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  • Comuni al verde, sanità in rosso: conti in Calabria, la Regione glissa

    Comuni al verde, sanità in rosso: conti in Calabria, la Regione glissa

    L’unica notizia uscita dal convegno Bilancio regionale 2021 e Corte dei Conti: quello che i calabresi non sanno, tenutosi a Villa Rendano lo scorso 20 gennaio, è che il Consiglio regionale non ha detto una parola.
    Ed è gravissimo: i rilievi pesanti fatti a dicembre dalla magistratura contabile meritavano più di una riflessione politica in Calabria.
    Vi ha provveduto, in parte, la Fondazione Attilio e Elena Giuliani, che ha radunato attorno al classico tavolo un economista, Giuseppe Nicoletti, un veterano del sindacato, Roberto Castagna, e due sindaci, Stanislao Martire e Pietro Caracciolo, rispettivamente di Casali del Manco e Montalto Uffugo.
    Il tutto, sotto la moderazione del giornalista Antonlivio Perfetti.

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    Il tavolo dei relatori

    Corte dei Conti: la Calabria si confronta 

    Le affermazioni della Sezione regionale della Corte dei Conti sono piuttosto note.
    Ma l’analisi di Nicoletti mette a nudo i problemi con particolare crudezza, perché si basa sulla comparazione tra la Calabria e altre due regioni di media grandezza per rapporto abitanti-territorio: la Liguria e le Marche.
    In apparenza, i dati sembrano simili; tutte e tre le Regioni hanno difficoltà a riscuotere i tributi, e soffrono, inoltre, di forti vincoli ai bilanci, oscillanti in media sul 70%, dovuti alle spese sanitarie.
    Allora, dov’è l’inghippo?

    La povertà fa la differenza

    Quel che ci danneggia, prosegue Nicoletti, è la sostanziale povertà del sistema socio-economico: il reddito medio del calabrese (ci si riferisce solo ai contribuenti e non al “nero”) è di 13.837 euro annui, contro i 22.250 della Liguria e i 19.750 delle Marche.
    Quindi, non riuscire a recuperare un miliardo e mezzo sui sette e rotti di entrate tributarie accertate non è grave: è tragico.
    Soprattutto perché l’aspetto più debole è costituito dalle entrate “libere”, cioè utilizzabili senza vincoli, solo il 12%, dalla spesa per il finanziamento del debito sanitario, non ancora quantificato (155 milioni) e dall’emigrazione sanitaria (242 milioni). Manca poco all’asfissia.

    Le lacune del sindacato

    Roberto Castagna, il segretario generale dei pensionati della Uil, fa in parte un mea culpa: il sindacato è intervenuto tardi nel dibattito dopo aver latitato.
    Il che non è poco, in una Regione dove la tenuta sociale e il sistema dei diritti sono a forte rischio. E questo senza invocare il peso della criminalità organizzata.
    Si rende necessaria, a questo punto, una forte presenza delle sigle dei lavoratori, soprattutto nei settori “caldi”, dalla pubblica amministrazione alla Sanità, appunto.

    L’ira dei sindaci

    Sempre a proposito di Sanità, la provocazione più forte “volata” dal dibattito riguarda le frizioni campaniliste tra Catanzaro e Cosenza per il Corso di laurea in Medicina.
    La proposta, lanciata dal moderatore, di aprire un dibattito tra i rettori di Unical e Magna Graecia, ha punzecchiato a dovere i due sindaci.
    Parteciperemo senz’altro e in prima fila, affermano Martire e Caracciolo.
    La condizione finanziaria della Calabria pesa tantissimo sui Comuni, che restano spesso col classico cerino in mano.
    Così è per molte imposte, di cui sono i riscossori, così per i servizi.

    L’Università della Calabria

    Acqua e rifiuti

    I servizi idrici sono un punto dolente fortissimo, su cui Martire e Caracciolo hanno insistito tantissimo: con che risorse possiamo provvedere alla manutenzione della rete idrica se la maggior parte delle somme va alla società di gestione?
    Discorso simile per i rifiuti: i Comuni si accollano lo spazzamento e la gestione delle discariche. Per questo motivo l’ipotesi, avanzata da Roberto Occhiuto, di centralizzare a livello regionale la riscossione, più che perplessità desta allarmi. E via discorrendo.

    La grande malata: i conti della Sanità in Calabria

    Solo di recente la Calabria ha istituito i “tavoli” di confronto tra sindaci e Regione. E il coordinamento tardivo, ovviamente, non aiuta a lenire la situazione.
    Soprattutto se si pensa che i veri problemi sono altrove. E li rivela un acronimo sinistro: Lea, cioè livelli essenziali di assistenza, dove siamo gli ultimissimi, con un punteggio di 125 su un minimo di 160. Per la Sanità può bastare. O forse no: manca alla conta la quantificazione effettiva del debito. E i 500 milioni rilevati all’Asp di Reggio non fanno sperare bene.

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    L’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria

    Fondi europei e Calabria: i conti non tornano

    Altra nota dolente, i finanziamenti statali ed europei, che sono l’unica vera risorsa di cui disponiamo. La Calabria spende poco (circa 300 milioni l’anno) su un budget di 2 miliardi e rotti. Peggio ancora per le somme da recuperare per sospetta frode o irregolarità: 260 milioni.
    In una situazione così, i conti non bastano: occorrono gli scongiuri.

  • Quel panino “ghiegghiu”: Mi ‘ndujo risponde a papàs Lanza

    Quel panino “ghiegghiu”: Mi ‘ndujo risponde a papàs Lanza

    Il panino della discordia continua a far parlare di sé. Dopo la “scomunica” di papas Pietro Lanza, arriva la nota stampa della rinomata catena di fast food. Che cita Checco Zalone e Kierkegaard per difendere il suo panino ghiegghiu.

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    Papàs Pietro Lanza ha scatenato le polemiche sul nome del panino

    Terroni di Calabria

    «E se non hanno offeso e scandalizzato nessuno le battute ed il gergo nazional-popolare di Zalone al quale non vogliamo minimamente paragonarci, toccando ed unendo tutti col e nel sorriso su temi di stringente attualità, così come nessun calabrese si è mai sentito offeso, anzi, dallo striscione con la scritta Terroni di Calabria col quale qualche anno fa abbiamo inaugurato le nostre sedi a Roma, onestamente non vediamo – fa sapere il management di Mi ‘Ndujo – come e perché possa e debba sentirsi addirittura offesa la grande e gloriosa comunità arbëreshe per un progetto di panino al quale, così come ci siamo da sempre caratterizzati, abbiamo proposto di dare un nome ironico, auto-ironico, divertente, incuriosente e che da oltre 7 secoli non offende nessuno, ma proprio nessuno».

    «U ghiegghiu, il panino senza intenti dispregiativi»

    «Non soltanto, non vi era – si legge nella nota stampa di Mi ‘Ndujo – e non vi è alcun intento offensivo e dispregiativo nella scelta di uno dei nomi più diffusi e riconosciuti per identificare, ripetiamo ironicamente, la comunità italo-albanese ma quel termine, depurato da qualsiasi strascico negativo di centinaia e centinaia di anni fa, unisce oggi in un sorriso e nel richiamo all’esistenza, in Calabria, di una minoranza linguistica che insieme alle altre arricchisce la stessa forza culturale e identitaria distintiva regionale».

    Il dibattito social

    «Prendiamo atto – continua la nota stampa di Mi ‘ndujo – dell’interessante dibattito che si è scatenato sui media e sui social, grazie al progetto del nostro panino, su quali siano le migliori strategie ed i migliori strumenti attraverso i quali recuperare eventuali ritardi ed errori del passato per investire meglio e diversamente sulla tutela linguistica e culturale della minoranza linguistica. Nutriamo rispetto e leggiamo con attenzione».

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    L’interno di uno dei locali della catena Mi ‘ndujo

    Restiamo imprenditori

    «Ma, attenzione, noi restiamo dei semplici e piccoli imprenditori, certo innamorati della nostra terra, di sicuro appassionati promotori della nostra identità più viscerale, senza dubbio convinti sostenitori del valore culturale, economico e di riscatto sociale della nostra biodiversità e della nostra enogastronomia di qualità, ma pur sempre – scandiscono – dei normali imprenditori».

    Alle istituzioni, laiche e religiose, compete e competerà occuparsi con sempre maggiore determinazione della valorizzazione del patrimonio culturale arbëreshe che sappiamo benissimo non coincidere con un panino, ci mancherebbe altro o con l’enogastronomia tipica che però apre porte e finestre culturali, sociali, turistiche ed economiche.

    La compagnia di Acri, Bisignano e Luzzi

    «Ma i panini nei quali – si legge ancora nella nota stampa – continuiamo a mettere prodotti e nomi dialettali e proverbiali di quella Calabria non oicofobica e che non si vergona di se stessa (come ad esempio i panini Acri, Bisignano e Luzzi tre panini cu i cazzi, proverbio antico che non ha mai offeso nessuno) sono stati e restano anche quegli strumenti con i quali stiamo restituendo tanta dignità e fierezza, anche lessicale e dialettale, fuori e dentro la regione ad intere generazioni di calabresi, terroni e ghiegghi, che con un semplice sorriso, senza pesantezza ed a testa alta sanno chi sono, lo dicono, ci scherzano e vogliono competere col mondo, senza pianti, mugugni, lamentele, divisioni, cliché e tabù di un’epoca che fortunatamente non appartiene loro».

  • Aliva, salvare la Natura è un’arte

    Aliva, salvare la Natura è un’arte

    Si chiama Aliva perché produce oggetti di artigianato di design fatti in ferro e, appunto, legno degli scarti di potatura degli ulivi. Un nome semplice, per un progetto che semplice non è. Perché va ben oltre gli aspetti economici, cui pure ogni azienda – anche la più piccola – deve badare. Aliva si è data una missione: raccontare la storia dei territori proteggendone al contempo la natura. Come farlo? Realizzando prodotti con il legno di alberi secolari senza che uno solo di essi venga abbattuto. Di più, piantandone uno per ogni oggetto realizzato. E, con parte del ricavato, formando gratuitamente i contadini sulle migliori tecniche per proteggere le loro piante.

    Fare impresa e difendere l’ambiente è l’idea di quattro giovani calabresi; Antonio Centorrino, Vincenzo Fratea, Gabriel Gabriele e Marco Macrì. «In Aliva – ci racconta Antonio – sono quello che “fa il pr”, curo i rapporti con le aziende e ho disegnato la linea dei prodotti. Chi li ricrea è Vincenzo, artigiano e falegname a Dinami da 25 anni, ne ha 36. Gabriel è uno sviluppatore di Gimigliano e si occupa di tutta la “struttura” web e della sua evoluzione; Marco, di Catanzaro Lido, è il nostro esperto di comunicazione digitale, curerà la promozione e dei social.».

    Secoli in cenere

    Aliva l’hanno creata durante la pandemia, giorni di call, bozzetti, prove scartate. Ma il seme da cui è germogliato il progetto risale al giorno in cui uno di loro stava osservando il suocero accatastare i rami appena potati nel suo piccolo uliveto. Pezzi di alberi che erano là da secoli e di lì a poco sarebbero diventati cenere in qualche caminetto o stufa.
    Perché non farli ancora vivere in un’altra forma, magari una che raccontasse qualcosa del territorio in cui l’albero era cresciuto? La risposta è stata Aliva. Ossia prendere quella legna – ritenuta troppo fresca per usi diversi dal finire nel fuoco – e utilizzarla invece per creare complementi d’arredo. Oggetti, cioè, dalle dimensioni abbastanza contenute da non soffrire l’eccessiva “giovinezza” di una materia prima che, in pratica, non costa nulla.

    Storia e modernità

    «Siamo partiti con l’idea di utilizzare legna di cui ci sono milioni di tonnellate all’anno gratuite. Già ora abbiamo almeno 50 aziende agricole che ce la darebbero gratis, in quale altro ambito puoi avere tutta quella materia prima senza pagarla? Anche volendo comprarla, spenderemmo meno di dieci euro a quintale e con una quantità del genere facciamo centinaia di prodotti. Abbiamo studiato come potere utilizzare il legno più fresco in maniera funzionale».
    E così dai rami di un albero potato a Borgia è nato, ad esempio, Dinami, il primo oggetto prodotto da Aliva. Incarna a pieno lo spirito del progetto: è uno speaker passivo in legno secolare da utilizzare con gli smartphone. Storia, modernità e nessun albero tagliato.

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    Il primo esemplare di Dinami, lo speaker passivo realizzato da Aliva

    Aliva: dalla potatura all’artigianato di design

    Ne saranno realizzati soltanto mille esemplari al massimo, tutti su ordinazione, e di ognuno sarà tracciabile l’intera filiera. «Non siamo noi ad occuparci dell’albero che useremo, ma un potatore certificato da un ente nazionale. Ce ne sono quattro, noi ci affidiamo alla prestigiosa “Scuola Potatura Olivo” del dottor Pannelli. In Calabria sono solo cinque i potatori certificati da Pannelli, più altri 14 con attestati di altri enti. Non ci siamo autocertificati perché pensiamo che la collaborazione con un ente esterno autorevole aiuti anche a dar valore a quello che facciamo. Non vogliamo che qualcuno compri qualcosa che facciamo semplicemente per l’estetica. Il valore e il senso dei nostri prodotti è un altro».

    Si parte sempre solo e soltanto da scarti di potatura. Poi si trasformano in oggetti dal design minimalista legati a un personaggio, un luogo, un mito da ricordare o scoprire. La Torre dell’orologio nel caso di Dinami, piccolo centro di meno di mille anime nel Vibonese e sede dell’azienda, che ha ispirato l’omonimo speaker. Oppure Kaulon, il portachiavi a forma di tassello di mosaico; l’orologio Milone, simile ai cerchi delle Olimpiadi in cui trionfava il campione crotonese, e quello Demetra, richiamo a un’antica statuetta esposta al museo di Cirò Marina. E poi ci sono i vasi ornamentali Castore e Polluce, omaggio alle colonne dell’omonimo tempio perduto rimaste all’interno di Villa Cefaly a Curinga. Infine, la lampada da tavolo Amendolara, ispirata alle forme della Torre spaccata del paese ionico.

    Tre regioni per cominciare

    Una Calabria straordinaria eppure a basso costo, insomma, diametralmente opposta a quella tanto cara – in tutti i sensi – alla Regione di questi tempi. «Non sono le classiche icone tipo la Cattolica di Stilo o il monastero di Tropea. Pensiamo abbiano pari valore, ma siano meno stereotipate. Ne doneremo una copia alle comunità anche come stimolo: sarebbe bello se grazie ai vasi Castore e Polluce, ad esempio, qualcuno riprendesse le ricerche del tempio».

    Gli oggetti appena elencati compongono la collezione Kalavrìa e un esemplare di ognuno andrà in omaggio ai Comuni che li hanno “ispirati”. In arrivo anche la Trinacria e l’Apulia, così da dedicarne una a ciascuna delle tre regioni che insieme hanno l’86% degli uliveti italiani. «Il valore storico degli ulivi nelle altre regioni è inferiore, hanno poco da raccontare. Non c’è legame storico, ideologico, identitario. Per i pugliesi l’ulivo è un simbolo iconico, è nella loro bandiera».

    Un albero piantato per ogni oggetto venduto

    Ma è proprio in Puglia che si è consumata una vera e propria ecatombe di ulivi secolari, oltre venti milioni le vittime della Xylella. Aliva prova a dare il suo contributo anche qui. Grazie alla collaborazione con l’associazione pugliese OlivaMi, per ogni oggetto venduto dall’azienda calabrese si pianterà in Salento un nuovo ulivo. E sulla collaborazione, in generale, Antonio, Vincenzo, Gabriel e Marco puntano tantissimo, proprio alla luce di quanto accaduto in Puglia. Lì la Xylella ha fatto scempio degli alberi proprio perché i contadini non parlavano tra loro, spesso per vecchi asti tra confinanti, ed ognuno ha agito per sé con risultati nulli. È mancato il collante, ruolo di cui vorrebbe farsi carico, invece, Aliva in Calabria.

    L’unione fa la forza

    «Premessa: il nostro primo obiettivo è il profitto. Siamo micro ma pur sempre un’azienda e come tale senza profitto non possiamo sostenerci. Ma ci siamo detti “perché non legare tutto a un progetto ambientale-sociale?”, si potrebbe ottenere un risultato migliore. Se l’obiettivo fosse distribuire corsi di formazione guadagneremmo di più. Ma il nostro non è greenwashing,: non siamo un’azienda che ha sputtanato l’ambiente per 50 anni e poi trova un testimonial green per ripulirsi. Noi non dobbiamo pulirci nulla». Tant’è che i corsi di formazione, li offriranno loro gratis ai proprietari di uliveti con parte del ricavato delle vendite.

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    La prima potatura da cui è partita la produzione di Aliva

    A insediare gli alberi, infatti, non c’è solo la xylella, ma incendi, malattie, altri parassiti e incuria. E insegnare a occuparsi di prevenzione o affidare la potatura a personale qualificato è il modo migliore per preservare le piante. «Io vivo a Bovalino superiore, ma sono originario di Gioia Tauro. Zone piene di uliveti, ma non ho mai avuto la percezione che tra tutti quelli che hanno alberi ci fossero connessioni. Che ci costa provare a essere noi quel collante? Ai Comuni a cui doneremo i primi esemplari che produrremo chiediamo di collaborare alla creazione di un osservatorio sullo stato di salute degli ulivi nel territorio. Il progetto è ambizioso, si tratta di monitorare quasi in tempo reale lo stato di salute degli ulivi in Calabria, Sicilia e Puglia. Il nome del laboratorio lo abbiamo già: SalvOliva».

    La sfida comincia ora

    Nel frattempo, dopo le prime uscite ufficiali alla Fiera dell’Artigianato di Milano e a RaccontArti a Catanzaro, tocca affrontare un’altra sfida, quella del mercato. Con una confezione che più green non si può per ogni prodotto, ovviamente: cartone riciclato ed un letto di foglie di ulivo al suo interno.

  • Caramelle calabresi nella calza della Befana

    Caramelle calabresi nella calza della Befana

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    Considerando che la Befana preferisce il chilometro zero, stanotte avrà fatto rifornimento in Calabria. Calze gonfie come palloncini, giocattoli, monetine di cioccolata, carbone di zucchero, ma soprattutto caramelle e gelatine. E non parliamo dei soliti marchi, quelli super pubblicizzati e famosi in tutto il mondo. Oggi la Calabria può offrire una gamma di golosità, con prodotti dop e ingredienti genuini, che ha pochi avversari in Italia: Silagum. Il nome ha certamente meno appeal rispetto alla celebre griffe degli iconici orsetti gommosi, ma è un’azienda che produce 2.500 tonnellate di caramelle l’anno e da trent’anni è una realtà economica della zona industriale lametina, la cosiddetta ex Sir, a lungo un deserto buio di capannoni vuoti.

    https://icalabresi.it/fatti/calabria-grand-tour-cemento-lamezia-vibo-soverato/
    Lo stand milanese di Silagum a Tuttofood 2021

    Silagum, le caramelle vendute in Russia e Stati Uniti

    Trenta operai, quasi tutti del lametino, e tre turni di lavoro spalmati su ventiquattro ore, perché l’impianto di estrusione, made in Francia, che fornisce le rotelle di liquirizia, lavora giorno e notte. Cinque milioni di euro di fatturato e un grosso investimento per eliminare la plastica dagli incarti. Le caramelle calabresi sono vendute in Francia, Inghilterra, Finlandia, Russia, Stati Uniti. Sono apprezzatissime in Canada ed esportate finanche in Sud Africa e Giappone.

    Primo e secondo tempo

    C’è un primo e un secondo tempo nella cronistoria della Silagum. Nata a fine anni Ottanta per iniziativa della Compagnia delle opere, l’associazione imprenditoriale legata al movimento Comunione e liberazione, grazie ai generosi fondi della De Vico (la legge 44), ha rappresentato un esperimento pilota calabrese dell’imprenditoria giovanile.
    Resta una delle poche superstiti di quell’ondata a distanza di trent’anni. Il tutor è stato il patron del cioccolato Agostoni (prodotto dalla fabbrica lombarda Icam), che è ancora tra i cinque soci. Nel 2005 scoppiava il caso Why Not su intrecci tra potere, fondi pubblici, istituzioni e presunte logge massoniche. L’inchiesta di De Magistris coinvolgeva protagonisti della politica italiana e anche la Compagnia delle opere. Anni di processi e clamori e un finale di assoluzioni.

    Il secondo tempo della fabbrica di caramelle inizia proprio nel 2005, quando entra in azienda Claudio Aquino come direttore commerciale. «Ci sono vari step – spiega – per portare un’azienda al successo. Il primo passo è fare un buon prodotto, poi devi metterlo sul mercato, devi saperlo presentare, dargli un vestito giusto». Aquino, oggi alla guida del marketing ma anche amministratore delegato, sulla vicenda Why Not e fondi pubblici taglia corto. Parla la realtà attuale.

    Nessun sostegno pubblico

    «La Compagnia delle opere ha
 promosso Silagum all’origine, l’ha favorita creando l’incontro tra i soci calabresi e il nostro socio di Lecco Antonio Agostoni, che resta un sostenitore e
 un punto di riferimento. Silagum è un’azienda che cammina con le proprie
 gambe, è una società a capitale privato, che non gode di sostegni pubblici».
 La fabbrica è ancora lì, nella ex Sir, dove qualche capannone si è animato nell’ultimo
decennio. Il trasporto è soprattutto su gomma ma per le destinazioni oltreoceano ed orientali, le caramelle calabresi viaggiano su container, partono da Napoli e non da Gioia Tauro «per scelte logistiche dei nostri clienti» precisa Aquino.

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    Operai della Silagum nello stabilimento di Lamezia Terme

    Silagum: gli inizi con le caramelle al luna park

    «Gli inizi – dice Aquino – sono stati tutti in salita, l’azienda produceva per conto terzi, senza marchio. Si faceva fatica – racconta – ad avere un prodotto di qualità perché mancavano know how e personale specializzato. Le caramelle venivano vendute sfuse nei mercati, nei luna park, nelle fiere. Con caparbietà non ci siamo arresi e abbiamo portato avanti il nostro progetto e abbiamo cominciato ad avere un’identità e importanti riconoscimenti». Oggi il marchio Silagum viene esportato in molti Stati, circa il 30% della produzione è destinato ai mercati esteri.

    La Calabria dentro

    «Abbiamo puntato – commenta Aquino – a farci riconoscere sugli scaffali, prima avevamo un intermediario che rivendeva a marchio suo e non c’era legame con il consumatore. Oggi chi sceglie Silagum sceglie un prodotto di qualità, è questa la nostra forza e il nostro orgoglio». Caramelle profumate e coloratissime, con la Calabria dentro: bergamotti, limoni e arance che provengono da Gioia Tauro e Reggio e poi la liquirizia dop di Naturmed. Siamo molto attenti alle materie prime – precisa Aquino – le gelatine contengono il 20 per cento di succo di frutta e siamo gli unici produttori di rotelle di liquirizia bio».

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    Caramelle al limone prodotte dalla Silagum

    La causa ambientalista

    Il futuro? Roseo, quasi come una gelée alla fragola. «Il post pandemia è stato naturalmente difficile – ammette Aquino – siamo una piccola realtà e abbiamo subìto gli aumenti dei costi delle materie prime. Non possediamo la forza delle multinazionali, ma cerchiamo di innovarci. Da poco è stato fatto un grosso investimento per avere confezioni in carta eliminando la plastica. Siamo molto orgogliosi di dare il nostro contributo alla causa ambientalista».

    Sulle difficoltà e le lamentele di una Calabria arretrata nella produzione e nei trasporti, il presidente del cda della Silagum non segue la consueta linea di molti colleghi imprenditori: «Se hai in testa una cosa e sai che può funzionare, la fai, anche se sei in Calabria. Al centro dell’attenzione non devono esserci le difficoltà, ma bisogna mettere in risalto le caratteristiche positive e le peculiarità. Anche Sperlari, che è di Cremona, ha le sue difficoltà. Diverse dalle nostre, ma le ha. Le caramelle Silagum sono tra le più buone in commercio ed è su questo che dobbiamo puntare».

  • Sanità liquida in Calabria: dove i privati hanno il monopolio

    Sanità liquida in Calabria: dove i privati hanno il monopolio

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    Il concetto di “liquidità” che caratterizza la nostra epoca è stato brillantemente elaborato dal sociologo Zygmunt Bauman. Secondo Bauman, la contemporaneità offre ai cittadini sempre meno riferimenti e certezze, mentre anche i diritti fondamentali soccombono alle regole del libero mercato. La sanità pubblica in Calabria è un ottimo esempio di passaggio dallo stato solido allo stato liquido. Prima di altre Regioni, in Calabria si è avviato il processo di “alleggerimento” dell’intero comparto sanitario, anteponendo i principi contabili al diritto alla cura.

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    Zigmunt Bauman, sociologo e teorico della società liquida

    Il sistema sanitario calabrese, già lontano dall’eccellenza, è stato sottoposto ad una pesante cura dimagrante fatta di chiusure, tagli lineari, depotenziamenti e blocco delle assunzioni, che – tra l’altro – non ha affatto migliorato la situazione finanziaria. Tra gli effetti di questi processi, le strutture sanitarie, sempre più a corto di personale e macchinari efficienti, hanno visto crescere le liste d’attesa fino a negare la possibilità di curarsi tempestivamente. In un contesto di grande incertezza e smarrimento, un cambiamento (forse irreversibile) è avvenuto: la sanità privata ha monopolizzato il “mercato” degli esami diagnostici e delle visite specialistiche.

    Fare sistema o fregare il sistema?

    La favola del pubblico e del privato che in ambito sanitario “fanno sistema insieme” si fa sempre più fatica a raccontarla (ed ascoltarla). I massimalisti del neoliberismo vorrebbero addirittura un mercato concorrenziale tra sanità pubblica e sanità privata, delegando il potere di scelta ai pazienti-consumatori. Le ambiguità e le contraddizioni di un approccio di questo tipo sembrano evidenti: come può il diritto universale alla salute conciliarsi con le logiche del profitto e la volubilità del mercato? Nell’ultimo ventennio si è già assistito al perverso tentativo di aziendalizzare la sanità pubblica, creando un sistema ibrido che stimola la commercializzazione della salute e che restituisce dei risultati non proprio incoraggianti.

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    L’ex presidente della Regione e commissario alla Sanità, Giuseppe Scopelliti

    La cura Scopelliti

    La cura Scopelliti, basata sullo smantellamento degli ospedali territoriali con la promessa (mai realizzata) di creare strutture assistenziali intermedie, ha aperto voragini nell’offerta dei servizi erogati dalla sanità regionale. Nelle strutture pubbliche, come soluzione alle conseguenti lunghe liste d’attesa, la prassi è divenuta re-indirizzare i pazienti verso la sanità privata convenzionata, che si è posizionata in maniera predominante sul mercato. Essendo parte integrante ed adottando la stessa tariffazione del Sistema sanitario regionale (comprese le esenzioni ticket), le organizzazioni della sanità privata non perdono occasione per ribadire il loro soccorso alla sanità pubblica, musica per le orecchie di quelli che “ben venga il privato, se il pubblico non funziona”.

    Sanità, Calabria nel gioco dei privati

    L’impatto con la realtà avviene quando le strutture private convenzionate raggiungono il tetto delle prestazioni annuali rimborsate dalla Regione ed allora, o chiedono al paziente di pagare il prezzo intero, o decidono di sospendere temporaneamente i servizi, alimentando così una sorta di circolo vizioso. La sanità privata convenzionata, tra l’altro, ha la facoltà di scegliere à la carte quali prestazioni erogare, pertanto, si concentra negli ambiti che richiedono un numero esiguo di personale qualificato ed un rimborso conveniente da parte della Regione. Tutte logiche che mal si conciliano con il principio universalistico del diritto alla cure.

    L’emorragia di personale sanitario

    Una delle principali motivazioni del collasso della sanità pubblica calabrese è sicuramente la penuria di personale: tra 2009 ed il 2020, il blocco delle assunzioni ha provocato una diminuzione del 18% del personale sanitario pubblico, che equivale a 2.674 operatori in meno. In aggiunta alla migrazione sanitaria dei pazienti, anche medici ed infermieri, stanchi di doppi turni e vessazioni, hanno avviato un esodo verso altre Regioni e verso la sanità privata convenzionata, che, nello stesso periodo, ha visto aumentare il personale sanitario del 15%.

    https://icalabresi.it/fatti/sanita-calabrese-otto-commissari-per-restare-anno-zero/
    L’ex ministro della Salute, Roberto Speranza con Roberto Occhiuto, presidente della Regione Calabria

    Il limite delle assunzioni

    Ai rigidi paletti fissati dal Piano di Rientro si è aggiunta la negligenza dei commissari ad acta, che non si sono preoccupati di assumere neanche quando i parametri statistici lo avrebbero permesso. Gli effetti a medio-lungo termine saranno forse irreversibili. Scarso appeal della Regione e concorsi che vanno “a vuoto” rappresentano il mantra del commissario Occhiuto, ma neppure una inversione di tendenza ed una maggiore attrattività permetterebbero alla Calabria di recuperare il terreno perso. Infatti, anche il nuovo ministro della Salute Orazio Schillaci ha confermato di non voler mettere mano al limite delle assunzioni che fissa il tetto massimo del personale sanitario ai livelli del 2018, prevedendo dal 2025 una riduzione della spesa sanitaria fino ai livelli pre-Covid.

    Il PNRR? Altro passo verso la privatizzazione

    Le misure finanziate dalla Missione 6 del PNRR non preannunciano alcun cambio di passo, la sanità pubblica sembra destinata ad essere travolta da una aggressiva privatizzazione dell’intero sistema. Infatti, gli investimenti sull’edilizia sanitaria e sull’acquisizione di apparecchiature, lasciano scoperto il nervo del capitale umano. Affinché il PNRR sortisca qualche effetto positivo bisognerà reclutare molte unità supplementari di personale sanitario, ma nulla si prevede in questo senso.

    In Calabria, la nuova geografia sanitaria prospettata dal Piano del commissario Occhiuto offre spunti per nuove incertezze: una programmazione nell’ottica di “portare a casa” risorse da iscrivere sui capitolati di bilancio, piuttosto che sull’analisi dei fabbisogni sanitari e dello status quo delle strutture esistenti.

    Sanità, la Calabria a conti fatti

    I numeri rendono difficile immaginare un funzionamento immediato ed a pieno regime delle nuove strutture assistenziali territoriali. 61 Case di Comunità e 20 Ospedali di Comunità da attivare entro il 31 dicembre 2026, traguardo assai improbabile se si pensa che, nella maggior parte dei casi, non esiste neppure uno studio di fattibilità preliminare per la realizzazione delle opere. La messa in funzione delle nuove strutture assistenziali richiederebbe inoltre diverse unità supplementari di personale: a conti fatti, (al netto del personale da integrare negli ospedali propriamente detti) bisognerebbe inquadrare almeno 350 infermieri e 120 operatori socio sanitari, senza contare medici, assistenti sociali e personale amministrativo.

    L’impossibilità di attivare i servizi con risorse proprie potrebbe spingere la Regione ad affidarsi ancora di più ai privati. Infatti, un particolare non trascurabile è che gli ospedali di comunità e le case di comunità sono modelli particolarmente affini ai settori che la sanità privata convenzionata predilige: riabilitazione, esami diagnostici e visite specialistiche. Ad altre latitudini già si osserva questa dinamica: la Regione si occupa dell’edilizia sanitaria ed i servizi vengono affidati a cooperative, medici a gettone e sanità privata convenzionata, una modalità ormai collaudata per “fare sistema insieme”, mentre l’accesso alle cure, sempre più liquido, inizia già ad evaporare.

    Enrico Tricanico

  • «Autonomia differenziata? Ma proprio no»

    «Autonomia differenziata? Ma proprio no»

    L’autonomia differenziata? «Se passasse, sarebbe la rovina del Sud». E, fin qui, è un luogo comune.
    Ma in questo caso è nobilitato da chi lo esprime: Vittorio Daniele, professore ordinario di Politica economica presso l’Università “Magna Graecia” di Catanzaro e sostenitore originale di una teoria economica importante e anticonformista sul ritardo storico del Sud. Questo sarebbe dovuto non tanto a fattori contingenti o a handicap politici quanto a un elemento fisiologico: la posizione geografica, a causa (o per colpa) della quale il Mezzogiorno è fuori dai traffici economici più importanti.
    Daniele ha sostenuto questa teoria in due volumi: Il divario Nord-Sud in Italia 1861-2011 (2011), scritto assieme a Paolo Malanima, e Il Paese diviso. Nord e Sud nella storia d’Italia (2019), editi entrambi da Rubbettino.
    Al che sorge un dubbio: se il Meridione è condannato alla subalternità dalla posizione, a che serve insistere sul problema delle autonomie?
    La risposta è sofisticata ma non incomprensibile: «Lo Stato e la politica hanno dei ruoli importanti, tra cui il dovere di incidere sull’economia. Quindi, anche di correggere e attenuare i gap territoriali».

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    L’Italia smembrata dagli egoismi politici

    Autonomie differenziate: è un tormentone tornato di moda quasi a ridosso delle ultime politiche. Se passasse questa riforma, avanzata tre anni fa, che succederebbe?

    «Il Sud regredirebbe di brutto, perché i trasferimenti pubblici calerebbero in misura consistente. Si consideri che le regioni meridionali, la Calabria in particolare, dipendono molto da questi trasferimenti, in cui lo Stato fa da mediatore».

    È opportuno chiarire meglio questo meccanismo, su cui si sono creati tanti equivoci.

    «Nessuna Regione del Sud prende soldi direttamente da quelle del Nord. Il Meridione riceve da ciò che lo Stato preleva dal gettito fiscale di tutte le Regioni in base a una ripartizione elaborata sulla base di un criterio: assicurare servizi uguali a tutti i cittadini italiani».

    E quindi?

    «Le tre Regioni del Nord che desiderano l’autonomia sono grandi contribuenti, dati i loro livelli di reddito. Si pensi che la Lombardia pesa per il 22% del Pil nazionale, cioè quanto l’intero Meridione. Se aggiungiamo Emilia Romagna e Veneto arriviamo al 40%.
    Alla base di queste richieste c’è un malcontento generato da un meccanismo economico: le Regioni settentrionali ricevono dallo Stato meno di quel che versano. Viceversa quelle del Sud, la Calabria in particolare, ricevono più di quel che versano. Questa differenza di trattamento si giustifica per garantire l’eguaglianza dei cittadini, che hanno diritto a ricevere cure, istruzione e infrastrutture di eguale valore».

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    Il vecchio spot della Milano “da bere”, simbolo del primato economico lombardo

     

    Un importante fattore politico, che rischia di venir meno.

    «Anche a dispetto del comma due dell’articolo tre della Costituzione, che come sappiamo impone allo Stato di rimuovere gli ostacoli che impediscono o limitano la piena eguaglianza».

    Sorge un dubbio: tutti i Paesi europei hanno divari interni, anche importanti. Possibile che le autonomie siano solo un problema italiano?

    «Le disparità e i relativi malumori esistono dappertutto. Ma i divari economici non implicano affatto differenze nei servizi pubblici. Non è così in Germania, dove il dislivello tra Est e Ovest continua a pesare. Non è così in Spagna, dove pure è avvenuto, circa quattro anni fa, un tentativo di secessione della Catalogna. Non è così neppure nel Regno Unito, nonostante i significativi divari economici regionali. Si noti che in Spagna e Germania, i Länder e le Comunità autonome hanno notevole autonomia, anche finanziaria, e competenze in numerose materie. Ma sono previste efficaci forme di perequazione che assicurano un’uniformità dei servizi».

    «Per esempio, in Spagna il Fondo di garanzia dei servizi pubblici fondamentali ha il fine di assicurare alle diverse Comunità le medesime risorse per abitante, con riguardo a servizi pubblici fondamentali come l’istruzione, la sanità e i servizi sociali essenziali. Il modello tedesco di federalismo è, invece, un modello cooperativo ben funzionante».

    Ciò implica un calo nella qualità della vita.

    «Esattamente. E invito a una riflessione: in altre nazioni europee avanzate, sarebbero tollerate le disuguaglianze nei servizi pubblici che caratterizzano l’Italia? Penso che le funzioni essenziali, soprattutto la Sanità, dovrebbero essere riaccentrate. In un paese disuguale, l’autonomia, a ogni livello, nella sanità come nella scuola, tende ad accrescere le disuguaglianze. E ciò anche per un’evidente differenza nel grado di efficienza delle Regioni nella gestione dei servizi pubblici: si pensi alla sanità in Calabria e in Emilia Romagna. Non è solo una questione di risorse, ma di capacità. In Calabria, la gestione dei servizi pubblici è stata spesso piegata a spicciole logiche politiche e clientelari».

    ».

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    Una protesta contro la Sanità calabrese

    Ma questo non cozza con la sua teoria? Se i nostri territori sono naturalmente depressi perché marginali, a che serve assicurare servizi che non avrebbero comunque ricadute economiche significative?

    «Economia e politica sono interdipendenti. Quindi, ridurre il gap nei servizi significa anche rendere più appetibili i territori a livello economico. In ogni caso, lo Stato ha il dovere di assicurare uguali servizi in tutto il suo territorio e ciò, indipendentemente, dal livello di reddito dei cittadini».

    Il Paese andrebbe davvero in pezzi se passasse l’autonomia differenziata?

    «Non credo ci sarebbe alcuna secessione, neppure “mascherata”. Si esaspererebbero le disparità e i dislivelli, già notevoli. Ma l’Italia continuerebbe a esistere, coi problemi di sempre: un Sud sempre più ridotto a serbatoio di forza lavoro e un Nord produttivo».

    La soluzione?

    «Dubito che i meccanismi di perequazione per le regioni con minore capacità fiscale, siano in grado di garantire uniformità dei servizi con la realizzazione dell’autonomia differenziata. Non solo per una questione di risorse, ma anche per le differenze nelle capacità gestionali delle Regioni meridionali. Penso che le politiche nel campo della sanità, dell’istruzione e delle infrastrutture di collegamento dovrebbero essere centralizzate: se ne dovrebbe occupare lo Stato. Per il resto, ognuno faccia da sé. Ma questi servizi devono essere uguali dappertutto».

    L’Istruzione: un altro settore che soffre il decentramento

    Secondo le teorie che ha aggiornato ed esposto in due libri diventati classici, il divario Nord-Sud non è l’effetto di patologie storiche ma è fisiologico. Cioè, è dovuto alla posizione geografica.

    Q«ueste riflessioni hanno un precedente illustre nel grande economista cosentino Antonio Serra, che agli inizi del Seicento indicava chiaramente come la situazione territoriale del Regno di Napoli, una penisola nel centro del Mediterraneo, quindi lontana dai grandi traffici, fosse un oggettivo svantaggio. Attenzione: quando scriveva Serra il processo storico che avrebbe reso le rotte mediterranee secondarie rispetto a quelle atlantiche era ancora agli inizi. Purtroppo, i fatti continuano a dargli ragione».

    Il Sud, quindi, non ha potuto o non è riuscito a svilupparsi?

    «Il Nord è stato avvantaggiato dalla dimensione del suo mercato interno e dalla vicinanza ai grandi mercati del centro-Europa con cui si è economicamente integrato. Il Sud, distante oltre mille chilometri da quei mercati e a lungo penalizzato dalla carenza di infrastrutture, è rimasto periferico. La geografia non è stata l’unica causa, ma ha contato molto nel determinare il ritardo del Sud e, seppur meno che in passato, conta ancora».

    Quanto c’è di vero nella tesi che il ritardo del Sud si debba a scelte politiche delle classi dirigenti settentrionali?

    «È innegabile che l’industrializzazione del Nord, specie nella prima fase, sia stata sostenuta dall’azione statale. Il Sud, per lungo tempo, è stato trascurato. Il divario tra le due aree, inizialmente piccolo, è aumentato in tutta la prima metà del Novecento. Poiché il processo di sviluppo tende ad autoalimentarsi, quel divario, storicamente accumulatosi, non è stato più colmato».

    Una vecchia immagine-simbolo della questione meridionale

    E le classi dirigenti meridionali che colpe hanno?

    «Hanno tante colpe, sebbene non tutte quelle che gli sono attribuite. C’è un dato fondamentale, evidente da almeno venti anni: le classi dirigenti meridionali hanno molto peso sul proprio territorio, sia perché sono mediatrici di risorse pubbliche sia per l’assenza di contropoteri sociali ed economici, ma sono modeste su scala nazionale e irrilevanti a livello europeo. E questo ha pesato, va da sé, anche per le autonomie differenziate».

    Come?

    «Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono state esaudite non appena hanno alzato la voce perché il Sud era sguarnito. Non c’è praticamente un leader meridionale di peso in grado di contrastare le tentazioni autonomiste».

    Eppure, il partito maggioritario della coalizione di governo ha nel suo bagaglio culturale una tradizione nazionalista che dovrebbe contrastare certe spinte centrifughe.

    «Se ci si riferisce a Fratelli d’Italia, sarei molto cauto: il partito di Giorgia Meloni ha preso il 26% su una percentuale di votanti pari al 64% degli elettori (percentuale molto più bassa al Sud). Quindi, siamo al 16% degli italiani. Ancora: Fdi ha riscosso molto più consenso nel Centronord che al Sud. E si consideri che i ministeri chiave, cioè Affari Regionali e Autonomie, Infrastrutture ed Economia, sono in mano alla Lega. Siamo sicuri che gli eredi della Fiamma Tricolore abbiano la forza e la determinazione necessarie per difendere le prerogative dello Stato e le esigenze del Sud?».

  • Corruzione: per il Viminale solo il Molise peggio della Calabria

    Corruzione: per il Viminale solo il Molise peggio della Calabria

    Reati corruttivi, la Calabria seconda regione in Italia per denunce e reati commessi secondo il report del Viminale relativo al 2022. Parlando del fenomeno sarebbe, ovviamente, riduttivo analizzare solo lo specifico delitto definito dal legislatore come “corruzione”. Come spiegano gli esperti del Viminale, meglio fare riferimento ad una pluralità di reati che vengono considerati come espressione di atti corruttivi o, comunque, rientranti nel concetto della corruzione.

    Non solo corruzione: le 4 categorie nel report

    Il dossier del ministero dell’Interno, a cura del Servizio analisi criminale, ha preso in considerazione dodici fattispecie di reato che ruotano intorno a 4 aree principali: corruzione, abuso d’ufficio, peculato e concussione.  Il Servizio analisi criminale elabora studi e ricerche sulle tecniche di analisi, sviluppa progetti integrati interforze. Utilizza inoltre gli archivi elettronici di polizia e li pone in correlazione con altre banche dati. Monitora, infine, i tentativi di infiltrazione mafiosa nelle procedure di appalto di lavori attinenti la realizzazione di grandi opere, grandi eventi, attività di ricostruzione e riqualificazione del territorio.

    Corruzione et similia: la Calabria ai vertici nazionali

    L’analisi prende in considerazione un periodo di tempo ampio, che va dal 2004 al 2021. La media nazionale di reati corruttivi commessi ogni 100mila abitanti è pari a 10,03. La Calabria ne registra più del doppio – 23,32 – e nella classifica generale si piazza così al secondo posto. Peggio fa solo il Molise, mentre dal gradino più basso del podio in giù troviamo Basilicata, Lazio e Campania.

    Anche nelle sottoclassifiche la Calabria tiene purtroppo alto il suo nomignolo, risultando sempre ai primi posti (in negativo). Nel capitolo concussione (articoli 317, 319 quater del codice penale) la Calabria è terza, dietro a Basilicata e Campania. In quello che si riferisce alla corruzione (articoli 318, 319, 319 ter, 320, 321, 322, 346 bis, del codice penale) la Calabria risulta terza, dietro a Molise e Umbria. Per quanto riguarda il peculato (articoli 314, 316 del codice penale) la regione Calabria è quinta, dietro a Molise, Toscana, Sicilia e Lazio. E infine per l’abuso di ufficio (articolo 323 del codice penale) la Calabria è seconda, dietro alla Basilicata. I dati si riferiscono, come detto, a reati e denunce per ogni 100mila abitanti monitorati.

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    Numero di delitti commessi e segnalazioni riferite a persone denunciate e/o arrestate nella regione Calabria in violazione delle norme contro la Pubblica Amministrazione previste dal Codice Penale

    Qualcosa di positivo c’è

    Ci si può consolare, forse, con le conclusioni del report. Secondo lo studio del Viminale – salvo il peculato e l’abuso d’ufficio, sostanzialmente stabili da quasi vent’anni –  siamo di fronte a «una generale tendenza alla diminuzione della specifica delittuosità». Certo, «tali risultanze non possono essere considerate definitive», anche perché non si può sottovalutare la «indubbia rilevanza della parte sommersa del fenomeno». Ma resta comunque un «andamento tendenzialmente decrescente nel tempo per i vari indicatori».
    La strada verso tassi di legalità maggiori, in Calabria più che altrove, appare ancora lunga e complessa, insomma, ma qualche segnale positivo c’è.

  • Agricoltura, è allarme rosso: milioni di fondi europei a rischio

    Agricoltura, è allarme rosso: milioni di fondi europei a rischio

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    Milioni stanziati e agricoltori trepidanti, dopo aver presentato progetti e aver anticipato spese.
    Ora un erroraccio rischia di mandare parecchie aspettative in fumo, a dispetto di alcuni proclami trionfali della Regione. L’allarme e il potenziale scandalo finora sono rimasti sottotraccia. Forse perché le associazioni di categoria sperano che il problema rientri al più presto. O forse perché ai piani alti della cittadella di Germaneto si tenta di correre ai ripari senza troppi clamori.

    Calabria e agricoltura, tanti fondi in ballo

    L’acronimo più di moda è Pnrr. Come tutti gli outfit all’ultimo grido, ha messo in secondo piano tutto il resto, compresi i fondi Por e, per quel che riguarda l’agricoltura, Psr.
    Quest’ultimo acronimo sta per Piano di sviluppo rurale e ha uno scopo ben preciso: iniettare liquidità nell’agricoltura attraverso vari progetti a cui gli imprenditori del settore partecipano in cofinanziamento.

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    La cittadella regionale di Germaneto

    In parole povere, anticipano parte dei finanziamenti per essere compensati dalla Regione non appena si mettono all’opera.
    Ma quanti soldi ballano attorno ai Psr? Non proprio spiccioli.
    Lo confermano i comunicati con cui l’Assessorato all’agricoltura della Regione ha diramato i pagamenti più recenti

    Pagamenti milionari

    Il primo pagamento, di fine novembre, riguarda il Kit (così in burocratese si chiama la tranche di pagamento) 3 del 2022.
    Ben 44.283.348, 31 euro distribuiti a più di 46mila agricoltori calabresi.
    Anche dicembre sembra partito bene: il Kit 4 ha erogato 33.535.212, 41 euro a 13.754 beneficiari.
    Altri Kit di dicembre hanno sbloccato fondi vari. Pure in questo caso non sono spiccioli.
    Il primo liquida 6.607.219, 09 euro a 513 imprese, per bandi che risalgono a prima del 2022.
    Il secondo distribuisce altre due sostanziose tranche, entrambe anticipazioni per il 2022.
    La prima è di 8.925.470, 47 euro che vanno a 2.071 aziende beneficiarie. La seconda, 1.075.853, 45 euro, va a 175 imprenditori.

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    I fondi Psr hanno un peso enorme per l’agricoltura in Calabria

    A cosa servono davvero i Psr

    È il momento di tirare le somme, da cui si ricavano alcuni elementi utili.
    Il primo: ogni kit di pagamento oscilla, in media, da 20 a 40 milioni complessivi.
    Il secondo: le cifre sono senz’altro milionarie, ma divise per il numero di beneficiari, si riducono a spiccioli. Detto altrimenti, sono la classica boccata d’ossigeno per la sopravvivenza di imprese di dimensioni medio-piccole.
    Terzo elemento: l’elevato numero di beneficiari è indice di un’economia, quella calabrese, che si basa un po’ troppo sull’agricoltura, più che altro per la latitanza degli altri settori.

    Detto altrimenti: laddove, anche nel resto del Sud, l’agricoltura è il 2% del Pil, da noi pesa più del doppio.
    Tutto ciò fa capire come questi fondi siano vitali e come la loro mancata o ritardata distribuzione rischi di mettere a repentaglio la Calabria. Il pericolo, purtroppo, si è verificato.

    Agricoltura: i controlli sui fondi in Calabria

    Per distribuire i fondi Psr, la normativa prevede un meccanismo articolato di controlli, che sono affidati a società specializzate in base a una gara.
    La società privata, esternalizza l’assistenza tecnica. In pratica, esegue i controlli sulle aziende già riconosciute meritevoli di finanziamento e dà parere favorevole. In altre parole: le varie aziende comunicano lo stato di avanzamento dei lavori relativi ai progetti finanziati, la società verifica e invia il “visto si paghi” al Dipartimento agricoltura della Regione che, a sua volta, ordina all’Arcea, l’ente pagatore, di liquidare le somme.
    Ma che succede se la società non è in regola? La domanda non è astratta, perché in Italia l’inghippo c’è sempre. E in Calabria è capitato.

    La raccolta delle fragole

    Il controllore

    L’inghippo è emerso grazie al decreto 16193 dello scorso 10 dicembre, firmato da Antonio Giuseppe Lauro, il responsabile del procedimento di selezione della società incaricata dei controlli, e da Giacomo Giovinazzo, il dirigente del Dipartimento agricoltura della Regione.
    Ad approfondire la vicenda, viene da ridere. Vediamo perché.
    Per individuare il controllore, la Regione indice una prima gara, la numero 8182941 dell’8 luglio 2021. Ma questa gara non si svolge, perché nell’agosto successivo il Dipartimento agricoltura si riorganizza, probabilmente in vista delle imminenti elezioni regionali. Quindi è tutto da rifare.

    La gara è indetta l’11 febbraio scorso. L’11 luglio successivo escono i partecipanti. Sono una società, Cogea Srl con sede a Roma, e due Ati (associazioni temporanee d’impresa). La prima è costituita da Deloitte Consulting Srl più Consendin Spa. La seconda raggruppa tre società: Lattanzio Kibs Spa, Meridiana Italia Srl e Ptsclass Spa.
    Lo spiegamento di forze si giustifica per il tanto lavoro da fare e per il compenso: poco meno di dieci milioni (9.799.462 euro) per cinque anni. Vince Cogea lo scorso 19 ottobre. Praticamente, in zona Cesarini. Ma non passa un mese che Deloitte fa ricorso al Tar. E iniziano i guai.

    Il pasticcio e lo scandalo

    Le accuse di Deloitte non sono proprio irrilevanti. Secondo la società perdente, Cogea avrebbe creato gli atti della precedente gara annullata e poi li avrebbe riproposti tal quali alla Regione.
    Quest’ultima, quindi, non avrebbe fatto il bando da sé, ma sulla base di un documento di un privato.
    E, ad analizzare il documento, regolarmente pubblicato sul sito della Regione, le cose risulterebbero come sostiene Deloitte: nelle proprietà del file si apprende che l’autore è Cogeco. Di più: la data di creazione del file e quella di ultima modifica coincidono.

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    Galeotto fu un pc…

    La risposta della Cittadella è ferma, ma non forte abbastanza: il file, sostiene il responsabile unico del procedimento, è stato formato su un pc della Regione, ma convertito in pdf su un pc di Cogea, che si trovava in un ufficio delle Regione.
    Cogea, a sua volta, risponde che di quel pc non sa nulla perché l’aveva dismesso.
    Non è il caso di approfondire, anche perché col decreto del 10 dicembre la Regione ha provveduto ad annullare la gara vinta da Cogea in autotutela.
    Quindi nessuno risponderà a una domanda banale: visto che tutti i programmi Word prevedono la conversione dei documenti in pdf, possibile che solo la Regione non abbia un programma di videoscrittura aggiornato?

    Il problema

    Ancora la situazione non è esplosa. Ma l’annullamento del bando può provocare molti problemi. Vediamone alcuni.
    Innanzitutto, che succede ai pagamenti in corso o da approvare? Ora che il controllore non c’è, chi prende il suo posto? In teoria, dovrebbero farlo gli uffici della Regione. Ma sono attrezzati?
    Secondo problema: che succede ai pagamenti già approvati da Cogea e non ancora liquidati? Vengono congelati fino a nuova gara? Oppure verranno sanati in qualche modo?
    Terzo problema: che accadrà ai pagamenti già liquidati?
    La contestazione è dietro l’angolo, perché se il Tar dovesse confermare il ricorso di Deloitte, emergerebbe un solo dato: Cogea non doveva trovarsi lì.

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    Gianluca Gallo, assessore regionale all’Agricoltura

    Fondi fermi, il pericolo per l’agricoltura in Calabria 

    In ogni caso, si annuncia un pessimo Natale per tutti gli imprenditori che hanno anticipato somme per avviare i progetti.
    In attesa di capire che pesci prenderà la Regione, in particolare l’assessore all’Agricoltura Gianluca Gallo, è sicuro che si accumuleranno ritardi, che colpiranno tutto il settore agricolo con danni di non pochi milioni di euro a migliaia di aziende.
    L’allarme, al momento, è strisciante. Ma, fanno capire alcune associazioni di categoria (ad esempio la Cia) potrebbe esplodere da un momento all’altro. E quando certi allarmi esplodono, vuol dire che la catastrofe è vicina.

  • Qualità della vita, province calabresi in fondo alle classifiche

    Qualità della vita, province calabresi in fondo alle classifiche

    Come ogni anno Il Sole 24 Ore ha pubblicato il suo report sulla qualità della vita nelle 107 province italiane. E come ogni anno quelle calabresi si ritrovano nei bassifondi della classifica. Fanalino di coda, 107esima su 107, è infatti Crotone. Ma le altre quattro rappresentanti della Calabria non vanno molto meglio. Vibo si piazza al 103esimo, Reggio una posizione più su, Catanzaro 96esima. Cosenza, la meglio piazzata, tiene alto il nomignolo della regione alla posizione numero 95.
    Il quotidiano di Confindustria analizza la qualità della vita attraverso sei macrocategorie, suddivise a loro volta in molteplici indicatori. Ma da qualsiasi punto si analizzi la classifica è impossibile non notare come, invece di progredire, i nostri territori registrino un arretramento.

    Qualità della vita a Cosenza

    Prendiamo il caso di Cosenza, punta di diamante della regione alla luce dei risultati. La provincia bruzia peggiora in 5 categorie su 6. Rispetto all’anno precedente scende di due posizioni in classifica per quanto riguarda Ambiente e servizi (ora è 58esima), Cultura e tempo libero (posizione n°98). Si ritrova 103esima per Ricchezza e consumi, prima era cinque posti più su, e 80esima (da ex 71esima) nella categoria Demografia e società. Precipita di ben 44 posizioni in classifica (ora è 85esima) anche in quella Giustizia e Sicurezza anche per l’incapacità di riscuotere i tributi dei Comuni che la compongono. In questa specifica sottocategoria, infatti, è la terzultima in tutta Italia.

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    Si registra, al contrario, un bel balzo in avanti nella classifica che riguarda il settore Affari e lavoro. In questo caso la provincia di Cosenza guadagna 16 posizioni rispetto all’anno precedente, grazie anche a una percentuale sopra la media nazionale per quel che riguarda l’imprenditorialità giovanile. Ma anche qui c’è poco da esultare. Cosenza, infatti, anche nella sua performance migliore tra le 6 macrocategorie non va oltre l’80° posto in classifica.

    I dati di Catanzaro

    A Catanzaro, invece, si può festeggiare per i pochi furti negli appartamenti: solo in altre tre province italiane ne denunciano meno. Va molto peggio nei tribunali però, con la provincia che si piazza al penultimo posto nazionale per durata delle cause civili e i reati legati a stupefacenti; quartultima invece per la quota cause pendenti ultratriennali, con una durata media che è due volte e mezza quella del resto d’Italia. La provincia del capoluogo regionale comunque può essere soddisfatta rispetto al recente passato. Migliora infatti in tre macrocategorie: Affari e lavoro (50°; + 20 rispetto al 2021), Ambiente e servizi (41°; + 10) e, seppur di poco, Cultura e tempo libero (95°; + 2). Sarà, in quest’ultimo caso, per le 8,8 librerie ogni 100mila abitanti, contro le 7,7 della media nazionale.

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    (foto Antonio Capria)

    Reggio Calabria, la più lenta nei pagamenti

    A Reggio Calabria invece le fatture si pagano più tardi che in tutto il Paese: se altrove la media è di 10 giorni oltre i canonici 30 usati come indicatore, sullo Stretto il tempo extra sale a tre settimane. Certo, la provincia reggina è tra quelle più soleggiate (15°), ma l’apporto al clima di Madre Natura contrasta con il terzultimo posto nella categoria Ambiente Servizi (l’anno scorso era 25 posti più su in classifica). Reggio è terzultima anche per quel che riguarda Cultura e tempo libero, addirittura un gradino più giù se si parla di Ricchezza e consumi.

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    Nubi minacciose sull’Arena dello Stretto a Reggio Calabria

    Sale invece di ben 40 posizioni (ora è 58esima) nel settore Affari e Lavoro, nonostante sia 101esima per tasso di occupazione. Sale anche di 23 posizioni, piazzandosi 52esima, in Giustizia e Sicurezza. Anche qui pesa parecchio la lunghezza delle cause in tribunale, così come il numero altissimo di cause civili, circa il 40% in più che altrove.

    Vibo Valentia non è una provincia per donne

    Vibo invece è la migliore d’Italia per imprenditorialità giovanile sul totale delle imprese registrate, ma anche la peggiore di tutte quando si parla di qualità della vita per le donne. Paradossale, inoltre, che la provincia della Capitale del libro si piazzi nei bassifondi quando si parla di Indice di lettura (87°), Offerta culturale (105°) e librerie (7,3 ogni 100mila abitanti, in Italia la media è di 7,7). In più è la seconda provincia del Paese per numero di estorsioni, quella col maggior numero di cause pendenti ultratriennali e con le cause civili che durano di più. Il valore, in quest’ultimo caso, è di 1.453, in Italia si ferma a 561,9.

    L’insegna sbagliata con cui Vibo si è celebrata “Città del libro”

    Anche il Vibonese, nonostante tutto, può comunque festeggiare per la qualità dell’aria (19°), uno dei dati che gli permette di risalire 14 posizioni, piazzandosi 78° in Ambiente e servizi. E, anche se non esistono o quasi start up innovative sul territorio, anche in Affari e lavoro la classifica segna un sontuoso +49 nel settore Affari e lavoro: ora Vibo è 52esima, l’anno scorso era 101esima.

    Qualità della vita, Crotone ancora nei bassifondi

    Infine Crotone, che si conferma fanalino di coda nazionale. Da qui sono in tanti a scappare, il decuplo che dal resto d’Italia: la provincia pitagorica è 107esima per saldo migratorio totale. Ma Crotone è anche ultima per Depositi bancari delle famiglie consumatrici e Spesa delle famiglie per il consumo di beni durevoli. È anche il territorio con la percentuale più alta di beneficiari del reddito di cittadinanza.E poco importa che qui le case costino in media 1000 euro in meno al metro quadro rispetto al resto del Paese.

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    Italia. Crotone 2013: Veduta della città: Crotone è circondata da colline di argillose che la dividono in due.
    (foto © Agostino Amato)

    Crotone e la sua provincia sono anche il posto dove si studia meno: ultima per numero di laureati (o con altri titoli terziari), penultima per anni di studio tra la popolazione over 25, quart’ultima per persone con almeno un diploma. Chi non studia, però, ha poco da fare nel tempo libero: pochissime librerie (104°), palestre e piscine (106°), ancor meno spettacoli (107°). In compenso gli amministratori pubblici sono tra i più giovani del Paese (4°), nonostante da queste parti si registri la più bassa partecipazione elettorale d’Italia. Qui almeno, però, le cause civili durano meno della media (57°). E in mancanza di altri svaghi si passa il tempo tra le coperte: in sole tre province italiane le donne partoriscono prima che a Crotone, dove l’età media delle neo-mamme si attesta a 31 anni, contro i quasi 32 e mezzo del resto d’Italia.

  • Centrodestra uno e trino: che fine ha fatto il dio mercato?

    Centrodestra uno e trino: che fine ha fatto il dio mercato?

    Vorrei iniziare con una domanda provocazione: che fine ha fatto “la mano invisibile del mercato” nelle scelte del centrodestra?
    Già solo a leggere i programmi economici, si intuisce un caos spaventoso. Si passa dalle grandi opere infrastrutturali, tipo Ponte sullo Stretto e Alta Velocità ferroviaria (quale volano keynesiano dello sviluppo e della creazione di ricchezza) alla flat-tax di Laffer, quale strategia fiscale a supporto della crescita e dei consumi ( e qui siamo in piena supply side economics) fino ad arrivare, nelle scelte degli enti locali territoriali, addirittura, alla gestione semi diretta (simil-IRI per intenderci) di impianti termali, di aeroporti e chissà di cos’altro ancora.

    Centrodestra: tanti voti e poche idee?

    La risposta più ovvia, ma da evitare, è sempre quella: attese le diversità delle anime politiche che lo abitano, il centrodestra resterebbe un efficacissimo cartello elettorale ma un debolissimo progetto politico ed economico.
    Tale caratteristica legittimerebbe le asimmetrie ideologiche e il coacervo, apparentemente irrazionale, di approcci alle questioni di politica economica. Troppo semplice, quasi banale.
    La mia impressione è che ciò sia dovuto a qualcosa di più problematico: si tratterebbe, al contrario, di una risposta politica alla complessità di una fase storica che non consente lussi, quali l’eleganza metodologica piuttosto che l’ortodossia ideologica, nella definizione delle policy.

    Il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (FdI) posa in occasione del giuramento

    Il centrodestra ha abbandonato ormai da tempo la polverosa identità del sogno berlusconiano per sfociare in un pragmatismo deputato a fare sintesi tra liberismo-liberalismo, sovranismo e destra sociale.
    A ben vedere, le tre anime ideologiche del centrodestra stanno provando a cedere quote parte della propria sovranità culturale a vantaggio di un passaggio successivo capace di riallinearle sotto una comune veste strutturale.
    Sarà, forse, la formula istituzionale del (semi) presidenzialismo la nuova frontiera comune del centro destra? E quale DNA economico animerà il nuovo contenitore liberale dei conservatori italiani?

    Che si fa con la destra sociale?

    Deglobalizzazione ed emergenze ambientali, di sicuro, offriranno poco spazio a nostalgie di governance ispirate al liberismo puro.
    D’altra parte, considerando che, in termini elettorali, allo stato, Lega e Forza Italia, insieme, pesano meno di Fratelli d’Italia, appare ovvio immaginare una precisa riconfigurazione delle direttrici di politica economica, non propriamente ispirate al sovranismo e al liberismo della Lega e di alcuni settori di Forza Italia.

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    Le percentuali alle Politiche 2022

    Tuttavia, e qui sta la novità, molti politologici e troppi economisti tendono, inspiegabilmente, a sottovalutare la significativa matrice di destra sociale che caratterizza Fratelli d’Italia. Identificare la destra sociale nella destra liberista (o presunta tale) di Berlusconi e Salvini rappresenterebbe un grande errore e non restituirebbe la vera immagine della coalizione attualmente al governo. Le battaglie su periferie, ceti deboli, ruolo dello Stato, emarginati, famiglie, artigiani sono da sempre il terreno di coltura della destra sociale e di Fratelli d’Italia.

    Liberali all’italiana: il centrodestra e il mercato

    L’impressione è che si vada verso una nuova economia sociale di mercato capace di coniugare crescita e redistribuzione passando per il rafforzamento pubblico degli asset infrastrutturali (energia, autonomia alimentare, digitale, trasporti) senza arrossire dinanzi alla necessità della difesa degli interessi nazionali.
    Presidenzialismo, identità nazionale, nuove autonomie territoriali, Europa, mercato, politiche redistributive: il nuovo partito dei liberali italiani, forse, sta già muovendo i primi passi.

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    Attenzione tuttavia a non confondere, come spesso accade, tale possibile evoluzione con il modello renano (o neo corporativo) prevalente in Germania o Giappone, dove coesistono libertà di mercato, concertazione, dirigismo e, soprattutto, sindacati proattivi.
    La sfida italiana è più sottile e, nello stesso tempo, meno agevole.
    Dinanzi ad uno scenario inedito, fatto contemporaneamente di lotta al debito pubblico e di inflazione a doppia cifra, che politica economica e fiscale possiamo permetterci? E ancora, cosa significa essere liberali o attenti al sociale, con risorse pubbliche mai così rare e con imprese mai così insicure in termini di aspettative?

    Oltre le Regioni

    Occorre, forse, che questo centrodestra ripensi il paradigma dell’economia sociale di mercato. Un primo ordito metodologico potrebbe consistere nel rilancio (finalmente) del capitale civico, dell’economia civile e del protagonismo territoriale delle categorie. Costruire cioè unità geopolitiche diverse dalle attuali Regioni (troppo indistinte ed inefficienti) ed aggregare policy e territori sulla base di filiere produttive e sociali condivise.
    Il centrodestra potrebbe tentare di approcciare, ad esempio, la questione meridionale rivoluzionando la scala degli interventi e piuttosto che varare l’ennesimo piano decennale per il Sud (fatalmente destinato al flop, al pari dei suoi predecessori come la legge 64/1986) puntare finalmente su programmi di filiera capaci di aggregare territori omogenei e non “Regioni” ormai prive di senso identitario e politico.

    La sede della Giunta regionale della Calabria a Germaneto

    È ora di dire basta ai soliti POR e agli ormai ventennali partenariati regionali fantasma che nulla discutono, tutto approvano e poco spendono.
    Il dibattito è aperto. Servirebbe un po’ di coraggio. Politico. Anche europeo.