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  • Alici, amore e caro gasolio: il mare dentro i pescatori di San Lucido

    Alici, amore e caro gasolio: il mare dentro i pescatori di San Lucido

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    A San Lucido i pescatori under 30 hanno mangiato pastina e acqua salata da piccoli, hanno deciso che da grandi avrebbero fatto questo lavoro già alle prime uscite in mare con i nonni e con i papà. Oggi salgono sui pescherecci di notte come navigatori fenici. Non è un mestiere semplice. I rischi sono diversi. E adesso che il gasolio è aumentato, per una battuta di pesca bisogna fare i conti fino all’ultimo centesimo. Una notte in mare costa almeno 400 euro soltanto di carburante. Bisogna tornare con un bel carico per non perderci.

    Riposa in pace capitano Mazza, tra i primi morti per Covid

    Nel minuscolo porto della terrazza sul mare, così è chiamato il paese del basso Tirreno cosentino, per decenni il San Giovanni e la Nuova speranza sono usciti e rientrati con al timone il capitano Gianni Mazza. Era il più autorevole dei pescatori ed è stato una delle prime vittime di covid in Calabria, morto nel marzo del 2020 a 75 anni. Anche i colleghi del Nord Italia lo hanno ricordato tributandogli manifesti e saluti tra le onde.
    Le barche di famiglia sono accompagnate dal suo volto, formato poster, sulla plancia. Suo nipote ha 20 anni, porta orgogliosamente lo stesso nome, fa lo stesso mestiere. «La prima volta mio padre Andrea, che ha 45 anni, mi ha portato in mare con la pastina a tre anni e mezzo. Siamo una famiglia di pescatori. Io i miei due fratelli, uno di sedici anni e l’altro quasi quindici, mio padre, due zii e quattro cugini».

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    Gianni Mazza, pescatore esperto di San Lucido morto a 75 anni dopo aver contratto il Covid

    A un passo dalla laurea, poi ha scelto il mare

    È sabato mattina. Nel porto di San Lucido l’acqua brilla, una famiglia di papere scivola sul mare, mentre sui pescherecci si srotolano le reti per riparare il tremaglio. Un’arte che solo i pescatori conoscono, che apprendono senza bisogno di teoria, osservando i più anziani. Con gli occhi fissi sulle trame e le mani che si muovono veloci, è questo il momento della condivisione, dei racconti e degli aneddoti che viaggiano da una barca all’altra.
    Francesco Maria Tonnera, 27 anni, è qui da prima dell’alba. Lui e il suo equipaggio sarebbero dovuti uscire presto per la pesca, ma hanno rimandato a causa del vento. «Un giorno, avrò avuto otto anni – racconta, – ho detto a mia madre: io continuerò a studiare, però tu mi devi fare andare in mare. Trascorrevo la notte sul peschereccio, tornavo alle cinque del mattino, facevo una doccia, mi mettevo il grembiule e andavo a scuola».

    Quella di Francesco Tonnera (un destino già scritto nel cognome), è la terza generazione di una famiglia di pescatori. La promessa fatta a sua madre – purtroppo scomparsa due anni fa – l’ha mantenuta: con i buoni voti ha sempre meritato borse di studio, si è diplomato ed era a un passo dalla laurea in Giurisprudenza e da una vita completamente diversa da quella dei suoi. «Ero stato selezionato per un colloquio per un posto in banca a Milano, ma non me la sono sentita: una vita in giacca e cravatta non fa per me, ho scelto la libertà». La libertà è la pace e la poesia delle notti sulla barca sotto un cielo stellato. «Non so descriverla, è una sensazione unica».

    Francesco Tonnera (con il cappuccio) è un giovane pescatore di San Lucido

    Il pescatore 4.0 di San Lucido su Tik Tok

    Ne è passato di tempo da quando si buttavano le rizze a mare e poi si vendevano i pesci sul molo del porto facendo a gara a chi urlava più forte. Francesco non ha l’aspetto del lupo di mare, è piuttosto un pescatore 4.0: da una parte la tradizione, la sapienza e i riti che si tramandano; dall’altra le innovazioni, per esempio le telecamere a bordo per filmare il pescato e un uso efficace dei social. Basta digitare il suo nome e su Tik Tok è un trionfo di seppie e polipi e altri pesci ancora nella rete ma pronti ad arrivare sulle tavole dei clienti che possono ordinare on line.
    A San Lucido i giovani scelgono ancora di fare questo lavoro duro ma soprattutto usurante perché l’umidità e la fatica alla lunga compromettono la salute. A muovere tutto è la passione, ma le difficoltà sono tante.

    Peschereccio nel porticciolo di San Lucido

    Concorrenza sleale

    «Le leggi europee stanno ammazzando il nostro lavoro – dice Tonnera – viviamo con il terrore delle sanzioni, con la costante incognita dei controlli dei militari della Capitaneria che salgono a bordo a controllare il pescato, ma si fa troppo poco invece per arginare la concorrenza del pesce che arriva da altri paesi», il malepesce lo chiamano.
    «La nostra famiglia ha perso tre pescherecci, uno più bello dell’altro», interviene il padre Tullio, 57 anni, cinquanta anni di lavoro, due figli, entrambi pescatori. «La Michelangelo, 18 metri, è stata affondata nel porto di Vibo per pesca illegale del pesce spada. Un altro è finito bruciato. Là – indica la strada – è ferma la Mariella, 14 metri di peschereccio, sequestrata per disastro ambientale, poi ce l’hanno ridata ma a questo punto non è più utilizzabile».

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    Peschereccio rientrato dalla battuta di pesca a San Lucido

    Pesce azzurro e delfini che t’inseguono

    È tanta la voglia di mollare ma alla fine vince il richiamo del mare. Di notte, lontano dalle coste, si capisce quanto inquinamento di luci trasfigurino il cielo. Sul mare quelle delle stelle sono abbaglianti, dicono i giovani pescatori.
    Poi, con le reti in acqua, tutto può succedere. Perché laggiù è un turbinio di pesci che si muove sotto la barca. «È in quei momenti che capisci che dovrai agire col pugno fermo e i nervi saldi, perché ogni tua decisione avrà una conseguenza», dice Francesco Tonnera. E l’obiettivo è rientrare nel porto, quando il sole è già sorto, con un bottino ricco. «Con quello che costa il gasolio, se qualcosa va storto il danno sarà enorme».
    Il mare di San Lucido è uno scrigno di pesce azzurro: alici, sarde, sgombri soprattutto. E il Tirreno regala spettacoli improvvisi di delfini che inseguono il peschereccio o che giocano intorno alle barche ferme, di notte. «Ce ne sono tantissimi, noi pescatori sappiamo quanto possano essere addirittura “infestanti”, perché nel loro periodo di transito spesso danneggiano le reti e le imbarcazioni».

    La maledizione delle tartarughe

    E nonostante l’esperienza, lo stupore è sempre grande davanti alle tartarughe – «tante, enormi, meravigliose», dice Tonnera – che si incontrano lungo il cammino. «Specialmente di notte capita di avvistarle in acqua, stanche, affaticate. Quando possiamo le teniamo un po’ a bordo per farle riprendere e poi le rimettiamo in mare». Guai a far loro del male e non solo perché le sanzioni in caso di controlli della Capitaneria sarebbero altissime, ma soprattutto perché secondo una credenza popolare, «le tartarughe bestemmiano», quando sono in pericolo o vengono catturate emettono dei suoni cupi e quella è una maledizione che colpirà chi le uccide.

    Francesco Tonnera porta i segni del morso di uno squalo azzurro: 75 punti

     

    Azzannato dallo squalo azzurro

    Hai mai avuto paura? La domanda è rivolta a Francesco, ma risponde suo padre Tullio: «Paura unn’avi mai». Francesco ha il suo trofeo, mostra una enorme cicatrice sul polpaccio, è il morso di una verdesca, lo squalo azzurro. «Era finita nella rete e dovevamo smagliarla per poi farle riprendere il largo. Io e mio padre abbiamo dovuto tirarla a bordo, è un pesce molto mobile con una torsione rapidissima: uno scatto e mi ha azzannato alla gamba, il risultato è questo, hanno dovuto mettermi 75 punti di sutura».

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    La statua di Cilla a San Lucido, che perse marito e figli in mare

    La donna che perse marito e figli in mare

    Sulla gente marinara di San Lucido veglia Cilla, la moglie e madre ormai leggendaria che ha perso i suoi uomini in mare. È ritratta da una scultura di Salvatore Plastina che sembra una donna in carne e ossa affacciata sul belvedere. I sanlucidani raccontano che nelle notti di mare grosso la sentono lamentarsi.
    Ha pianto lo scorso venti agosto. Gianni Mazza, il giovane pescatore di razza, era al largo di Belmonte insieme con l’equipaggio della Nuova speranza e «all’improvviso ci siamo trovati davanti una tromba marina, con onde alte fino a tre metri. È stato un momento veramente difficile. Ma siamo riuscito a tornare nel porto. Mio nonno ci ha insegnato a capire il mare. Lui, diceva non vuole caputoste, non si può sempre sfidare, altrimenti soccombi».

    Il grande squalo bianco

    Gianni Mazza è stato il capitano di tante imprese. Nel lontano 1978 prese lo squalo bianco, la creatura più temuta dai bagnanti, che rare volte si è vista nei mari calabresi.
    Lui e la sua famiglia sono i protagonisti del documentario dell’antropologo Giovanni Sole “Pescatori d’argento. Alici e lampare in Calabria”.

    È anche nelle notti calme e silenziose che possono accadere cose starne. «Una volta eravamo a motore spento con le reti calate – racconta Francesco Tonnera – c’era una pace assoluta e soltanto la luce delle stelle. Ero a prua, quando all’improvviso ho visto sollevarsi l’acqua per una lunghezza di circa dieci metri, come se ci fosse un pesce in superficie. Ho seguito l’enorme sagoma che lentamente si muoveva di fianco alla barca a filo d’acqua. Sono certo che si trattasse di un enorme capodoglio».

  • Le tonnare perdute di Calabria. Mille anni di storia cancellati

    Le tonnare perdute di Calabria. Mille anni di storia cancellati

    Vittorio de Seta li chiamò «i contadini del mare». Il campo che coltivavano, con cura e sudore uguali a quelli che gli agricoltori riversano sulla terra, erano le acque del Golfo di Sant’Eufemia, da Pizzo a Tropea. Nelle loro fatiche, nei gesti, nel codice con cui comunicavano, perfino nei loro canti e nei soprannomi che si affibbiavano, c’era una cultura millenaria. Quella dei tonnaroti, oggi quasi del tutto perduta, materialmente abbattuta dal tempo e dalla noncuranza che, come l’acqua di mare, erode ogni cosa.

    L’isola di reti

    Eppure l’uso delle tonnare in Calabria, un ingegnoso sistema di pesca fissa e passiva, è stato praticato fino agli anni ’60 solo sul Tirreno vibonese. Il tonno rosso si pescava attraverso un articolato sbarramento di reti abilmente piazzate e divise in “isole” e “camere”. Una trappola intricata che attirava i tonni durante la loro migrazione. Rappresentava una sorta di prolungamento marino della terraferma. Una «territorializzazione del mare», diceva sempre de Seta. Poi c’erano gli edifici stabili costruiti quasi a riva in cui avveniva il deposito, la lavorazione, il ricovero dei barconi. Tutto ciò era pratica comune solo in Sicilia. Però lì i tonni arrivavano già stanchi e sfibrati, nella baia di Vibo invece erano più “freschi”. E si avvicinavano, cosa che oggi non accade più, fino a due miglia dalla costa.

    Le antiche tonnare (dal sito callipo.com)

    Tonnare in Calabria: un’economia fiorente

    Le tonnare in Calabria, di mare e di terra, hanno così dato da vivere a moltissime famiglie di Pizzo, Vibo Marina, Bivona e Portosalvo (le tre “Marinate” vibonesi), Briatico e Parghelia (alle porte di Tropea). Rappresentavano un settore importantissimo dell’economia locale, tanto che le antiche famiglie nobiliari che le possedevano le proteggevano sorvegliandole attraverso torri o addirittura castelli.

    L’indotto verso i monti

    C’è anche un altro aspetto, tutt’altro che secondario, da ricordare. Le tonnare dei paesi costieri erano inserite in dei microcircuiti economici che comprendevano anche i territori di collina e di montagna. Da lì arrivavano sale, olio e ghiaccio per la conservazione. Lì gli artigiani producevano e lavoravano reti, cordami e legname per le barche.

    Tonnara Angitola a Vibo Marina. La benedizione delle reti e dei barconi prima delle mattanze nel 1947 (collezione Cantafio)

    Tonnare in Calabria, mille anni di pesca

    Di manufatti per la pesca del tonno in quest’area si trovano tracce documentali risalenti al XI secolo. In uno dei primi privilegi concessi da Ruggero il Normanno all’Abbazia di Mileto compare l’area di Bivona. Che viene descritta, nel 1081, «… cum portu suo, ac tunnaria, et omnibus pertinentiis». Fin dalla fondazione dell’odierna Vibo diversi manoscritti riportano fatti legati alle tonnare: in un atto del 1326 il re Roberto, per prevenire incidenti, dispose che nessuno vendesse vino nell’area e nel periodo in cui era in attività la tonnara di Bivona.

    La contaminazione con i siciliani

    Questo sistema di pesca si estende dal XVI secolo, periodo a cui risalgono le prime notizie sulle tonnare di Parghelia (Bordilà), Sant’Irene e Briatico (Rocchetta), Santa Venere e Pizzo (delli Gurni). Nel XVIII secolo l’iniziativa imprenditoriale delle tonnare in Calabria è appannaggio dei nobili (De Silva y Mendoza, Pignatelli, Caracciolo) e della Diocesi. I tonnaroti di Pizzo diventano i più ricercati per tutto il golfo. E a loro si uniscono anche rais (i dominus della ciurma) e tonnaroti siciliani. Generando una contaminazione unica di tecniche e di rituali di pesca.

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    La grande ancora di tonnara portata a riva da un gruppo di 10 tonnaroti (Lomax, 1954)

    Un po’ di Sicilia in Calabria

    Nell’agosto del 1954 arrivano a Vibo Marina lo statunitense Alan Lomax e il calabrese Diego Carpitella. Mostri sacri dell’etnomusicologia, quell’anno attraversano tutta l’Italia a bordo di un pulmino Wolkswagen. E realizzano un’impresa di documentazione che diventerà una pietra miliare per il futuro studio della musica tradizionale italiana. Hanno già registrato a Sciacca i canti di tonnara. Hanno incontrato De Seta mentre documenta la pesca del pescespada a Scilla e Bagnara. Dunque si stupiscono di trovare, sullo sterrato che affianca la tonnara del borgo portuale vibonese, un pezzo di Sicilia anche nel continente.

    Alan Lomax in mezzo ai tonnaroti (1954, collezione Canduci)

    I canti delle tonnare in Calabria

    A Lomax e Carpitella si devono foto e registrazioni sonore che hanno strappato all’oblio i canti, i nomi, i linguaggi e le relazioni secolari di rais e tonnaroti. Si tratta del più corposo lavoro mai fatto sulla cultura musicale delle tonnare, in Calabria e non solo. Oggi è raccolto e approfondito in un bel volume (con cd), “Canti della tonnara”, edito da Rubbettino e curato da Danilo Gatto, con contributi di Giorgio Adamo, Sergio Bonanzinga, Danilo Gatto, Giuseppe Giordano, Anna Lomax Wood, Antonio Montesanti, Domenico Staiti, Vito Teti.

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    Onofrio Lo Presti, uno dei tonnaroti fotografato e registrato da Alan Lomax

    L’itinerario della dimenticanza

    Montesanti ha trascorso anni a ricostruire, incrociando le informazioni raccolte da Lomax con le testimonianze locali, le identità e le storie di rais e tonnaroti della zona. Proprio con lui abbiamo provato a ripercorrere le tracce delle tonnare tra Pizzo e Tropea. Un tour della dimenticanza. Perché di fatto, oggi, i segni dell’antichissima tradizione di pesca delle tonnare in Calabria sono stati spazzati via. Resta qualche fuggevole particella di memoria e dei tentativi, miseramente falliti, di dare dimora alla testimonianza di ciò che è stato.

    La più antica, dimenticata

    Partiamo proprio da Pizzo, dalla tonnara più antica. È quella della Seggiola, che secondo alcune risultanze documentali esisteva già nel 1400. Di proprietà dei De Silva y Mendoza prima, poi dei Gagliardi, è diventato un bene demaniale e, in parte, oggi l’edificio è usato da alcuni pescatori. Ma è seminascosto e dimenticato, in una piccola insenatura, con un mostro di cemento mai finito che incombe a fianco (di cui abbiamo scritto in questo controtour).

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    Ciò che rimane dell’antica tonnara della Seggiola, a Pizzo

    Il museo del vuoto

    Pare fosse uno degli angoli più belli della cittadina costiera, che invece oggi concentra molte delle sue attrattive turistiche, oltre che sul centro storico, sul vicino lungomare. Lì ha sede il “Museo del mare” che però, di fatto, delle tradizioni di pesca conserva poco più che il nome. Un tempo era la loggia dei barconi, oggi vi si fa qualche convegno e poco altro.

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    Il “museo del mare” a Pizzo

    Da pescatori a carrozzieri

    Procedendo verso Sud sul litorale pizzitano c’è l’antico stabilimento Callipo, o meglio i resti puntellati da impalcature in legno. Un ramo della famiglia, quello di Carmelo Callipo, si divise da quello che faceva capo a Giacinto (di cui invece porta il nome ancora oggi la nota azienda di prodotti ittici nata nel 1913 e tuttora attiva) e rilevò, nel Dopoguerra, la tonnara nel centro di Vibo Marina. Era stata di proprietà dei nobili siciliani Adragna d’Ali. Inaugurata nel 1865, rimase in attività solo per pochi anni dopo il passaggio di proprietà. Oggi, al suo interno, c’è una carrozzeria.

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    Il portale della ex tonnara di Vibo Marina, al cui interno oggi c’è una carrozzeria

    Lo sciopero del ’54 e la caserma di oggi

    Sempre a Vibo Marina sorgeva la tonnara Angitola. Prima dei Gagliardi e poi dei Cantafio, era proprio quella a cui giunsero Lomax e Carpitella nel 1954 nel bel mezzo di uno sciopero. Il padrone non li pagava da un anno e i tonnaroti avevano incrociato le braccia lasciando tutte le attrezzature a mare per fare pressione sul titolare. Non si sa come, ma con l’arrivo degli etnomusicologi la “vertenza” si risolse. Oggi di quella tonnara non resta nulla. Ne ricorda vagamente solo qualche forma il casermone del Comando provinciale della Guardia di finanza che è stato costruito al suo posto.

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    La caserma della Guardia di finanza a Vibo Marina, costruita dove c’era la tonnara Angitola

    Tonnare di Calabria, l’appello per Bivona

    Scendendo ancora in direzione Tropea c’è la tonnara di Bivona, che merita un discorso a parte. «Negli anni – ricorda Montesanti – tanti fondi pubblici sono stati spesi male per il suo recupero, tant’è che dopo oltre 5.200 giorni è ancora inagibile. E un nuovo finanziamento rischia di smembrarne la storia». Qualche giorno fa lo studioso ha lanciato un appello al presidente della Regione Roberto Occhiuto. Tra i firmatari Carlo Petrini, Silvio Greco, Gioacchino Criaco, Francesco Cuteri, Tomaso Montanari, Vito Teti e Silvana Iannelli.

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    La tonnara di Bivona

    Gli annunci «spacchettati»

    Il finanziamento in questione prevedrebbe «la realizzazione del Museo del Mare e della pesca». Il sindaco di Vibo, Maria Limardo, lo scorso 10 maggio ha scritto su Fb: «Che bella la nostra Tonnara! Che belli i nostri barconi! Presto torneranno a nuova vita con un importante lavoro di restauro che inizierà nel prossimo mese di giugno». Secondo i sottoscrittori della petizione decine di tavoli tecnici avrebbero invece «partorito un disastro» con quel bene monumentale «spacchettato in tre pezzetti». Si vedrà come andrà a finire. Intanto però una delle ultime tonnare di Calabria resta chiusa, anche se al Salone del libro di Torino l’amministrazione vibonese ha sostenuto di averci aperto un «centro culturale Lomax» che, al momento, non esiste.

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    L’interno della tonnara di Bivona (dalla pagina Facebook Maria Limardo Sindaco)

    Dalla Curia ai ristoratori

    Andiamo ancora avanti. È interessante la storia della tonnara di Sant’Irene a Briatico. Di epoca ottocentesca, la proprietà è passata dai Mendoza alla diocesi di Mileto. Poi dalla Curia ai privati. Che al suo posto hanno realizzato un ristorante. Oltre alla singolare evoluzione, un fattore di unicità è rappresentato dal fatto che vicino alla tonnara scomparsa ci siano i resti di una «peschiera» di epoca romana. In pochi metri millenni di storia della pesca. Cancellati.

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    Il luogo dove sorgeva la tonnara di Sant’Irene a Briatico. Ora c’è un ristorante e, a pochi metri, la «peschiera» romana

    Secoli, torri e selfie

    Nello stesso paese c’era anche la tonnara della Rocchetta. Di proprietà dei Bisogni, le ultime notizie risalgono alla fine del 1600. Poi diventò uno zuccherificio, quindi (a fine Ottocento) una vetreria. Ne sono rimasti dei ruderi nascosti dall’erba alta. E anche qui, poco distante, ci sono i resti di una «peschiera» romana su cui i ragazzini si fanno dei selfie a like garantito. L’ultima traccia (perduta) era a Parghelia, dove un villaggio turistico conservava solo il toponimo, fino a quando non ha cambiato nome. Ma anche le torri che sorvegliavano le tonnare sono diventate altro. Quella di San Pietro di Bivona, a guardia dell’antica tonnara che non esiste più, è un immobile privato. La torre Marzano a Vibo Marina è stata in parte demolita durante la costruzione delle case popolari.

    Il tonno non si fida più di noi

    Ora, è chiaro che questi sistemi di pesca nel Vibonese sono scomparsi perché il tonno rosso non arriva più qui. La Calabria non ha quote di pesca nella ripartizione europea. Le principali aziende lavorano e vendono tonno a pinna gialla. E quel poco di “rosso” che trattano lo acquistano per lo più da Campania e Sicilia.

    Chi guarda indietro e chi perde la memoria

    Intanto, per esempio, in Sardegna (a Stintino) e nel Sud della Spagna (Andalusia) si sta studiando il ripristino delle tonnare fisse perché è un sistema molto più ecosostenibile della pesca distruttiva a predazione. Mentre delle tonnare, nella Calabria della retorica dei borghi e delle bandiere blu, delle tradizioni da tramandare e dell’identità-culturale-da-valorizzare, non si conserva quasi più neanche la memoria.

  • Autonomia ed energia, una rima (anche) per la Calabria

    Autonomia ed energia, una rima (anche) per la Calabria

    La buona notizia è che la Calabria, fra fonti rinnovabili, idroelettrico e altre fonti non fossili, produce più energia di quella necessaria alla sua autonomia energetica. Addirittura siamo al 42% sulle rinnovabili, dato che ha entusiasmato Younous Omarijee, presidente della Commissione Europea per lo Sviluppo Regionale, di recente in visita in Calabria. Evviva, verrebbe voglia dire. E invece no. Anzi quasi.
    Tutto bello, certo, se non fosse che, per il tramite di alcune datate convenzioni con scadenze non proprio dietro l’angolo, la Regione Calabria ha affidato ad una società per azioni lombarda, la A2A, quotata in borsa e con 7 miliardi di fatturato, la gestione dei propri bacini idroelettrici.

    L’acqua verso Nord e la Calabria a secco

    Primo risultato? In forza di tali convenzioni, l’A2A, legittimamente sia chiaro, destina il grosso della produzione di energia elettrica verso il Nord utilizzando l’acqua dei nostri invasi. Secondo risultato? Accade che a causa dei mutamenti climatici e quindi in piena siccità e parallela crisi idrica, ci si ritrovi con i laghi quasi completamente svuotati. E con città come Crotone che, ad esempio, rischiano la paralisi degli approvvigionamenti idrici per uso domestico e agricolo. A penalizzarci è una convenzione che orienta l’utilizzo delle risorse idriche (nostre) verso priorità diverse da quelle espresse dalle esigenze sociali e produttive del territorio.
    Le domande che ora vorremmo porre sono quasi banali. Per esempio: attesa l’eccezionalità della situazione meteo, i termini di queste convenzioni non possono essere rivisitati per intervenuta eccessiva onerosità o, magari, per distorsione della relazione sinallagmatica fra le parti contraenti?

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    Sila, il lago Ampollino svuotato

    L’autonomia passa dall’energia: la Calabria e l’esempio del Veneto

    In attesa che qualche giurista risponda al quesito, vorremmo lanciare una proposta chiara e forte. Visto che produciamo più energia di quella a noi oggettivamente necessaria, perché non pensiamo ad una autonomia differenziata che ci veda protagonisti e non spaventati da quello che il Nord e/o il Ministro Calderoli potrebbero architettare ai nostri danni? Sapete che il Veneto ha già approvato una legge che dispone il trasferimento della proprietà delle centrali idroelettriche alla Regione? Sapete che il presidente Zaia impazza già sui social rivendicando l’evento come primo passaggio verso l’autonomia della Regione Veneto?

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    Luca Zaia posa con un militante durante una manifestazione in favore dell’autonomia del Veneto

    Un gestore pubblico tutto calabrese

    E perché la Calabria non dovrebbe riscoprirsi coraggiosamente autonoma e, addirittura, visto il surplus energetico, regione fornitrice dell’intero mercato nazionale, nel settore delle rinnovabili, atteso che sole, vento e correnti marine non sembrano proprio mancarci? E chiaro o no che la tendenza di scenario, tra Agenda Onu 2030 e PNRR, muove inarrestabile verso la transizione ecologica e la sostenibilità?
    Perché non costituire, da subito, un soggetto pubblico calabrese per la captazione, trasformazione, stoccaggio e distribuzione di energia derivante da fonti rinnovabili visto che le risorse naturali sono nostre e soprattutto non rare?

    Indipendenti, non col cappello in mano

    Attenzione a non giocare la solita partita vittimistica dell’autonomia differenziata e del Sud depredato. Cambiamo modulo di gioco: per la prima volta, nella nostra storia, proviamo a riscoprirci autonomi ed intraprendenti anziché genufletterci all’A2A di turno per pietire, con il solito cappello in mano ormai sgualcito, volumi aggiuntivi di acqua o di energia visto che, soprattutto, parliamo di risorse nostre.
    E poi magari, nel frattempo, stiamo attenti a non dimenticare che lo stesso soggetto pubblico potrebbe, anzi dovrebbe, avviare la pianificazione degli investimenti necessari a giocare la partita energetica del futuro: quella sull’idrogeno.
    La Calabria regione leader, in Italia, nelle energie rinnovabili. Dai, proviamo a regalare una prospettiva, un lavoro e un sogno alle nuove generazioni calabresi. I calabresi siamo noi.

  • Emigrazione e disastri: le origini dei nostri paesi fantasma

    Emigrazione e disastri: le origini dei nostri paesi fantasma

    Con sessanta milioni e duecentomila abitanti censiti, l’Italia è la venticinquesima nazione della Terra per popolazione.
    È ciò che emerge dall’analisi condotta a giugno 2022 da Worldometers.info, sito web dedicato alle statistiche sui più svariati argomenti. Il dato è ricavato dall’esame di duecentoquarantasette Stati del pianeta terracqueo.
    Il Bel Paese però scende in settantaduesima posizione (dati 2018) se si considera esclusivamente la densità, vale a dire la popolazione per chilometri quadrati. Infatti, l’Italia conta circa duecento abitanti ogni chilometro quadrato di territorio.

    Una nazione fatta di paesi

    In questa particolare graduatoria, siamo circondati da Paesi esotici quali Gambia, Saint Kitts e Nevis e Isole Vergini Britanniche (rispettivamente alle posizioni settanta, settantuno e settantatré), assai meno estesi, popolati e conosciuti del nostro.
    Dal dato sulla densità emerge una realtà che spesso tendiamo a dimenticare: l’Italia non è una nazione fatta di città ma una unità politica e territoriale composta, prima di tutto, da una moltitudine di medi, piccoli e piccolissimi centri di provincia.

    Poche le grandi città

    Paesi dalle dimensioni contenute se non modeste, scarsamente abitati. È un nitido riflesso del contesto nazionale in cui solo sei città superano i cinquecentomila abitanti. Cioè, in ordine decrescente: Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, stando ai dati Istat 2022.

    Il sogno del progresso nell’Italia degli anni ’60

    Tutto il resto, sono piccoli paesi, con le loro culture, i loro costumi, le loro lingue regionali scorporate in migliaia di dialetti inintelligibili l’uno con l’altro. È un patrimonio straordinario messo però in crisi dal processo di unità linguistica iniziato, sulla carta, con la nascita dello Stato italiano del 1861 realizzato davvero un secolo dopo con la diffusione poderosa e capillare della televisione in tutto il territorio nazionale.

    Dialetti e borghi fantasma

    Come i dialetti – la cui dissoluzione in favore dell’omologazione verbale e culturale del Paese ha compromesso irrimediabilmente i particolarismi linguistici -, anche i paesi hanno preso piano piano a scomparire, a perdere le tipicità, in quei rivoluzionari primi decenni del secondo dopoguerra.
    Fu l’esito di una serie di processi: innanzitutto le rinnovate ondate di emigrazione, sia all’estero sia verso il Settentrione. Ma non si devono sottovalutare i massicci spostamenti interni verso altri centri e nuovi paesi omonimi in costruzione.

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    Un vicolo deserto di Apice Vecchia

    È il fenomeno dei paesi doppi, sosia degli originali abbandonati e destinati a trasformarsi in paesi-presepe. I nuovi centri erano più prossimi al mare e alle moderne infrastrutture: più fertili e salubri, meno soggetti alle catastrofi naturali – eruzioni, smottamenti, alluvioni, terremoti – che per secoli avevano segnato le esistenze di tante comunità.
    Questa emorragia demografica, da cui non ci siamo più ripresi, ha generato i cosiddetti paesi fantasma, cioè, per usare l’espressione dell’antropologo Vito Teti, «nonluoghi, non ancora luoghi o non più luoghi».

    I “nonluoghi” d’Italia

    In tutto il Paese, ci sono tanti posti dimenticati, a seguito, come detto, della volontà di costruire un futuro migliore altrove – che spesso si traduceva in corse vere e proprie al cieco riscatto sociale e all’emulazione, anticamera dell’incultura – oppure cancellati dalla furia della natura, desiderosa di riprendersi i suoi spazi.
    Non luogo, non più luogo o non ancora luogo: ecco cos’è oggi Rovaiolo Vecchio, borgo dell’Oltrepò Pavese, abbandonato negli anni sessanta.

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    Consonno: le rovine del “Paese dei balocchi”

    I suoi abitanti traversarono l’Avagnone per andare verso quello che credevano il lato giusto della Valle. Stesso discorso per Consonno, l’iperbolico villaggio dei balocchi brianzolo, messo in piedi, sempre nei “miracolosi” anni sessanta, dall’imprenditore Mario Bagno per sostenere l’ideale della società dei consumi dentro cui, allora, gli italiani si lanciavano spensierati e leggiadri come il Tuffatore di Paestum.
    Un sogno rapidamente svanito per trasformarsi in un rudere alla mercé dei graffitari. Così è Apice, nel Sannio, il più grande paese fantasma della Penisola, conosciuto anche come la Pompei del ’900. Idem per la sarda Santa Chiara del Tirso, nata con la sua diga negli anni venti del secolo scorso e arresasi nel giro di qualche decennio al tempo e alla vegetazione.

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    I ruderi di Rovaiolo Vecchio

    Paesi fantasma in Calabria

    Sono luoghi in disfacimento, dimenticati e inghiottiti dalla natura in rivolta. Sono espressione di un’Italia profonda, trapassata o in divenire.
    Come, in Calabria, Cavallerizzo di Cerzeto e Roghudi Vecchio, paesi flagellati dalle frane e inseriti tra i venti borghi abbandonati protagonisti di Atlante dei paesi fantasma, il saggio di Riccardo Finelli uscito di recente dai tipi di Sonzogno.

    Riccardo Finelli, giornalista viaggiatore

    Arricchito delle eleganti illustrazioni di Alessandra Scandella, il volume di Finelli (giornalista e viaggiatore, già autore di altri saggi sulle tracce dell’Italia sconosciuta) ripercorre strade antiche, dimenticate, cancellate dalle cartine e dalla memoria.
    Scivola per gli Appennini e giunge nella Calabria interna, a Roghudi, paese di lingua grecanica della provincia di Reggio.

    Roghudi e l’alluvione killer

    Roghudi è stato angustiato da continue calamità naturali. Quella definitiva è del gennaio 1973: un’alluvione che costrinse i roghudesi a lasciare per sempre il grappolo di case abbarbicate sull’irto ciglione che dà sulla fiumara Amendolea. È uno dei paesi fantasma in Calabria. Qui si mescolano memoria storica e leggenda: le urla dei bambini che nei secoli sono precipitati dallo strapiombo, i canti delle Anarade, maliarde dagli zoccoli di mulo sempre pronte a condurre qualche uomo alla perdizione. Anche le rocce, qui, hanno assunto una conformazione mitica grazie al lavorio delle intemperie: la Rocca tu Draku (Roccia del drago) e le Vastarùcia (Caldaie del latte).

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    La Rocca tu Draku a Roghudi

    La frana di Cavallerizzo

    Più recente l’apocalisse di Cavallerizzo di Cerzeto, centro arbëreshë in provincia di Cosenza. Questa Ghost town è diversa da Roghudi: qui l’abbandono è iniziato soltanto in seguito all’impressionante smottamento del 7 marzo 2005 quando una piccola porzione del centro, costituita per giunta da abitazioni di fresca costruzione, scivolò in un dirupo. L’evento era prevedibile, date le caratteristiche morfologiche del terreno in cui si permise di edificare.
    «La bestia aveva vinto» scrive Finelli con allusione a Madre Natura. Ma la “bestia” aveva anche il volto sia di una classe politica che per anni ha intascato i fondi destinati a fronteggiare il dissesto idrogeologico, sia di chi ha disboscato ad libitum la vegetazione attorno a Cavallerizzo. Adesso è uno dei paesi fantasma in Calabria.

    E se fosse un suicidio?

    Ma qual è il futuro di tali «nonluoghi, non ancora luoghi o non più luoghi? Soprattutto, sta a noi deciderlo? E se invece i luoghi avessero “deciso” di non farcela, di restare nella condizione di sentinelle solitarie di una Italia impresidiata?
    Forse il male minore e accettabile, è essere presi “d’assalto” dagli expat o spatriati, gli emigrati o figli e nipoti di emigrati che ritornano al paese una o due settimane per le feste patronali, in moltissimi casi aggiornate e fatte coincidere con le ferie d’agosto di chi quei paesi ha dovuto o voluto lasciare. Paesi che compaiono e scompaiono, come dietro un verecondo velario.

    Come sopravvivono i deserti

    Ma il paese c’è e non si riduce a quei tre giorni segnati dalla processione per le vie pietrose col santo di cartapesta in spalla, e dalla sagra del peperoncino o del caciocavallo.

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    Santo in processione in una festa patronale

    Il paese c’è e vive, seppur immobile alla percezione umana. «Anche quando non ci sei resta ad aspettarti», diceva Cesare Pavese: vive per i rovi e le piante che abbracciano le dimore e sfondano pavimenti, solai e tetti. Ed esiste per gli animali che danno un senso a quelle pietre, a quelle mura, a quei terreni incolti, a quelle insegne rugginose.
    Il paese chiede di essere vissuto, ma non deturpato e snaturato con musei all’aperto, residenze diffuse per anziani (il nome politicamente corretto degli ospizi), parchi letterari, tali solo sul progetto vergato per mettere le mani sui fondi, e chi più ne ha, ne metta. Il paese non vuole essere prostituito, a fini cinematografici o pubblicitari a questo o quell’altro regista.
    Forse dovremmo chiederci: cosa vuole da noi il paese? E, soprattutto, dopo le nefandezze perpetrategli negli ultimi secoli, siamo sicuri che la domanda sia rivolta proprio a noi?

  • Pioggia di milioni al Sud col PNRR: altre quantità, poche qualità?

    Pioggia di milioni al Sud col PNRR: altre quantità, poche qualità?

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    Scrivere su questo giornale comporta una seria assunzione di responsabilità, per l’alto numero di lettori che lo segue, per il buon livello dei contenuti che sono affrontati quotidianamente. Chi legge, pertanto, comprende lo spirito costruttivo che anima chi scrive e nei quali contenuti si identifica in forma positiva e con forme di civismo attivo.
    La riflessione di queste righe parte dal dibattito in corso sulle potenziali attribuzioni di fondi PNRR al Sud e alla Calabria e sugli esiti che questa significativa quantità di risorse finanziarie e conseguenti opere potrà produrre nel breve-medio termine. I fondi europei rappresentano una grande opportunità, non solo per il rilancio dell’economia ma anche per il ruolo dei professionisti nella progettazione.

    I contesti dimenticati

    Alle nostre latitudini, preme prima di tutto ricordare che un “difetto” di forma è insito nel PNRR. Quale? Questo Piano non ha i territori come sfondo sui quali depositare le proposte, bensì una sorta di mix di programmi di economia e finanza che guidano dall’inizio tutte le scelte. Una prassi negativa ormai consolidata nel nostro paese che ha sostituito il progetto per lo spazio delle relazioni e dei luoghi con la programmazione “sulla carta”.

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    Mario Draghi alla presentazione del PNRR

    Non avere reale contezza delle potenzialità e fragilità dei diversi contesti, se non con documenti programmatici e fin troppo pragmatici, al Sud in primis, lascia dedurre che non si tratta di piani pensati per i territori, bensì di ripartizioni, più o meno efficienti, delle risorse europee per macro aree socioeconomiche.

    La Calabria e il Sud al tempo del Pnrr

    Il PNRR è nato per fronteggiare la crisi pandemica e dare vita ad un paese – soprattutto al Sud, ancor più in Calabria – innovativo e digitalizzato; aperto ai giovani ed alle varie opportunità, rispettoso dell’ambiente, del paesaggio, delle bellezze, coeso territorialmente.
    Per questa ragione il rischio si palesa ancora più grave, nel momento in cui i comuni, ai quali giungono i fondi finali, soprattutto in Calabria, mancano di strumenti urbanistici solidi, visioni strategiche ampie, progettisti capaci di produrre un avanzamento di qualità piuttosto che ancora una volta una ennesima sequenza di quantità, quale frutto delle opere realizzate.

    Un bis dei fondi Por?

    Sappiamo che è stato così per i fondi POR, e rischia di essere altrettanto per i fondi PNRR, con il solito mantra per quasi tutti i sindaci, eccezione fatta per pochi, del “paniere della spesa” da riempire, ossia aver portato a casa un pò di risorse per fare opere pubbliche. Paniere in cui troppo spesso non conta affatto la qualità progettuale di queste opere pubbliche, la loro durata, il riscontro e approvazione da parte della comunità che le utilizzeranno, la capacità di generare nuova bellezza, così come è stato per secoli per le opere del passato che ancora oggi stupiscono per autentica originalità e qualità estetiche, urbane, costruttive.

    La Giunta regionale della Calabria discute dei fondi Por per il prossimo settennato

    Il tema è quanto davvero molti, disarmati team progettuali, all’opera per le fasi preliminari ed esecutive dei progetti, siano capaci di mettere insieme diverse competenze disciplinari, necessarie a garantire risposte attuali ed esaustive, soprattutto rispetto alla durata e attualità ambientale delle opere da realizzare, nonché alla vera capacità di intervenire per cambiare la società attraverso gli interventi con ricadute culturali, economiche, sociali.

    Il Pnrr dopo 15 anni di scempi al Sud e in Calabria

    Bisogna sottolineare l’importanza di questo piano che ha assegnato al nostro paese 191,5 miliardi da impiegare entro il 2026 e di come gli architetti, gli ingegneri, i comuni, in questo siano stati chiamati ad un grande sforzo per realizzare progetti in grado di rispettare i vincoli posti dall’Unione europea e i canoni del DNSH (do not significant harm/non causare danni significativi) secondo cui i lavori non debbono arrecare nessun danno significativo all’ambiente, pena l’esclusione dai finanziamenti, così come il rispetto, stringente, della tempistica.

    Una celeberrima incompiuta calabrese

    Non possiamo non essere allarmati, anche se lieti dell’opportunità, pertanto guardando la nostra realtà. Sono ancora oggi di fronte ai nostri occhi gli scempi edilizi, urbanistici, infrastrutturali compiuti in questi ultimi quindici anni, con la quantità di altre risorse comunitarie della programmazione straordinaria. Delusi, di fronte ai tangibili fallimenti di molte opere non completate, non utilizzate, mal gestite, senza manutenzione, capaci di generare un paesaggio degradato e degradante, sciatto, senza bellezza e senza nuovi significati.

    Un’opportunità da non perdere

    Possiamo provare a superare il paradosso di questa terra – e del Sud in generale – ovvero che la migliore urbanistica realizzata è quella della Magna Grecia? E ancora che l’architettura più straordinaria è quella che impregna oggi la parte più originale delle nostre città storiche, che ha radici nel Medioevo, nel Rinascimento a Sud, nelle chiese e nei conventi ancora oggi testimoni e custodi di gemme preziose?
    Vogliamo arrivare al giro di boa dell’appuntamento con l’Europa superando tutta questa mediocrità? Il PNRR al Sud può tradursi in grandi nuove sfide per i comuni, i progettisti, la società civile. Non sprechiamo ancora una volta questa imperdibile, forse unica, opportunità.

  • Botteghe Oscure| Canapa di Calabria, un settore andato in fumo

    Botteghe Oscure| Canapa di Calabria, un settore andato in fumo

    La canapa è come il maiale, non si butta via proprio nulla. Lo sostengono a gran voce coltivatori e commercianti che negli ultimi anni, anche in Calabria, hanno deciso di puntare sui molteplici usi della cannabis industriale, principalmente nei settori tessile, alimentare e della cosmesi. Sono tante le aziende calabresi, soprattutto a carattere famigliare, che hanno deciso di coltivare a cannabis appezzamenti di terra prima destinati all’incolto, applicando nuove tecniche e tecnologie a una coltura che si pratica nelle province di Calabria Citra ed Ultra già da cinque secoli.

    Swinburne a Pentidattilo e la migliore canapa della Calabria

    Nel 1777 lo scrittore e viaggiatore britannico Henry Swinburne percorreva in sella a un cavallo il tratto di costa ionica da Bova a Reggio Calabria quando s’imbattè in “un paese delizioso”, Pentidattilo. Qui ebbe modo di apprezzare che «le condizioni dell’agricoltura erano molto migliori di quelle che avevo visto finora in questa provincia». Così come che «la terra è coltivata con perizia e cura maggiori e di conseguenza dà raccolti più ricchi». Il giudizio finale dello scrittore è netto e lusinghiero: «La sua canapa è la migliore della Calabria». Era tempo di raccolto e il colto viaggiatore non poté fare a meno di annotare che, nonostante l’impegno, «sembrava che [i contadini] ci mettessero troppo per la scarsità di manodopera».

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    Strumenti per la lavorazione dei filati. Dipignano,, Museo del rame e degli antichi mestieri. (foto L. Coscarella 2019)

    L’erba buona del marchese

    Il primo a proiettare un poderoso fascio di luce su «queste due derrate così utili», il lino e appunto la canapa, è il marchese Domenico Grimaldi. L’opera Saggio di economia campestre per la Calabria Ultra (Napoli, 1770) è un’attenta disamina in perfetto stile illuminista e riformatore dello stato dell’economia agricola della parte meridionale della regione. L’obiettivo è il superamento dell’ignoranza, dell’indolenza e della rassegnazione delle classi dirigenti. Ossia quelle che impedivano la piena valorizzazione dei tanti “tesori” a portata di mano. Grimaldi definisce quella della canapa una «coltura ristrettissima». Eppure, commentava, «potrebbesi nella Calabria dilatare assai più, essendovi una quantità immensa di terreni, dove la canapa riuscirebbe della più sopraffina che vi sia». Il clima moderatamente caldo e i «terreni leggieri» del sud della Calabria determinerebbero secondo Grimaldi «file assai più fine». Altra cosa, dunque, rispetto a quelle venute su in «terreni forti, ed umidi» e climi freddi.

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    Una raccoglitrice di canapa

    Purgare e pettinare la canapa

    Da buon illuminista Grimaldi fa parlare i numeri e l’esperienza diretta. Da 25 libbre di canapa di scarsa qualità, buona soltanto per la produzione di corde, racconta di essere riuscito a ricavare «libre 9 e mezza di finissima, che non era inferiore al più bel lino d’Olanda e, libre 14 di stoppa così bella, che se ne poteva far ovatta, come il cotone, e che filata ha reso un filo anche bellissimo». Il “segreto” risiede a suo parere nell’ultima scoperta «sulla maniera di purgar la canapa». Quale? Nettarla da quelle «cannucce non ancora ben macciolate», cioè dalla parte più grossolana. Con questo metodo «nella Provincia si potrebbe avere la più bella, e finissima canapa del Mondo, le stoppe veramente eccellenti, e che servirebbero a più usi».

    Un’arte femminile da perfezionare

    Riguardo alle fasi cruciali della pettinatura e alla filatura Grimaldi parla chiaro. La canapa calabrese potrebbe acquistare in qualità se pettinata con «pettini francesi, e la ver’arte di pettinare». Le donne calabresi, precisa, «filano alquanto bene». Ma nessun barone o ricco proprietario ha mai pensato di perfezionare la loro arte facendo «venire qualche contadino forastiero perito della coltivazione della canapa; e delle buone filatrici e tessitrici». Coltivando la canapa in Calabria alla «maniera forastiera», facendo cioè arrivare degli esperti «per insegnare a manifatturarla», i baroni o ricchi proprietari potrebbero impiantare una fabbrica di tele fine. I costi? Secondo il marchese «con meno di tre mila ducati si potrebbe introdurre una picciola fabbrica di tele, ed a misura potrebbe crescere, e rendersi considerabile».

    Canapa in Calabria: i cànnavi di Corrado Alvaro

    Di canapa scrisse anche Corrado Alvaro. Lo fece nel 1941, in Civiltà, una poco conosciuta “Rivista trimestrale della Esposizione Universale di Roma”. L’articolo, corredato da belle fotografie, era dedicato alla produzione nel Bolognese e nel Ferrarese. Ma non manca un riferimento al Meridione: «La canapa è cosa vecchia come il mondo nostro Mediterraneo. Non ha mai mutato nome, e si chiamò “cannabis” in greco come in latino. In quasi tutta l’Italia meridionale serba questo nome: si chiama “cànnavi”. In bolognese “cànnva”. In sanscrito era “cana”[…] Con la lana e il lino ha vestito l’umanità per migliaia di anni».

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    La lavorazione della canapa, foto tratta dall’articolo di Corrado Alvaro apparso sul numero di “Civiltà” del 1941

    La provincia di Reggio era quella dove la canapa trovava terreno fertile alla sua proliferazione. Superava persino il lino tra le piante tessili utilizzate. «Nei paesi del circondario di Reggio, e massime nelle campagne adiacenti il capoluogo, si coltiva su larga scala la canapa e subordinatamente il lino, che crescono giganti, raggiungendo la prima l’altezza di due metri». La destinazione era la solita produzione di tessuto per corde e cordame, in primo luogo. Non mancava, tuttavia, l’utilizzo per capi di abbigliamento popolari. Così le donne tessevano tele di lino, cotone o canapa «per uso di camicie, di mutande, di lenzuola».

    Febbri palustri

    Il terreno per la coltivazione della canapa, che doveva essere profondo e sufficientemente umido, veniva preparato nei mesi di marzo e aprile con la pulizia dalle erbacce, la concimazione e la semina. Una volta venute fuori le piantine, il terreno veniva irrigato per inondazione. E così si arrivava al momento della fioritura, in genere tra fine giugno e luglio. In questa fase le piante venivano strappate con tutte le radici e riunite in “mannelli” pronti per la fase della macerazione. La presenza di queste terre irrigue aveva risvolti meno felici. Si ipotizzava che le stesse causassero la diffusione della “febbre intermittente o palustre”, una delle maggiori cause di mortalità della popolazione agricola. Inoltre la vegetazione troppo fitta, che impediva il passaggio dell’aria, e le stesse fasi della macerazione della pianta (fatta senza alcuna precauzione) e dell’essiccazione erano considerate promotrici dello sviluppo di febbri miasmatiche.

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    Le fasi della lavorazione della Canapa (da Encicolopedia Popolare Sonzogno, 1928)

    Più canapa che lino in Calabria

    Il processo di lavorazione delle piante seguiva metodi che venivano definiti già allora letteralmente “primitivi”. «Giunte queste piante a maturità, e private dei loro semi, vengono raccolti in fasci, i quali si pongono a macerare in larghi fossi scavati sul lido del mare od in apposite gore situate lungo i corsi d’acqua, fissandoli con grosse pietre. Dopo otto o dieci giorni, e quando l’agricoltore si accorge che la parte tigliosa è ben macerata, i fasci si tolgono dall’acqua stagnante, si fanno asciugare al sole e poi si gramolano con un rostro a battitoio di legno».

    La canapa veniva piantata anche nei gelseti. Fatto sta che gli ettari coltivati in tutta la provincia di Reggio erano circa 1200. Nel 1879 avevano prodotto 8000 quintali di canapa. Per fare un confronto con la “pianta concorrente”, il lino, sappiamo che nello stesso periodo si coltivavano a lino 1748 ettari, che avevano prodotto 6000 quintali di lino.

    Strumenti per la lavorazione della canapa

    Le vurghe

    In provincia di Cosenza la macerazione di lino e canapa era malvista per la credenza che nuocesse alla salute. Si registrarono, infatti, alcune morti di animali che avevano bevuto le acque dei “maceratoi”, ma non c’erano conferme. In provincia, al 1883, rispetto al lino la produzione della canapa faceva registrare cifre inferiori. La procedura di lavorazione, però, era simile e richiedeva una fonte d’acqua per la macerazione. A volte si scavavano delle fosse nel terreno dette “vurghe”. Si riempivano d’acqua di fiume o di sorgente incanalata con un rivolo che scorreva rinnovando continuamente l’acqua delle fosse. Al loro interno si mettevano a macerare il lino o la canapa. Il tempo necessario oscillava fra i 10 e i 15 giorni. Nei dintorni di Rossano la macerazione avveniva in acque stagnanti in riva allo Jonio o nel letto dei fiumi. Capitava così che le alluvioni distruggessero tutto il lavoro.

    Una produzione locale

    Dopo la macerazione la canapa veniva asciugata al sole. Poi si lavorava con un “ordegno” formato da due pezzi di legno, uno fisso e uno mobile. Tra essi si inseriva il prodotto che doveva essere maciullato e ridotto in sostanza utile per la filatura. Non erano stati ancora introdotti sistemi di lavorazione meccanica. Intorno al 1880, nel Catanzarese, la coltivazione della canapa era rara. La si poteva incontrare «appena in qualche orto e nelle vicinanze di Filandari».

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    Memoria di Vincenzo Ramondini per migliorare la lavorazione della canapa in Calabria Ultra

    Alcuni dati di qualche anno dopo ci informano che nel 1892 in Calabria si utilizzavano per la coltivazione della canapa 417 ettari, 11 in più dell’anno precedente. Di questi 228 erano nel Vibonese e 133 nei dintorni di Palmi. Su questi terreni, nel 1881, la produzione ammontava a 2161 quintali di canapa, divenuti 3271 l’anno seguente. Si trattava comunque di una produzione limitata all’uso locale.

    Corde e spaghi

    Sul finire dell’Ottocento c’è traccia di diversi opifici che utilizzavano la canapa per la fabbricazione di cordami. Nel Reggino operavano ben ventuno piccole fabbriche. Sette erano a Polistena e le altre sparse tra Sant’Eufemia d’Aspromonte, Gioiosa Ionica, Bagnara Calabra, Caraffa del Bianco, Mammola, Rosarno e Seminara. Quelle di Polistena e Gioiosa erano le più importanti. Oltre spaghi e cordicelle, producevano anche «funi grosse a cavi doppi di cui si servono i mulattieri ed i marinai». La materia prima non era solo locale, ma reperita anche a Napoli e Messina. Il commercio dei prodotti, invece, rimaneva essenzialmente locale.

    A Cetraro, sul Tirreno cosentino, erano attive quattro piccole fabbriche che occupavano quattro uomini e cinque donne. Al loro interno si adoperava canapa proveniente da Napoli per produrre cordami «con semplici congegni torcitoi a mano». Tre fabbriche a Fuscaldo, invece, impiegavano canapa di produzione locale per produrre cordoncini e spaghi grazie al lavoro di cinque uomini e una donna.

    Industrie casalinghe

    Nel Catanzarese le fabbriche di cordami operanti a fine Ottocento erano cinque. Tre erano operative a Soriano Calabro e le altre a Cortale e Chiaravalle Centrale. I macchinari erano assenti, ad eccezione dei soliti «semplici congegni torcitori a mano». La produzione era riservata all’uso agricolo, impiegando canapa locale e altra proveniente dalle provincie di Caserta o di Reggio Calabria. Una porzione rilevante era comunque destinata all’industria tessile casalinga. Erano migliaia i telai che tessevano lino e canapa, ma i prodotti si realizzavano quasi sempre per uso degli stessi produttori.

    Altra foto tratta dall’articolo di Corrado Alvaro apparso sul numeri di Civiltà del 1941

    Nei primi del Novecento la coltivazione della canapa aveva «importanza limitatissima». I circondari di Monteleone, l’attuale Vibo Valentia, e Palmi, in provincia di Reggio, erano ancora le zone più utilizzate. Le aree coinvolte erano in genere terreni irrigui posti lungo i torrenti. Nel 1908 la produzione di canapa raggiungeva i 6 quintali per ogni ettaro di terreno. Ma le industrie del settore, come anche quelle del cotone, del lino e della iuta, si erano «arrestate allo stato d’industrie casalinghe».

    Canapa in Calabria: un comparto tutto femminile

    Sul numero di telai operanti a inizio del secolo, sappiamo che erano 5137 quelli adibiti alla tessitura di lino e canapa in questa industria casalinga. Sempre unitamente per lino e canapa, sappiamo che gli artigiani filatori erano 35 uomini e ben 62.040 donne (delle quali più di 60 mila la esercitavano come attività principale, e 1766 come professione accessoria). I tessitori delle stesse materie, invece, erano 20 uomini e 8709 donne (delle quali 8279 lo svolgevano come mestiere principale). Il prodotto veniva utilizzato nei 38 opifici per cordami censiti nel 1901, nei quali erano attivi «99 congegni torcitori a mano» e «lavoravano 120 individui». Altri 117, a loro volta, lavoravano come “indipendenti”.
    Tuttavia il livello d’innovazione in questo campo fu sempre quasi nullo. Metodi primitivi, strumenti a mano, scarsa richiesta di esportazione facevano del settore della canapa calabrese un’industria locale con scarse prospettive.

     

  • Negozi gratis, la solidarietà batte la crisi a Cosenza e Rende

    Negozi gratis, la solidarietà batte la crisi a Cosenza e Rende

    Ti piace questa maglietta? Prendila, non costa nulla. In cambio, se vuoi, puoi lasciare qualcosa che a te non serve più e metterla a disposizione di qualcun altro. Funzionano così i negozi gratis anche a Cosenza: alla base c’è la sharing economy, l’economia della condivisione, che promuove un uso consapevole e circolare di vestiti, scarpe, oggetti e il loro riutilizzo per evitare che finiscano in discarica.

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    Il negozio gratis all’interno del centro sociale Sparrow a Rende

    Nella provincia di Cosenza esistono due negozi di questo tipo, uno si trova all’interno del centro sociale Sparrow a Rende, l’altro è nel centro storico di Cosenza. Piccole isole di utopia in cui il baratto manda avanti un microsistema economico che non prevede l’uso del denaro. Basta trascorrere qualche ora nel negozietto gratis di corso Telesio per scoprire quanto questo pugno di metri quadri strabordante di vestiti, riesca a raccontare il quartiere.

    Elena e Simona

    Ad accoglierci ci sono Elena e Simona, amiche e “colleghe” in questa avventura. Il negozio è di tutti, è una porta sempre spalancata, è luogo di chiacchiere, di risate, di scambio di informazioni e di sostegno. Arriva una mamma con il passeggino, lo sistema sull’uscio ed entra. Ha bisogno di tutine per il piccolo, di lenzuola e magari di un vestito per lei. «Guarda questo – le dice Elena – lo hanno appena portato. Secondo me ti sta benissimo». Intanto un signore cerca tra le pile di magliette qualcosa di colore blu che sia della sua taglia. «È un nostro cliente affezionato- sorride Elena – conosciamo bene i suoi gusti».

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    Poche e semplici regole nel negozio di Elena e Simona nel centro storico di Cosenza

    Anche per quelle persone che non hanno nulla

    Nel centro storico è confluita la popolazione Rom che per anni ha vissuto nelle baracche sul fiume, si sono mescolate le culture e i bisogni e si è creata una nuova comunità marginale. «Ci sono tante persone che non hanno nulla – spiega Simona – che hanno bisogno di indumenti nuovi e puliti e noi li mettiamo a disposizione. Ci conosciamo tutti, siamo una grande famiglia, per cui sappiamo bene quali sono le necessità di chi abbiamo di fronte». Simona ha 53 anni ed è arrivata nel 2005 dalla Romania dopo una parentesi in Israele dove lavorava come colf.

    Un passato difficile inciso intorno al suo sguardo ma per il futuro ha obiettivi chiari e definiti: «Voglio che mia figlia studi e che possa scegliere il meglio. Ho fatto grandi sacrifici per poterla crescere, ero sola e ho sempre lavorato, anche portandola con me quando facevo le pulizie nelle case e lei era una neonata». Scappa qualche lacrima ma intorno ci sono gli amici di sempre che proteggono con un abbraccio. «Io e Simona siamo due mamme – aggiunge Elena – e siamo due donne che vivono il quartiere con tutte le difficoltà che comporta».

    Un presidio di solidarietà e democrazia

    Questo piccolo negozio gratis rappresenta un presidio importante di solidarietà e di democrazia con la doppia finalità di aiutare sia le persone che l’ambiente, perché il riutilizzo evita che tanti indumenti vengano buttati via. Il negozietto gratis è aperto tutti i sabati dalle 17 alle 20, negli stessi orari è possibile portare vestiti o altri oggetti da mettere a disposizione, bisogna ricordare che il negozio è autogestito per cui chi porta sistema e chi prende non lascia in disordine.

    «Purtroppo ci capita spesso di trovare delle buste di indumenti abbandonate qui davanti alla saracinesca – dice Simona – questo non va bene perché noi siamo attente al decoro di questo luogo, nessuno deve avere l’idea che qui ci si possa liberare di ciò che non si sa dove mettere. I nostri clienti meritano vestiti usati ma non logori, possibilmente stirati e profumati di bucato».

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    Il negozio gratis del centro sociale Sparrow all’aperto

    Negozi gratis: da Cosenza allo Sparrow di Rende

    Stesse regole nel negozio gratis di Rende che ha già una storia perché è nato oltre cinque anni fa e ha spazi molto più ampi, si trova infatti all’interno del centro sociale Sparrow. Qui tutti i venerdì dalle 16 alle 18 è possibile scegliere tra migliaia di capi e accessori oppure portare i propri vestiti non utilizzati.

    L’ideatrice di questo progetto è Sonia Genovese che ha importato l’idea da Berlino, dove si trovava per un programma Erasmus. «Viviamo in una società in cui si accumula sempre di più e le cose vanno a finire nella discarica anche quando potrebbero ancora essere utilizzate – spiega -. Rimettendo in circolo gli indumenti evitiamo di riversarli nell’ecosistema e svolgiamo una funzione sociale perché questo è un luogo di confronto e di aggregazione». Nel negozio gratis di Rende gli utenti sono studenti universitari, migranti, amanti del vintage, appassionati di riciclo e infine tanti pensionati.

    Punto di riferimento per gli anziani del quartiere

    «Questo è un fenomeno in crescita – aggiunge – . Siamo diventati un punto di riferimento per molti anziani del quartiere che trascorrono qui qualche ora: prendono, lasciano indumenti, ci aiutano a mantenere in ordine, insomma è un modo per riempire compagnia il loro pomeriggio». All’interno dello Sparrow, nello spazio in cui il negozio gratis è allestito, si accumulano anche i giocattoli e i vestiti per bambini. «Ci sono famiglie che vengono anche da fuori provincia perché sanno che qui potranno scegliere e portare a casa tutto ciò che può servire, tutto gratis e senza limiti».

    I migranti pieni di gioia

    E negli anni i vissuti e le storie si sono susseguiti, alcuni particolarmente commoventi. Come quella volta in cui una famiglia di migranti era piena di gioia e di stupore di fronte all’idea che fosse tutto gratuito. «Hanno videochiamato i parenti nel loro paese di origine – ricorda Sonia – e i bambini mostravano con estrema felicità ai cuginetti i giochi, per farsi dare un consiglio su cosa prendere».

    Condivisione e solidarietà che sono la norma, «perché – precisa l’ideatrice – qui nessuno guadagna nulla, rimettiamo in circolo vestiti e oggetti usati per dargli una nuova vita e questo è un atto che porta gioia a chi dona e a chi riceve». Unico obbligo: prendersi cura del luogo e delle cose, non sprecare, non sciupare, mettere in ordine. «C’è chi viene a prendere, c’è chi viene a lasciare ma l’autogestione in questi casi produce effetti inaspettati – conclude – perché il negozio praticamente funziona da solo, senza bisogno di mediazioni». Un’altra economia è possibile».

  • Pagati male e tutelati peggio: l’odissea dei giornalisti calabresi

    Pagati male e tutelati peggio: l’odissea dei giornalisti calabresi

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    Una domanda banale per iniziare: a che servono i giornalisti in Italia?
    La risposta è scontata: a fare da ufficio stampa ad alcune Procure. O dall’altro lato della barricata, ad altrettanti studi legali.
    Poi servono nelle tornate elettorali: c’è sempre qualche inchiesta che azzoppa qualcuno o un virgolettato che fa comodo.
    Ma i giornalisti servono, soprattutto, quando costano poco e quando si prestano, in maniera più o meno disinteressata, a far da carne da cannone.
    Soprattutto, a livello giudiziario. Quanto tutto questo incida sulla libertà di stampa (e sulla correlata libertà di informazione, specie in Calabria) è facile da capire.

    Informazione: Italia tra le ultime, la Calabria è peggio

    Lo ha detto più volte l’Ocse: l’Italia è piuttosto giù nelle classifiche internazionali sulla libertà di stampa. E va sempre peggio, perché nel 2022 siamo scesi al 58esimo posto (su un totale di 180), come denuncia l’ultimo World Press Federation Index.
    Il rapporto indica soprattutto una causa di questa situazione non brillante per un Paese occidentale: l’autocensura.

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    La libertà di stampa in Italia secondo l’ultimo rapporto di Reporter Senza Frontiere

    Ci si autocensura perché si rischia tanto, a livello legale. Poi ci si autocensura perché si è pagati troppo poco per rischiare. Oppure perché gli editori, oltre che di spendere il meno possibile, si preoccupano di non dar fastidio ai padroni del vapore (sul quale sono a bordo o contano di salire).
    In tutto questo, com’è messa la Calabria? Malissimo, va da sé. E la situazione è quasi impossibile da quantificare perché mancano dati precisi.

    L’informazione in Calabria e le querele à gogo

    Qualche mese fa l’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho aveva ribadito la necessità di tutelare i giornalisti dalle liti temerarie.
    Questa dichiarazione finì in un appello firmato da quasi tutte le testate calabresi, inclusa la nostra, e da singoli giornalisti.
    L’emergenza c’è. Anche se mancano i numeri per definirla. Qualcosa la si apprende dalla Polizia postale, che in seguito all’esplosione del giornalismo online, è diventata il terminal delle querele.

    Queste, in Calabria, si aggirano grosso modo attorno al centinaio l’anno. Tantissimo, se si considera il totale degli iscritti all’albo e lo si proietta sulla popolazione regionale.
    Altra domanda: che fine fanno queste querele? Una statistica giudiziaria è impossibile.
    Tuttavia, non ci si allontana dalla realtà se si ipotizza che circa il 60% finisce in niente. In pratica, non arriva neppure all’avviso di garanzia.
    Di quel che resta, una parte maggioritaria va a dibattimento. Più limitato il numero delle condanne (in pratica, il 15% del totale). Ma questi, ripetiamo, sono dati molto informali, da prendere con le pinze.

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    L’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho

    Quando le querele imbavagliano

    Se molte finiscono in niente, perché le querele imbavagliano? Innanzitutto, per i costi legali, che ci sono anche per i prosciolti.
    Poi, ovviamente, per motivi di serenità. Peggio ancora con le richieste di risarcimento danni, che obbligano comunque a difendersi e non offrono le garanzie del procedimento penale.

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    Una rotativa in funzione

    Qualche domanda a Cafiero

    Il problema è semplice: querelare è facile. Ed è facile non perché le normative che regolano l’editoria e la professione sono in buona parte obsolete.
    La facilità con cui si querela è dovuta alla giurisprudenza, che ha aumentato a dismisura le possibilità di far condannare i giornalisti.
    E allora: Cafiero sa che si querela molto perché una buona fetta dei suoi colleghi magistrati ha aumentato la “querelabilità” a botte di sentenze? Inoltre, lui o qualche altro big in toga hanno mai pensato di far dibattere al Csm questo problema?

    Redazioni a macchia di leopardo

    Gli editori (parliamo di editoria periodica) si dividono in tre categorie: quelli che pagano, quasi inesistente, quelli che pagano male, i più, quelli che non pagano affatto.
    Concentriamoci sulla seconda.
    Pagare male, in questo caso, significa pagare il minimo indispensabile. Ovvero, contrattualizzare decentemente solo i pochi redattori che servono per ottenere i finanziamenti pubblici e gli sgravi. Il resto, pazienza: si accontenterà di paghe da fame ottenute attraverso contratti borderline.

    D’altronde, quanti part time, verticali od orizzontali, o co.co.pro coprono prestazioni professionali da tempo pieno e indeterminato?
    Ciò comporta che più o meno tutte le redazioni siano a macchia di leopardo. Cioè che gli articoli uno condividano pc e scrivanie con part time che fanno il loro stesso lavoro.
    Gli esempi abbondano: tra questi la vecchia Provincia Cosentina (che chiuse i battenti nel 2008) e Calabria Ora/L’Ora della Calabria, che non esiste più dal 2014.

    La vera minaccia alla libertà

    La contrattualizzazione a macchia di leopardo non è solo colpa degli editori “taccagni. In buona parte, invece, è dovuta alla fragilità del mercato, che non consente l’editoria “pura”, che resiste, spesso male solo in alcune nicchie (inesistenti in Calabria).
    Gli editori calabresi sono sempre stati “impuri”, che non significa necessariamente cattivi. Sono imprenditori che hanno il core business altrove e usano i media per curare i propri interessi.

    In Calabria nel mondo dell’informazione questo principio vale quasi per tutti, con la palese eccezione de I Calabresi.
    Il resto, vuoi per mancanza di business, vuoi per prassi consolidate, segue le regole dell’aziendalistica, deformate sulle abitudini regionali: pagare poco e male, fino a ricorrere al nero.
    In fin dei conti, la minaccia per eccellenza alla libertà di stampa è questa: un cronista pagato male e tutelato peggio (quanti sono i giornalisti coperti da assicurazioni professionali?) è un cronista che lavora male.

    La bassa qualità dell’informazione in Calabria (e non solo)

    Ma la poca libertà di stampa non è solo un affare degli addetti ai lavori. Riguarda anche il pubblico, perché spesso si traduce in informazione di cattiva qualità.
    A questo punto, è scontata una domanda: perché una persona preparata e dotata delle qualità che fanno il buon giornalista dovrebbe imbarcarsi in un mestiere duro, a volte rischioso? E in cambio di cosa? Quattro spiccioli e la certezza di guai giudiziari, se va bene, o fisici, se va male?

    Il caporalato

    Altre testate sono sopravvissute attraverso due pratiche a rischio: la cooperativa di giornalisti (è il caso de Il Garantista) e l’affidamento a uno o più service (il Domani della Calabria e, più di recente, La Provincia di Cosenza).
    Le cooperative hanno una forte controindicazione: trasformano i giornalisti in imprenditori. In pratica, li costringono a fare un mestiere non loro. Questo quando funzionano. Ma, al riguardo, in Italia c’è solo il Manifesto che corrisponde ai criteri di una cooperativa vera. Per il resto, sono imprese mascherate, che scaricano sui dipendenti i rischi dell’imprenditore.

    I service, cioè le agenzie stampa che gestiscono testate intere o loro singole parti, possono essere peggio. In queste forme di gestione, infatti, si annida il caporalato, perché il titolare dell’agenzia gestisce un forfait e non è detto che lo faccia in maniera trasparente.
    Ad ogni buon conto le garanzie per i giornalisti rischiano di essere minime, visto che non sono infrequenti i casi in cui le eventuali querele sono a carico del service e non dell’editore…

    L’informazione in Calabria: chiusure e fallimenti

    Gli editori “impuri” sanno bene una cosa: che i giornali, comunque li si gestisca, sono aziende in perdita.
    Quando il costo supera gli utili “immateriali” (pubblicità alle proprie aziende, e possibili “attacchi” a concorrenti o politici ostili), di solito si chiude o si fallisce.
    È capitato alla Provincia Cosentina, ceduta dal gruppo Manna a un gruppo di giornalisti e fallita nel giro di tredici mesi. È capitato a Calabria Ora, fallito dopo vicende controverse. Più sfumata la storia del Garantista, che ha subito un cambio di gestione è poi è fallito.
    Queste tre chiusure hanno lasciato strascichi pesanti di vertenze e questioni giudiziarie irrisolte. Più una tragedia: il suicidio di Alessandro Bozzo, storica firma del giornalismo cosentino.

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    Alessandro Bozzo: la sua tragica morte fece riaccendere i riflettori sullo stato dell’informazione in Calabria

    Quanti peli ha la solidarietà?

    Di Alessandro si ricorda un funerale commovente, un processo per far chiarezza sulla morte, qualche evento pubblico e due libri dedicati a lui.
    Della chiusura di Calabria Ora/L’Ora della Calabria, invece, si ricordano le polemiche e gli scandali.
    Dei giornalisti, anche talentuosi, espulsi dalla professione non si ricorda nessuno, tolte le parole di circostanza.
    Del vecchio assetto dell’editoria periodica calabrese restano in piedi due testate: il Quotidiano del Sud (già della Calabria), e la Gazzetta del Sud, più una galassia di giornali online di diversa qualità e fattura.
    Il precariato è la norma, in questa situazione: vi si resiste solo passando da una testata all’altra, spesso in condizioni di estremo disagio.
    Che libertà e che qualità si possono assicurare per questa via? Il resto, le indignazioni passeggere e le finte solidarietà sono chiacchiere.

  • Botteghe Oscure| Il business del “caro” estinto

    Botteghe Oscure| Il business del “caro” estinto

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    Il diciannovesimo secolo portò innovazioni nei vari campi della vita. Perciò anche la morte e le sue adiacenze subirono cambiamenti repentini e radicali. La spinta data dalle leggi successive all’Unità d’Italia sulla costruzione dei cimiteri e l’abbandono delle sepolture nelle chiese fu fondamentale per la modernizzazione della “bottega” della morte.

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    L’Editto di Saint Cloud

    Chiunque abbia studiato I Sepolcri di Foscolo dovrebbe aver conservato una qualche reminiscenza dell’Editto di Saint Cloud (1804), con cui Napoleone vietava nel suo impero il seppellimento dei cadaveri all’interno dei centri abitati e delle chiese. Una legge di civiltà, non c’è che dire, ma che ovviamente in Calabria venne recepita e applicata soltanto molti decenni dopo. Le discussioni sul tema furono vivacissime per tutto il secolo. Ma tra il dire e il fare ci sono di mezzo abitudini secolari, scarse finanze degli enti preposti, e l’atavico immobilismo della classe dirigente. Che fosse ormai necessario costruire un camposanto in ogni centro abitato era ormai chiaro ai più.

    Un moderno cimitero a Cosenza

    Nel 1856 il dottor Michele Fera illustrava agli accademici cosentini la sua relazione sulle febbri che periodicamente affliggevano Cosenza. E tra le misure di profilassi indicava la realizzazione di un moderno cimitero, schernendo chi ancora era restio all’idea: «Non si dee credere che i Camposanti siano stati nelle grandi città costruiti per offrire ispirazioni a’ romantici poeti, o perché l’innamorato trovi una perenne ricordanza de’ passati palpiti sull’avello che chiude il frale di colei che amava, ma denno ritenersi come utilissimo trovato della pubblica igiene per evitare che, colla putrefazione de’ cadaveri, s’impurasse l’aria delle città; e le usanze di tutti i paesi dell’antichità ciò mostrano perché i cadaveri s’incenerivano».

    Essiccati come il baccalà

    Ancora nel 1864 la situazione era pietosa anche nelle città più grandi. Il solito, mai abbastanza appezzato, Vincenzo Padula, nel suo periodico Il Bruzio ci offre un quadro a tinte fosche della situazione cosentina. Passando in rassegna le statistiche comunali, osservò che in dieci mesi erano morte più di mille persone. E che tutte erano state seppellite all’interno delle chiese della città. Gran parte di queste ultime si trovava in pieno centro abitato e l’una non lontana dalle altre. Padula ne aveva esperienza diretta: «Il bruzio abitando a 30 passi dal Cimitero di Santa Caterina ha osservato che il fetore dei cadaveri cresce secondo i gradi di umidità, minimo nelle giornate asciutte, massimo nelle piovose […]. Il possesso di un buon naso diventa una sventura».

     

    Sarà stato anche per questo che buona parte della popolazione negli ultimi mesi estivi e in tutto l’autunno “migrava” nelle campagne e nei casali vicini dove il clima era più salubre. Del resto, proprio nella chiesa di Santa Caterina «i morti non che sotterrarsi sotto un buon cofano di calce, si lasciano disseccare col metodo adoperato pel baccalà».

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    Padula dixit

    Né si deve credere che altrove la situazione fosse migliore. Anzi. È facile immaginare non solo il fastidio arrecato dal cattivo odore, ma anche le implicazioni negative a livello sanitario. «A medicare tanta pestilenza si grida contro i porti, si perseguitano i cani, si chiama l’opra degli spazzini, e non si vuol capire ancora che quel puzzo scappa dalle sepolture, che i morti uccidono i vivi, e che sarebbe miglior senno agli spazzini sostituire i beccamorti».

    Beccamorti 

    Finché si continuò a seppellire nelle chiese, quella dei beccamorti fu una categoria professionale poco numerosa e ancor meno considerata. I documenti ci restituiscono tracce minime di Carmine Mancino e Gabriele Fabiano, abitanti nel quartiere di Santa Lucia. Indicati come “becchini”, nel 1844 si occuparono della registrazione della morte dei fratelli Bandiera. E, probabilmente, del loro seppellimento. Ma la costruzione dei cimiteri era un problema indifferibile e non di facile soluzione. I comuni, che avrebbero dovuto accollarsi tale spesa, non sempre potevano affrontare l’impresa. Inoltre la resistenza della gente, legata alle proprie tradizioni, era forte e trasversale alle varie classi sociali.

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    Atto di morte di Attilio Bandiera, 1844. Foto Museo dei Brettii e degli Enotri

    Confratelli

    I nobili tenevano molto alle proprie sepolture gentilizie, il popolo a riposare all’interno di una chiesa. E parroci e priori delle confraternite si occupavano della gestione di tutto ciò. Le confraternite ebbero un ruolo centrale. Antesignane delle attuali società di mutuo soccorso, erano associazioni laiche di credenti, soggette solo parzialmente all’autorità ecclesiastica, mentre per il resto erano controllate da quelle civili.

    Funerale con Confraternita a Napoli nel 1861

    Le confraternite si occupavano del sostegno ai propri iscritti, che versavano annualmente una quota in denaro, e delle attività di culto. Ma anche di ciò che riguardava la morte, il funerale e la sepoltura dei confratelli. Ogni iscritto aveva diritto a ricevere un funerale particolare, con l’intervento degli altri iscritti e di altre cerimonie. E, soprattutto, a essere seppellito nella chiesa del proprio sodalizio. Un discorso a parte meriterebbero le spese funerarie affrontate dalle famiglie in vista, che per prestigio ambivano a cerimonie particolarmente solenni, ed erano così alte che «tre casi di morte in un anno bastano a rovinare ogni ricca famiglia».

    Servizio pubblico di seppellitori

    Padula proponeva di stornare queste somme di denaro e destinarle alla costruzione del camposanto, visto che «si riposa meglio in campagna, e sotto un albero, o lungo la strada maestra come usavano i nostri antichi che nel recinto d’una chiesa». Un camposanto avrebbe così portato maggiore decoro e migliorato la salute pubblica. Ma la sua proposta era tanto (per l’epoca) innovativa quanto utopica: ogni municipio avrebbe dovuto organizzare un «servizio pubblico di seppellitori, il quale, dietro domanda delle parti interessate, curerebbe l’esequie del defunto in modo eguale e gratuito per tutti, lasciando però la facoltà di pagarle a chi le volesse fatte con maggior pompa».

    La costruzione dei cimiteri migliorò le condizioni igienico-sanitarie di paesi e città. La municipalizzazione del servizio di “seppellitori” avvenuta qualche decennio più tardi non portò invece tutti i benefici sperati, nonostante gli auspici. Le vicende della costruzione dei cimiteri nelle città e nei paesi calabresi in alcuni casi furono delle vere e proprie odissee durate anni. E anche quando realizzati erano spesso in condizioni pessime. Nel comune di Rose, in provincia di Cosenza, nel 1893 le pratiche per la costruzione del cimitero erano state avviate ma i cadaveri si seppellivano ancora nella chiesa di un ex convento, in fosse carnarie ormai sature, tanto che si iniziò a utilizzare anche l’atrio e i corridoi del convento.

    I topi fanno il loro dovere

    Nel 1908 un medico di Catanzaro raccontava che «in alcuni cimiteri della provincia scorrazzano grufolando i maiali». In un paese della provincia di Reggio «il cimitero è circondato da una sconnessa palizzata per cui si introducono nella notte le volpi, tantochè alcuni cacciatori del luogo sogliono mettersi alla posta per ucciderle». Agli inizi del ‘900 in alcuni paesi esistevano ancora le “fosse carnarie”. In una relazione dell’epoca si legge che, ancora in un comune della provincia di Reggio, i cadaveri venivano gettati in una cella carnaria attigua alla chiesa, dove però «durante la notte vi entrano gatti e animali».

    Il sindaco del posto, interrogato su come potesse essere sufficiente quella fossa per tutto il paese, rispose candidamente «i topi fanno il loro dovere». Non mancavano episodi poco edificanti, come il caso di un custode del camposanto di Catanzaro che, per aver sottratto dal cimitero beni mobili come «casse mortuarie, croci di ferro, basi granitiche, ecc.» venne accusato di concussione e il suo caso nel 1895 arrivò fino alla Cassazione.

    Disumani becchini al cimitero di Cosenza

    Nel 1903 il cimitero di Cosenza versava in condizioni pietose, con i cadaveri disposti in «veri carnai» e «i familiari dei morti recenti disponibili a dar mance per ingraziarsi i disumani becchini». A ciò bisogna aggiungere «le Congregazioni di Carità che speculavano sulla concessione dei loculi nelle loro Cappelle», annota Enzo Stancati sulla base di uno spoglio dovizioso della stampa d’epoca. In attesa della municipalizzazione del servizio di pompe funebri, a S. Ippolito e Torzano l’utilizzo del carro era ancora un’utopia e il trasporto dei defunti si effettuava «a spalla d’uomo».

    Un funerale d’inizio Novecento a Paola @Foto Agenzia Funebre De Luca Paola

    Sepolture di carità

    Francesco Marano è un povero lustrascarpe della Cosenza d’inizio Novecento. La morte della moglie «per cui ottenne una sepoltura di carità» lo obbliga ad indebitarsi con la Banca Cattolica per pagare oltre al carro e a una minima «rivestitura della cassa», 2 lire e mezza «per ottenere i documenti dal Comune e centesimi cinquanta per mancia a chi gli portò la cassa». Marano è uno dei primi, impotenti cosentini a finire invischiato nell’allora fiorente ramo industriale del “caro estinto” per trovare un posto alla consorte nel cimitero di Cosenza.

    Cari estinti

    Dal lontano 1903, un’unica ditta, la Gaudio-Cundari, gestiva in maniera monopolistica il trasporto dei cadaveri dell’intera città in un oleato sistema di connivenze e piccole speculazioni proprio a danno degli indigenti. Lo sappiamo grazie a una puntuale Inchiesta sull’Amministrazione del Comune di Cosenza, stilata nel 1913 per conto del Ministero dell’Interno dall’ispettore Paolo Donati, “sceso” per fare le pulci ad amministrazioni pigre e scialacquatrici, tra ammanchi di cassa, scandali piccoli e grandi e una gestione familistica della cosa pubblica.

    Pubblicità di onoranze funebri di Cosenza su un periodico degli anni ’20

    La municipalizzazione del servizio di pompe funebri dalla quale «il Comune potrebbe ritrarre un vantaggio di otto o dieci mila lire all’anno» era ovviamente avversata dall’impresa Gaudio-Cundari alla quale «il Comune paga, invece pel trasporto dei cadaveri appartenenti a famiglie povere lire 12 per ognuno».
    La tariffa corrente, stabilita dal regolamento di polizia urbana, per un carro di terza classe era di 10 lire.

    I miserabili del cimitero di Cosenza

    Nella relazione, l’ispettore governativo pone l’accento sulla gestione della ditta di pompe funebri «cui affermasi appartengano, come soci note persone di Cosenza» e su di un servizio «sfruttato in modo poco pietoso». Ma è la concessione da parte del Comune dei certificati di miserabilità a finire sotto osservazione ministeriale: «Non si dura molta fatica ad essere classificati come poveri, dato il modulo adottato dal Municipio e la facilità estrema con la quale si prestano certi individui, fra cui mi si afferma siano anche i facchini della ditta, ad attestare a favore di chicchessia il concorso dei coefficienti necessari ad essere classificati come poveri».

    La Casa delle Culture, sede dell’amministrazione comunale di Cosenza prima della costruzione di Palazzo dei Bruzi

    L’ultima prova del rodato sistema di connivenze e compiacenze tra la ditta Gaudio-Cundari e l’amministrazione comunale la offre il primo cittadino di allora. Guarda caso si chiamava Antonio Cundari, sindaco dal 22 giugno 1908 al 6 febbraio 1911. In una «statistica dei trasporti funebri per i defunti poveri nel biennio 1908 e 1909», datata 4 aprile 1910, ne denunzia 130 nel primo e 140 nel secondo. Quelli sepolti a carico del Comune risulterebbero, sempre secondo i calcoli dell’ispettore Donati, in un anno circa 180.

    Appalti senza concorrenti

    In una città infestata da batteri d’ogni sorta, con condizioni igieniche allarmanti che minavano la salute dei cosentini, specie quelli di condizioni miserande, l’industria della morte rappresentava una fonte inesauribile di guadagni che gli amministratori tenevano a riparo da fastidiosi concorrenti come Salvatore Belsito. Questi, alla scadenza dell’appalto, si sentì di precisare: «Badiamo di non fare qualche altro contratto a trattativa privata; e loro risposero: non temete, che intenzione nostra è che vada l’asta pubblica, perché vantaggiosa al Comune». Alla fine la premiata ditta Gaudio-Cundari si aggiudicò un altro anno di appalto solo perché non avendo dato la disdetta «nel frattempo il vecchio contratto erasi rinnovato per tacito consenso».

  • Il lavoro quando c’è: nero e irregolare a Cosenza

    Il lavoro quando c’è: nero e irregolare a Cosenza

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    La polemica è stagionale come certi lavori: non appena arriva l’estate partono le lamentele di vari imprenditori contro il Reddito di cittadinanza.
    Alle quali si sono aggiunte, quest’anno, le perplessità sul Salario minimo, approvato da poco dall’Ue e a cui l’Italia dovrà adeguarsi.
    La domanda vera è: queste misure servono? E quanto?
    Di sicuro i dati che vengono dall’altro fronte, quello dell’impresa, non sono il massimo.

    Calabria maledetta?

    I casi eclatanti non mancano, da noi. E di alcuni I Calabresi hanno già dato ampio resoconto.
    Mancano, semmai, statistiche complete attendibili che diano il polso della situazione.
    Detto altrimenti: quanti sono i casi di sfruttamento, di lavoro nero “totale” o di lavoro “grigio”?
    Ancora: quanti sono i casi di evasione, assicurativa e contributiva, ai danni dei lavoratori? Ottenere questi dati è difficilissimo, per una serie di ragioni.
    La prima si chiama omertà: spesso il lavoratore è “colluso” col suo capo. E non sempre perché ne subisce il ricatto: la vita del “padrone”, in Calabria, può essere difficile come quella dei suoi dipendenti.

    I cantieri edili sono spesso luoghi-simbolo dello sfruttamento

    La seconda è dovuta all’inefficienza: gli uffici che dovrebbero vigilare, il più delle volte, non sono attrezzati a dovere, soprattutto a livello di organico.
    Tuttavia, qualche numero da cui partire c’è . Poco, ma quanto basta per mettere un piccolo punto fermo. E capire se siamo o no una terra maledetta.

    Lavoro nero e non solo: un anno di evasioni

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    La sede dell’ispettorato

    I dati dell’Ispettorato del lavoro di Cosenza sono piuttosto parziali. Innanzitutto perché riguardano il solo 2021.
    Poi perché riflettono l’attività dell’ufficio, cioè tutti i casi che i funzionari conoscono in seguito a denunce o ispezioni.
    Eccoli.
    In tutto il territorio provinciale di Cosenza lo scorso anno ci sono state 492 richieste d’intervento, cioè denunce dei lavoratori.
    Sempre nello stesso periodo, sono emersi 434 casi di lavoro irregolare. Ovvero il cosiddetto lavoro “grigio”.
    I casi di lavoro completamente nero sono, invece, più ridotti: 273.
    A questo punto, arriviamo al girone peggiore: i lavoratori in nero che percepiscono il Reddito di cittadinanza. I casi denunciati nel 2021 sono solo 14.
    Ancora: nello stesso periodo, l’Ispettorato ha emesso 236 Diffide accertative (in pratica l’equivalente dei decreti ingiuntivi) per crediti vantati dai lavoratori.
    Il dato più grosso riguarda l’evasione assicurativa e contributiva, che arriva a 2.101.721, 94 euro.
    I casi risolti sono 737. Come valutare questi dati?

    La pagella di Cosenza

    Per quanto parziali, i dati sono gravissimi, perché incidono su un territorio enorme e problematico.
    La terza provincia d’Italia ha un tasso di disoccupazione altissimo (si parla di circa 58mila disoccupati per il 2021 e un tasso del 50% tra gli under 30), che di suo spinge alla fuga.
    Di più, questi dati emergono da un sistema economico essenzialmente terziario, in cui anche il bar sotto casa a gestione familiare è un’azienda.
    Ciononostante, i casi emersi nel 2021 restano pochi, come ammettono per primi proprio dall’Ispettorato.
    È il momento di specificare meglio ciò che si è detto prima sulle inefficienze, reali e presunte, di chi dovrebbe tutelare i lavoratori.

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    Lavoratori in protesta contro lo sfruttamento

    Ispettorato azzoppato

    Si è già detto che i dati raccolti sono il frutto delle denunce dei lavoratori oppure delle ispezioni.
    Ma che verifiche può fare un ufficio spaventosamente sotto organico? Il fabbisogno di personale dell’Ispettorato del lavoro di Cosenza oscilla attorno alle cento unità, tra ispettori e funzionari.
    La disponibilità effettiva è quasi la metà, quindi del tutto insufficiente. Peggio ancora se si considerano anche le attività di polizia giudiziaria (ad esempio nell’infortunistica) che gravano sull’ufficio.
    Non a caso, la scorsa primavera i dipendenti dell’Ispettorato sono scesi in piazza per denunciare che tra le tante emergenze del lavoro c’è anche la loro.
    I dati sono veri, ma stimati in difetto: quelli reali potrebbero arrivare a quattro volte tanto.

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    La manifestazione degli ispettori del lavoro a Cosenza

    Il Reddito è un rimedio?

    Un rimedio no, fanno sapere gli addetti ai lavori, che ammettono per primi che il Rdc è stato un mezzo fallimento.
    Tuttavia, resta un palliativo.
    Stesso discorso per il Salario minimo, di cui desta perplessità il fatto che è pensato su base oraria.
    Si prepara un’altra estate di polemiche. Poi, finite le esigenze stagionali, tutto tornerà più o meno a posto.
    Resta una domanda: quante saranno le irregolarità o le evasioni del 2022?