in Calabria
Il platano è a un quarto d’ora di macchina da Acconia, più su, in collina. Qualche anno fa è arrivato a Curinga un famoso “cacciatore” di alberi rari, Andrea Maroè, per misurarlo in arrampicata. Trentuno metri. Nella sua grotta sono entrate, comode, dieci persone. I cugini di Acconìa entrano nella piantagione e tornano con le fragole più belle in mano. «È il frutto dei diabetici, è dolce eppure il contenuto di zuccheri è modesto, ricco di vitamine e di fibre. E’ un buon alimento anche per le donne in attesa, perché ricco di acido folico».
Nei magazzini gli operai stanno confezionando la merce in partenza.
«Ogni stagione produttiva è un’incognita, possono sorgere tanti problemi, a iniziare dalle conseguenze degli eventi climatici. Altrimenti quello dell’agricoltore sarebbe il mestiere più redditizio del mondo», dice Francesco, 54 anni, zio di Tommaso. E’ appoggiato a un grosso contenitore colmo di pomodori profumati e bitorzoluti. Accanto ce n’è un altro pieno di ortaggi vari. Tutta merce destinata al macero, «invendibile». Per combattere tanto spreco ci vorrebbero segmenti di lavorazione agroalimentare, accanto alla produzione. «Nei distretti produttivi calabresi manca la rete d’impresa. Questo è uno dei problemi più grossi».
Raccoglitrici di fragole a Curinga
I giovani non vogliono raccogliere fragole
Le raccoglitrici portano copricapo colorati e cappelli di paglia. Staccano le fragole una per volta. «La manodopera specializzata è ormai un miraggio – spiega il presidente della cooperativa Torrevecchia. – I vecchi raccoglitori stanno progressivamente andando in pensione e le nuove generazioni non vogliono fare questo lavoro, come se ci fosse una vera e propria repulsione. Eppure la paga, rispetto ad altri settori, non è affatto male». Attualmente sono impegnate nei campi duemila persone ma ne servirebbero molti altri. Sono nella maggior parte donne, si muovono tra i filari con i carrelli, su cui adagiano con grazia i frutti. E intanto ridono, raccontano, si scambiano confidenze sotto il sole di maggio che è ancora clemente.
Una parte del centro storico di Curinga
Fragole, giganti e resti archeologici
«Chiudiamo l’annata con oltre mezzo milione di piante. Ognuna produce fino a un chilo di frutti», spiega Tommaso. L’azienda Vito Galati pratica la coltura tradizionale nel terreno. La metà delle piantine invece compie il suo ciclo vitale nel “fuori suolo”, cioè su strutture alte, ben irrigate. «Tutta acqua che recuperiamo e riutilizziamo, con un notevole risparmio idrico. Ciò significa non disperdere nulla nel terreno. Compreso i concimi e le poche sostanze chimiche che usiamo, con giuste quantità e modalità».
Anche perché ucciderebbero sia i parassiti, sia gli insetti antagonisti, cioè i predatori introdotti tra le colture. L’orius laevigatus divora i tripidi e i fitoseidi mangiano i ragnetti rossi. È un metodo efficace per evitare i pesticidi. Le api ronzano intorno. A loro tocca l’impollinazione, in questa storia di fragole, giganti e resti archeologici. C’è la torre di vedetta di località Mezza praia, che dà il nome della cooperativa e c’è un sito archeologico di pregio, con i resti di antiche terme romane. Il platano veglia. Sulle fragole, sulla costa dei Feaci, sulle raccoglitrici e sulla battaglia degli insetti. Combattuta tra i parassiti e i piccoli predatori che ogni anno salvano distese di fragole.
I resti delle terme romane a Curinga
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