Puntuale come l’allergia a primavera, è arrivato anche stavolta il richiamo alla magia del Mediterraneo. È stato subito un fiorire di sigle accattivanti: Hub Mediterraneo, Stati generali del Mediterraneo, Missione Mediterraneo e via dicendo.
Se analizziamo i programmi di governo dal 1980 in poi, parliamo quindi di oltre 40 anni, troviamo sempre un rinvio alla necessità del nostro Paese di puntare verso scelte di posizionamento culturale e commerciale capaci di privilegiare la nostra natura mediterranea piuttosto che inseguire la locomotiva tedesca e nord europea con i suoi numeri, per noi, irraggiungibili.
Soprattutto per il Sud, si diceva e si dice, il Mediterraneo deve diventare un’opportunità strategica, dato il nostro posizionamento geografico e la presenza di infrastrutture importanti quali il Porto di Gioia Tauro.
Tutto bene se non fosse per un unico piccolo dettaglio che non appare ben considerato nelle riflessioni sinora espresse dalle forze politiche, sociali ed imprenditoriali: di quale Mediterraneo parliamo?
Il porto di Gioia Tauro
Ma che cos’è questo Mediterraneo?
Usciamo dall’equivoco e dalla genericità. Non esiste il Mediterraneo. Esistono diversi Mediterranei che dovremmo avere il coraggio, politico, di valutare e, parallelamente, di scegliere. Ci riferiamo al Mediterraneo Occidentale? E cioè a Marocco, Algeria e Tunisia?
Ci riferiamo al Mediterraneo Centrale? E cioè a Libia ed Egitto?
Ci riferiamo al Mediterraneo Orientale? E cioè a Israele, Libano, Siria, Turchia?
E nel caso del Mezzogiorno, e della Calabria in particolare, quale dovrebbe essere il criterio di selezione geo-politico di queste tre aree?
Se è vero, da un lato, che la recente crisi energetica e migratoria ha finito per sdoganare relazioni culturali (di facciata) con paesi mediterranei in possesso di DNA democratici non proprio affini alla realtà europea (Algeria e Turchia in primis), siamo proprio sicuri che la creazione di nuove relazioni commerciali possa bastare a fare del Mediterraneo una prospettiva di sviluppo stabile e concreta per il Sud?
Paese che vai, problema che trovi
La mia impressione è che non basti. Intanto Tunisia, Marocco, Israele, e per tanti versi anche la Turchia, sono nostri diretti concorrenti, spesso anche vincenti in termini di leadership di prezzo, in molti segmenti dell’agroalimentare (olivicoltura e agrumicolo soprattutto) e del turismo di massa (Egitto e Turchia soprattutto).
Dromedari sulla spiaggia di Sharm El Sheikh
La Libia non ha governance politica certa. La Tunisia è vicina al default. L’Algeria e il Marocco sono sempre a un passo dal dichiararsi guerra per la questione del Sahara occidentale. Nel Libano secondo Save the Children il 37% della popolazione ha addirittura problemi di nutrizione. Di Siria è quasi pleonastico parlare.
Mediterraneo, Sud e Calabria
Allora signori, per piacere, facciamo uno sforzo di onestà intellettuale. Che significa diventare hub del Mediterraneo? Che significa puntare al Mediterraneo? Parliamo di internazionalizzazione attiva o passiva?
Mi spiego meglio: stiamo forse provando ad indossare, come italiani, l’abito di un neo-colonialismo strisciante travestito da solidarismo europeo? E l’Italia, oltre alle forniture di gas da ottenere da regimi dittatoriali, ha i mezzi e la finanza pubblica per interpretare questo ruolo senza sfiorare il ridicolo? E il Sud e la Calabria, alle prese con LEP che il ministro Calderoli intende assicurare stornando gli euro del Fondo Coesione non spesi (colpevolmente) dalle Regioni, che ruolo avranno? Venderemo le melanzane sott’olio ai tunisini o le settimane al mare, magari a Tropea, agli egiziani?
La Tropea da cartolina
Intanto la Cina…
Qual è la politica industriale che il Paese ha immaginato e per quale paese del Mediterraneo? Qualcuno si è accorto, ad esempio, che gli investimenti diretti cinesi nel Mediterraneo sono avvenuti in infrastrutture strategiche come i porti attraverso l’acquisizione di partecipazioni nelle relative società di gestione? Parliamo di Marsiglia, Ambarli, Valencia, Pireo, Port Said, Marsaxlokk, Cherchell, Haifa, Istanbul.
Certo, si dirà, questa non è una buona ragione per desistere ma, vivaddio, potremmo ragionare su singoli progetti e su singoli paesi e non ricorrere sempre alla formula salvifica di Mediterraneo che finisce per non significare nulla?
Obiettivi, non slogan
E allora perché non provare a costruire da subito un Master plan con indicazione di Paese, Settori, Progetti, Obiettivi e Sostenibilità finanziaria cercando di dare alla politica il senso del governo per obiettivi e non per slogan ormai quarantennali e davvero desueti?
Il Mediterraneo ringrazia per le risposte che la politica riuscirà, sicuramente, a dare.
«Le provincie italiane con un più alto indice di presenza mafiosa sono concentrate in Calabria, in particolare Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia». Una frase lapidaria nella sua durezza che diventa ancora più significativa se si pensa che non è della Dia o del Viminale. E nemmeno del ministero di Giustizia o della Dna. A pronunciarla, infatti, è stata la Banca d’Italia nel dossier del dicembre del 2021 La criminalità organizzata in Italia: un’analisi economica.
Nei giorni scorsi il documento è tornato alla ribalta grazie alla Cgia di Mestre, che ha inteso stigmatizzare alcuni aspetti legati al Pil e al fatturato di quella che viene definita “Mafia spa”. Già, perché, stando ai dati e numeri di Bankitalia, il fatturato annuo delle mafie italiane, stimato al ribasso in 40 miliardi di euro all’anno, entra nei numeri dello Stato, concorrendo addirittura ad aumentare il prodotto interno lordo.
Mafia Spa, un giro d’affari inferiore solo ad Eni ed Enel
Si legge infatti nel documento della Cgia di Mestre: «In massima parte questo business, e relativo fatturato, è gestito dalle organizzazioni mafiose e conta un volume d’affari pari a oltre il 2 per cento del nostro Pil. Stiamo parlando dell’economia criminale riconducibile alla “Mafia spa” che, a titolo puramente statistico, presenta in Italia un giro d’affari inferiore solo al fatturato di Gse (gestore dei servizi energetici), di Eni e di Enel». Numeri di per sé degni di nota, ma «che sono certamente sottostimati, in quanto non siamo in grado di dimensionare anche i proventi ascrivibili all’infiltrazione di queste organizzazioni malavitose nell’economia legale».
Il Paese soffre ma dice di arricchirsi
La Cgia di Mestre non usa troppi giri di parole per condannare questo tipo di contabilità: «È quanto meno imbarazzante che dal 2014 l’Unione Europea, con apposito provvedimento legislativo, consenta a tutti i paesi membri di conteggiare nel Pil alcune attività economiche illegali come la prostituzione, il traffico di stupefacenti e il contrabbando di sigarette». Basti pensare che «grazie a questa opportunità, nel 2020 (ultimo dato disponibile) abbiamo gonfiato la nostra ricchezza nazionale di 17,4 miliardi di euro (quasi un punto di Pil)». Uno stratagemma utile per far quadrare i conti, forse, ma anche «una decisione eticamente inaccettabile».
Un sequestro di sigarette di contrabbando
La distribuzione delle mafie sul territorio nazionale
Misurare l’intensità del fenomeno mafioso è complesso perché le azioni e le attività delle mafie sono nascoste per definizione. Sfuggono spesso alle attività investigative, figurarsi alle rilevazioni statistiche. Inoltre, hanno confini labili che rendono difficile individuare le singole fattispecie criminali. Ecco perché per questo genere di analisi si punta su «un approccio multidimensionale, che consente di estrarre informazioni da indicatori diversi e di catturare le diverse modalità con cui le mafie agiscono su un territorio». L’indice della presenza mafiosa si calcola, quindi, considerando quattro diversi domini, ciascuno, a sua volta, composto da quattro diversi indicatori elementari.
Gli indicatori utilizzati da Banca d’Italia per la sua analisi
Il dossier passa, poi, ad analizzare la distribuzione della mafie nel Paese secondo criteri geografici. Ed è qui che emerge il peso della criminalità organizzata nella punta meridionale dello Stivale. «Le provincie con un più alto indice di presenza mafiosa sono concentrate in Calabria (in particolare Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia)». Sono comunque in “buona” compagnia. L’elenco dei territori più a rischio comprende, infatti, anche la Campania (Caserta e Napoli in particolare), la Puglia (principalmente il Foggiano) e Sicilia (specie la parte occidentale dell’isola). Ritenere che il fenomeno riguardi soltanto il Mezzogiorno sarebbe, però, fuorviante. Nel Centro Nord, ad esempio, spiccano per indice di “mafiosità” dell’economia locale Roma, Genova e Imperia. I territori dove la presenza della criminalità organizzata si sente meno sarebbero, invece, le province del Triveneto, la Valle d’Aosta e l’Umbria.
Mafia Spa: più criminalità, meno crescita
La presenza della criminalità organizzata in un territorio ne condiziona in misura profonda il contesto socioeconomico e ne deprime il potenziale di crescita. Scrive, infatti, Bankitalia «che le province che sono state oggetto di una più significativa penetrazione mafiosa hanno registrato, negli ultimi cinquanta anni, un tasso di crescita del valore aggiunto significativamente più basso». Inoltre, andando oltre la sfera economica, la presenza di attività illegali inquina il capitale sociale e ambientale.
Ci sono studi – Peri (2004), ad esempio – che mostrano come la presenza delle 20 organizzazioni criminali (approssimata con il numero di omicidi) sia associata a un minore sviluppo economico. Altri – Pinotti (2015) – sostengono che «l’insediamento di organizzazioni mafiose in Puglia e Basilicata nei primi anni Settanta avrebbe generato nelle due regioni, nell’arco di un trentennio, una perdita di Pil pro capite del 16 per cento circa».
Un altro grafico dal report di Bankitalia
I risultati, insomma, mostrano un’associazione negativa tra l’indice di penetrazione delle mafie a livello provinciale e la crescita economica negli ultimi decenni. In particolare, le province con un maggiore livello di penetrazione mafiosa (quindi Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia) hanno registrato un tasso di crescita dell’occupazione più basso di 9 punti percentuali rispetto a quello delle province con indice di presenza mafiosa inferiore. Anche la crescita della produttività risulta inferiore nei territori in questione. In termini di valore aggiunto, lo stesso esercizio produce una crescita inferiore di 15 punti percentuali, quasi un quinto della crescita media osservata nel periodo.
Mafia Spa e pubblica amministrazione
Oltre a ridurre la quantità e qualità dei fattori produttivi, la presenza mafiosa incide negativamente sulla loro allocazione e quindi sulla produttività totale dei fattori. In primo luogo essa genera distorsioni nella spesa e nell’azione pubblica. «I legami corruttivi tra associazioni criminali e pubblica amministrazione condizionano la spesa pubblica che viene ri-orientata verso finalità particolaristiche, a discapito dell’interesse generale. In secondo luogo, la presenza mafiosa crea distorsioni anche nel mercato privato. L’infiltrazione mafiosa nell’economia legale, infatti, impone uno svantaggio competitivo per le imprese sane. L’impresa infiltrata da un lato può beneficiare di maggiore liquidità e risorse finanziarie (i proventi delle attività criminali), dall’altro può condizionare la concorrenza usando il suo potere coercitivo e corruttivo, sia nei confronti delle altre imprese sia nei confronti della pubblica amministrazione».
Le conclusioni della banca centrale italiana
Banca d’Italia non ha dubbi: gli effetti delle mafie sull’economia sono «una delle principali determinanti della bassa crescita e dell’insoddisfacente dinamica della produttività nel nostro paese». Basti pensare che proprio Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia hanno registrato negli ultimi 50 anni una crescita dell’occupazione e del valore aggiunto più bassa. Un effetto, questo, connesso alle distorsioni nel funzionamento del mercato: «La corruzione e/o l’uso del potere coercitivo sono in grado di condizionare i politici locali e distorcere l’allocazione delle risorse pubbliche; d’altro canto, l’infiltrazione nel tessuto produttivo distorce la competizione nel settore privato, con le imprese mafiose in grado di conquistare quote di mercato significative sfruttando una maggiore disponibilità di risorse economiche, la maggiore propensione a eludere le regole e, non ultimo, il potere coercitivo».
La facciata di Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia
Come uscirne? Non esistono ricette semplici. Banca d’Italia una sua idea, però, la ha: «La misurazione e comprensione del fenomeno mafioso, l’analisi delle determinanti e degli effetti della presenza della criminalità organizzata e un’efficace azione di contrasto richiedono infatti dati granulari e la possibilità di incrociare e integrare, attraverso opportune chiavi identificative, più fonti informative. Ne gioverebbero sia la comunità scientifica, con la possibilità di spostare più avanti la frontiera della conoscenza, sia le autorità investigative che potrebbero sfruttare tali risultati per rendere più efficace la loro attività di contrasto».
Inutile giraci intorno: il crack della Silicon Valley Bank ha creato sgomento. È caduto un mito e quando crollano i miti ti senti smarrito, incapace di elaborare una ragione, avverti la tua debolezza.
È un po’ come quando perdi un grande amore. Negli ultimi 40 anni chiunque (e fra questi il sottoscritto) parlasse di start-up, di risk capital, di innovazione finanziaria, di nuova imprenditorialità legata ai follow up della ricerca universitaria finiva per citare la Silicon Valley Bank come eccellenza mondiale e come modello (best practice, dicono quelli bravi) da replicare nei contesti produttivi maggiormente orientati alla ricerca.
Il crollo della Silicon Valley Bank ha determinato una immediata reazione negativa dei mercati
Non vi era convegno, seminario, club deal o acceleratore d’impresa che prescindesse da lei: l’istituzione finanziaria californiana capace di dare credito alle idee d’impresa piuttosto che agli immobili da ipotecare in garanzia, come fanno le banche di casa nostra. E giù la raccomandazione (rigorosamente inascoltata) data a diverse generazioni di politici di creare istituzioni finanziarie (magari anche regionali) con la specifica mission (oh yes) di dare credito alle idee di ragazze e ragazzi, magari squattrinati, ma con una solidità visionaria e nuove ipotesi di prodotto, di modelli di consumo da lanciare sul mercato.
Inutile ora cercare di capire le cause (tassi elevati, inflazione sottovalutata, aspettative in forte ritirata, il Metaverso che entra in conflitto con l’economia reale, la FED troppo ortodossa in materia monetaria, probabilmente un po’ di tutto ciò). Ci vorranno mesi, e forse anni, per un’analisi seria e credibile.
Cerchiamo piuttosto di capire se è in crisi il modello della Silicon Valley. Anche perché, per quanto apparentemente lontana, questa evoluzione del modello dell’innovazione a tutti i costi potrebbe a breve presentare il conto, non proprio gradevole, a tutti i paesi dell’UE e, fra questi, soprattutto a quelli che hanno creato distretti industriali legati all’innovazione.
L’Università della Calabria, polo di eccellenza nel settore dell’innovazione
La Calabria dell’innovazione
E qui entra in gioca anche la nostra remota e lontana Calabria che, come noto, ha poggiato buona parte delle sue idee di sviluppo proprio sull’innovazione e sul ruolo delle università. Ripetiamoci: il problema non è solo il rischio di contagio del crollo finanziario in sé (le banche europee hanno portafogli diversificatissimi e non specializzati come nel caso della SVB). Risentiranno magari di qualche reazione emotiva in borsa ma i fondamentali dovrebbero tenere. Almeno si spera.
Ad entrare in discussione potrebbe essere, piuttosto, il concetto stesso di distretto innovativo con filiere iper specializzate dove il valore è dato esclusivamente dal tempo necessario ad una linea di ricerca applicata di diventare prima brevetto, prototipo, business idea, progetto d’impresa e poi finalmente start up. Per dirla con gli americani (e sempre con quelli bravi) il time-to-market.
Sono anni che suggerisco ai decisori politici di casa nostra, a volte amici a volte meno, di recuperare l’idea sempreverde della filiera integrata per allineare la politica industriale alle vocazioni territoriali e soprattutto di non confondere l’occupazione di breve periodo con il vero obiettivo di questa scelta.
Il campanello d’allarme della californiana SVB significa, alle nostre latitudini, che la cultura dell’innovazione non deve trasformarsi in ossessione di mercato. Prodotti con cicli di vita troppo brevi, ad esempio, non diventano, meccanicamente, un fiore all’occhiello del sistema produttivo. Possono essere, al contrario, elementi di rigidità e di propensione alla crisi strutturale con effetti negativi a catena su occupazione, risparmio, domanda, investimenti.
Questo non significa essere contro l’innovazione. Significa che il legame tra uomo e cultura, tecnologia e prodotto sta perdendo coerenza e logica.
Non è caduta solo una banca. È caduta la Silicon Valley Bank.
L’antropologia culturale dell’uomo veloce, multitasking a tutti i costi e virtualizzato nel metaverso potrebbe ricevere dal mercato un brusco richiamo alla realtà.
Ma io no, non posso negarlo, ho perso un altro mito.
In Calabria rispetto al 2022 si prevedono 4mila disoccupati in più, di cui circa la metà – complice una popolazione maggiore – in provincia di Cosenza. A calcolarlo è uno studio della Cgia di Mestre, sulla base di una elaborazione dei dati Istat e delle previsioni Prometeia. Secondo l’analisi, in tutta Italia saranno circa 63mila in più le persone senza lavoro rispetto all’anno precedente. E poco importa che negli ultimi mesi lo stesso Istat abbia reso noto che lo scorso mese di ottobre l’occupazione ha toccato il record storico. Il dato in questione, infatti, è alterato in positivo dai rientri in massa di parecchi cassaintegrati il cui futuro resta tutto meno che roseo. Quanto ai nuovi contratti, tantissimi sono a tempo determinato.
Disoccupazione: chi sale e chi scende
Nel 2023 il tasso di disoccupazione è destinato a salire all’8,4%. Il dato torna ad allinearsi con quello del 2011, anno che ha anticipato la crisi del debito: il numero complessivo dei disoccupati, infatti, nel 2023 sfiorerà la quota di due milioni e 120mila persone. In termini assoluti, le situazioni più critiche si verificheranno nel Centro-Sud, ossia in quei territori dove il livello di fragilità occupazionale era già molto preoccupante. Le province più in sofferenza saranno quelle di Napoli, Roma, Caserta, Latina, Frosinone, Bari, Messina, Catania e Siracusa. Ma l’aumento della disoccupazione non sarà omogeneo: in una trentina di province italiane su 107, anzi, il numero di disoccupati dovrebbe, seppur di poco in molti casi, ridursi.
Disoccupazione: i dati della Calabria per il 2023
E così, accanto alle criticità di gran parte del territorio calabrese, si scopre che la provincia di Vibo rientra invece tra quelle virtuose. Ma entriamo nei dettagli: in regione, secondo lo studio i disoccupati passeranno da 88.226 e 92.247. Aumenterà, dunque, di 4.021 unità il numero di persone che perderanno il lavoro, il 4,6% in più rispetto al 2022.
La maglia nera della disoccupazione in Calabria se l’aggiudica Cosenza. La Cgia prevede che lì saranno 1883 (+5,3%) i disoccupati in più, undicesima provincia in Italia per aumento di persone che si ritroveranno senza un impiego nell’anno in corso. Sembrerebbe andar meglio a Catanzaro, Reggio Calabria e Crotone, dove i nuovi disoccupati saranno, nell’ordine, 1.019, 445 e 712. In realtà, rispetto alla popolazione di quei territori, in due casi la percentuale di disoccupati crescerà più che nel cosentino: a Catanzaro del 5,9% e a Crotone addirittura del 7,8%. A Reggio, invece, l’aumento si limita a un +2,2%. Le proiezioni della Cgia sembrerebbero, al contrario, fare di Vibo e provincia una micro isola felice, con 38 persone in più a lavorare rispetto a dodici mesi prima. Disoccupazione, quindi, in calo dello 0,6%, in controtendenza rispetto al resto della Calabria.
I settori più in difficoltà
Non è facile stabilire in questo momento i settori che nel 2023 registreranno le maggiori riduzioni di lavoratori. Con ogni probabilità, su scala nazionale a soffrire di più saranno i comparti manifatturieri, specie quelli energivori e più legati alla domanda interna. Al contrario, dovrebbero subire meno contraccolpi occupazionali le imprese più attive nei mercati globali. Tra di esse, quelle che operano nella metalmeccanica, nei macchinari, nell’alimentare-bevande e nell’alta moda. La sensazione tra addetti ai lavori ed esperti è che altre difficoltà interesseranno i trasporti e la filiera automobilistica. Senza dimenticare l’edilizia, che rischia di trascinare tantissimi nel caos figlio delle modifiche legislative al superbonus.
Le conclusioni dello studio sulla disoccupazione
Fatta eccezione per i dipendenti pubblici, la crisi colpirà a 360 gradi. A farne le spese, in particolare, il popolo delle partite IVA, lavoratori che non beneficiano nemmeno di strumenti di tutela quali la CIG o la Naspi in caso di stop delle loro attività. Il tutto in un contesto come quello calabrese, dove anche chi uno stipendio lo ha deve fare i salti mortali per arrivare a fine mese.
Tra negozi che chiudono ovunque, «il rischio di mettere a repentaglio la coesione sociale del Paese è molto forte», si legge nel report. Centri storici e periferie continuano a svuotarsi, la qualità della vita in questi quartieri peggiora. Ma non c’è solo il commercio a piangere, secondo la Cgia: «Meno visibili, ma altrettanto preoccupanti, sono le chiusure che hanno interessato anche i liberi professionisti, gli avvocati, i commercialisti e i consulenti che svolgevano la propria attività in uffici/studi ubicati all’interno di un condominio». E la moria di attività non dà scampo nemmeno ai centri commerciali e alla grande distribuzione organizzata (Gdo): «Non sono poche le aree commerciali al chiuso che presentano intere sezioni dell’immobile precluse al pubblico, perché le attività presenti precedentemente hanno abbassato definitivamente le saracinesche».
Nuova vita per gli uffici postali calabresi, specie per quelli periferici. Col progetto Polis, Poste Italiane sposa infatti il culto della restanza poggiando idealmente la matita sul foglio e ridisegnando la mappa dei servizi in un entroterra dove la bandiera bianca sventola ormai da troppo tempo.
Chiude tutto, meglio fuggire?
Sta nella chiusura dei servizi fondamentali la più lucida metafora di un mondo sulla via del tramonto. Ce lo dicono i numeri di una emigrazione che dopo le aree interne sta via via coinvolgendo anche quelle costiere in favore dei grandi agglomerati urbani e che nel periodo 2004/2020 ha fatto registrare centomila residenti in meno in una regione che, dati alla mano, non supera la soglia del milione e mezzo di abitanti realmente residenti. Razionalizzare è un verbo che nell’ultimo quarantennio, specie alle nostre latitudini ha perso la sua accezione positiva diventando quasi sempre anticamera al de profundis, sinonimo di smobilitazione, di resa. Chiudono le scuole, chiudono i principali servizi a testimoniare una rotta ben precisa, ed è in un contesto come questo che il valore di una governance di qualità diventa sempre più necessario per non abbandonarsi ai fatalismi diventati ormai quasi un patrimonio genetico, per non cadere in una retrotopia sempre a metà strada tra alibi e moto nostalgico.
Serve altroché la buona governance, servono esempi di buone pratiche che diventino nel tempo segnale di speranza, ciambella di salvataggio in un mare di rassegnazione. Servono uomini capaci di unire la ragione al sentimento. A volte per fortuna, ci sono però anche segnali in controtendenza che fotografano una situazione affatto irreversibile, come nel caso dei dati fornitici da Poste Italiane, relativi ad una presenza capillare che vuole andare oltre il valore pratico, consegnandoci un’inversione di tendenza in atto ormai dal 2018. Un trend finalmente positivo, frutto di scelte aziendali che sembrano aver anteposto la ragione alla fredda logica dei numeri.
Poste, gli uffici chiusi in Calabria
Non più tardi di dodici anni fa un ideale viaggio dal Pollino all’Aspromonte, passando per la Sila e le Serre ci consegnava un disarmante quadro di smobilitazione degli uffici postali di frontiera. Basti pensare che (dati 2011) nella sola provincia di Reggio Calabria, un piano di razionalizzazione basato sulle utenze, aveva sancito il funzionamento a singhiozzo degli uffici di
Si è passati poi nel giro di appena tre anni (dati ufficiali 2014) alla definitiva chiusura di
Anoia,
Campoli di Caulonia,
Plaesano di Feroleto della Chiesa,
Castellace,
Rosalì,
Barritteri di Seminara,
San Pantaleo,
Terreti,
Villa San Giuseppe,
Capo Spartivento,
Careri,
Piminoro,
Cirello di Rizziconi,
Condojanni,
Gambarie d’Aspromonte,
Pardesca di Bianco,
San Nicola di Ardore,
San Nicola di Caulonia,
Tresilico di Oppido Mamertina,
Villamesa di Calanna,
San Pier Fedele di San Pietro di Caridà
E questo sia ben chiaro, solo per citarne alcuni. Un colpo di scure trasversale che tagliava di netto la dorsale reggina dallo Ionio al Tirreno.
Non andava certo meglio risalendo verso la Sila e verso il Pollino dove il quadro si completava con cifre allarmanti che ridisegnavano la geografia antropica in un entroterra evidentemente sempre più povero.
Piccoli comuni, si cambia
Da cinque anni, la musica sembra essere cambiata grazie ad un percorso intrapreso da Poste in collaborazione con i piccoli Comuni. Oggi lo scenario tracciato ci parla di nuovi investimenti, di aperture, di potenziamenti di servizi già esistenti e creazione di nuovi nelle aree carenti. Uffici Postali rinnovati in molte comunità tra le più piccole della regione, iniziative che si inquadrano nel più ampio piano strategico Environmental, Social and Governance. L’obiettivo complessivo di Poste, di assumere un ruolo chiave nello sviluppo dell’intero sistema Paese, riveste nel caso della Calabria e nello specifico del suo entroterra una valenza eccezionale per quelle che sono le ricadute dirette in termini di servizi ma ancor prima per quelle indirette, per quel possibile effetto domino che molti si augurano.
Matteo Del Fante
È stato chiaro già nel 2018 l’amministratore delegato di Poste Italiane Matteo Del Fante che nel presentare ai sindaci 10 impegni per i piccoli Comuni volle ribadire l’importanza strategica di mantenere aperti tutti gli Uffici Postali situati nei centri con meno di 5.000 abitanti. Un impegno, quello di Del Fante e dell’azienda, andato ben oltre le aspettative in premessa, prendendo corpo, come anticipato in apertura, nel progetto Polis, presentato qualche mese fa a Roma alla presenza di circa cinquemila sindaci.
Poste: il progetto Polis e i nuovi uffici in Calabria
Nello specifico il progetto Polis prevede una collaborazione tra enti comunali e uffici postali. In questi ultimi potranno essere erogati diversi sevizi della Pubblica amministrazione resi disponibili presso lo Sportello Unico nei piccoli centri. Si tratta di un intervento massiccio che si focalizza sui piccoli comuni, quasi esclusivamente al di sotto dei di 5.000 abitanti. Una attività di potenziamento che suona come riconoscimento ai tanti calabresi ostinati ed agli amministratori illuminati che negli anni sono rimasti come ultimi baluardi della tutela di territori sempre più marginali.
Cittadini protestano contro la chiusura di un ufficio postale in un piccolo comune
Si rintracciano sensibilità comuni che si incrociano sulle strade calabresi, quelle a pettine che salgono dallo Ionio e dal Tirreno verso i monti o quelle che semplicemente tracciano i contorni di una regione lunga e assai variegata, per morfologia e cultura, accomunata per contro da analoghi problemi, mali cronici a cui ogni tanto qualcuno cerca di porre rimedio. Oggi la sensibilità di Poste Italiane, incrocia il cammino dei tanti scrittori, studiosi, camminatori, artisti, che ormai da anni sembrano aver riscoperto l’amore per i luoghi periferici, la consapevolezza di quanto sia necessario un esercizio di sensibilità e lungimiranza per regalarsi un orizzonte, per accantonare il retrogusto amaro che accompagna una terra dove sogni e speranze rimangono spesso incompiuti.
Alla riscoperta delle radici
Sono tanti, molti di più di quanto non si pensi, i calabresi che hanno capito come e quanto l’ideale sogno di riportare la vita in luoghi dove da tempo domina il silenzio, o di conservarla laddove ancora ne rimane traccia, non sia in realtà impresa impossibile. Riattribuire un ruolo centrale alla vita che torna o semplicemente a quella che resta non è utopia, è qualcosa di reale che passa dall’impegno e dall’assunzione di responsabilità.
L’antropologo Vito Teti
Serve ripartire da un ritrovato senso dei luoghi, dal culto della restanza, non fosse altro che per il gusto di provare a mettere l’accento su un nuovo modo di concepire la pratica del rimanere, come mi suggerisce l’amico Vito Teti, che con grande gioia ho riabbracciato qualche giorno fa a distanza di qualche anno. Al contrario di quanto avveniva un secolo addietro – continua a ripetere Teti con l’amore e la determinazione che lo contraddistinguono – «oggi la più forte forma di sradicamento non la vive più chi parte, quanto invece chi decide di restare».
Oggi possiamo affermare che chi resta, ha certamente qualche strumento in più, per continuare a vivere la quotidianità. Ma, ancor prima, per sperare in un futuro che non sia lontano dai luoghi della propria personale storia.
L’autonomia differenziata? «Ci spingerà ancor più verso la desertificazione».
Parola di Marco Esposito, firma storica de Il Mattino, esperto di economia (esordì con Milano Finanza) e osservatore attento delle politiche nazionali più pericolose per il Sud.
Lo ribadiscono due saggi, diventati instant classic: Zero al Sud (Rubbettino, Soveria Mannelli 2018) e Fake Sud (Piemme, Milano 2020), nel quale fa il punto, con grande acume critico, sui pregiudizi antimeridionali ma anche sugli eccessi di certo meridionalismo.
Il primo obiettivo polemico di Esposito è stato il federalismo fiscale. Quello attuale è l’autonomia differenziata. Su cui ha parlato di recente a Cosenza.
Ma, specifica il giornalista napoletano, «io non ho pregiudizi verso l’autonomia differenziata in sé».
Allora dov’è il problema?
«Nella sua applicazione, ovviamente. Non ho alcun pregiudizio nei confronti delle autonomie. Semmai, occorre capire che non si può parlare di decentramento o accentramento in astratto: dire a priori che un sistema accentrato alla francese sia meglio di un sistema federale, come quello tedesco, è una sciocchezza»
Marco Esposito
Però sei in prima fila nel contrasto al ddl del governo Meloni…
«Certo, ma questo contrasto è anche critica allo status quo. Noi ci opponiamo all’autonomia differenziata perché, così com’è concepita, aumenterà i divari nel Paese, che invece vanno colmati»
Calderoli e vari esponenti dell’attuale coalizione di governo negano o minimizzano questo rischio.
«È scontato che l’oste difenda il proprio vino, in questo caso ben fermentato in cantine leghiste. Mi permetto di ricordare che, dietro questo ddl ci sono i referendum promossi in Veneto e Lombardia nel 2017. Entrambi su iniziativa di Roberto Maroni e Luca Zaia, che provengono dalla vecchia Lega di Bossi»
Ma non si può gettare la croce solo sulla Lega. Anche la sinistra, a partire dalla riforma del Titolo V della Costituzione ha calpestato qualcosa…
«Per l’autonomia differenziata, ricordo una foto del 28 febbraio 2018. Questa foto ritrae Stefano Bonaccini assieme a Maroni e Zaia durante la firma dei tre accordi sulle autonomie assieme a Gianclaudio Bressa, allora sottosegretario in quota Pd del governo Gentiloni»
Tutti assieme appassionatamente: da sinistra, Maroni, Bressa, Zaia e Bonaccini
Vogliamo ricordare il contenuto di quegli accordi?
«Fissano i fabbisogni standard delle Regioni sulla base di due elementi: la demografia e il gettito fiscale. Se i requisiti sono questi, è ovvio che Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, che sommate sono più di un terzo della popolazione nazionale, faranno la parte del leone». Teniamo presente inoltre, che l’autonomia differenziata include Sanità, Scuole e Infrastrutture, che riceveranno più o meno finanziamenti a seconda dei territori»
E quindi, per tornare a Bonaccini?
«Quando Bonaccini afferma che non saranno toccati i Lea (Livelli essenziali di assistenza) e i Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) dice una fake, né più né meno di Calderoli»
Insomma, questa riforma sembra fatta apposta per danneggiare il Sud
«Questa riforma riflette la volontà di dare maggiori diritti lì dove ci sono maggiori ricchezze. Che il Sud sia danneggiato da tutto questo, è una conseguenza. Ma non solo il Sud: l’Italia presenta, anche nel Centro-Nord, una geografia economica a macchie di leopardo. Quindi alcuni territori settentrionali, penso al Piemonte, subiranno dei danni»
Stefano Bonaccini
Ma il problema non è solo economico…
«No. Questo ddl mette a repentaglio la coesione del Paese. Se i residenti della Lombardia ricevono più cure o cure migliori rispetto a chi vive in Calabria o in Campania, il principio dieguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione va a farsi benedire»
Non che ora questa situazione non ci sia…
«Sì, ma l’autonomia differenziata la istituzionalizza. E lo fa senza interpellare gli amministratori più a contatto coi territori e i loro problemi»
Cioè?
«I sindaci e gli amministratori locali. L’autonomia differenziata, così com’è concepita, si basa sulla dialettica tra governo centrale e Regioni. Quindi, il sindaco di Napoli o quello di Reggio Calabria, due città metropolitane importanti, non hanno diritto di parola?»
A proposito di sindaci: la “rivolta” contro l’autonomia differenziata ne vede molti sulle barricate, almeno al Sud
«Sì e per due motivi: conoscono i problemi del territorio e sono eletti direttamente dai cittadini. Ricordo che quando sollevai il problema dei finanziamenti agli asili nido, presero posizione molti amministratori locali»
Roberto Calderoli
Però è strano che un giornalista debba dire ai politici come risolvere i problemi
«Il giornalista che riesce a smuovere le coscienze fa il suo dovere. Non altrettanto si può dire dei politici che non prendono iniziative forti»
È solo colpa dei politici?
«Diciamo che il metodo di selezione della classe politica nazionale non aiuta. I parlamentari sono letteralmente cooptati dalle segreterie, quindi obbediscono a logiche di scuderia in cui le esigenze dei territori pesano poco. Inoltre, la tendenza ad allinearsi è dovuta anche a un certo meccanismo mediatico: se si sostengono certe tesi, si finisce sulla stampa e nelle tv che contano. Quando ci si lega ai territori, invece, si ottiene al massimo una visibilità di tipo locale»
Tuttavia neppure i sindaci sono immuni da questo rischio
«Più il Comune amministrato è grande, più i sindaci tendono ad allinearsi a logiche partitiche. Ma la dimensione locale e il contatto coi territori fanno da freno. Non è un caso che proprio i sindaci costituiscano oggi una sorta di opposizione civica»
E i presidenti di Regione?
«Il loro ruolo è più politico, quindi la tentazione di allinearsi per salire di gradino nella carriera è maggiore»
Una manifestazione contro l’autonomia differenziata
Torniamo all’autonomia differenziata. C’è un aspetto del ddl su cui insistono in pochi: l’impatto sulla struttura costituzionale
«è una vera e propria riforma dello Stato, operata al di fuori della Costituzione e in cui il Parlamento ha un ruolo marginale»
Chiariamo di più
«Allora, l’Italia è un Paese a regionalismo unitario. Tuttavia, le Regioni a statuto speciale hanno più poteri dei Lander tedeschi, che fanno parte di un sistema federale. Per capirci la piccola Valle d’Aosta ha più autonomie dalla Baviera, che è la zona più ricca d’Europa. Con le autonomie differenziate si arriverà al paradosso per cui alcune Regioni a statuto ordinario avranno, nei fatti, più potere di gestione delle Regioni a statuto speciale. Se questa non è una riforma costituzionale…»
Che tuttavia esclude le istituzioni che dovrebbero farla…
«Appunto. Il ddl minimizza il ruolo del Parlamento e degli attori istituzionali e “vola” sulle teste dei cittadini. Non proprio quello che dovrebbe accadere in una democrazia»
Gli stipendi in Calabria sono in media circa la metà del resto del Paese. E c’è di peggio: tutte e cinque le province della nostra regione sono al di sotto della soglia del reddito di cittadinanza (9.360 euro all’anno), a dispetto di una piccola crescita.
Stipendi in Calabria: i dati del centro Tagliacarne
Il centro studi delle camere di commercio “Guglielmo Tagliacarne” di Novara ha analizzato gli stipendi da lavoro dipendente in tutte le 107 province italiane.
La media pro capite negli anni dal 2019 al 2021 è risultata 12.473 euro annui. Questi dati, ovviamente, riguardano solo i lavoratori, nel pubblico o nel privato. Non sono, quindi, considerate le partite iva e non si tiene conto del lavoro “nero”.
Le province calabresi sono tutte abbondantemente sotto la media.
La sede dell’Ispettorato del lavoro di Cosenza
La provincia messa meglio è quella di Catanzaro, al 68esimo posto con un reddito medio pro capite annuo di 8.445,54 euro.
Al 73esimo posto c’è la provincia di Crotone con 7.982,50 euro. Segue Cosenza all’88esimo posto con 6.708,28 euro. Subito dopo, all’89esimo posto, c’è Vibo Valentia con 6.696,23 euro e infine, al 95esimo posto, si piazza Reggio Calabria con 6.591,84 euro.
Una magra consolazione
C’è una sola nota positiva: le 5 province calabresi non rientrano tra le 22 che hanno avuto diminuzioni dei redditi. Al contrario, risultano piccoli aumenti,
Una magra consolazione per una situazione che resta molto critica.
Ma i numeri raccontano anche altro, oltre alle evidenti difficoltà. La classifica nazionale, infatti, ha Milano al primo posto con i suoi 30mila euro medi annui pro capite e chiude con Rieti con 3.317 euro. L’incremento medio è del 2,5% in totale.
La classifica nazionale
Gaetano Fausto Esposito, il direttore generale del centro “Tagliacarne”
Scrive Gaetano Fausto Esposito, direttore generale del centro “Tagliacarne”: «L’analisi dimostra che la geografia delle retribuzioni è diversificata territorialmente, e sotto vari aspetti non rispetta la tradizionale dicotomia Nord-Sud».
E aggiunge: «Se confrontiamo la graduatoria del pil pro capite (che misura la produzione della ricchezza) con quella delle retribuzioni, vediamo che nel primo caso praticamente tutte le ultime trenta posizioni sono appannaggio di province meridionali (con la sola eccezione di Rieti), mentre in quella delle retribuzioni pro-capite troviamo ben 10 province del Centro-Nord, il che induce a riflettere sulle politiche dei redditi a livello locale».
I dati della Calabria: stipendi senza dignità
Le buste paga dei calabresi non solo sono “leggere” (circa la metà della media nazionale), ma sono al di sotto della dignità. Soprattutto, come già detto, inferiori al tetto massimo del reddito di cittadinanza.
C’è dell’altro: nel pubblico le buste paga sono più o meno uguali dappertutto, quindi è chiaro che ad abbassare la media sono i privati. E dato che la media pro capite mensile che emerge dalla classifica in Calabria va da 550 a 800 euro circa è più che evidente che esistono migliaia di persone che forse non riescono ad arrivare nemmeno a metà mese. Inoltre significa che, in tanti altri casi, potrebbero esserci quote di stipendio “in nero”.
La fotografia è chiara e impietosa.
Inutile aggiungere che tutto questo influisce molto anche sull’emigrazione incessante dalla Calabria verso il centro nord del Paese. Da noi bisognerebbe fornire risposte molto più forti e concrete: la situazione attuale è divenuta insostenibile e da tutti i punti di vista…
La crisi da Covid-19 ha accelerato il processo di digitalizzazione delle imprese femminili. Nel triennio 2017-2019, infatti, le imprese femminili che operano nel terziario che hanno investito nel digitale sono l’8,5% (percentuale simile nelle imprese maschili), ma salgono al 13,7% nel periodo del Covid-19 (contro 14,0% delle maschili) per poi diminuire leggermente al 13% nel triennio 2022-24 (contro 18,3% maschili).
Solo l’8% delle imprese femminili del terziario prevede di investire nel triennio 2022-24 nella duplice transizione (sia tecnologie digitali sia green) e un ulteriore 5% delle imprese investirà solo nelle tecnologie digitali. Ma c’è anche chi non effettuerà transizioni: il 48% delle imprese non investirà nel 2022-24 né in tecnologie digitali né in sostenibilità ambientale.
Per quasi la metà delle imprese femminili intervistate, la crisi da Covid-19 ha avuto effetti sulla decisione di investire in soluzioni digitali e sull’ammontare degli investimenti ad esse dedicate (contro il 38% delle maschili). Di contro, per poco più di un terzo delle imprese le decisioni in tema di investimenti digitali sono state prese a prescindere dalla crisi. Il 69% circa delle imprese femminili ha potenziato l’utilizzo dei social media e il 43% circa ha migliorato la propria “vetrina” digitale. Le imprese femminili rispetto a quelle maschili investono meno nel cloud per la gestione dei dati aziendali (20,4% vs 22,8%), nell’e-commerce (20,2% vs 20,8%) e in sicurezza informatica (15,3% vs 18,3%).
L’adozione di nuovi strumenti digitali comporta spesso la necessità di avviare specifiche iniziative di formazione all’interno dell’impresa. L’acquisizione di competenze digitali può riguardare la figura dell’imprenditore/imprenditrice (poco meno del 50% sia nelle imprese femminili che in quelle maschili) oppure i dipendenti rispetto ai quali le percentuali scendono considerevolmente (rispettivamente al 12,4% e al 14,2%).
Per più della metà delle imprenditrici sarebbe auspicabile semplificare le procedure amministrative per ottenere incentivi e agevolazioni a supporto degli investimenti in sostenibilità ambientale e tecnologie digitali. Elevata anche la percentuale delle imprenditrici che preferirebbero avere maggiori incentivi fiscali. Circa una imprenditrice su tre punterebbe alla formazione sia scolastica/universitaria che finalizzata ad incrementare le competenze in materia (green&digitale) all’interno delle imprese. L’accesso al credito rimane comunque una delle principali problematiche da risolvere (nel 31,8% dei casi).
Questi i dati principali di una ricerca, condotta da Terziario Donna Confcommercio in collaborazione all’Istituto Tagliacarne, presentata ieri a Cosenza nella sala Petraglia della Camera di Commercio, in occasione del convegno “Digitalizzate e connesse con il futuro”.
«In Italia il digitale è donna, o potrebbe esserlo se ci fossero condizioni di contesto migliori, perché anche nel digitale esiste un gender gap, che può essere colmato con la formazione, i finanziamenti, la semplificazione, il superamento di stereotipi». È quanto ha detto Anna Lapini, presidente di Terziario Donna Confcommercio. Che ha aggiunto: «Il nostro progetto “Imprenditrici digitali” promosso da Terziario Donna ed EDI – Confcommercio, mira a supportare le imprenditrici nel cammino della transizione digitale fornendo loro ascolto e soluzioni mirate. Nel giro di pochissimo abbiamo realizzato già 250 check up di posizionamento digitale gratuiti, dal Trentino alla Sicilia, a dimostrazione che le imprenditrici anche su questo sono in prima linea».
Per Klaus Algieri, presidente di Confcommercio Cosenza l’evento è una grande occasione per mostrare come l’imprenditoria femminile della provincia sia una realtà consolidata: «La provincia di Cosenza – ha detto il presidente Algieri – mostra una vocazione all’imprenditoria femminile più alta rispetto alla media nazionale. Un dato che restituisce il valore e la capacità delle nostre imprenditrici di conquistare spazio e mercato. Avere qui tra noi l’evento Impresa è Donna mostra come continuiamo ad essere centro propulsore di analisi, studi e condivisione di idee anche nell’ambito della digitalizzazione».
Sulla base dei dati Unioncamere-Infocamere, in Calabria operano nel 2022 quasi 45mila imprese femminili, pari a circa un quarto della base produttiva regionale (23,6%, settimo valore tra le regioni italiane). Di queste, oltre 16mila (più di un terzo del totale, il 36,6%) si concentrano nel territorio di Cosenza, seguita in valore assoluto da Reggio Calabria che ne conta poco più di 13mila e, a distanza, da Catanzaro con quasi 8mila unità. Se si guarda al tasso di femminilizzazione dell’imprenditoria è Reggio Calabria a registrare la quota più elevata (24,0%, 30-esima posizione in Italia), seguita a una certa distanza nella classifica regionale da Crotone (23,8%) e Cosenza (23,6%), Catanzaro (23,3%) e Vibo Valentia a chiudere la lista con 22,4% (superiore anch’essa, anche se di poco, alla media nazionale).
L’arsenale di armi puntate contro le aree deboli del Paese, e quindi contro il Mezzogiorno e la Calabria, si arricchisce. Accanto all’autonomia differenziata e alle gabbie salariali applicate agli insegnanti, ecco la proposta per il “dimensionamento e la riorganizzazione” delle scuole, già licenziata dal Governo e attualmente all’esame della Conferenza Stato – Regioni.
Calabria: a rischio il 25% delle scuole
Secondo il piano, le istituzioni scolastiche dotate di autonomia passerebbero, su tutto il territorio nazionale, da 8.158 a 7.461: meno 697 unità. Ma da un esame più approfondito della tabella pubblicata dal Corriere della Sera emerge che le regioni più colpite dal provvedimento sarebbero la Sicilia, la Campania e, sul podio come spessissimo accade per le cose negative, la Calabria, rispettivamente con – 146, – 109, – 79.
Nella parte medio – bassa della classifica si piazzano Lombardia e Piemonte (-20), Liguria (-18), Emilia Romagna (-15). Il dato percentuale è ancora più indicativo: nella nostra regione le scuole autonome sarebbero alla fine il 25 % in meno. Di gran lunga il dato relativo più alto di tutti!
Un’aula deserta
La bassa demografia uccide le scuole in Calabria
Se il piano non dovesse essere approvato dalla Conferenza, lo Stato eserciterà il potere sostitutivo: perderanno l’autonomia gli Istituti con meno di 900 alunni. Mentre alcune Regioni si accingono ad impugnare la decisione davanti alla Consulta, è il caso di farsi qualche domanda. Se è vero che tali scelte sono la conseguenza diretta del calo demografico, che colpisce le regioni del Sud e con particolari virulenza e drammaticità la nostra, altrettanto lampante risulta la correlazione tra calo della popolazione e riduzione dei servizi, specie nelle aree interne.
Le Poste: un esempio in controtendenza
Queste azioni perpetuano un circolo vizioso: il cane si morde la coda perché nessuno gli offre la soluzione per smettere. Come, ad esempio, sta tentando di fare Poste italiane, che con il progetto “Polis” punta a promuovere la coesione economica nelle aree interne del Paese e a realizzare un nuovo punto di aggregazione per le persone. Si potranno ottenere i passaporti utilizzando l’Ufficio postale e sbrigare lì le pratiche burocratiche per il rilascio della carta d’identità. Un’applicazione da manuale del principio di sussidiarietà. Delle aree interne e dei piccoli agglomerati urbani, della necessità di preservarli, rilanciarli, tutelarli, si è molto scritto e detto. Lo spopolamento di interi pezzi di territorio è una delle ragioni del degrado, dal punto di vista geo morfologico, sociale, economico, civile, della lotta alla criminalità comune e organizzata.
La presentazione del progetto Polis di Poste Italiane
La parola agli esperti
Nel momento in cui si fanno scelte penalizzanti, come questa, si dà un segnale di assoluta incoerenza tra il predicato e il praticato. Salvo poi stracciarsi le vesti quando, anche a causa della mancata presenza dell’uomo, la nostra terra viene squassata, ad esempio, da incendi, alluvioni, immani fenomeni franosi. Abbiamo voluto coinvolgere nell’esame degli argomenti trattati in questo articolo il professor Vittorio Daniele, docente di Politica economica dell’Università di Catanzaro, e il professor Vito Teti, docente di Antropologia culturale dell’UniCal.
Daniele: a furia di tagliare si fa il deserto
«Il dimensionamento delle istituzioni scolastiche – esordisce il prof Daniele – riduce dirigenti e personale di segreteria. Il criterio è contrarre la spesa riorganizzando la rete degli istituti e il Sud ne è particolarmente colpito».
Alla base della scelta vi è un fatto oggettivo: «La riduzione del numero di alunni dovuta alla bassa natalità, aggravata nel Mezzogiorno dall’emigrazione che riguarda in particolare i centri interni. La Calabria è la regione col più elevato tasso migratorio verso il Nord del Paese». Questa profonda modificazione demografica «porta allo spopolamento dei comuni interni. Nella logica della razionalizzazione economica, esso si accompagna con la riorganizzazione dei servizi pubblici nel territorio: la chiusura, cioè, di uffici postali, reparti ospedalieri, scuole, sedi di tribunali e, per la stessa logica, sportelli bancari: desertificazione demografica ed economica».
L’economista Vittorio Daniele
Un circolo vizioso
E, invece di invertire la rotta, si continua a percorrere una strada che, oggettivamente, porta ad un inasprimento del problema. «La chiusura dei servizi – continua Daniele – alimenta il processo perché riduce i posti di lavoro diretti e indotti che essi creano nel fragile tessuto economico di quei centri e, privando quei luoghi di servizi, spinge i residenti, soprattutto i più giovani, a spostarsi altrove. La necessità di ridurre la spesa pubblica, considerata dal lato dei costi ma non dei benefici complessivi per la popolazione, peggiora i problemi sociali ed economici di molti territori già economicamente marginali. Non può essere solo la logica ragionieristica dei costi a guidare l’azione pubblica». La politica pubblica deve porsi l’obiettivo, più generale, del «benessere della popolazione e la creazione di condizioni di effettiva uguaglianza».
Teti: giù le mani dalle scuole in Calabria
Il progetto di accorpamento scolastico, se portato a compimento, «causerà – secondo l’antropologo Vito Teti – difficoltà e disagi a ragazzi, studenti, cittadini, famiglie. Esso è ingiusto e contiene possibili profili di incostituzionalità perché comporterebbe una restrizione dei diritti in alcune aree del Paese». Verrebbero penalizzati i cittadini che vi abitano e che già hanno problemi di lavoro, di trasporti, di assenza o carenza di vie di comunicazione, di insufficienza dei servizi sanitari.
Fuga dalla Calabria senza servizi e scuole
«Essi – sostiene Teti – sono privati di qualcosa di essenziale per la vita dei centri abitati di piccole dimensioni. Rendere più difficile l’accesso all’istruzione scoraggia la tensione al miglioramento e restringe l’area dei diritti». La questione delle aree interne non è però limitata a quelle calabresi. «Investe tutto l’Appennino e le Alpi».
Non finisce qui. Infatti, continua l’antropologo originario di San Nicola da Crissa, in provincia di Vibo: «La Calabria ha perso circa 100mila abitanti nell’ultimo anno. A questo fenomeno epocale non viene data però la giusta rilevanza. Interi paesi, entro 10 o 20 anni, moriranno. Un danno per questi e per quelli delle coste, e anche per i centri urbani più grandi». Non è solo una questione culturale e demografica. «I paesi interni – spiega Teti – sono anche dei presidi ecologici: non devono destare meraviglia fenomeni estremi e disastrosi come quelli di Soverato o di Crotone, o i continui e micidiali movimenti franosi o gli incendi che distruggono interi boschi».
L’antropologo Vito Teti
Ci salverà il paesaggio?
«Bisogna investire sulla tutela del territorio, sui boschi, sulla pietra. Il paesaggio dovrebbe costituire, se opportunamente popolato e quindi manutenuto, una risorsa, non un problema. In questa direzione ho suggerito provocatoriamente anni fa che ogni paese dovrebbe avere un piccolo museo per raccogliere la memoria e le speranze dei suoi abitanti e per fungere da luogo di cultura e di aggregazione: per guardare la partita, giocare a carte, presentare libri. Se si chiude tutto, nessuno vorrà restare o tornare in un posto invivibile per l’assenza di ogni servizio alla persona e alla collettività».
La lotta ai terremoti crea lavoro
Cosa si può e si deve fare, allora? «Non ci si può illudere – commenta Teti – di risolvere il problema in 5 o 10 anni. Bisogna pensare a un progetto per creare posti di lavoro allettanti, utili, uno stimolo per i giovani a rimanere e, nel contempo, creatori di realtà dove essi abbiano voglia di rimanere. Occorre avviare un’opera di risanamento e quindi di tutela del paesaggio e dei centri storici. La Calabria è zona sismica, nella quale mettere in sicurezza edifici pubblici abitazioni private creerebbe lavoro produttivo, non assistenza, utilizzando manodopera locale e risorse materiali locali come legno e pietra. La nostra regione ha un’evidente vocazione turistica, ma se si svuota chi accoglierà i turisti?».
Reggio devastata dal terremoto del 1908
Intanto «la scelta ecologica è fondamentale, soprattutto se messa in relazione con la crisi climatica. La Calabria, nonostante scempi ed errori, ha tanto, e non ha bisogno di ulteriore cemento. È necessario tornare alla terra, certo non in forme e modalità arcaiche; valorizzare i prodotti tipici, che non solo non vengono valorizzati ma neanche coltivati. Prodotti provenienti da altre parti del mondo vengono spacciati per locali. Abbiamo il mare, la montagna, la collina, e i relativi frutti». Si tratta di un unicum nel Mediterraneo, non solo in Italia».
Storia di chi (non) torna
«All’inizio vi è stata l’impressione che molti volessero tornare. Ma chi è rientrato a lavorare da remoto ha trovato difficoltà a rimanere in posti che offrivano poco o nulla a livello di servizi. Il lavoro a distanza va calato in una comunità complessivamente funzionante, dove ci sono negozi, luoghi di ritrovo, servizi pubblici e privati. Non si possono chiedere atti di eroismo alle persone, cioè tornare in luoghi invivibili. Se chi viene rimane deluso non lo farà più definitivamente, e la fiammella della speranza si spegnerà.
E i musei come quello del mare a Reggio? Teti risponde: «Non conosco il progetto di Reggio. In linea di massima i musei sono un’ottima opportunità, ma se hanno certe caratteristiche. Ho proposto un museo per ogni paese. Musei che raccontino la storia e la memoria della collettività, che attivino forme di socialità e collaborazione culturale. La domanda da porsi è: quanti posti di lavoro crea una realizzazione? Se ne consegue la possibilità di rimanere per chi lo vuole, va bene. Ovviamente per chi vuole, non per chi desidera andare via ritenendo di poter migliorarsi altrove».
Il progetto del Museo del mare di Reggio Calabria
Scuole e non solo: rimedi peggio del male
Cosa resta da fare? «Da 40 anni – argomenta Teti – parlo di museo dell’identità calabrese e di contrasto allo spopolamento. Nessuno dava importanza a questi temi, a queste proposte. Ora che i buoi sono scappati si tenta di rimediare con risposte sbagliate o, come abbiamo visto, con provvedimenti peggiorativi. Abbiamo 800 km di costa. La crisi climatica può comportare grandi problemi, e già l’innalzamento del livello del mare ha generato spese enormi per la protezione delle vie di comunicazione e degli abitati costieri. Nonostante ciò, essa viene vissuta come una cosa lontana, che non ci riguarda. Se non si ha la consapevolezza necessaria, tutti i problemi sono irrisolvibili».
Questa la conclusione di Vito Teti, implicitamente rivolta a tutti, ai cittadini come ai decisori pubblici. La Calabria era “sfasciume pendulo sul mare”, secondo Giustino Fortunato. Nel futuro, se non s’inverte il trend, diventerà «sfasciume deserto pendulo sul mare».
Una domanda, sinistra e fatale, si aggira fra le tante (troppe) perplessità generate dall’ondata testosteronica leghista in materia di autonomia differenziata: la politica industriale toccherà alle Regioni o manterrà un profilo nazionale?
Non sembri una domanda oziosa perché dalle diverse, possibili – e affatto semplici – risposte discenderanno conseguenze non proprio banali per i sistemi produttivi nazionali e regionali.
Ora, sebbene il testo del disegno di legge, approvato dal Consiglio dei Ministri, parli genericamente della possibilità offerta alle Regioni a statuto ordinario di godere di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in tutta una serie di settori tra cui anche alcuni attualmente di competenza esclusiva dello Stato”, il rischio che corre la politica industriale è altissimo.
L’attuale Consiglio dei Ministri in riunione
Autonomia differenziata: la lista (leghista) dei desideri
Se guardiamo le 23 materie potenzialmente oggetto di autonomia comprendiamo subito che quasi tutti gli strumenti, tradizionali, di politica industriale sono compresi nella famigerata lista delle 23 aree oggetto del desiderio leghista.
Solo per citarne alcune: innovazione, trasporto, ricerca scientifica e tecnologica, porti e infrastrutture, governo del territorio, comunicazione, credito regionale, energia, istruzione, salute. Praticamente tutto. Troppo.
Ricchi e poveri? Non solo
Il rischio è quello di creare un sistema infernale di dialetti regionali su materie che richiederebbero al contrario linguaggi unitari e, soprattutto, dimensioni da ottimizzare su scale territoriali sempre più larghe.
Non si tratta solo di ricchi e poveri, di LEP perequati o di spesa storica e fabbisogni standard. La questione, sulla politica industriale, è ancora più sottile e pericolosa perché impatta sul modello di governo di tutte le filiere produttive.
L’attuale frontiera tecnologica, digitale e sostenibile, mira infatti all’integrazione tra filiere puntando sulla cosiddetta intelligenza artificiale generativa. Un sistema integrato di soluzioni produttive che vedono impianti istruiti (attraverso ilmachine learning) ad eseguire operazioni anche in remoto e soprattutto ad impatto ambientale potenzialmente neutro.
Occhio ai furbetti
Le domande sono quasi scontate:
Chi governerà e con quali priorità la politica industriale derivata dall’intelligenza artificiale?
Quali LEP fungeranno da indicatori della perequazione tecnologica in materia digitale tra le Regioni? Assisteremo ad alleanze strategiche tra regioni produttive a maggiore specializzazione e intensità tecnologica?
Queste alleanze possono alterare i meccanismi di ripartizione fiscale delle risorse su scala nazionale? Corriamo il rischio di creare nuovi centri e nuove periferie geopolitiche?
Corriamo il rischio di trasformare il Paese in macro aree con tentazioni ultra autonomiste e miraggi di alleanze extra nazionali giustificate, o peggio ancora, mascherate da specializzazioni produttive e numeri su PIL mozzafiato?
Sono solo domande certo. La veemenza leghista sui tempi non promette niente di buono. Occorre serenità, tempo, riflessione politica e analisi rigorosa sugli scenari potenziali. Magari per evitare che i soliti furbetti approfittino dell’autonomia differenziata per fare della politica industriale una questione “loro”. Tutta loro. Solo loro.
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