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  • Il paninazzo made in Calabria che vuol sfidare McDonald’s

    Il paninazzo made in Calabria che vuol sfidare McDonald’s

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    Le idee sono come germogli, ha detto qualcuno. Se poi partono dalle proprie radici e, infilate in un panino, fanno il giro, arrivano alla Capitale e cercano di oltrepassare i confini, allora sono destinate a durare. È la storia di Marco Zicca e del marchio Mi ‘Ndujo, partito da Cetraro alla conquista dei palati italiani ed europei.

    Come inizia la tua storia?

    «Sono nato a Cetraro. Non sono mai stato particolarmente brillante a scuola, quindi inizialmente mi sono messo a fare il pizzaiolo, poi, essendo già molto intraprendente, ho aperto un circolo per far giocare a carte e biliardino. L’altro passo è stato prendere in gestione con la mia famiglia un ristorante solo d’inverno, così nel frattempo la mattina andavo a scuola. A diciannove anni, la prima occasione concreta: il ristorante Miramare (oggi conosciuto come Frittura al metro). Non avevo nessuna esperienza, ma mi sono lanciato e dopo circa due anni le cose hanno cominciato a ingranare bene».

    Sempre da solo?

    «Con la mia famiglia. La tradizione calabrese di gestione familiare, che poi ha continuato ad accompagnarmi nelle mie scelte. Le difficoltà sono tante e senza la famiglia non si possono gestire».

    In che anno hai cominciato a pensare di cambiare?

    «Nel 2006 ho ricevuto la proposta di un amico, voleva aprire un piccolo locale all’interno del centro commerciale Metropolis di Rende, ma non poteva gestirlo personalmente. Ho pensato che fosse comunque importante mantenere un’alternativa al ristorante sul mare e così ho deciso di occuparmene io. Mia sorella mi ha dato una mano. Era Panino Genuino, l’antenato di Mi ‘Ndujo, nel 2007».

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    Il centro commerciale di Rende da dove è partita l’avventura di Mi ‘ Ndujo

    Era già partita l’idea.

    “Sì, contemporaneamente ho aperto in Polonia, tramite un ragazzo che aveva lavorato da me a Cetraro. Ma lì non ha funzionato, perché il centro commerciale del luogo aveva già problemi economici. Quindi ho provato anche a Bergamo, ma lì i ragazzi che lo gestivano hanno fatto troppi errori. Così mi sono riempito di debiti e ho dovuto ricalcolare tutto. È stato un periodo complicato».

    Come ne sei uscito?

    «Ho capito che mi mancavano le basi, allora sono andato a studiare per un anno in una scuola di formazione a Bologna, con la mia Fiat Multipla scassata, avevo sempre paura di restare per strada. Mi serviva capire come funzionassero il marketing, le competenze gestionali, conoscere le strategie imprenditoriali e la gestione del personale. Ho capito gli errori che avevo fatto».

    E hai ripreso il cammino da Cosenza…

    «Sì, abbiamo cominciato a lavorare bene, con una scelta molto attenta a tutti i prodotti del territorio, dalle carni al caciocavallo e alle patate silane, fino alla farina biologica. Le polpette di melanzane le produce un laboratorio di Crotone, quelle di sopressata il Salumificio Menotti secondo la ricetta di mamma Tonia. Grazie all’incontro con Coldiretti, si è sviluppata una collaborazione con tutti i produttori locali che si sono occupati del rifornimento. Niente roba congelata, solo fresca. Persino le bibite, come il chinotto».

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    Patate della Sila e polpette di melanzane: due cibi tipici calabresi che la catena propone ai suoi clienti oltre ai panini

    Quando è arrivata la svolta per Mi ‘ndujo?

    «Con Roberto Bonofiglio. Ci siamo conosciuti perché volevamo investire in bitcoin. Io non ne capivo niente, ma mi ha convinto. Poi parlando gli ho proposto di investire nella ristorazione e ha accettato volentieri. Lui inizialmente voleva provare nel Nord Europa, ma abbiamo ricominciato dal “piccolo”. Aprendo un punto Mi ‘Ndujo a Cosenza, su corso Mazzini, le cose sono andate subito molto bene. Da lì tutto è cresciuto molto velocemente e in poco tempo abbiamo aperto a Quattromiglia, a due passi dall’uscita dell’autostrada. In banca pensavano che fosse un azzardo, quindi ci abbiamo messo soldi nostri. Invece ha funzionato ancora».

    Nel frattempo quante persone avevi impiegato?

    «Già erano una quarantina. Poi ne abbiamo preso altri per gli uffici e quelli del Miramare per l’estate. Ma volevo provare altri territori. Ho pensato prima a Reggio, poi a Catanzaro. Alla fine ho deciso per Roma, che sicuramente, con qualche ora di macchina in più poteva offrire più prospettive di sviluppo. Pensavo ai quattro McDonald’s qui e mi chiedevo: ma perché non posso provare a fare la stessa cosa nella Capitale?».

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    Il progetto di Marco Zicca conquista anche le pagine di Vanity Fair

    E quindi a Roma com’è andata?

    «Sono andato in avanscoperta. Il primo punto vendita lo abbiamo aperto al centro commerciale Aura, nel quartiere Aurelio. Tante difficoltà anche lì, una cosa è viverla da turisti, una cosa è lavorarci. Era la fine del 2019. Poco dopo è arrivato il Covid e abbiamo dovuto ricominciare tutto, sfidando la paura e cercando di restare in piedi, attivandoci subito con le piattaforme di delivery e facendo riunioni online per studiare ogni giorno strategie nuove di sopravvivenza».

    Come siete usciti dalla pandemia?

    «Piano piano, ogni piccola consegna che riuscivamo a fare era una conquista. È stato un momento di grande disperazione, ma ci siamo intestarditi, da veri calabresi. Cinque soci più due ragazzi che lavoravano con me. Una volta finita la tempesta, oggi possiamo dire di essere rimasti in piedi».

    E oggi quanti Mi ‘Ndujo ci sono a Roma?

    «Ne abbiamo sei, oltre a quello all’Aurelio oggi ne ho uno in centro, Ponte Milvio, poi al rione Monti, un altro sulla Tuscolana, uno nel centro commerciale Euroma2 e uno in zona Piazza Bologna (storica zona di immigrati calabresi nella Capitale). La Banca Centro Calabria ha creduto in noi, ci hanno fatto un finanziamento importante per aprire nuovi locali. In Calabria sono rimasti tre locali».

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    L’interno di uno dei locali aperti da Zicca

    Pensi di aprire altri punti Mi ‘Ndujo nella regione?

    «Sì, ho ancora l’idea di aprire anche a Reggio, sul lungomare e a Catanzaro Lido. Poi Milano, Bologna e Puglia. L’idea adesso è quella di aprire un po’ in tutta Italia. E magari riprovarci all’estero. Oggi siamo circa 120 persone».

    Siete anche molto attivi sui social…

    «Eugenio Romano, il nostro direttore marketing, si occupa di questo aspetto e poi mia sorella Teresa fa i video, intervistando anche i ragazzi che lavorano per noi. Noi teniamo tanto alla formazione interna continua. Ogni punto vendita ha i suoi corsi settimanali e mensili, vogliamo che tutti si mettano in gioco e crescano insieme».

    Hai mai pensato alle fiere per Mi ‘ndujo?

    «Al momento non la vedo come una cosa fatta per noi».

    Secondo te, dei nostri sapori cosa piace di più ai “non calabresi”?

    «La ‘nduja, la salsiccia ma anche cose meno famose come il caciocavallo silano, o i cuddrurìaddri. Ne abbiamo venduto 200 a locale, sono stati un successo, la gente non li conosceva. Poi, in futuro, vorrei introdurre la liquirizia Amarelli, il bergamotto o la rosamarina, anche se il pesce va lavorato in un modo diverso e con quantità e tempi di deterioramento differenti».

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    Uno dei panini sfornati da Mi ‘Ndujo

  • Economisti alla deriva nell’era del «Sì, ma…»

    Economisti alla deriva nell’era del «Sì, ma…»

    Sulla stampa economica internazionale, nell’ultima settimana, è apparsa una fortunata sintesi linguistica, la Yes, But Economy, per descrivere la sorprendente incongruenza delle tradizionali categorie interpretative di chi, per sfortuna o per scelta, si trova a svolgere il mestiere dell’economista.
    L’economia del “sì, ma”, giusto per tradurre alla meno peggio la fortunata formula coniata dalla stampa specialistica USA, è legata al crollo delle residue certezze degli economisti.

    Inflazione mai così alta in 40 anni? Si parte

    Qualche esempio anche italiano: gli economisti sono preoccupati dalla recessione legata all’energia? Sì, ma (appunto) nel frattempo il mercato del lavoro registra le migliori performance dell’ultimo decennio in materia di nuova occupazione creata.
    L’inflazione non è mai stata così alta negli ultimi 40 anni? Sì, ma (e sono due), solo per il Ponte dell’Immacolata, 12 milioni di italiani si sono messi in viaggio, incuranti del caro bollette e di Salvini al governo.

    Il divario tra Nord E Sud si allarga o no?

    La Svimez presenta l’ennesimo bollettino di guerra sullo stato di salute dell’economia meridionale dicendo che il divario con il Nord si allarga? Sì, ma (ancora?) esistono alcune filiere produttive meridionali (energie rinnovabili in primis) che possono fare per il Sud la differenza nei prossimi anni.
    Il triangolo debito pubblico, inflazione, guerra fa paura? Certo che sì, ma (e basta) ecco che l’Istat, per novembre 2022, stima un aumento sia dell’indice del clima di fiducia dei consumatori (da 90,1 a 98,1) sia dell’indice composito del clima di fiducia delle imprese (da 104,7 a 106,4).

    Grande è la confusione sotto il cielo, specie per gli economisti

    Potrei continuare all’infinito. È chiaro o no che ormai sono saltati tutti i paradigmi dell’analisi economica tradizionale e che nessuno (e dico davvero nessuno) ha ormai nelle mani ragionevoli strumenti di previsione del cosa ci aspetti proprio dietro l’angolo?
    E per piacere non rispondetevi con un sì, ma…

  • Stessi diritti: Sud alla carica contro le oligarchie del Nord

    Stessi diritti: Sud alla carica contro le oligarchie del Nord

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    Ci risiamo: l’autonomia differenziata è tornata al centro del dibattito, dov’era entrata poco prima delle Politiche del 2018, su iniziativa degli allora tre governatorissimi del Centronord-che-conta: Luca Zaia, Roberto Maroni e Stefano Bonaccini.
    Il tutto con un inquietante trasversalismo (Bonaccini, è il caso di ricordare, è dem di estrazione Pci) che lascia mal sperare.
    L’allarme, allora, partì da Gianfranco Viesti, guru dell’economia, e fu accolto soprattutto da Roma in giù.
    E ora? Ha provveduto Massimo Villone, costituzionalista ed esponente della sinistra dura-e-pura, a rinfrescare la lotta con un ddl che prova a dare uno stop al cosiddetto neoautonomismo, iniziato più di venti anni fa con la riforma del Titolo V della Costituzione promossa da D’Alema.

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    Un momento del dibattito a Villa Rendano

    Se n’è parlato il 9 novembre a Cosenza, per la precisione a Villa Rendano, in Stessi diritti da Nord a Sud, un dibattito promosso dalla Fondazione Attilio e Elena Giuliani, che ha restituito gli umori e le preoccupazioni sulle autonomie.

    Falcone: il Sud alla Riscossa

    Il Sud alla riscossa? Sì. Ma stavolta non fa rivendicazioni inutili o gratuite. Lo ha chiarito Anna Falcone, giurista e portavoce di Democrazia Costituzionale, che sostiene il ddl Villone: «Il Coordinamento Democrazia Costituzionale non vuole demolire l’autonomia differenziata, che anzi per vari argomenti può essere utile».
    Piuttosto «miriamo a garantire i diritti fondamentali del cittadino attraverso l’uniformità normativa».
    In pillole: «Ci sono materie che non possono essere gestite direttamente dalle Regioni, neppure da quelle più ricche». E cioè: Sanità, Scuola e istruzione, Università e ricerca, Lavoro e Infrastrutture. «Questi settori», prosegue Falcone, «Devono essere disciplinati dalla legge dello Stato per garantire l’uniformità di trattamento di tutti i cittadini».

    Altrimenti, «L’Italia rischia di fare un percorso antistorico: un Paese già non grande di suo che si spezzetta in aree più piccole si indebolirebbe davanti all’Ue, che ha fatto il contrario». Ovvero, che «sta pian piano cementando la sua identità politica attraverso i fondi del Pnrr». Detto altrimenti: attraverso la solidarietà.

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    Anna Falcone

    Esposito: attenti al portafogli

    Non è del tutto vero che il Coordinamento Democrazia Costituzionale non abbia rivendicazioni. Lo ribadisce l’intervento di Marco Esposito, firma economica de Il Mattino di Napoli e autore di due libri chiave di un certo neomeridionalismo: Zero al Sud (Rubbettino, Soveria Mannelli 2018) e Fake Sud (Piemme, Milano 2020).
    «Il progetto dell’autonomia differenziata contiene un nuovo pericolo, dovuto al Pnrr». In pratica, alcune classi dirigenti del Nord, secondo Esposito, «mirano a egemonizzare questi fondi».
    Con un risultato paradossale: «L’Ue ha concesso i fondi all’Italia sulla base di tre parametri a rischio: popolazione, disoccupazione e reddito», che sono determinati (purtroppo) dalla situazione del Sud.
    Viceversa, se si fosse puntato sul Pil, che avrebbe avvantaggiato il Nord «il Paese avrebbe avuto le briciole».

    L’inghippo dell’autonomia differenziata

    Quindi, i problemi del Mezzogiorno consentono l’incasso dei fondi, che tuttavia il Nord vuole capitalizzare. Anche con un meccanismo non bello: la predisposizione di una “cassa” da cui le Regioni ricche potrebbero attingere i fondi che i “terroni” non sono in grado di impiegare.
    Ma la situazione è cambiata: «Il Sud non è solo, perché una parte dell’opinione pubblica settentrionale ha capito l’inghippo» ed è pronta a dare battaglia.

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    Marco Esposito

    Gambino: il Parlamento è impotente

    Silvio Gambino, costituzionalista e ordinario Unical, denuncia un’altra insidia: la marginalizzazione del Parlamento nell’attuazione delle autonomie differenziate.
    «La legge Calderoli, che attua il comma 3 dell’art. 16 della Costituzione, è bloccata. Tuttavia, è prevista un’intesa diretta tra governo e Regioni, che il Parlamento può solo accettare o respingere in blocco, senza possibilità di emendamenti».

    Una specie di plebiscito da aula, che non consente passi indietro, a meno che non vogliano farli le Regioni. «Tuttavia, perché una Regione dovrebbe rinunciare a ciò che la avvantaggia?».
    Ma la avvantaggia fino a un certo punto: «Se l’autonomia differenziata passasse», spiega ancora Gambino, «Ci troveremmo di fronte al paradosso per cui una Regione a Statuto ordinario come la Lombardia avrebbe più poteri di una Regione a Statuto speciale come la Sicilia, che a sua volta ne ha di più della Baviera, che non è una Regione, ma il più ricco Stato federato della Germania». Ogni altra considerazione è superflua.

    Paolini: che brutta la prepotenza delle oligarchie

    Più barricadero, Enzo Paolini di Avvocati Anti-Italicum. L’autonomia differenziata, argomenta Paolini, «è una delle due facce della stessa medaglia». L’altra è il Rosatellum.
    Già: «Il sistema elettorale attuale è prodotto dalla stessa cultura istituzionale che vuole riformare le autonomie». Cioè «una cultura irrispettosa del rapporto tra cittadini e rappresentanti e che vuole privilegiare solo le oligarchie».

    Giannola: silenzio, parla Svimez

    In chiusura del dibattito, il lungo intervento di Adriano Giannola, il presidente di Svimez. Più di quaranta minuti a braccio, densi di concetti e polemiche, gestiti con tono pacato ma parole ferme.
    Il ragionamento centrale di Giannola è semplice: il Sud è ridotto male, ma il Nord arretra. Morale della (brutta) favola: le tre Regioni che vogliono l’autonomia differenziata rischiano di  diventare le cenerentole dell’Europa settentrionale.
    Di questo pericolo ci sono le avvisaglie: «Il Piemonte è entrato nell’area di coesione e alcune Regioni del Centro (Marche e Umbria) sono in palese declino».

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    Adriano Giannola

    Quindi, o si cresce tutti assieme oppure il crollo sarà inesorabile: solo questione di tempo.
    La possibilità di ripresa passa attraverso la posizione geografica dell’Italia: «Il centro del Mediterraneo che guarda verso l’Africa, un continente problematico ma in forte crescita commerciale».
    Ma con la litigiosità interna e la scarsa intenzione del governo a gestire seriamente le opportunità, quasi non ci sono vie di uscita.
    I terroni, quando si arrabbiano, incutono qualche timore. Ma quando pensano fanno addirittura paura.

  • Piccole e medie imprese: nuove frontiere della sostenibilità

    Piccole e medie imprese: nuove frontiere della sostenibilità

    Sostenibilità Esg per le piccole e medie imprese. È questo il titolo del convegno in programma lunedì 12 dicembre alle ore 17 nella sala De Cardona della Banca di Credito cooperativo Mediocrati a Rende.
    Il convegno è stato promosso da Eftlia in collaborazione proprio con la Bcc Mediocrati.
    Eftilia è presente anche in Calabria grazie allo studio del dottore commercialista Clemente Napoli.
    Lo scopo dell’evento è quello di diffondere la cultura della sostenibilità nelle comunità imprenditoriali, finanziarie ed amministrative del territorio ed assicurare la crescita di medio-lungo periodo delle PMI.
    L’iniziativa può contare sul patrocinio de il Sole24ore, di cui Eftilia è partner qualificato, e su quello di Confindustria Cosenza.
    Dopo i saluti di Nicola Paldino (presidente Bcc Mediocrati) e Fortunato Amarelli (presidente Unindustria Cosenza), interverranno: Paolo Sardo (presidente di Eftilìa); Mauro Pallini, presidente di Scuola Etica Leonardo; Annarita Trotta (docente Unical e amministratore delegato di BCC Mediocrati).
    Coordinerà i lavori del convegno Federico Bria, segretario generale Bcc Mediocrati.

  • Economia senza lavoro: il futuro bussa al reddito di cittadinanza

    Economia senza lavoro: il futuro bussa al reddito di cittadinanza

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    «Entro il prossimo secolo il lavoro di massa sarà cancellato da quasi tutte le nazioni industrializzate» (La fine del lavoro, J. Rifkin, ed. Baldini & Castodi). Era il 1995 e Rifkin spiegava che il lavoro, almeno per come siamo stati educati a pensarlo, è finito. Non era una profezia, era uno sguardo proiettato verso un futuro che già allora non era lontano e che oggi è diventato il tempo che stiamo vivendo. Quell’annuncio trova riscontro in quanto accaduto in questi decenni: oggi per produrre la stessa quantità di ricchezza di ieri sono necessarie meno ore di lavoro e meno lavoratori.

    Vuol dire che un numero sempre maggiore di persone è stato e sarà espulso dal sistema produttivo, restando così senza reddito. A muovere questa rivoluzione è la capillare diffusione dell’alta tecnologia, che invece di promettere meno ore di lavoro e una migliore qualità della vita, ha generato disoccupazione globale e immiserimento delle esistenze. L’economia non si è fermata, semplicemente ha cominciato a fare a meno delle persone.

    L’economia fa a meno delle persone

    E se l’economia non genera più lavoro, ha ragione De Rose a domandarsi nella sua riflessione sul nostro giornale «che senso ha ancorare il destino di tante persone alla formula odiosa dell’occupabile?».
    È per questo che praticamente ovunque nei paesi ricchi si è provveduto a pensare a forme di reddito separato dal lavoro. Questi provvedimenti hanno molte facce: solidarietà sociale, rivendicazione del diritto all’esistenza, ma più di ogni altra motivazione quella più aderente alla realtà è garantire l’accesso al consumo.

    In Calabria in realtà questa è una vecchia storia: qui, dove abbiamo saltato ogni forma di sviluppo industriale e dove l’assenza di lavoro è endemica, il sostegno al consumo ha avuto le sembianze del clientelismo e delle pensioni di invalidità erogate à gogo. Nella nostra regione, secondo i dati Istat aggiornati al 2021, il 18,4 per cento della popolazione è senza lavoro, con la provincia di Crotone a guidare la classifica, seguita da Vibo, Cosenza, Catanzaro e Reggio.

    Reddito di cittadinanza: Calabria e numeri

    Nella regione con una storia antica di emigrati – quelli la cui vita era legata “alla catena di montaggio degli dei”, come scriveva Franco Costabile – e con livelli altissimi di disoccupati, sono ben 62.548 i nuclei familiari che vivono grazie al reddito di cittadinanza, che il governo ha annunciato di cancellare. Per maggiore precisione, secondo i dati forniti dal report “Monitoraggio sul reddito di cittadinanza” aggiornato al 2019, sono 149.626 le persone in Calabria che affidano la propria dignità a quella forma di sostegno economico.

    Nella terra dei “prenditori”

    Considerata la fragilità dell’economia calabrese, quante possibilità hanno di trovare un lavoro? Togliere loro il Reddito di cittadinanza si traduce nel costringerli ad emigrare, oppure ad accettare condizioni di lavoro lontanissime dai livelli accettabili di dignità.
    Questa terra è piena di “prenditori” che piomberanno famelici su questo esercito di persone senza tutele di alcun genere, esattamente quelli che fin qui si sono lamentati di non trovare lavoratori perché “sdraiati sul divano”.

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    Un meme pubblicato sulla pagina Fb “Sostituire frasi di Fisher a quelle di Coelho sulle foto degli influencer”

    E qui giungiamo all’aspetto più attuale e tragico: l’etica del lavoro, con la quale ci hanno sempre ingannato spiegandoci che solo il lavoro rende autenticamente liberi, è finita. Al suo posto è rimasto il moralismo che condanna l’ozio del divano, il reddito senza la fatica, in un mondo in cui il lavoro non c’è più. Aumenteranno i poveri e la disperazione sociale, che la destra si è mostrata storicamente più brava a trasformare in consenso.

  • «Occupabile sarà lei!»: la povertà diventa status

    «Occupabile sarà lei!»: la povertà diventa status

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    Un nuovo soggetto rivoluzionario si aggira per l’Italia: l’occupabile.
    Si tratta, secondo la previsione normativa, di “soggetti sani, dall’età anagrafica compresa tra i 18 anni e i 59 anni che non abbiano nel nucleo familiare disabili, minori o persone a carico con almeno 60 anni di età, che non svolgano un’attività lavorativa (sia autonomamente che come subordinati) e che non frequentino un corso di studi o di formazione”.

    L’occupabile e il reddito di cittadinanza

    A leggere la lista dei requisiti, sembrerebbe tutto sommato una categoria di fragilità minore.
    E invece no perché, nel frattempo, sono diventati oggetto di una contesa che sta a metà tra la logica economica tout court e il peggiore paraculismo burocratico Italian style. Si tratta infatti di un esercito di ben 660mila unità destinate, nella migliore delle ipotesi, a ricevere il sussidio del Reddito di Cittadinanza, condizionato e non oltre gli 8 mesi, in attesa dello stop definitivo previsto, per gli occupabili, nel 2024.

    E se il lavoro non c’è?

    Ora la domanda è: ma l’occupabile, comunque disoccupato perché non trova lavoro, perché dovrebbe perdere il sussidio? Solo perché non ha malattie, figli disabili o genitori a carico?
    La sensazione, triste, è che solo lo scivolamento verso la povertà assoluta possa rendere, di fatto, gli occupabili destinatari del reddito di cittadinanza.
    Se l’economia non genera lavoro, che senso ha ancorare il destino di tante persone a questa formula odiosa dell’occupabile?

    Un futuro paradossale

    La beffa delle moderne politiche attive del lavoro è tutta qui: dato il rallentamento della crescita e la pre-recessione, considerato che è difficile trasformare gli occupabili in occupati, solo chi certificherà e documenterà la propria povertà potrà accedere ai sussidi.
    Paradossalmente, quindi, la povertà deve diventare status per trasformarsi in diritto al sussidio.
    Occupabili di tutta Italia unitevi: la povertà è il vostro futuro.
    Con buona pace di Keynes, moltiplicatori, acceleratori e pieno impiego.

  • L’Antitrust frena ancora Caronte: basta monopoli sullo Stretto

    L’Antitrust frena ancora Caronte: basta monopoli sullo Stretto

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    Già nella primavera scorsa l’Antitrust aveva comminato una sanzione da 3,7 milioni di euro alla compagnia Caronte & Tourist. Il motivo? La società di navigazione, in posizione di assoluta dominanza nel traghettamento passeggeri con auto al seguito sullo stretto di Messina, aveva sfruttato il suo potere di mercato per applicare prezzi ingiustificatamente alti e gravosi per i consumatori.

    Ora per la Caronte arriva un’altra tegola e sempre da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Tutto nasce da una richiesta di concessione demaniale marittima per la realizzazione di un nuovo sistema di approdo per il collegamento Reggio Calabria-Messina. L’Autorità di sistema portuale dello Stretto a luglio scorso aveva, infatti, formulato una richiesta di parere all’Antitrust, sul diniego, già opposto, alla richiesta della compagnia di navigazione. E ieri (5 dicembre) ha pubblicato le motivazioni alla base della decisione.

    Stretto di Messina, un nuovo caso Caronte per l’Antitrust

    L’Agcm, in pratica, consiglia di fare bandi di gara ad evidenza pubblica per le concessioni e la scelta dell’affidatario, invece di decidere solo sulla base delle richieste del soggetto interessato, in questo caso Caronte. L’Autorità ritiene, infatti, che solo l’utilizzo di adeguate procedure di confronto competitivo, attivate su impulso delle stesse autorità portuali, siano in grado di offrire due garanzie. La prima è la necessaria coerenza del contenuto della concessione con la pianificazione strategica effettuata a livello nazionale o di singole Autorità portuali. La seconda, l’affidamento della stessa concessione al soggetto che sia maggiormente in grado di utilizzarla nel rispetto dell’interesse pubblico.

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    Si legge chiaramente nel parere dell’Antitrust: «Al fine di ridurre al minimo la discrezionalità delle autorità portuali, massimizzando invece il grado di trasparenza e di equità della decisione, il processo di selezione dei concessionari non dovrebbe prendere le mosse esclusivamente dall’istanza del soggetto interessato, come avvenuto invece nella presente circostanza, ma con un bando e in una procedura ad evidenza pubblica. In tale prospettiva sarebbe opportuno evitare di rilasciare la concessione a soggetti verticalmente integrati nella fase di erogazione dei servizi di trasporto passeggeri o merci, in modo da consentire una fruibilità il più possibile ampia delle infrastrutture realizzate da parte di tutti i soggetti interessati».

    Più trasparenza, meno monopoli

    L’Agcm consiglia anche di inserire clausole nei bandi di gara per garantire che nella gestione del nuovo molo di attracco di Reggio Calabria tutti i servizi per le attività di traghettamento vengano erogati dal concessionario. Sia in autoproduzione, sia in favore di altri operatori che dovessero richiederle (la cosiddetta “clausola multivettore”). Trasparenza massima, equità e pluralità per coinvolgere più ditte ed evitare monopoli, quindi. Più in generale, infatti, la compagnia Caronte, sempre secondo l’Antitrust, gode già di un’assoluta leadership sullo Stretto. Trasporta il 75-80% circa di passeggeri, il 90-95% di automobili e il 60-65% di mezzi pesanti.

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    Mezzi in coda per imbarcarsi a Messina

    Infine, il parere sulla richiesta delle nuova concessione prescinde, ovviamente, dall’eventuale sussistenza di ulteriori e diversi motivi ostativi al rilascio della concessione stessa, che dovessero derivare da ordini di considerazioni di natura non concorrenziale, quali ad esempio l’incompatibilità delle istanze presentate con i vincoli ambientali e urbanistici esistenti o altro.
    «L’Autorità – conclude la delibera dell’Agcm – auspica che le osservazioni sopra svolte possano essere tenute in adeguata considerazione da parte dell’Amministrazione richiedente».
    Solo nelle prossime settimane si potrà comprendere come proseguirà la vicenda.

  • Da Catanzaro alle città del futuro: Paola Cossu, cervello in fuga… a ritmo di musica

    Da Catanzaro alle città del futuro: Paola Cossu, cervello in fuga… a ritmo di musica

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    Paola Cossu è un cervello in fuga. Da Catanzaro al mondo, sempre alla ricerca di un accrescimento professionale e culturale, sempre in movimento.
 Paola Cossu è partita dalla Calabria, subito dopo il liceo, perché per seguire il suo percorso era necessario andarsene, come molti figli di questa terra sanno, una scelta obbligata. A Roma si è laureata in Scienze Statistiche. Poi, parallelamente, è diventata AD di Fit Consulting, azienda leader nel settore della mobilità urbana sostenibile, e manager di Paola Turci, artista tra le più originali e coraggiose della musica italiana con quasi 40 anni di carriera. È una calabrese illustre.

    Partiamo proprio dalle radici: dove sei nata?

    «Sono nata e cresciuta nel centro storico di Catanzaro, in una condizione perfetta: I giardini davanti casa, circondata da giovani come me. Ero una privilegiata, non usavo motorino né mezzi pubblici, avevo tutto lì. Sono nata in un quartiere “bene”: mio padre discendeva da una famiglia nobile di giudici e notai, ma lui era un funzionario Inps e ispettore di vigilanza, mia madre insegnante elementare. Questo mi ha avvantaggiato perché la mia era una famiglia senza pregiudizi, io e mia sorella siamo sempre state estremamente libere in ogni nostra scelta. Sicuramente non era la tipica famiglia del Sud».

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    Uno scorcio del centro storico di Catanzaro
    C’è un ricordo in particolare che leghi a Catanzaro e alla Calabria?

    «Ce ne sono tanti, ma sicuramente quelli più legati alla scuola. Mi piaceva tantissimo studiare, ho fatto il liceo scientifico. Ho avuto anche la fortuna di avere professori molto aperti, leggevamo Repubblica in classe con quello di filosofia, negli anni ’80 non era una cosa banale. Ho imparato dai miei prof giovani a essere uno spirito critico e aperto. Mi piaceva tantissimo, avevo la consapevolezza di essere già molto fortunata. Andavo al cinema, a teatro…».

    Un posto del cuore, in Calabria?

    «Dal 1975 ho una villetta sul mare, a 20 km dalla mia città. È il mio posto del cuore, rappresenta tutta la mia infanzia, la mia adolescenza, i momenti più belli. Ancora oggi che mio padre non c’è più, l’estate è lì, con mia madre e mia sorella. Arrivo, mi metto gli zoccoli e mi sento libera».

    Quando hai iniziato a pensare “in grande” e capire cosa volevi fare?

    «Ho fatto poche scelte nella mia vita, ma tutte molto convinte. Quando mi sono diplomata volevo andare via dalla Calabria, non perché non la amassi, ma perché sapevo che per quello che volevo fare io era impossibile restare. L’unica facoltà che non c’era e che era solo a Roma: Scienze Statistiche. Ero obbligata, i miei mi hanno capita. Il primo anno un po’ di ambientamento, poi in casa con altre ragazze, infine ho preso un appartamento con mia sorella. Dopo la laurea, con una tesi super sperimentale sui titoli azionari, con un prof che sceglieva ogni anno uno studente soltanto per fargli fare tesi così. Ero felicissima, ci ho messo un anno e mezzo per finire ed è stato faticosissimo».

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    Roma, La Sapienza: l’ingresso della facoltà di Scienze Statistiche
    E dopo?

    «Dopo ho deciso che dovevo cominciare a guadagnare qualcosa e ho cominciato con lezioni private di statistica, matematica finanziaria, redazione di tesi. Quindi ho lavorato per una compagnia di assicurazioni e dopo qualche mese ho incontrato il mio attuale socio. Mi ha proposto di entrare in una società di progetti europei sulla mobilità sostenibile con sede a Orte, disse che c’era da lavorare e da viaggiare tanto. I miei non erano molto convinti, preferivano che rimanessi nelle assicurazioni, ma sono sempre stata allergica all’idea che qualcuno mi dicesse cosa dovevo fare o non fare, è il mio carattere.
    Questa mia caparbietà mi ha quindi portato a viaggiare, a imparare bene l’inglese, a scrivere progetti per la Commissione Europea. Dopo tre anni sono diventata socia perché lui mi aveva detto che se avessi raggiunto gli obiettivi stabiliti mi avrebbe regalato una quota. E così dal 3 per cento nel 1998 sono passata a diventare amministratore delegato di Fit Consulting nel 2003. In cinque anni. Avevo 33 anni».

    Quali pensi siano le sfide realistiche in questo settore, data l’urgenza del cambiamento climatico?

    «Io sto lavorando su diversi piani, due fondamentali. Il primo riguarda una gestione dinamica degli spazi della città per tutti, non possono più essere ad uso esclusivo di una categoria: per la logistica e per il trasporto pubblico. Di giorno uso lo spazio per una cosa, la sera per un altro. Tutte le infrastrutture della città devono essere messe a servizio: mobility hub, cioè spazi dove trovi la fermata del bus, la ricarica elettrica, il car sharing, la bicicletta.

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    Il secondo riguarda l’e-commerce, che ha cambiato davvero non tanto i processi logistici, ma proprio l’abitudine delle persone: sono diventate compulsive. Il delivery deve diventare più lungo possibile, non è pensabile né sostenibile che la consegna sia per forza in un giorno. Amazon ha voluto soddisfare il singolo cliente nella sua singola necessità. Ma se tu acquisti un bene e lo vuoi domani, hai un impatto forte sull’ambiente, quindi è urgente responsabilizzare il cliente sulla sua scelta di acquisto. Bisogna lavorare sulle persone. L’acquirente ha un potere enorme, così si possono capovolgere i poteri».

    A proposito di logistica, cosa pensi del Ponte sullo Stretto?

    «È una stronzata. Un programma europeo ha finanziato un ponte grandioso, quello che congiunge Svezia e Danimarca, e quello ha un senso prima di tutto perché non ci sono appalti, subappalti e subappaltini. Secondariamente, lì ci sono le infrastrutture che consentono di gestire la domanda. Ma se tu fai il ponte che arriva a Messina e a Messina non ci sono le infrastrutture che smaltiscono il volume di traffico è una proposta fuori dal mondo. È una megalomania propagandistica e opportunistica. Bisogna creare ferrovie, migliorare le strade, promuovere il turismo».

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    Il ponte di Øresund, che – insieme a un tunnel sottomarino – collega Svezia e Danimarca
    Come hai incontrato, invece, Paola Turci?

    «Nel 1996, tra gli album Una sgommata e via e Volo così. Lei aveva un fan club gestito da un’altra persona che mi ha chiesto di aiutarla. Dall’immediata stima reciproca è nato un affetto grande. Negli anni abbiamo costruito e tenuto viva la passione di tutti i fan che la seguono, cercando di darle continuità. Il mondo della musica è molto difficile: puoi avere il miglior discografico che vuoi, ma devi avere la tua fanbase, le persone che ti amano e comprano i tuoi dischi».

    Qual è la qualità che più apprezzi in lei, come persona ancor prima che come artista?

    «È una persona fragile e forte allo stesso tempo. Le vuoi bene perché, al di là dell’enorme talento che le ha fatto sempre mantenere un livello artistico alto senza mai scendere a compromessi, Paola è una persona libera. La sua libertà è la sua forza ed è anche la sua generosità: i fan lo avvertono. Ho una grandissima stima di lei. Fare la sua manager richiede tanta attenzione, riuscire a tutelarla e a farle esprimere il meglio. Il suo nuovo progetto teatrale sta andando benissimo, la prima cosa che lei mi ha chiesto è stata il teatro. Sta facendo sold out dappertutto, sarà un grandissimo successo. È lei con le persone davanti, ma non è più la musica. È una cosa diversa. Paola ha tantissimo coraggio, non ha paura. La frase più significativa di questo spettacolo è: “Pensate quello che volete di me: io sono libera”».

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    Paoa Cossu con Paola Turci
    Un’ultima domanda, a risposta secca: in cosa la Calabria è imbattibile e in cosa è pessima?

    «Il calore, la generosità, l’ospitalità e la simpatia, la genuinità delle persone sono qualità per cui la nostra regione è imbattibile. I calabresi accolgono a braccia aperte, come faceva mio padre. La cosa che invece assolutamente non apprezzo è il vittimismo: è il freno più grande allo sviluppo della nostra terra».

  • BOTTEGHE OSCURE | Quando il freezer era la Sila

    BOTTEGHE OSCURE | Quando il freezer era la Sila

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    Quanto sareste disposti a pagare per un chilo di neve? Probabilmente nulla, ma attenzione: la domanda non è così peregrina come si può immaginare. Fino a circa un secolo fa (prima dell’avvento dei mezzi meccanici per produrre il ghiaccio), la neve alimentava un discreto mercato anche fuori dai mesi invernali. Era pratica diffusa acquistarne quantitativi più o meno grandi da usare in casa per i motivi più svariati, dal più intuibile tentativo di rinfrescare l’acqua a realizzare bevande. Che ai nostri trisavoli piacesse gustare una scirubetta ad agosto, diciamocelo, non ce lo saremmo immaginati.

    La pratica era diffusa non solo in Italia ma anche in Francia, Germania e in altri paesi europei. Certo, suscita curiosità come un simile settore economico abbia potuto prendere piede anche al Sud e in Calabria in particolare, visto il torrido clima estivo. Era necessario disporre di neve, o ghiaccio, nei mesi estivi, quindi bisognava trovare il modo per conservarne nei mesi invernali, quando ce n’era in abbondanza. E quale luogo se non la Sila poteva divenire la “miniera” calabra dove “estrarre” questo prodotto?

    In Magna Sila

    «Su i monti della Sila vi sono alcuni fossi, ne’ quali si ripone la neve, che con diritto proibitivo si dispensa alle popolazioni delle due Calabrie» scriveva nel 1788 l’avvocato Giuseppe Maria Galanti nella sua Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie. La Sila era tra gli “arrendamenti”, cioè le fonti di gabelle e imposte per il Regno di Napoli, che ne appaltava la riscossione a privati. La Sila generava allo Stato un gettito fiscale non indifferente perché forniva legname per le navi, pece bianca e nera di buona qualità, pascoli. E, appunto, neve in abbondanza.

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    Pinelli, venditore di Sorbetti a Napoli, 1840

    Nello stesso periodo nella città di Napoli la neve si vendeva al minuto a tre grana il rotolo (circa 900 grammi). I venditori la compravano a 2,40 ducati al cantaro (circa 90 kg, dunque 2,4 grana al rotolo, con un guadagno di 0,60 grana a rotolo) e su questi dovevano pagare diverse gabelle. Una buona parte della neve “napoletana” arrivava in città via mare dalla Calabria e in particolare dalle neviere silane. Si trattava di cavità, a volte naturali ma molte altre volte opera dell’uomo, quasi sempre sotto terra, nelle quali d’inverno la neve veniva accumulata, pressata e compattata fino a formare un enorme blocco di ghiaccio. Le neviere venivano poi “foderate” con legname, foglie o paglia, creando, per quanto possibile, una sorta di isolamento termico.

    A vineddra d’a nive

    Dalla centrale (almeno un tempo) piazza del Duomo, si dirama a sinistra della Cattedrale l’attuale via Giuseppe Campagna, che scende verso il quartiere dello Spirito Santo. Siamo nel cuore del centro storico di Cosenza, a monte delle antiche mura romane che costeggiavano il fiume Crati, in quella che tutti conoscono come a vineddra d’a nive.
    La delimitano in alto la piazza del duomo e in basso la pustìerula, la postierla, porta d’accesso secondaria nelle mura della città. Era conosciuta nel ‘500 come ruga dei Morti, probabilmente per via del vicino cimitero della Cattedrale.

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    La ‘vineddra d’a nive’ nei pressi di piazzetta Toscano

    Iniziò successivamente ad essere indicata come via della Neve perché divenuta intanto il punto di concentrazione delle neviere urbane e dell’attività di vendita di neve e ghiaccio, che generalmente avveniva da maggio ad ottobre. La via era adibita a questo uso probabilmente perché, essendo stretta e formata da edifici alti, il sole difficilmente riusciva a penetrare fino a giù. I bassi di via della Neve erano così perfetti per realizzarvi le neviere cittadine e replicare il sistema silano all’interno di grotte e cantine. Anche qui erano presenti delle cavità scavate nel terreno dove la neve veniva stipata, e coperta di paglia perché la temperatura rimanesse più bassa possibile.

    Caterina a nivara

    Dalle pergamene dell’Archivio storico diocesano di Cosenza apprendiamo come agli inizi del ‘700, ad esempio, vi operasse Caterina De Prezio alias a nivara, vedova di Francesco Santanna da Cosenza che nel 1709 vendette al Capitolo della Cattedrale di Cosenza la sua casa «sita in Cosenza alla Ruga dei Morti o dove si vende la neve». Il soprannome a nivara dato alla De Prezio e il toponimo rappresentano una testimonianza straordinaria del legame tra luogo, abitanti e attività commerciali: via dei Mercanti, degli Orefici, dei Cassari, dei Pettini, delle Conciarie, piazza delle Uova, del Pesce, dei Follari, della Neve e così via. Si trattava di attività spesso portate avanti dalle classi popolari, ma la vera partita si giocava molto più in alto.

    Monopolio sulla neve

    La possibilità di estrarre la neve era prerogativa del regio fisco, che ne appaltava la gestione a privati. Il conduttore della bagliva e delle neviere della regia Sila, aggiudicatario dell’appalto, aveva la gestione in monopolio della distribuzione della neve in tutta la regione. Non di rado sorgevano controversie tra questo, i baroni e le università demaniali, che pretendevano di mantenere alcune libertà sui loro feudi e territori. I “conduttori” avevano il compito di far realizzare le neviere in Sila e il loro monopolio subiva la concorrenza di feudatari e università con territorio in altre zone nevose, dove sorgevano altre neviere in genere per uso locale.

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    Biblioteca Nazionale di Napoli. 1770. Documentazione della causa dei baroni calabresi contro il Conduttore delle Neviere

    I problemi arrivavano quando feudatari e università calabresi posti in luoghi senza neviere non acquistavano la neve della Sila dal conduttore delle neviere ma da altri feudatari o università che le realizzavano per proprio consumo. Ne scaturivano dispute infinite per dazi e diritti vari, con “molestie” ai nevaioli che trasportavano e vendevano la neve in giro per la regione.

    Appalti e multe

    «La sera fui presa da un caldo violento; mandai a comprarmi un po’ di neve. Gesù! Che porcheria! Vi era paglia, vi era cenere, né potei spiccarne un po’ di netto per metterlo dentro il bicchiere e rinfrescarmi l’acqua». Così fa dire Vincenzo Padula a Mariuzza Sbriffiti nel 1864 su Il Bruzio, in una lettera-denuncia in cui accenna alla scarsa qualità della neve venduta a Cosenza. E non era un problema di poco conto. In città l’appalto per la vendita della neve era oggetto di dibattito nell’amministrazione comunale ancora nel 1869.

    Per il municipio di Cosenza l’appalto della “privativa della neve”, come veniva in passato indicato il sistema di monopolio esercitato dal Comune sulla vendita della neve, era una risorsa finanziaria consistente. L’aggiudicatario dell’appalto aveva il compito di provvedere al trasporto della neve dalla Sila alla città, venderla pulita e scartare quella gelata. Nei mesi estivi la richiesta era tale che l’appaltatore doveva fare in modo di tenere le rivendite aperte giorno e notte «per ogni bisogno, almeno fornita di non meno di otto balle di neve». E per gli inadempienti erano previste pesanti multe.

    U Zumpo

    A dispetto dell’attuale rete idrica colabrodo e della relativa mancanza cronica in gran parte dei quartieri cittadini, nei tempi passati attorno all’acqua cosentina – pubblica, potabile e pure di buona qualità – gravitava tutta una serie di attività. La data più importante da annotare è il 14 marzo 1899. Centoventidue anni or sono, infatti, l’arcivescovo – che, scherzo del destino, di cognome faceva Sorgente – tenne a battesimo insieme al sindaco Salfi la fontana detta dei Tredici canali, così detta per il numero di “bocche” all’epoca tutte attive (che però all’inizio erano dodici). Quest’ultima era il simbolo di quel progresso che, finalmente, portò l’acqua corrente in città grazie alla rete idrica dello Zumpo. Lo stesso acquedotto che in epoca fascista sarebbe stato affiancato da quello del Merone per servire una città ormai lievitata a vista d’occhio.

    La “belle époque” dell’acqua cosentina vide venire alla luce tre floride attività. Nell’estate del 1900 i cosentini andavano a fare i bagni nel fondo agricolo dei Frugiuele detto “la Castagna”, dentro una vasca d’acqua – «potabile» secondo le autorità sanitarie – che proveniva dallo Zumpo. A questa si aggiunse nel 1911 la gloriosa Risanatrice, una lavanderia a vapore che fungeva anche da stabilimento balneare. Ma, cosa più importante, fu l’impianto nel 1912, sempre alla Castagna, di una ghiaccieria o ghiacciaia, vale a dire una fabbrica per la produzione di blocchi di ghiaccio.

    Una “dieci” di ghiaccio

    L’acqua allo stato solido, in forma di neve oppure ghiaccio, conserva un posto speciale nelle memorie bruzie. Nei vasci della vineddra d’a nive, a un tiro di schioppo dal Duomo, la stessa veniva raccolta e conservata in apposite vasche e cummegliata con uno strato di paglia. Oggi la maggior parte di quei magazzini versa in uno stato pietoso, ricettacolo di macerie e spazzatura. Dell’antica pratica di conservare la neve per i più svariati usi non rimane la benché minima traccia.

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    Un ‘vascio’ nella ‘vineddra d’a nive’

    Ma ancor più care nella memoria collettiva sono le due storiche e rinomate “ghiacciaie” cosentine: Cinnante, sempre ara Castagna, e Gervasi ara Riforma. Quest’ultima fino alla seconda metà degli anni ‘50 era ritrovo per grandi e soprattutto piccini, specie per motivi di centralità e densità abitativa. A pochi metri dalla salita dell’ospedale civile – oggi via Migliori – nello stabile che per molti anni ospiterà un rifornimento di benzina stava la rinomata ghiacciaia di Gervasi. Qui accorrevano torme di monelli armati di mappina pulita a comprare il ghiaccio. A quell’epoca con 10 lire te ne portavi a casa quasi 1 chilo e mezzo!

    L’Anthony Quinn della Riforma

    «Lo portavamo a casa e ccu u murtaru du sale o ammaccaturu si triturava per ottime granitine a base di mel’i ficu, mandorla o altri estratti che si aveva in dispensa» ricorda un nostalgico Ciccio De Rose. Qui pare che un tipo dallo sguardo torvo e dai lineamenti poco gentili desse quotidianamente vita a una danza del ghiaccio. Servendosi di uno spaventoso arpione, l’Anthony Quinn della Riforma tirava giù con vigoria gli enormi pezzi che si formavano per via di alcune serpentine poste nella parte alta del locale. Un movimento che ripeteva fino allo sfinimento, cadenzato dalla caduta dei pesanti blocchi che s’infrangevano su una sorta di tavolato. Qui li frenava lo stesso omaccione a colpi d’arpione, per poi ridurli con una serra a mano in “tagli” da cinque, dieci e venti lire per i più svariati usi ed esigenze.

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    Piazza Riforma negli anni ’60: il distributore di benzina ha da poco preso il posto della ghiaccieria di Gervasi

    L’Anthony Quinn bruzio appese il proprio arpione al chiodo intorno alla fine degli anni ’50. Le due ghiaccierie sopravvissero ancora per qualche anno, ma non ressero all’arrivo dei moderni frigoriferi e congelatori, una vera e propria svolta per quanto concerne la conservazione degli alimenti e le abitudini famigliari. Furono in breve gli altoparlanti Marelli, in vendita da Scarnati in piazza Ferrovia e da Caputo in via Sertorio Quattromani, a suonare il requiem per neviere e ghiacciaie cosentine.

     

  • Lo sviluppo che non c’è: l’area di Saline Joniche, tra ‘ndrangheta e truffe dello Stato

    Lo sviluppo che non c’è: l’area di Saline Joniche, tra ‘ndrangheta e truffe dello Stato

    Soffiano ancora i venti della rivolta di Reggio Calabria, quando si parla per la prima volta del porto di Gioia Tauro, che avrebbe dovuto rappresentare l’affaccio sul mare del Quinto centro siderurgico, un sogno svanito al pari delle altre promesse contenute all’interno del cosiddetto “Pacchetto Colombo”: le Officine Grandi Riparazioni e la Liquichimica di Saline Joniche.

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    La zona del Quinto centro siderurgico durante i lavori del 1976 (foto Michele Marino)

    Oggi di quell’opera non resta che uno scheletro che costeggia la SS106, la “strada della morte”. Uno scenario in cui si sarebbe potuta girare la serie Chernobyl: quel pilone altissimo e, attorno, ruderi, capannoni e paludi.
    Saline Joniche è lo specchio dello sviluppo che non c’è in Calabria. Con la devastazione del territorio ancora lì, come monito, a distanza di decenni. E a nessuno con i tanti, tantissimi, fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è venuta in mente un’idea per provare a rilanciare quell’area in provincia di Reggio Calabria.

    La stagione dei grandi appalti

    I Moti di Reggio
    I Moti di Reggio

    Agli inizi degli anni Settanta, conclusi i giorni della rivolta, venne la stagione dei grandi appalti. Un fiume di finanziamenti pubblici inondò Reggio e provincia per la realizzazione di alcune grandi opere. Tra queste, la Liquichimica, il V Centro Siderurgico ed il raddoppio della tratta ferrata Villa S. Giovanni-Reggio Calabria. La prospettiva degli insediamenti industriali e l’esecuzione di alcuni lavori costituiranno quindi il casus belli tra il gruppo emergente della ’ndrangheta, che annoverava nuove leve che sarebbero entrate nella storia della criminalità, e la vecchia generazione che aveva la necessità di riaffermare palesemente il proprio prestigio.

    Da un lato ci sono uomini come i fratelli De Stefano, ma anche Pasquale Condello e Mico Libri; dall’altro ’Ntoni Macrì e don Mico Tripodo. Sono tutti interessati ad opere che non verranno, di fatto, mai realizzate. O che, comunque, non porteranno alcun effettivo beneficio al territorio. Ma alle cosche sì. Grazie a quelle “truffe” governative, la ’ndrangheta si arricchisce e fa il salto di qualità.

    Antonio Macrì

    La crescita della cosca Iamonte

    L’area di Saline Joniche sarà solo un enorme affare per i clan. Come spesso è accaduto in passato. Come spesso accade ancora oggi. Tra gli anni ’60 e gli anni ’70 le cosche calabresi non sono ancora egemoni nel traffico internazionale di droga. Ma proprio attraverso quei denari riusciranno a costruire il proprio futuro. La ‘ndrangheta come la conosciamo oggi è così anche grazie a quei grandi affari. Emblematica, in tal senso, l’ascesa del gruppo Iamonte, una famiglia di macellai assurta oggi al Gotha della criminalità organizzata calabrese. Anche grazie all’affare della Liquichimica e delle Officine Grandi Riparazioni delle Ferrovie dello Stato.

    Ne parla, in particolare, il collaboratore di giustizia Filippo Barreca, uno dei primi e più importanti pentiti della storia della ‘ndrangheta: «[…] La cosca Iamonte è cresciuta attraverso gli appalti della Liquichimica e del porto di Saline Joniche… Ulteriore fonte di arricchimento è poi derivata dalla costruzione dell’Officina riparazione treni sita in Saline Joniche. In sostanza la famiglia Iamonte riceveva tangenti dall’impresa Costanzo di Catania, che è risultata aggiudicataria dell’appalto per la costruzione dell’officina di cui sopra. La tangente veniva pagata grazie all’intervento di Nitto Santapaola e Paolo De Stefano…»

    La droga a Saline Joniche

    Ma il canale ben presto si allarga. Proprio al traffico di droga. La merce che giungeva a Saline Joniche, suddivisa in partite, non era diretta a Iamonte, bensì all’organizzazione De Stefano-Tegano e a quelle di Nitto Santapaola, di Domenico e Rocco Papalia di Platì e dei Calabrò di San Luca. Perché far sbarcare la droga, e in alcune circostanze anche delle armi, proprio a Saline? Natale Iamonte riusciva a ottenere una copertura da parte delle forze istituzionalmente preposte al controllo del porto. Poi, a fronte della “base logistica” fornita, percepiva da tutti i destinatari della merce una percentuale. O in sostanza stupefacente, come nel caso di Nitto Santapaola, o in denaro contante.

    Nitto Santapaola

    Ancora dal racconto di Barreca: «Successivamente il clan Iamonte instaurò un binario proprio e autonomo con Nitto Santapaola in funzione del traffico di stupefacenti […]». Santapaola, quando aveva necessità di individuare coste “sicure” per i suoi traffici non esitava a utilizzare quel territorio sotto il controllo completo della cosca Iamonte. Come infatti ha dichiarato, il 27 novembre 1992, Barreca: «[…] Per quanto concerne il traffico di stupefacenti Natale Iamonte e i figli rifornivano buona parte della provincia di Reggio Calabria e di Milano. La droga arrivava via mare, con navi provenienti dal Medio Oriente che attraccavano nel porto di Saline Joniche».

    Il rapimento Di Prisco

    In questo contesto si incastra il rapimento del giovane napoletano Giuseppe Di Prisco. È il 1976, quelli sono gli anni d’oro della ’ndrangheta con i sequestri di persona. Ma quello di Di Prisco è diverso. Viene effettuato non tanto per il riscatto – che alla fine venne pagato: 180 milioni – quanto per costringere la madre del ragazzo, la baronessa Maria Piromallo Di Prisco a piegarsi. A cedere, cioè, per una cifra identica alla parte di terreno di sua proprietà su cui doveva sorgere la Officina Grandi Riparazioni delle Ferrovie dello Stato. A mettere in atto il rapimento, la cosca Iamonte di Melito Porto Salvo.

    È la stessa baronessa a raccontarlo nel processo che vede imputato e condannato Natale Iamonte. La donna conferma di essere proprietaria dei terreni in Saline Joniche, oggetto di esproprio per dar vita ai due impianti. La Di Prisco si era opposta all’esproprio connesso alla realizzazione della Liquichimica in quanto le venivano formulate offerte imprecise e generiche. Non si era mai giunti alla determinazione della cifra e aveva dato incarico di fare opposizione. La donna avrebbe ricevuto visite di personaggi che si qualificavano rappresentanti dell’Ente ferrovie. Che talvolta le offrivano somme elevate e altre le avanzavano non molto velate minacce («peggio per lei se…» o «meglio per lei se accetta»).

     

    Offerte (più o meno adeguate) e minacce (più o meno esplicite), prima di passare alle vie di fatto. Mandante del rapimento sarebbe proprio Natale Iamonte, il vecchio patriarca della famiglia. Il sequestro di Giuseppe Di Prisco, uno studente ventiduenne, avviene il 22 settembre 1976, poco dopo mezzanotte. In quel momento il ragazzo si trovava nei pressi dell’ingresso della sua proprietà insieme a un amico ad ascoltare musica in macchina.

    L’auto venne ritrovata il giorno successivo in zona pre-aspromontana. Seguirono settimane di trattative e di incontri con intermediari. La richiesta iniziale di riscatto era di due miliardi. All’improvviso i sequestratori abbassarono la richiesta e si accordarono per il pagamento di una cifra di 180 milioni. Il padre del ragazzo, l’avvocato Massimo Di Prisco, pagò l’11 dicembre 1976 lungo una strada che gli era stata indicata, quella che da Melito Porto Salvo sale a Gambarie. Successivamente, vi fu un periodo di silenzio e il ragazzo non venne rilasciato. Fino alla data del 3 gennaio del 1977, quando avvenne la liberazione.

    I motivi del sequestro

    Il collaboratore di giustizia Filippo Barreca parla di un sequestro “anomalo”. Era stato «architettato da Natale Iamonte ed è stato portato a termine dai fratelli Tripodi, i quali sono uomini di Natale Iamonte». Tutto finalizzato ad addomesticare i Di Prisco per far sì che cedessero la loro proprietà. La Liquichimica doveva sorgere ad Augusta, ma era stata spostata per volere di politici importanti in Calabria. Lo Stato aveva stanziato migliaia di miliardi e l’azienda non era destinata a funzionare.

    Natale Iamonte
    Natale Iamonte

    Stando al racconto di Barreca, l’obiettivo del sequestro era quello di conseguire «l’esproprio del terreno. In poche parole, subito dopo il sequestro, il tutto fu sbloccato, mi riferisco agli anni 1976, perché il sequestro avvenne nel 1976 e subito dopo la liberazione dell’ostaggio il tutto fu appianato e quindi iniziarono i lavori per la prosecuzione dello stabilimento della Liquichimica di Saline Joniche». L’altro importante collaboratore degli anni Novanta, Giacomo Lauro, racconta del ruolo degli Iamonte sul sequestro: «Proprio fatto apposta per usufruire di quei terreni dove poi le Ferrovie dello Stato, mi ricordo sempre la frase, “si cambia…”».

    La morte dell’ingegnere Romano

    A rendere la storia della Liquichimica ancora più oscura e inquietante è la morte dell’ingegnere Romano, allora direttore del Genio Civile di Reggio Calabria, che stilò una perizia in cui sconsigliava l’uso di quel terreno perché altamente instabile. La perizia, infatti, sparì e i lavori proseguirono. Il direttore si oppose ma poi morì in uno strano incidente stradale. La sentenza racconta di una «zona grigia fatta di politica, ’ndrangheta e massoneria».

    Dell’accaduto parla anche il collaboratore di giustizia Barreca: «Nelle more di questo fatto si era verificato un episodio: l’uccisione fu fatta passare come un banale incidente, l’uccisione del capo del genio civile Romano. In buona sostanza, il Romano aveva ostacolato con una relazione, perché si era verificato uno smottamento, la prosecuzione dei lavori per via del terreno su cui era sorta la Liquichimica. Si trattava di un tecnico di alta professionalità, che poi fu sostituito». Al posto di Romano arriva un altro tecnico che Barreca definisce «molto malleabile». L’intreccio tra poteri, evidentemente, ottiene il proprio obiettivo.

    La politica

    Quelle Officine le volevano tutti. La ‘ndrangheta e Cosa nostra – con Iamonte e Santapaola, per il tramite dell’impresa Costanzo – così come i politici della zona, socialisti soprattutto. Ma servivano anche alle Ferrovie. Anche stavolta emergono i presunti legami tra mondi che, tra di loro, non avrebbero dovuto dialogare.
    Ci vorranno anni per accendere i riflettori sulla potenza della ‘ndrangheta in Calabria. E sui legami tra la criminalità organizzata e il mondo istituzionale. Nel 1993, i parlamentari Girolamo Tripodi e Alfredo Galasso presentano in Commissione Antimafia una relazione di minoranza sulla ’ndrangheta e sul caso Calabria. Lo spunto è l’eclatante omicidio dell’ex presidente delle Ferrovie dello Stato, il reggino democristiano, Lodovico Ligato, assassinato nell’estate del 1989.

    https://www.youtube.com/watch?v=AEMy9oT9_kQ

    Per i due esponenti politici il movente del delitto Ligato non sarebbe riconducibile a un semplice scontro tra cosche per la conquista del potere., ma a uno scontro politico per la conquista dei fondi pubblici. Un delitto oscuro che vedrà il quasi totale silenzio della Democrazia Cristiana, sebbene Ligato fosse «uno di loro», come dirà Oscar Luigi Scalfaro. Trame oscure quelle della Democrazia Cristiana in quegli anni.

    L’uomo forte in Calabria è il deputato cosentino Riccardo Misasi, anch’egli indagato per associazione mafiosa dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Misasi, peraltro, non è l’unico politico di rango a essere indicato (venendo comunque prosciolto) per rapporti con la ’ndrangheta. Il “leone socialista” Giacomo Mancini  viene menzionato dal collaboratore Giacomo Lauro, con riferimento alla vicenda della Liquichimica di Saline Joniche e ai presunti collegamenti con la cosca di Melito Porto Salvo. Un altro collaboratore, Giuseppe Scopelliti, accosta invece il nome di Mancini al casato dei Piromalli di Gioia Tauro. Cosca, se possibile, ancor più potente della famiglia Iamonte. Tutte accuse che non troveranno alcuno sbocco giudiziario.

    Saline Joniche, l’ultima idea prima del buio

    Oggi l’area di Saline Joniche è quell’ecomostro che chiunque, da un cinquantennio a questa parte, è abituato a vedere quando percorre la SS 106 jonica. Non uno straccio di sviluppo. Né imprenditoriale, né turistico. Chilometri e chilometri di paesini a volte poco abitati, di nulla e di scempi ambientali. L’ultimo tentativo di usarla per qualcosa è di alcuni anni fa. Un colosso svizzero – la SEI Repower – si era messa in testa di costruirci una centrale a carbone. Proprio quando, già da tempo, un po’ ovunque quella fonte di energia scompare, dismessa, sostituita con qualcosa di più sostenibile, l’unica idea per la Calabria riportava indietro di decenni.

    Protesta contro il carbone a Saline Joniche
    Protesta contro il carbone a Saline Joniche

    Una campagna marketing per propugnare l’ecologia di quel progetto. Come se esistesse il “carbone pulito”. Contro quella centrale, infatti, si espresse per mesi il grosso della popolazione calabrese. In particolare quella reggina. Fu, soprattutto, uno sparuto gruppo di cittadini di quelle zone, costituitisi in un comitato spontaneo, a sfidare, anche legalmente davanti alla giustizia amministrativa, quel colosso. Una battaglia che appassionò tutti e che costrinse, alla fine, anche la Regione (che aveva parere vincolante) a schierarsi contro il progetto. Il caso più scolastico della vittoria di Davide contro Golia.

    Neanche stavolta però, con i soldi del Pnrr sul tavolo, qualcuno ha pensato di ridare decoro a quella zona e alla sua popolazione. Che immagina qualcosa di diverso per un’area che è l’emblema dei fallimenti e degli imbrogli della politica. Ma, soprattutto, del degrado calabrese e del disinteresse di cui “gode” la regione a livello nazionale.