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  • Un altro Stretto è possibile: ecco le alternative (a costi inferiori) dei NoPonte

    Un altro Stretto è possibile: ecco le alternative (a costi inferiori) dei NoPonte

    Mentre l’Italia è flagellata da fenomeni atmosferici eccezionali, figli del cambiamento climatico, certo, ma anche dalla mancanza di cura del territorio, in Parlamento va avanti spedito il cammino del Ponte sullo Stretto di Messina con l’approvazione anche in Senato del relativo decreto legge. Nel frattempo, a Villa San Giovanni il movimento NoPonte ha organizzato un illuminante incontro. A relazionare, il professore Domenico Gattuso, ordinario di Pianificazione dei trasporti presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Chiari e puntuali i rilievi sul progetto del Governo. Con un elemento decisivo in più: le proposte alternative, credibili e circostanziate, per un collegamento efficace tra le sponde dello Stretto. In conclusione, anche un’idea per coinvolgere nella scelta i cittadini delle comunità interessate.

    Sono quattro i punti focali delle conclusioni di Gattuso riguardo il Ponte sullo Stretto:

    1. l’idea è debole perché presenta diverse criticità dal punto di vista strutturale, ambientale, di sostenibilità finanziaria;
    2. non accorcia i tempi di percorrenza del braccio di mare;
    3. la spesa da affrontare non rende vantaggioso per l’utenza il passaggio tra le due sponde;
    4. sarebbe invece molto più efficace, per i tempi e i costi di implementazione, rafforzare e arricchire il transito via mare.

    Ponte sullo Stretto: i rilievi di Gattuso

    Partiamo dai rilievi. Il progetto è vecchio (del 2011) e infatti non risponde alla normativa europea in termini di valutazioni di impatto economico, finanziario ed ambientale. Né è dimostrata la sostenibilità dell’opera in relazione alla valutazione degli impatti dettata dall’UE di recente sul PNRR.
    Per quanto concerne l’investimento da effettuare, si quantificava nel 2021 in 6 miliardi di euro, nel DEF appena approvato lievita a 14,6 miliardi (13,5 + 1,1 per le opere ferroviarie annesse). Costi per i quali, si specifica nel documento, non sono stanziati fondi e neanche il PNRR prevede nulla.

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    Il professor Domenico Gattuso

    Il professor Gattuso sottolinea che i paragoni tra il Ponte sullo Stretto e altre opere simili già realizzate sono improponibili. È necessario, infatti, considerare alcune variabili fondamentali:

    • a) lunghezza;
    • b) larghezza e struttura dell’impalcato;
    • c) dimensioni e distanza tra i piloni;
    • d) profondità dei fondali;
    • e) presenza di rischi geologici, azioni del vento e di sismi, ecc.

    Le dimensioni contano

    I ponti a campata unica (come quello sullo Stretto) più lunghi al mondo sono il Çanakkale Bridge, in Turchia, di 2.023 metri e terminato nel 2022, e l’Akashi Kaikyō , in Giappone, di 1.991 metri e finito nel 1998. Ma c’è di più: quello ipotizzato in Italia prevede passaggio di traffico in gomma e ferroviario. Uno simile sta in Cina, il Tsing Ma, ed è lungo 1 km e 400 metri, non 3 km e 300 metri come il Ponte sullo Stretto.

    Altri problemi sono legati al progetto stesso, che non è adeguato alle nuove norme europee venute dopo il 2010. Quello definitivo, poi, manca del tutto.
    Restano numerose incognite da chiarire. Concernono forma e dimensione dell’impalcato, nonché l’altezza dal mare, prevista in 65 metri. Sarà sufficiente per il passaggio di navi da crociera e porta container o dovranno circumnavigare la Sicilia? Con quali costi? L’attracco a Gioia Tauro sarà ancora conveniente?ponte-stretto-gattuso

    Per i piloni si prevede un’altezza di 400 metri, mai vista prima, e strutture di ancoraggio gigantesche. Piazzare i giganteschi piloni richiederà un enorme movimento terra. Dove la collocheranno? In fondo al mare, devastando uno dei fondali più belli e ricchi di biodiversità al mondo?
    C’è un altro dettaglio che i cittadini di tutta l’area dovrebbero considerare, perché forse pensano di salire sul treno a Reggio, Villa o Messina e in un baleno essere dall’altra parte. Per raggiungere i 70 metri di altezza del Ponte sullo Stretto occorrono almeno 25 km per la ferrovia, spiega Gattuso, perché è prevista una pendenza massima del 3/1000. Quindi, raccordi a 25 km, non sotto casa.

    L’impatto ambientale e le novità del PNRR

    Veniamo all’impatto ambientale e alla sua valutazione. Le norme approvate per il PNRR prevedono 6 nuovi criteri, oltre a quelli in vigore in precedenza (teniamo presente che il vecchio progetto non ha mai superato la verifica d’impatto ambientale).
    Ecco i 6 criteri inseriti di recente:

    1. Investimenti volti alla mitigazione dei cambiamenti climatici;
    2. Interventi per l’adattamento ai cambiamenti climatici;
    3. Interventi a favore di un uso sostenibile e protezione delle risorse idriche e marine;
    4. Transizione verso l’economia circolare, con riferimento anche alla riduzione dei rifiuti;
    5. Azioni per la prevenzione e riduzione dell’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo;
    6. Azioni per la prevenzione e ripristino della biodiversità e della salute degli ecosistemi.

    Il traffico sullo Stretto e il no di Gattuso al ponte

    Se consideriamo invece l’efficacia dell’opera, per il trasporto di persone vediamo quali sono i flussi di attraversamento.
    Quindici anni fa, il grado di saturazione del trasporto era appena del 15-20% nelle ore di punta. Probabilmente oggi sarebbe ancora peggio, dato il trend decrescente di traffico sullo Stretto. Tra il 1995 (fonte MIMS) ed oggi, si sono persi 3,4 milioni di passeggeri all’anno (-25%: da 13,4 a 10,0 Mn) e 1 di veicoli (-35,7%; da 2,8 a 1,8 Mn), soprattutto a beneficio degli aeroporti siciliani, passati nel decennio 2009-2019 da 11,3 a 18,0 milioni all’anno. Anche il traffico merci è in calo: meno 100mila camion (-11,1% dal 1995; da 900 mila a 800 mila), mentre è cresciuto molto il traffico via mare (con navi Ro-Ro): +23,4% su Palermo e +13,1% su Catania, solo negli ultimi cinque anni.

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    La Alf Pollack

    In sostanza, una componente significativa di traffico merci ha preferito il mare al percorso “stradale” passante per lo Stretto. Gli stessi operatori privati hanno attivato servizi marittimi sulla direttrice Sicilia-Campania, più vantaggiosi sia per le imprese che per gli autotrasportatori.
    E sono entrate in gioco navi a media e lunga percorrenza (Sicilia – Centro-Nord): la Superspeed 1, costruita in Danimarca, la Passenger/Ro-Ro, infine la Alf Pollak, nuova nave Ro-Ro – la più grande del Mediterraneo, costruita in Germania e consegnata al gruppo armatoriale italiano Onorato – con una capacità di trasporto di oltre 4.200 metri lineari.

    Pendolari e pedaggi

    Come andranno invece le cose per i pendolari Reggio-Villa verso Messina e viceversa? In termini di tempo non si avrebbe alcun beneficio: dal centro di Reggio a quello di Messina 45 minuti, non dissimile da quello con gli attuali catamarani. In più, evidenzia Gattuso, attraversare il Ponte sullo Stretto non sarebbe gratuito. Il pedaggio sarebbe almeno pari a quello attuale in nave: 40-50 € per un’auto, 160- 180 € per un pullman, 70-150 € per un camion, 460-750 € per un mezzo infiammabile.
    Gattuso sottolinea inoltre il rischio che il ponte possa allontanare le città dello Stretto dai traffici nazionali, agendo da tangenziale per i traffici di attraversamento con la marginalizzazione di Reggio e Messina.

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    Imbarcaderi a Messina

    Veniamo agli aspetti economico-finanziari. Il costo del ponte è oggi di 14,6 miliardi di euro, e non si sa nulla, tra l’altro, dei futuri costi di manutenzione. Non esiste project financing. L’investimento è a carico della collettività, con ricavi gestiti da privati in concessione. Bisognerebbe attualizzare gli indicatori economico-finanziari in termini di dati di ingresso (flussi decrescenti e costi crescenti). Atteso un peggioramento degli indici che già erano inconsistenti nel 2012. Le valutazioni dovrebbero seguire le procedure attualizzate dal Manuale UE che la Commissione ha elaborato nel 2014.
    Ai privati interesserebbero la gestione per il profitto che può determinarsi solo con pedaggi elevatissimi, altrimenti tutto cadrà sulle spalle dei cittadini italiani.

    Infrastrutture, crescita, ambiente e sicurezza

    E la vulgata secondo cui il ponte sullo Stretto «rappresenta un volano di crescita economica e sociale per la Sicilia e la Calabria»? Gattuso afferma che la più recente letteratura economica è pressoché concorde nel sostenere come non vi sia un nesso causale tra investimenti in infrastrutture di trasporto e crescita. Ciò non è avvenuto con l’alta velocità e uno studio della Banca d’Italia ha certificato che la Salerno–Reggio Calabria non ha avuto effetti sul PIL della Calabria.

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    La facciata di Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia

    Per quanto concerne i costi esterni, la Via del mare è preferibile alla strada. ALIS, in uno studio del 2001, ha stimato che grazie ai servizi Ro-Ro e alle Autostrade del mare, sono stati eliminati dalle strade, in Italia, circa 1,7 milioni di mezzi pesanti. Quindi 47,2 milioni di merci sono state spostate sulle rotte marittime, abbattendo 2 milioni di tonnellate di CO₂. Il vantaggio economico per l’ambiente è stato stimato in 1,5 Md €. A questo si aggiunge una riduzione dell’incidentalità su strada, del rumore da traffico e del carburante consumato. Inoltre, le navi in costruzione oggi sono assai meno inquinanti rispetto al passato.

    Notevoli i rischi per il ponte se si parla di safety & security. Numerosi i problemi di safety: la circolazione dei veicoli in una carreggiata a 6 corsie in rettifilo, con scarso traffico, produrrà velocità elevate; intensità del vento e spinta laterale; oscillazioni possibili date le dimensioni di sezione trasversale; azioni sismiche imprevedibili; eruzioni vulcaniche e polveri; esplosione di veicoli con merci pericolose (vedi Bologna, 2018); omessa manutenzione (vedi ponte Morandi, 2018). Quanto alla security, sussisterebbero rischi di attentati (vedi Crimea nel 2022).

    L’alternativa di Gattuso al Ponte sullo Stretto

    Ecco invece l’alternativa di Gattuso al Ponte sullo Stretto, in poche mosse, in tempi rapidi e a costi di gran lunga inferiori.
    Innanzitutto, serve una flotta navale ben strutturata e dimensionata. Un traghetto a doppio portellone (come quelli attualmente in servizio) costa circa 50-60 milioni di euro, un catamarano da 250 posti circa 8-10. Inoltre su un traghetto dotato di binari può trovare posto un intero treno regionale senza necessità di scomporlo. Per una flotta di 20 traghetti e 10 catamarani sono necessari 1,2 miliardi di euro.

    Poi, il riassetto dei servizi marittimi sullo Stretto. Con un utilizzo combinato nave-treno per servizi locali-regionali avremmo traghetti catamarani per servizi passeggeri a maggiore frequenza.
    Infine, l’integrazione dei servizi di trasporto pubblico sulle due sponde. Da Messina Centro a Reggio Calabria Centro, con approdi adeguati e potenziati e stazioni marittime distribuite sulle due coste, in tutta l’Area metropolitana dello Stretto.aliscafo-ponte-strettp-gattuso

    Per ottimizzare l’impiego delle risorse bisogna raffrontare i costi, che fanno pendere nettamente la bilancia per il trasporto pubblico mediante treno, metropolitana, autobus, navi di ultima generazione. Solo per avere un’idea, 1 km di TAV costa 40-50 milioni di euro, 1 km di ferrovia a doppio binario elettrificato10-15 milioni. Un km di ponte sullo Stretto? 3 miliardi di euro!
    Per le tariffe per gli utenti serve considerare la distanza tra le due sponde e la necessità di instaurare una vera continuità territoriale, che non è effettiva se il costo del pedaggio, di qualsiasi genere, è quello attuale. Occorre quindi calcolare le tariffe da applicare come quelle dell’autostrada, cioè a 20 centesimi al km. E quindi: 2 € a persona, 4 € ad auto, 15 € a camion.

    Prima il dibattito (vero), poi il referendum

    La domanda finale che pone Gattuso richiede un cambio di prospettiva: «Serve una sola grande opera costosa e di dubbia utilità e fattibilità o è preferibile un insieme diffuso di opere e servizi abbordabili, utili e fattibili?».
    Una domanda retorica, per chi non ha pregiudiziali o interessi di altro genere. E a rispondere dovrebbero essere i cittadini interessati delle due sponde con un referendum, come reclama il professore.
    Una consultazione cui deve precedere un dibattito vero e diffuso. Approfondito, basato sui dati, sulle informazioni, non sul tifo da stadio o sull’ideologia.

  • I villaggi della Riforma agraria in Sila

    I villaggi della Riforma agraria in Sila

    “I villaggi della riforma agraria in Sila”. È il titolo dello studio che sarà presentato mercoledì 24 maggio, alle ore 9,00,  nel Centro Sperimentale Dimostrativo ARSAC di Molarotta, a Camigliatello Silano, nel comune di Spezzano della Sila.

    Il lavoro, realizzato da un team di studiosi composto da Antonella Veltri, Sonia Vivona e Nelide Romeo dell’ISAFoM-CNR di Rende (CS), da Enzo Valente dell’IRPI-CNR di Rende (CS) e da Massimo Veltri, già professore ordinario Unical, offre una retrospettiva sugli interventi che hanno trasformato l’assetto sociale e ambientale dell’altopiano silano a partire dal dopoguerra, e sul ruolo svolto dall’Opera per la Valorizzazione della Sila, ponendo poi l’accento sull’opportunità di un rilancio agro-turistico delle strutture esistenti, anche alla luce delle normative e delle direttive europee tese a dare impulso a politiche economiche incentrate sul binomio ambiente/salute.

    Interventi multipli settoriali sul patrimonio della Riforma agraria in Sila all’interno di una strategia di sviluppo complessa ed articolata, avvalendosi anche delle risorse “offerte” dal PNRR. In questo senso, lo studio costituisce anche una sfida rivolta ai decisori politici. In una terra, la Calabria, piegata da una forte crisi demografica, con le sue aree interne soggette a spopolamento, che si allontana sempre più, dal punto di vista economico, dal resto del Paese.

    Il programma dell’incontro prevede gli interventi di Sonia Vivona, Antonella Veltri e Massimo Veltri, co-autrici e co-autore dello studio, di Franco Curcio, Presidente del Parco Nazionale della Sila, di Silvano Fares, Direttore del CNR-ISAFoM, di Gianluca Gallo, assessore all’agricoltura della Regione Calabria, di Bruno Maiolo, Direttore Generale ARSAC, di Paolo Palma, Presidente ICASIC, di Michele Santaniello, Presidente ODAF Cosenza e di Pietro Tarasi, Presidente del Consorzio patata della Sila IGP. I lavori saranno moderati dal giornalista Luigi Pandolfi.

  • Manna: l’oro bianco della Calabria tutto per il re e gli stranieri

    Manna: l’oro bianco della Calabria tutto per il re e gli stranieri

    La Calabria era una delle maggiori produttrici di manna. Pregiatissima e purissima, simile alla cera e dolce come il miele, la preziosa manna si esportava all’estero dove si vendeva come dolcificante naturale e regolatore intestinale.
    La raccolta della manna incuriosì i viaggiatori stranieri più di ogni altra attività produttiva della regione. Le loro informazioni sull’industria sono ricche di dettagli: i luoghi e il periodo in cui si raccoglieva, chi erano i proprietari degli alberi, quanti erano e quanto guadagnavano gli operai, le tecniche di estrazione e di produzione, i tipi di manna e le sue proprietà in campo medico, come si commercializzava e quanto profitto si ricavava dalla sua vendita.

    La manna migliore in Calabria? Sullo Jonio

    Duret de Tavel, Auguste de Rivarol, Orazio Rilliet, Gerhard vom Rath, Francesco Lenormant nell’Ottocento scrivevano che la manna più pregiata si raccoglieva dall’olmo o frassino selvaggio delle montagne vicino Corigliano e Rossano, al di sotto della zona dei faggi e delle querce. L’albero poteva fruttificare regolarmente all’età di dieci anni e la sua produzione continuava per trenta o quaranta, pur diminuendo molto negli ultimi anni.

    Incisioni su un albero per la raccolta della manna

    Verso la fine di luglio i contadini praticavano con un falcetto tagli orizzontali nel tronco dell’albero profondi circa un centimetro. Quindi sistemavano ai piedi foglie di acero o di fico d’india per raccogliere il succo vischioso che scendeva da ciascuna apertura. Questo succo qualche volta trasudava naturalmente sul tronco e sui rami, senza la necessità di provocarne lo stillicidio intaccandone la corteccia. La manna gocciolava da mezzo dì alla sera, sotto forma di un liquido incolore e trasparente. Si raccoglieva la mattina, quando il fresco della notte l’aveva disseccata dandole consistenza.
    Il succo che restava attaccato sul tronco e sui rami, conservandosi più puro, dava la qualità superiore, chiamato in commercio “manna in lacrime”. La “manna comune”, più ordinaria e meno ricercata, era quella che si raccoglieva sullo strato di foglie steso a terra per accoglierla nella sua caduta.

    Guai a chi la tocca

    I viaggiatori scrivevano che la manna era una delle più pesanti e inique corvée che il suddito doveva al sovrano. E «guai a quel contadino nella cui casa fosse stata trovata una quantità anche minima». Il re dava in appalto la produzione della manna a una Compagnia. Questa vessava i disgraziati campagnoli, «costretti a svolgere la raccolta in condizioni e con una sorveglianza davvero barbare».
    Nel 1786, Johann Heinrich Bartels, illuminista tedesco di Amburgo, annotava sulla produzione della manna nella provincia di Cosenza:

    «Con la manna prodotta in gran quantità in questa zona, specialmente nella parte orientale della provincia, si alimenta, com’è noto, una ricca attività commerciale. Solo il Re può però racoglierla, non i feudatari. Ad essi spetta il compito di provvedere alla raccolta materiale all’epoca prestabilita, nei mesi di luglio e agosto. La raccolta dura sulle cinque settimane. Durante tutto questo tempo tutti coloro che vengono chiamati dal feudatario per raccogliere la manna sono tenuti a mettere da parte i loro affari privati e a lavorare solo per il Re. Nel caso trasgrediscano a questo divieto, sono passibili di pene durissime.

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    Un produttore di manna dei nostri giorni

    Per tutto questo ricevono un risarcimento di 3 carlini al giorno. A dire il feudatario riceve per ogni uomo che impiega 5 carlini, ma ne trattiene due per sé. Per volere del Re la raccolta della manna viene sempre data in appalto. Per evitare furti, il governo è tanto geloso di questo prodotto che per tutto il tempo della raccolta si vedono in giro per i boschi gli sbirri, la cosiddetta Guardia, coi fucili spianati pronti a far fuoco su chiunque si azzardi da quelle parti senza l’accompagnamento di una persona abilitata. I raccoglitori possono mangiare quanta manna vogliono, ma pagano con la vita il minimo furto».

    Le incisioni sugli alberi

    Bartels descriveva poi nei dettagli le tecniche di produzione della manna in Calabria: «Il modo in cui viene prodotta la manna è duplice, in parte richiede la mano dell’uomo, in parte no. Nel primo caso si fanno delle incisioni sul tronco dell’albero dalle quali fuoriesce la manna che viene raccolta in piccoli recipienti. Le incisioni sono orizzontali e si fanno a poca distanza l’una dall’altra, da un pollice e mezzo a due. La lunghezza dell’incisione forma con l’altezza un rettangolo equilatero. L’incisione che si produce con un coltello a forma di piccola falce ha una profondità di mezzo pollice. Ai piedi dell’albero, per raccogliere la manna che fuoriesce dalle incisioni, si sistemano le grandi foglie spinose dei fichi d’India, una pianta che cresce in quantità sui bordi delle strade, e fa da siepe come da noi il roveto, foglie che seccando diventano concave.

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    Fiori di frassino, l’albero che produce tra le migliori qualità di manna

    Per evitare che la manna goccioli per terra, sotto la prima incisione si fa una fessura alla quale si attacca una foglia sui cui gocciola la manna prima di finire nel recipiente a terra. Si comincia ad incidere l’albero dal basso e poi a poco a poco si procede verso l’alto, e, se la stagione lo permette, si fanno delle incisioni anche sui rami grandi. Se all’epoca della raccolta piove o il tempo è mite, la raccolta è meno abbondante del solito in quanto la mancanza di caldo rallenta la fuoriuscita della linfa e la pioggia lo lava via. Il colore rassomiglia alla cera che gocciola da una fiaccola e ha un sapore dolce di miele. Nel secondo caso l’uomo si limita a raccogliere quel che viene fuori col calore del sole».

    La manna in Calabria: falsi miti e segreti

    L’illuminista concludeva soffermandosi sugli aspetti economici della questione, tra convinzioni da sfatare e misteri contabili. «È sbagliato però credere che la manna sgorghi dalle foglie: sgorga, come nel primo caso, dal tronco, e scivola lungo il tronco o, nel caso le foglie ne ostacoli il corso, lungo le stesse foglie. Scorre liquido e puro come acqua e, quando il vento lo raffredda, si fissa in palline che o restano attaccate al tronco o si fermano sulle foglie – da qui la leggenda che sgorgherebbe dalle foglie. Come potete facilmente immaginarvi, gli insetti, le formiche, le lucertole, le api ecc. ne vanno ghiotti. La manna ricavata col solo aiuto del sole è, a detta di tutti, la migliore. È così che la producono gli orni e i frassini, anche se in quantità ridotta.

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    Manna raccolta ai piedi di un albero

    La manna ricavata dall’orno è di colore bianco, simile a cera bianca, quella ricavata dal frassino va più sul giallo. Mi hanno assicurato che questa manna si vende a 7 talleri l’oncia, o a 50 talleri per 6 once. Per me sarebbe stato più importante avere il dato preciso della quantità complessiva della manna raccolta e delle entrate del Re; ma, a quanto pare, in questo paese queste informazioni vengono custodite con uno zelo tale che di fatto se ne preclude l’accesso ad uno straniero Quanto grande sia il profitto lo potete dedurre da questo dato: soltanto a Campana e a Bocchigliero, due piccole località della Calabria Citeriore se ne raccoglierebbero 30.000 libre all’anno».

  • Gratta & ruba: quei brutti tentacoli sulle scommesse

    Gratta & ruba: quei brutti tentacoli sulle scommesse

    Ammalarsi di gioco d’azzardo e rischiare anche di fare gli interessi dei boss. Il quadro, più o meno a tinte sempre più fosche, è noto ma non troppo.
    Certo, se ne parla e magari ognuno conosce qualcuno che “esagera” ma i numeri ufficiali del gioco in Calabria sono preoccupanti. I calabresi risultano sempre più ludopatici. Anche a dispetto delle enormi difficoltà socioeconomiche. Infatti, in un anno ci si è permesso il “lusso” di spendere nell’azzardo, fisico e on line, oltre 4 miliardi.
    Sono cifre fuori da ogni logica, addirittura superiori a quelle di Veneto e Liguria.

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    Giocatori alle prese con le slot machine

    Il gioco d’azzardo secondo i Monopoli e l’Antimafia

    Questo quadro inquietante emerge dai dati dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli (Adm), analizzati e elaborati sia dalla Direzione investigativa antimafia sia dall’ultima Commissione parlamentare antimafia.
    Nella relazione finale (la numero 37 del 2022), pubblicata nei giorni scorsi, la Commissione punta il dito sull’influenza della criminalità organizzata nel mondo del gioco legale per attività di riciclaggio, infiltrazione e ovviamente manipolazione delle vincite e dell’intero settore. Il risultato è praticamente uguale a quello dell’ultimo report semestrale della Dia.

    Gli appetiti delle ’ndrine sul gioco d’azzardo

    In particolare i clan di ‘ndrangheta e di camorra sono considerati i principali responsabili di questi continui tentativi di impossessarsi di un settore da oltre 110 miliardi di euro l’anno, da tempo nella top five delle “aziende” con il maggior fatturato. Questo oceano di denaro, ovviamente, ha stuzzicato gli appetiti di boss e picciotti, che si sono sempre “interessati” di gioco e dintorni.

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    Gioco d’azzardo online

    Calabresi spendaccioni

    Nel 2021 in Calabria sono stati spesi 1 miliardo e 100milioni in gioco fisico (slot, gratta e vinci, lotto, superenalotto, scommesse sportive ecc.) e 3 miliardi di euro in gioco on line per un totale, come detto, superiore ai 4 miliardi. Questo trend è in crescita costante dal 2006.
    Da allora le percentuali tra gioco reale e on line si sono invertite e ormai il web ha superato sale giochi e rivendite. Nel 2021 si è arrivati al 64% on line e 34% gioco fisico. E questo non solo agevola gli eccessi e le ludopatie (che ormai i SerD trattano alla pari delle dipendenze da alcol e droghe) ma anche le infiltrazioni indesiderabili.

    Caccia ai criminali del gioco d’azzardo online

    Sul web “stare dietro” ai criminali è molto più complicato. Tuttavia, la polizia si è data un gran da fare: lo provano numerose operazioni, le più importanti delle quali, come ha sottolineato la Commissione antimafia della precedente legislatura, hanno colpito i principali clan calabresi.
    Giriamo il calendario un po’ indietro: nel 2019 l’Adm ha pubblicato un dossier con i dati di tutti i Comuni italiani divisi per regioni e per tipo di gioco d’azzardo, I suoi numeri si riferiscono al solo gioco fisico che allora in Calabria valeva 1 miliardo e 700 milioni. Questo dato, come già detto, è diminuito. In compenso, è cresciuto il virtuale. Quindi il denaro speso dai calabresi in azzardi vari è quasi raddoppiato.
    In autunno dovrebbero uscire i numeri dell’Adm relativi allo scorso anno, va da sé stimati in rialzo come in tutti gli ultimi anni escluso il 2020, l’anno del covid e delle restrizioni maggiori per tutti i cittadini.

    Giocatori d’azzardo calabresi Comune per Comune

    Nella città di Cosenza, secondo l’Adm nel solo 2019 sono stati spesi 73 milioni, a Catanzaro 93 milioni, a Reggio Calabria 198 milioni, a Crotone 53 milioni e a Vibo Valentia 59 milioni. Questi dati riguardano solo le sale.
    Tra gli altri Comuni calabresi, impressionano i 14 milioni di euro di Pizzo Calabro, i 24 milioni di euro di Villa San Giovanni, i 17 milioni di Taurianova, i 18 milioni di Melito, i 21 milioni di Bovalino, i 18 milioni di Cirò, gli 8 milioni di Spezzano Albanese, i 14 milioni di Amantea, i 13 milioni di Scalea, i 14 milioni di San Marco Argentano, i 7 milioni di San Lucido, i 17 milioni di San Giovanni in Fiore, gli 86 milioni di Rende, i 18 milioni di Paola, i 30 milioni di Montalto Uffugo, i 12 milioni di Crosia, i 91 milioni di Corigliano, i 19 milioni di Castrovillari e i 13 di Acri.
    Questi numeri parlano da soli.

    Operazione Stige

    Per la Commissione antimafia è preoccupante la crescita della ‘ndrangheta di diverse aree della Calabria in questo settore. E si citano, al riguardo, due operazioni di polizia (tra le tante) per testimoniare tanta preoccupazione.
    Esemplari, ad esempio, i dati dell’operazione Stige della Dda di Catanzaro, che ha disarticolato la locale di Cirò, capeggiata dalla cosca Farao-Marincola, con diramazioni in numerose regioni italiane e in Germania.
    Le indagini hanno accertato il controllo di fatto di un punto Snai, localizzato a Cirò Marina, basato su complesse operazioni societarie e cambi di intestazione finalizzati a occultare la riconducibilità della sala alla cosca.

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    Finanzieri in azione

    Operazione Galassia

    L’operazione Galassia è un vero e proprio riassunto della struttura e delle funzioni di un network criminale composto da tutte le matrici mafiose italiane: dalla ‘ndrangheta alla Camorra, da Cosa Nostra alla criminalità organizzata pugliese. L’indagine, coordinata dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, ha integrato diversi procedimenti condotti dalla Procure di Reggio Calabria, Bari e Catania.
    Al riguardo, la Commissione si concentra proprio sulle dinamiche che nel tempo sono mutate in relazione al gioco e agli “appetiti” delle cosche. Infatti, si apprende dalla relazione 37: «Se ancora sul finire degli anni Novanta la polizia giudiziaria era impegnata principalmente su fenomeni delinquenziali correlati alle corse negli ippodromi e nei cinodromi, ai combattimenti clandestini combinati tra animali, alle sale da gioco ambigue (parte semilegali e gran parte totalmente illegali) e ai quattro casinò autorizzati (Campione d’Italia, Venezia, Saint Vincent, Sanremo), successivamente il quadro dell’offerta di gioco muta considerevolmente».

    La mafia corre sul web

    Cosi, «dal progressivo processo di espansione dell’offerta pubblica e ancor più con il salto delle tecnologie digitali che ha consentito l’esplosione del mercato delle scommesse online, avviene anche il salto evolutivo dell’intervento delle mafie nel comparto».
    Morale della favola: si gioca troppo e così tanto da attirare le mafie.
    Impedire le infiltrazioni criminali è affare degli investigatori. Invece, ridurre gli sperperi nel gioco è un compito che spetta a tutti. Ma come? La domanda resta aperta. Per tutti.

  • Antonio Serra: il galeotto che inventò l’economia moderna

    Antonio Serra: il galeotto che inventò l’economia moderna

    Un’intuizione geniale, ripescata a partire da inizio millennio, e una vita avvolta nel mistero, su cui si sono accaniti decine di studiosi.
    Di Antonio Serra si sanno pochissime cose. Si sa senz’altro che fu un giurista per formazione, come testimonia il pomposo titolo di doctor in Utroque (cioè nei diritti Civile e Canonico).
    Si sa, inoltre, che Serra fu cosentino, probabilmente di Dipignano. Tuttavia, senza certezze. E si sa che visse a cavallo tra XVI e XVII secolo. Ma da un dettaglio non proprio irrilevante: pubblicò il suo capolavoro, nel 1613, mentre era imprigionato nel carcere della Vicaria a Napoli.
    Per il resto, ci sono solo indizi e illazioni.

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    Il ritratto di Serra e il frontespizio del suo trattato

    L’attualità del pensiero di Antonio Serra

    Partiamo dall’aspetto, forse più importante dell’opera di Antonio Serra: l’eccezionale longevità del suo pensiero, riemerso di prepotenza nel dibattito dello scorso decennio sul Mezzogiorno.
    L’artefice di questa attualizzazione è Vittorio Daniele, professore ordinario di Politica economica presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro.
    Nei suoi saggi, Daniele lancia una tesi che anima tuttora il dibattito sorto in seguito al centocinquantenario dell’Unità nazionale e suscita qualche entusiasmo negli ambienti culturali e politici legati a certo revisionismo antirisorgimentale. Prima dell’Unità, sostiene Daniele assieme a Paolo Malanima, non esisteva un grande divario economico tra Nord e Sud. Le cose cambiano dopo, col decollo industriale del Settentrione.
    In seguito, il prof di Catanzaro approfondisce i motivi di questo divario: il Mezzogiorno è rimasto indietro non per (sola) colpa delle scelte politiche ma (soprattutto) a causa della sua posizione geografica svantaggiosa. In altre parole, e a dispetto di tanta retorica sulla “centralità mediterranea”, il Sud è un territorio marginale che, comunque, non può sviluppare più di tanto. Cosa c’entra Serra in tutto questo?

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    Vittorio Daniele

    In fondo al Mediterraneo

    Daniele riprende di peso un’intuizione forte contenuta nel Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e argento, scritto in carcere dall’economista cosentino.
    L’intuizione di Serra si riferisce allora al Regno di Napoli, che versa in difficoltà economiche.
    Schiacciato in fondo al Mediterraneo e quasi isolato, il Regno, spiega lo studioso, è «un sito pessimo», perché «non bisogna mai passare da quello ad alcuno per andare in altro paese. Sia di qualsivoglia parte del mondo, e voglia andare in qualsivoglia altra, non passerà mai per il Regno se non vi vuol passare per suo gusto e allungare la strada».
    Insomma, a distanza di cinque secoli, il Serra-pensiero tiene banco.

    Antonio Serra pioniere dell’economia politica

    Ovviamente il pensiero di Serra non si limita solo a questa intuizione longeva, che comunque getta le basi della geografia economica.
    In realtà, secondo l’economista cosentino, le caratteristiche che possono generare ricchezza sono sette, divise in due grandi gruppi: cause naturali e cause accidentali. Serra considera come cause “naturali” solo la presenza di miniere.
    Le cause accidentali, a loro volta, si dividono in due sottogruppi: “accidenti proprii” e accidenti “communi”. I primi sono peculiari di ciascun Paese e si riducono a due: la posizione geografica, appunto, e la produzione agricola. I secondi, invece, sono tipici di tutti gli Stati e cambiano solo per quantità e qualità. E sono: la diffusione di manifatture, il volume dei commerci, l’intraprendenza e la qualità dei popoli e, infine, la politica. In pratica, il capitale umano. Secondo Serra, proprio la politica fa la differenza, perché può dare gli impulsi necessari alla vita civile e (quindi) allo sviluppo economico.
    Considerato il periodo storico, si può affermare che il Breve trattato di Serra stia all’economia come Il principe di Machiavelli sta alla politica.

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    Un busto di Antonio Genovesi

    L’economia dopo Antonio Serra

    Di economia, prima di Serra, avevano scritto in tanti, ma nessuno l’aveva mai considerata un ramo a sé dello scibile.
    Un po’ di cronologia può aiutare a capire meglio l’importanza di questo pensatore.
    La nascita dell’Economia politica ha una data convenzionale: il 1776, l’anno in cui Adam Smith licenzia il suo La ricchezza delle nazioni.
    Smith ha, essenzialmente, un precursore: Antonio Genovesi, che ottiene la prima cattedra italiana di Economia a Napoli nel 1754.
    L’intuizione dell’Università di Napoli è preceduta di poco dai re di Prussia, che patrocinarono, ad Halle, una cattedra di Ökonomische, Polizei und Kameralwissenschaft (1727).
    Antonio Serra precede questo processo scientifico e accademico di almeno 114 anni. Se non è pionierismo il suo…

    Vita misteriosa di Antonio Serra

    Nonostante ciò, di Serra si sa davvero poco. Ad esempio, non si sa con certezza dove sia nato e quando.
    Anche la sua origine a Dipignano è un’ipotesi, magari più forte delle altre. Infatti, spiega lo storico Luca Addante, gli unici dati certi sono stati a lungo quelli riportati dal frontespizio del Breve trattato, dove l’economista appare come «dottor Antonio Serra di Cosenza». Il che potrebbe non voler dire molto: tutti i notabili dell’epoca si dichiaravano abitanti dei capoluoghi, sebbene fossero nati fuori dalle mura.
    Questo vale anche per Cosenza e i suoi casali (tra questi, appunto, Dipignano).
    Sulle origini di Serra c’è stata, in realtà, una lunga disputa: secondo alcuni (Gustavo Valente in particolare) l’economista era originario di Celico, secondo altri (è la tesi di Augusto Placanica) di Saracena. Mentre Davide Andreotti lo fa nascere a Cosenza. Ma prende una stecca clamorosa sul presunto anno di nascita: 1501.
    Fosse vera questa data, Serra avrebbe dovuto avere 112 anni di età nel 1613, quando era in galera e scriveva il Breve trattato.
    L’ipotesi di Dipignano è avallata dalla recente scoperta di un documento notarile del 1602, che parla di un Antonio Serra di Dipignano. E sarebbe confermata da un altro documento notarile, stavolta napoletano, del 1591, nel quale si parla di un Antonio Serra, dottore in Utroque e proprietario di un fondo e case a Dipignano.
    In questo caso, i conti tornano: nel 1591 Serra avrebbe avuto almeno vent’anni e nel 1612 aveva fatto quel po’ di carriera sufficiente a ficcarlo nei guai e a ispirargli il Breve trattato.

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    Pedro Fernàndez de Castro y Andrade, viceré di Napoli

    Un capolavoro dalla galera

    Con un certo amore per la retorica rivoluzionaria, Francesco Saverio Salfi provò a legare la vicenda umana di Antonio Serra a quella di Campanella, che negli stessi anni era finito nei guai per aver ideato un tentativo di “rivoluzione” in Calabria.
    In pratica, Serra sarebbe stato tra i congiurati e sarebbe finito in galera per questo.
    Ancora una volta, i documenti smentiscono l’ipotesi. Serra finì alla Vicaria, come ha ricostruito tra gli altri Luigi Amabile, perché sospettato di falso monetario. In altre parole, gli avrebbero trovato dei pezzi d’oro, probabilmente grezzo. Per questo reato, per cui all’epoca si poteva finire al patibolo, il carcere era il minimo.
    Serra dedicò il Breve trattato a Pedro Fernàndez de Castro y Andrade, viceré di Napoli, probabilmente per cacciarsi dai guai. Ma inutilmente. Riuscì, invece, a incontrare Pedro Téllez-Giron, il successore di Fernàndez nel 1617. Ma l’incontro si risolse in chiacchiere e Serra tornò in galera. Considerando l’età presumibile (forse sessant’anni) e la durata media della vita dell’epoca (poco sopra i cinquant’anni), tutto lascia pensare che l’economista sia morto alla Vicaria, anche se non si sa quando.

    L’economista Erik Reinert

    Antonio Serra: sfigato in vita, eroe da morto

    È una regola tutta italiana, ancor più meridionale: riconoscere la grandezza di qualcuno solo dopo la vita. Infatti, perché si prendesse sul serio Antonio Serra è dovuto passare un secolo dalla morte presunta.
    Oltre a Salfi, si accorse di Serra l’abate Ferdinando Galiani, altro grande pioniere dell’economia, che lo citò nel suo Della Moneta (1751),
    Poi altro silenzio, interrotto da Benedetto Croce, che non lesina elogi all’economista cosentino.
    Antonio Serra deve la sua seconda giovinezza a un big dell’economia contemporanea: il norvegese Erik Reinert, che lo cita come massima fonte d’ispirazione assieme al piemontese Giovanni Botero, coevo e forse coetaneo dello studioso calabrese.
    Questa rinascita del pensiero “serriano” ha un valore particolare, perché avviene all’interno di un filone di pensiero che si pone come alternativo all’attuale liberismo.
    Non è davvero poco, per un calabrese che ebbe il colpo di genio in galera.

     

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Soldi, record e propaganda: quel Ponte da Strabone a Wired

    Soldi, record e propaganda: quel Ponte da Strabone a Wired

    Il ponte sullo Stretto: se ne scrive persino negli Stati Uniti (lo vedremo più avanti), ed è al centro del dibattito politico domestico. In Parlamento e anche a Reggio Calabria, dove, nell’ambito del Festival dell’economia, sviluppo e sostenibilità, ideato da Maurizio Insardà, si è tenuto un dibattito dal titolo “Infrastrutture di trasporto e sviluppo del Mezzogiorno” moderato dalla giornalista di Rai 2 Marzia Roncacci. Vi hanno partecipato il capo dipartimento del Ministero delle Infrastrutture e trasporti Enrico Maria Pujia, il docente di Economia politica dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria Domenico Marino, il vicepresidente di Confindustria Sicilia e presidente della Camera di commercio di Messina Ivo Blandina, il responsabile dell’organizzazione aziendale dell’Università Magna Graecia di Catanzaro Rocco Reina e l’assessore ai Trasporti del Comune di Reggio Calabria Domenico Battaglia.

    I relatori sono stati concordi nel sottolineare che non sono le risorse il problema della Calabria, ma piuttosto l’incapacità di spesa degli attori in campo, in primis la Regione. Un problema certamente non di oggi. Ogni anno i finanziamenti stanziati tramite i diversi fondi europei vengono utilizzati solo in minima parte. Ciò, secondo Marino, soprattutto per la sovrabbondanza di progetti e bandi, mentre si dovrebbe puntare su 4 o 5 progetti strategici e realizzabili. Altre criticità rilevate dai relatori, in particolare da Pujia e Reina, quelle relative alla carenza di risorse umane adeguate e alle procedure farraginose. Sarebbero necessari investimenti corposi nella formazione, per avere personale in grado di seguire efficacemente l’iter procedimentale fissato dalle norme.

    Tutti d’accordo, ma…

    Per quanto concerne il ponte sullo Stretto, totale adesione al progetto, peraltro scontata, del rappresentante del Ministero, ma anche da parte degli altri intervenuti. Con l’eccezione significativa dell’assessore Battaglia, secondo il quale lo sviluppo della Città metropolitana di Reggio va inserito nello scenario più ampio dell’ Area integrata dello Stretto, rilanciando l’aeroporto e i porti ricompresi nell’Autorità di Sistema, al fine di fare uscire dalla marginalità un comprensorio ad altissima vocazione storico/culturale e quindi turistica. La posizione baricentrica nel bacino del Mediterraneo, a suo avviso, pone lo Stretto quale ideale testa di ponte per i Paesi emergenti del Nord Africa.

    Aeroporto Minniti, la cenerentola degli scali calabresi
    Un aereo fermo sulla pista del Tito Minniti

    La sinergia necessaria tra i diversi enti coinvolti ha la sua base normativa nella l. r. del 2015 istitutiva della Conferenza interregionale per le politiche dell’Area dello Stretto. Sulla questione ponte Battaglia chiede innanzitutto chiarezza al Governo, rilevando inoltre che non è pensabile rispolverare un progetto vecchio di 12 anni, non sottoposto alla valutazione di impatto ambientale, del tutto inadeguato all’attuale sistema dei trasporti: «Ci sono sul tavolo delle amministrazioni comunali e metropolitane una serie di opere già finanziate che rischiano di essere inutili se dovesse realizzarsi il Ponte. Per questo come istituzioni del territorio reclamiamo un maggiore coinvolgimento».

    Il ponte sullo Stretto e i soldi per la comunicazione

    In Parlamento, intanto, la maggioranza non mostra titubanze di sorta.
    La Commissione Ambiente e Trasporti della Camera approva un emendamento al decreto legge in discussione – da licenziare in Aula entro il 31 maggio – proposto da Lega e FI, che elargisce 8 milioni di euro ai Comuni di Villa San Giovanni e Messina per una campagna di comunicazione, verrebbe da chiedersi per comunicare cosa.
    Ancora, mentre non si conosce la posizione della UE sull’affidamento al consorzio Eurolink, guidato dal Gruppo Salini, vincitore della gara del 2010, un altro emendamento
    in commissione Trasporti prevede un secondo adeguamento nei prezzi di realizzazione dell’opera, ulteriore rispetto a quello già previsto nei contratti stipulati anni fa e finiti nel nulla con la messa in liquidazione della Stretto di Messina.

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    La Camera dei deputati

    Misteri contabili

    Secondo i tecnici della Camera dei Deputati un secondo criterio, per un secondo aumento che si «otterrebbe sottraendo l’indice Istat a una media calcolata sul valore dei primi quattro progetti infrastrutturali per importo banditi da Rfi e Anas nel 2022». Al che chiedono al governo chiarimenti, considerando «che questi adeguamenti aggiuntivi dovrebbero avvenire senza maggiori oneri a carico dello Stato» come prevede il decreto legge. In sostanza: come si fa ad aumentare il costo dell’opera (che arriverebbe complessivamente a circa 15 miliardi e mezzo), senza intaccare le casse dello Stato?

    L’Autorità di Cannizzaro

    E mentre rimangono fumose le intenzioni del Governo e del ministro alle infrastrutture sull’alta velocità da Salerno a Reggio e sulla statale 106, un emendamento approvato in Commissione Bilancio della Camera attribuisce all’Autorità di Sistema portuale dello Stretto il compito di individuare «i progetti prioritari necessari all’adeguamento delle infrastrutture locali, avviando un percorso di rifunzionalizzazione, anche al fine di renderle più coerenti e funzionali con la nuova configurazione che sarà determinata dalla costruzione del Ponte», secondo quanto dichiarato dal deputato Francesco Cannizzaro che lo ha proposto.

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    Ciccio “Profumo” Cannizzaro

    Alla stessa Autorità «il compito di sviluppare ed eseguire anche progetti di miglioramento dei Porti di Reggio Calabria, Villa San Giovanni e Messina con interventi che potranno essere identificati come d’interesse nazionale prioritario e strategico e quindi beneficiare di appositi finanziamenti e procedure di semplificazione» per esempio per lo spostamento del porto traghetti di Villa San Giovanni a sud degli invasi. Fin qui le vicende nostrane.

    Il Ponte sullo Stretto da Strabone a Wired

    Ma il Ponte sullo Stretto di Messina suscita interesse anche oltre oceano. La rivista USA Wired lo ha identificato come il «ponte sospeso più lungo al mondo». È di pochi giorni fa la pubblicazione di un lungo articolo che ripercorre la storia concernente l’attraversamento stabile del tratto di mare tra Calabria e Sicilia. Si parte addirittura, citando lo storico greco Strabone, dai Romani, che nel 250 a.C. provarono a trasportare 100 elefanti catturati in battaglia da Palermo a Roma. Secondo Strabone, usarono barili vuoti e assi di legno per costruire un ponte provvisorio. I pachidermi arrivarono effettivamente nella capitale del futuro Impero, ma non si sa con certezza come.

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    “Hannibal traverse le Rhône”, Henri Motte, 1878

    Aurelio Angelini, professore di sociologia all’Università di Palermo, autore de Il mitico ponte sullo stretto di Messina, ha dichiarato alla rivista che l’idea del Ponte è stata a lungo contrastata dalla gente del posto di entrambe le parti, per motivi politici, economici e ambientali, ma anche per la resistenza al cambiamento. «Siciliani e calabresi sono divisi, ma la maggioranza è contraria al ponte. La forte politicizzazione del progetto potrebbe anche essere un caso di “populismo infrastrutturale”. La retorica intorno al ponte trasuda nazionalismo», dice, «e l’idea è vista come un simbolo della grandezza dell’Italia, o della capacità di costruire un ponte più lungo di quanto chiunque altro abbia mai fatto».

    Lobbies, record e diversivi

    Wired sottolinea che il progetto è sostenuto da Matteo Salvini, «vice primo ministro e leader del partito populista della Lega, con il sostegno di Berlusconi, ora 86enne, che ha scritto, alla firma del decreto: “Non ci fermeranno questa volta”».
    Nicola Chielotti, docente di diplomazia e governance internazionale alla Loughborough University di Londra, sostiene che uno dei motivi per cui l’idea continua a riprendere vita è che ci sono tante persone che traggono profitto dal lavoro di progettazione: «Spendono costantemente soldi anche se non si materializzerà mai, e ci sono alcuni gruppi di interesse che sono felici di catturare quei soldi». Un’altra questione, aggiunge Chielotti, è che il progetto è un’utile pedina politica per un governo che finora ha taciuto su alcune promesse elettorali chiave, come la riforma fiscale e una posizione aggressiva nei confronti della finanza internazionale.ponte-sullo-stretto

    Wired fa il confronto con altre opere del genere già costruite per cogliere le difficoltà di realizzazione del progetto, che prevede un  ponte sospeso a campata unica con una lunghezza di 3.300 metri: «È il 60 percento più lungo del  ponte Çanakkale in Turchia, attualmente il ponte sospeso più lungo del mondo, che si estende per 2.023 metri. Con piloni di 380 metri di altezza, sarebbe anche il più alto del mondo, più del viadotto di Millau in Francia, 342 metri».

    Il ponte sullo Stretto e la sostenibilità

    La rivista riporta puntualmente alcune obiezioni autorevoli e fondate, di carattere ambientale e di sostenibilità finanziaria dell’opera.
    «Siamo ancora in una fase in cui non ci sono prove che (il ponte) sia fattibile dal punto di vista economico, tecnico e ambientale», afferma Dante Caserta, vicepresidente della sezione italiana del World Wildlife Fund. «Lo Stretto di Messina si trova anche in due zone protette cruciali per i movimenti migratori di uccelli e mammiferi marini». E, per quanto concerne la sostenibilità economica: «Per 30 anni abbiamo fatto elaborazioni concettuali che sono  costate ai contribuenti italiani 312 milioni di euro. Inoltre, la stima complessiva del costo di  8,5 miliardi di euro dal 2011 è destinata a salire a causa dell’aumento dei prezzi dei materiali e inflazione». E infatti siamo arrivati, come abbiamo scritto sopra, a un costo complessivo di 15,5 miliardi circa.

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    Auto sul traghetto tra Villa San Giovanni e Messina

    Caserta dice anche che non è chiaro se l’economia sostenga il costo. «Non ci sarebbe abbastanza traffico per pagare il progetto attraverso i pedaggi, perché oltre il 75 per cento delle persone che attraversano lo stretto lo fa senza auto, quindi fare tutto questo solo per risparmiare 15 minuti non ha senso, soprattutto perché collega due aree con gravi problemi infrastrutturali».
    Il professore Angelini segnala anche la mancanza di un progetto esecutivo. E aggiunge: «Il ponte non ha alcun legame reale con gli interessi sociali ed economici del Paese, e le persone e le merci si stanno già muovendo con altri mezzi». La chiosa è tranchante: «Penso che le possibilità di vederlo mai costruito siano scarse».

    L’unica certezza

    Abbiamo quindi dato conto di quanto accade in Italia, a livello di dibattito e di decisioni politiche. Abbiamo voluto anche dare conto di quanto pubblicato negli Stati Uniti. Il quadro complessivo sembra confermare l’impressione che il ponte sullo Stretto di Messina sia di prossima e certa realizzazione. Sulla carta. Il dato sicuro è che costerà ai contribuenti “della Nazione” ancora molto denaro.
    Lo scetticismo è d’obbligo, così come la perplessità per scelte che privilegiano un disegno astratto rispetto ad altre realizzazioni (alta velocità ferroviaria, statale 106, potenziamento del trasporto marittimo e aereo per l’intera Area dello Stretto) che potrebbero dare un contributo decisivo per fare uscire dalla marginalità questo lembo di terra.

  • Lavoro irregolare e cantieri a rischio: altra maglia nera per la Calabria

    Lavoro irregolare e cantieri a rischio: altra maglia nera per la Calabria

    Vigilanza 110 in sicurezza, controlli a tappeto in tutt’Italia.
    La Calabria tra cantieri e ditte ispezionate fa il pienone nelle irregolarità riscontrate dai carabinieri per conto dell’Ispettorato nazionale del lavoro.
    Infatti, su 15 cantieri edili controllati 15 presentavano problematiche e 21aziende su 22 sono risultate irregolari, per varie motivazioni.

    Carabinieri e ispettori del lavoro in azione

    Il 29 marzo scorso nell’ambito di Vigilanza 110 in sicurezza 2023, promossa e coordinata dall’Ispettorato nazionale del lavoro, si è svolta un’operazione straordinaria di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori e di contrasto al sommerso nell’edilizia, che ha interessato tutto il territorio nazionale, con la sola esclusione delle Province di Trento e Bolzano e della Regione Sicilia.
    Il 27 aprile sono usciti i dati provinciali.
    Un battaglione imponente di ispettori del lavoro (541 ordinari e 177 tecnici) e di carabinieri dei nuclei ispettorato del lavoro, supportati da militari dei vari comandi provinciali dell’Arma per un totale di 634 militari impiegati (di cui 350 del Comando per la tutela del lavoro ha gestito la megaispezione.
    Alle operazioni ha partecipato anche personale ispettivo di Asl, Inail e Inps.

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    I cantieri edili sono spesso luoghi-simbolo dello sfruttamento

    Tutti i numeri di Vigilanza 110

    Oltre l’80% dei 334 cantieri ispezionati è risultato irregolare, con un sequestro preventivo già convalidato; sono 166 i provvedimenti di sospensione delle attività d’impresa, di cui 110 per gravi violazioni in materia di sicurezza e 56 per lavoro nero. La verifica ha toccato 723 aziende e 1795 posizioni lavorative.
    Il tutto sotto il coordinamento dalla Direzione centrale per la tutela, la vigilanza e la sicurezza del lavoro dell’Ispettorato nazionale del lavoro.
    Ecco il bollettino, quasi bellico, degli accertamenti: 433 aziende irregolari; 349 posizioni lavorative irregolari; 116 lavoratori in nero, tra cui 29 lavoratori extra-Ue, (dei quali 17 senza permesso di soggiorno); 568 prescrizioni per violazioni in materia di sicurezza; 166 sospensioni dell’attività d’impresa; 289 persone deferite alla autorità giudiziaria in stato libertà per violazioni varie.

    Insicurezza e lavoro nero

    Le principali contestazioni riguardano il rischio di caduta dall’alto, le irregolarità dei ponteggi, il rischio elettrico, l’omessa fornitura e utilizzo dei Dpi (dispositivi di protezione individuale), l’organizzazione e viabilità inadeguata dei cantieri e la mancata protezione dalla caduta di materiali.
    Inoltre, risultano numerose le omissioni nella sorveglianza sanitaria dei lavoratori, nella formazione e informazione dei lavoratori, nella redazione del Dvr (documento valutazione rischi), del Pos (piano operativo di sicurezza) e del Pimus (piano di montaggio, uso e smontaggio dei ponteggi).
    L’attività ispettiva ha evidenziato una rilevante presenza di lavoratori in nero nei cantieri edili (116). Su questi gravano anche ipotesi di indebita percezione del reddito di cittadinanza.
    Risultano accertati, inoltre, casi di somministrazione illecita e distacchi non genuini, utilizzo di prestazioni lavorative da parte di pseudo artigiani, violazioni negli orari di lavoro, omessa registrazione di ore di lavoro e omissione contributiva e mancata iscrizione alla Cassa Edile (94 aziende non iscritte).

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    Lavoratori in protesta

    La peggiore è la Calabria

    La Calabria divide il podio negativo con la Campania: tutti i cantieri e le aziende edili ispezionati sono risultati irregolari per vari motivi.
    I carabinieri impegnati in Vigilanza 110 hanno setacciato 15 cantieri e 22 aziende scelti a campione.
    A Catanzaro hanno verificato 4 cantieri e 5 aziende, a Cosenza 4 cantieri e 9 aziende, a Crotone 1 cantiere e 1 azienda, a Reggio Calabria 5 cantieri e 6 aziende e a Vibo Valentia 1 cantiere e 1 azienda.
    Inoltre sulle 50 posizioni lavorative verificate in 11 casi si è proceduti alla sospensione per motivi legati alla sicurezza e alla mancanza di contratti lavorativi e in ben 44 casi (compresi i sospesi) sono state imposte prescrizioni e multe per mettersi in regola.

    Le multe milionarie di Vigilanza 110

    L’importo delle sanzioni amministrative e ammende già comminate in tutta Italia, a seguito dell’ispezione straordinaria del 29 marzo scorso, è pari a 3.038.828 euro. Prossimamente dati più completi e nuovi controlli e ispezioni sempre legati alla violazione delle norme nei cantieri edili e nelle aziende collegate, soprattutto in materia di sicurezza dei lavoratori.

  • Calabresi: ultimi in tutto, primi nell’ottimismo

    Calabresi: ultimi in tutto, primi nell’ottimismo

    Nei giorni scorsi l’istat ha pubblicato l’undicesimo rapporto Bes (Benessere equo e sostenibile) in Italia. Questo si basa su 88 indicatori per 12 categorie che inquadrano questioni concrete e rilevanti.
    Il dossier conferma il divario tra le regioni italiane nelle 12 categorie eaminate: salute, istruzione e formazione, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ambiente, innovazione ricerca e creatività e qualità dei servizi.
    La Calabria ne esce male, in alcuni casi molto
    Sono solo un paio gli indicatori in miglioramento: l’ottimismo e la mortalità per tumori.

     lo dice l’Istat: la Calabria è la più ottimista

    Nel 2021 si registra la più alta percentuale di chi guarda al futuro con ottimismo.
    Lo scorso anno, invece, gli ottimisti calano di botto.
    L’analisi territoriale mostra come il Nord-ovest abbia recuperato nel 2022 in tutti gli indicatori di benessere il proprio vantaggio sul resto del Paese, perso durante la pandemia.
    In particolare, per quel che riguarda la soddisfazione per il tempo libero, calata nel 2021 e risalita al 68,4% di persone molto o abbastanza soddisfatte.
    Questo risultato tuttavia non è sufficiente a raggiungere i valori del 2019 (71,7%).
    Il Molise ha un valore di crescita superiore alla media e una percentuale di soddisfatti prossima alla media. ma la Calabria si distingue per il più elevato livello di crescita rispetto al 2019: dalla 20esima alla 11esima posizione.

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    L’Istat “fotografa” il Paese: un’immagine-simbolo del rapporto Bes 2922

    Per quanto riguarda la soddisfazione per il tempo libero la situazione è ancora più articolata e non si individuano condizioni omogenee. Tuttavia la Calabria raggiunge una posizione in linea con la media nazionale e, insieme a Umbria e Campania, rappresenta l’unico territorio che ha recuperato e superato i livelli di soddisfazione del 2019. I soddisfatti della propria vita, in Calabria sono il 46,8%, su una media del 40.5% al Sud. I soddisfatti per il tempo libero sono il 65,8%, su una media del 63,8% al Sud. In entrambi i casi la Calabria non è la regione con più ottimisti in termini percentuale ma quella dove sono aumentate di più le persone ottimiste.

    Tumori: per l’Istat in Calabria si muore meno

    L’Istat indica un netto miglioramento nel Sud profondo. Infatti tra il 2019 e il 2020 la mortalità per tumore cresce in quasi tutte le regioni del Mezzogiorno, con la felice eccezione della Calabria, che è al primo posto delle regioni virtuose (o “graziate”).
    Ma contemporaneamente diminuisce in tutte le altre regioni italiane, salvo in Liguria in cui rimane stabile.

    La Calabria invecchia male

    La media nazionale è di 60,1 anni, ma la Calabria è la maglia nera di questa sotto classifica con 53 anni. Per la precisione, sono 53,1 per gli uomini (su una durata media della vita di 79,5 anni) e di 53 per le donne (su 83,8 anni).
    Nel 2022, la speranza di vita in buona salute si stima pari a 60,1 anni, mentre nel 2021 ammontava a 60,5 anni e nel 2020 a 61,0, a fronte di 58,6 nel 2019.
    L’indicatore manifestava una certa stabilità prima della pandemia, con un range compreso tra 58,2 e 58,8 anni nel periodo 2012-2019. Gli ultimi 3 anni sono, un periodo di turbolenze eccezionali, che richiedono una forte cautela nell’interpretazione.
    A livello territoriale si conferma nel 2022 lo svantaggio del Sud. Le regioni del Nord, con le eccezioni della Liguria (59,1 anni) e dell’Emilia Romagna (59,9 anni), mostrano valori della vita media in buona salute tutti al di sopra della media nazionale.
    Stesso discorso nel Centro, ad eccezione delle Marche (60,2) che ha un valore in linea con la media dell’Italia.
    Nelle regioni del Sud si registrano tutti valori inferiori alla media nazionale. La Calabria, pur migliorando rispetto al 2019, continua a posizionarsi ai più bassi livelli (53,1, ben 16 anni in meno rispetto al livello più alto raggiunto dalla Provincia autonoma di Bolzano).

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    Terza età; sempre più precaria la salute degli anziani

    Troppi morti si potevano evitare

    Il concetto di mortalità trattabile e prevenibile proposto dall’Istat si basa su un concetto particolare: che certe morti (per gruppi di età e malattie specifiche) si sarebbero potute evitare se ci fosse stato un sistema di salute pubblica più efficace e interventi medici immediati.
    Anche in questo caso la Calabria presenta criticità.
    Sardegna e Valle d’Aosta hanno una mortalità prevenibile al di sopra della media nazionale e tassi di mortalità trattabile nel livello medio. Al contrario, Puglia e Calabria si caratterizzano per tassi di mortalità trattabile al di sopra della media nazionale e tassi di mortalità prevenibile al livello medio o lievemente al di sotto della media nazionale.

    Istat e scuola: la Calabria è la meno istruita

    Nel 2022 ricresce il numero di diplomati e laureati, ma l’Italia è ancora lontana dalla media europea. Nel 2022 il 63,0% delle persone tra i 25 e i 64 anni ha almeno una qualifica o un diploma secondario superiore (più 0,3 punti percentuali rispetto al 2021) rispetto a una media europea di circa il 79,5%.
    Superano il 70% Friuli-Venezia Giulia (71,2%), Umbria (71,5%), Provincia Autonoma di Trento (72%) e Lazio (72,1%). Sono meno del 60% Sicilia (52,4%), Puglia (52,5%), Campania (53,8%), Sardegna (54,6%) e Calabria (56,6%).

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    Secondo l’Istat la Calabria è la regione meno istruita

    Analfabeti anche nel digitale

    Le competenze digitali restano una prerogativa delle persone con titolo di studio più elevato. Infatti il 75,9% di chi ha almeno la laurea possiede delle competenze digitali almeno di base, contro il 53,8% dei diplomati e il 21,9% di chi ha un titolo di studio più basso.
    Dall’analisi territoriale emerge un forte gradiente tra Centronord e Mezzogiorno. In particolare, le regioni con la quota più alta di persone con competenze digitali almeno di base sono il Lazio (52,9%), seguito dal Friuli Venezia Giulia (52,3%) e dalla Provincia Autonoma di Trento (51,7%). All’opposto si collocano Sicilia (34,0%) e Campania (34,2%) e ultima la Calabria (33,8%).

    Studenti: secondo l’Istat in Calabria i più “ciucci”

    Gli studenti hanno livelli ancora profondamente diseguali e questa forbice è cresciuta con la pandemia.
    Nell’anno scolastico 2021-2022, il primo di ritorno quasi totale alle lezioni in presenza, le competenze dei ragazzi di terza media non sono ancora tornate ai livelli pre-pandemici. Calabria agli ultimi posti.
    I ragazzi e le ragazze che non hanno raggiunto un livello di competenza almeno sufficiente (i low performer) sono il 38,6% per la competenza alfabetica (in aumento rispetto al 2019, +3,4 punti percentuali e stabili rispetto al 2021) e il 43,6% per quella numerica (in aumento rispetto al 2019, 4 punti percentuali di più ma comunque in miglioramento rispetto al 2021, (meno 0,9).
    In alcune regioni del Mezzogiorno l’indicatore evidenzia forti criticità: più del 50% dei ragazzi e delle ragazze insufficienti nelle competenze alfabetiche (in Calabria 51,0% e in Sicilia 51,3% ) e in quelle numeriche (Calabria 62,2%, Sicilia 61,7%, Campania 58,2%, Sardegna 55,3% e Puglia 50,3%).

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    Lavoratori in protesta

    Redditi: per l’Istat la Calabria è ultima

    Nel 2021 persiste un’elevata disuguaglianza dei redditi. In Calabria c’è il dato medio peggiore d’Italia rispetto al reddito lordo pro capite: 14.108 euro, laddove la media al Sud è di 15.11 euro.
    Rischio di povertà: terzultimi, dietro solo al Campania e Sicilia ma di poco: 33,2% contro il 37,6% e il 38,1%.
    Nel 2021, gli indicatori non monetari che descrivono le condizioni di vita delle famiglie hanno registrato un peggioramento rispetto al 2019. Tuttavia il numero di poveri assoluti è in calo.
    Nelle regioni del Mezzogiorno il rischio di povertà più elevato si associa a una più alta disuguaglianza (rapporto tra il reddito posseduto dal 20% più ricco della popolazione e il 20% più povero) che supera il valore medio dell’Italia (adesso 5,9, rispetto al 5,7 dei redditi del 2019). Ecco le maglie nere: Sardegna (6,1), Calabria (6,4), Sicilia e Campania (7,2 e 7,5 rispettivamente).

    Incendi: la Calabria brucia di più

    Incendi in salita nel 2021, sia nella quantità (+23,1% sull’anno precedente) sia nella dimensione media (più che raddoppiata, da 11,4 a 25,4 ettari).
    In tutto sono andati in fumo 152 mila ettari, pari al 5 per mille della superficie italiana. L’indicatore dell’impatto degli incendi boschivi, in crescita per il terzo anno consecutivo, ha un valore largamente superiore a quello medio degli altri paesi Ue dell’Europa meridionale, fra i quali ci batte solo la Grecia (8,2 per mille).
    Più del 75% della superficie bruciata è localizzata in Calabria, Sicilia e Sardegna, dove condizioni climatiche avverse (temperature elevate, forte ventosità e siccità prolungata) hanno favorito gli incendi e reso più difficili gli spegnimenti.

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    Cenere e desolazione nel Parco d’Aspromonte dopo i terribili incendi dell’estate 2021

    L’aria peggiore si respira in Calabria

    Peggiora in Calabria la qualità dell’aria. Nel 2021 Centro e Sud si tallonano (rispettivamente 65,0% e 63,9%) ma, per fortuna, in meglio (erano, rispettivamente, 71,7% e 72,3% nel 2020). Fanno eccezione il Molise e la Calabria dove si registra un peggioramento della qualità dell’aria.

    Cchiù acqua ppe’ tutti? In Calabria proprio no

    Reggio Calabria è tra i Comuni capoluogo che hanno adottato le misure di razionamento idrico più drastiche.
    Nel 2021, 12 capoluoghi di provincia (più Reggio Calabria, Catania e Palermo, come capoluoghi di città metropolitana) hanno razionato l’acqua potabile, con un incremento (più 4 Comuni) rispetto al 2020. Questo problema non è più esclusivo del Mezzogiorno: infatti anche Prato e Verona hanno disposto il razionamento dell’acqua nei mesi estivi.

    Depurazione: in Calabria si intorbidano le acque

    Circa 1,3 milioni di cittadini risiedono in Comuni completamente privi di depurazione.
    Gli impianti di depurazione delle acque reflue urbane sono infrastrutture essenziali per la salute pubblica.
    L’assenza di depurazione coinvolge 296 Comuni. Il dato è in calo rispetto al 2018 (-13% di comuni, -19% di residenti).
    Il 67,9% di questi Comuni è localizzato nel Mezzogiorno (soprattutto in Sicilia, Calabria e Campania, coinvolgendo rispettivamente il 13,1%, 5,3% e 4,4% della popolazione regionale).
    Molti impianti in queste regioni sono inattivi poiché sotto sequestro, in corso di ammodernamento o in costruzione.
    Dei 296 comuni privi di depurazione 67 si trovano in zone costiere, per lo più in Sicilia (35), Calabria (15) e Campania (7), per circa 500mila abitanti.

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    Il depuratore di Caulonia

    Clima: secondo l’Istat la Calabria è la più insensibile

    La maggiore sensibilità ai cambiamenti climatici si osserva nelle regioni del Centro (72,7%, maglia rosa alla Toscana con il 73,4%) e del Nord (72,1%, Veneto sul podio con il 75,9%).
    Ad eccezione di Emilia-Romagna (69,8%) e Bolzano (68,6%), in tutte le regioni settentrionali, centrali e insulari la percentuale risulta sopra la media (71,0%). Invece, al netto dell’Abruzzo (71,8%), la preoccupazione risulta inferiore alla media in tutte le regioni del Sud (67,3%), dove “vince” la Calabria (62,0%).

    Sanità: troppo pochi gli infermieri

    Per la distribuzione territoriale del personale infermieristico la maglia nera è ancora calabrese. Nel 2021 nel Nordest e al Centro la quota è rispettivamente 6,8 e 7,1 per 1.000 abitanti, mentre nel Nordovest e nelle Isole ci sono solo 6 infermieri per 1.000 abitanti.
    La Calabria è la regione con la minor dotazione, pari a 5,6 per 1.000 abitanti. I territori con maggior disponibilità di infermieri sono il Molise (8,6), seguito dalla provincia autonoma di Trento (8,1), Liguria e Umbria (7,7). E cresce la sfiducia.
    Le percentuali più elevate di sfiducia (0-5) verso medici e altro personale sanitario si riscontrano in Calabria (25,2% verso i medici e 26,1% per l’altro personale), in Molise (21,3% per i medici e 21,7% per l’altro personale) e in Sardegna (20,2% per i medici e 20,6% per l’altro personale).

    Emigrazioni ospedaliere: la Calabria sempre peggio

    La ripresa delle emigrazioni ospedaliere tra 2020 e 2021 ha colpito tutto il territorio nazionale, ad eccezione del Lazio che rimane stabile al 7,1%.
    Le regioni dove la crescita è stata più consistente (circa 2 punti percentuali) sono Calabria, Basilicata, Molise, Liguria e Valle d’Aosta. Nelle regioni più piccole il fenomeno è da sempre particolarmente intenso, anche per la vicinanza di strutture ospedaliere fuori regione: Molise 29,2%, Basilicata 26,9% e Valle d’Aosta 15,4%. In Calabria la percentuale è pari a 20,8%, probabilmente a causa di una carenza infrastrutturale. Infatti è la regione con la minore dotazione di posti letto in degenza ordinaria per acuti: 2,15 per 1.000 abitanti contro 2,55 della media nazionale nel 2020.

    Una protesta contro la Sanità calabrese

    Istat e internet: in Calabria è più lento

    La fibra è la connessione a banda larga dominante nella metà dei Paesi Ocse.
    In Italia la situazione è a macchia di leopardo. Infatti, si passa da regioni che hanno una buona rete come il Lazio (61,3%), la Campania (55,1%) e la provincia autonoma di Trento (52,2%), a situazioni critiche in Basilicata e Calabria (26,9% e 22,8%). Il fanalino di cosa è la Provincia autonoma di Bolzano, dove solo il 12,3% delle famiglie abita in zone servite da Internet veloce.

    Rete idrica: in Calabria la peggiore

    Le famiglie che dichiarano irregolarità del servizio idrico nel 2022 sono il 9,7%, nel 2002. Questo dato è pressoché stabile nell’ultimo triennio.
    Tale quota non è uniforme sul territorio: si passa dal 3,4% del Nord al 7% del Centro per arrivare al 18,6% del Sud e al 26,7% delle Isole.
    Da sempre le situazioni più critiche sono quelle della Calabria (45,1%) e della Sicilia (32,6%), dove si registra un serio problema delle infrastrutture idriche, che causa una costante scarsa qualità dell’offerta del servizio. La Calabria, tra l’altro, è peggiorata rispetto al 2021 (16 punti percentuali in più). Le irregolarità del servizio idrico sono legate anche alla dimensione comunale. La percentuale di famiglie che denunciano irregolarità è pari all’11,9% nei Comuni tra 2.000 e 10.000 abitanti e all’11,5% nei comuni tra 10.000 e 50.000, mentre si dimezza nei Comuni principali delle aree metropolitane (4,1%).

    Corrente a singhiozzo

    Tra le infrastrutture indispensabili c’è la rete elettrica. Nel 2021 l’Autorità per l’energia elettrica (Arera) ha rilevato in Italia 2,1 interruzioni accidentali lunghe (superiori a 3 minuti) e senza preavviso per utente. Questa irregolarità del servizio non riguarda tutto il Paese. Infatti, è quasi assente in Valle d’Aosta, Province Autonome di Trento e Bolzano e in Friuli-Venezia Giulia dove le interruzioni per utente avvengono meno di una volta l’anno. Supera le 3 interruzioni annue per utente in Campania, Calabria, Puglia.

    Sicurezza e crimine: mafia a parte, ce la caviamo

    La Calabria è a metà classifica per la sicurezza urbana. Ma va detto che il dossier non prende in considerazione i reati di mafia.
    Si sentono più sicuri i residenti nei Comuni fino a 2 mila abitanti e in quelli tra 2 mila e 10 mila abitanti, rispetto ai residenti nei comuni di grandi dimensioni.
    Nei comuni tra 2 mila e 10 mila abitanti le persone maggiori di 14 anni che si dichiarano molto o abbastanza sicure quando camminano al buio da sole è più alta di 17 punti rispetto a quella riscontrata nei Comuni delle aree di grande urbanizzazione (68,4% contro 51,4%).
    Stessa cosa per la percezione del rischio di criminalità (11,2% contro 40,6%) e per il degrado sociale e ambientale (4,0% contro 13,9%).
    La situazione cambia anche in relazione alle fasce di età: i più insicuri sono gli over 75 (41,6%), mentre i giovani e gli adulti percepiscono un maggiore livello di sicurezza (oltre il 66% tra i 20 e i 54 anni).
    Le differenze di genere si mantengono in tutte le fasce di età. In particolare tra i giovani di 20-24 anni. Tra questi il 78,4% dei ragazzi si sente sicuro mentre tra le ragazze della stessa età il valore scende al 51,5%.

  • Immigrazione e quota 41: meglio l’IA o il governo?

    Immigrazione e quota 41: meglio l’IA o il governo?

    Si parla tanto dell’intelligenza artificiale, forse troppo poco della stupidità umana. Già, perché si può edulcorare il concetto o ingentilirlo, definirlo cecità o mancanza di lungimiranza, ma la sostanza è quella. In questo caso, mi riferisco alla stupidità–cecità-mancanza di lungimiranza dei razzisti in generale. In particolare, di quelli al governo in Italia.
    Per dimostrare il teorema mettiamo insieme una serie di informazioni e di dati. Come nelle scienze esatte, dobbiamo prendere in considerazione solo quelli oggettivi.
    La Lega fa una battaglia per “quota 41”, cioè la possibilità di accedere alla pensione dopo 41 anni di contributi. Un vessillo alzato in campagna elettorale e repentinamente calato davanti alle difficoltà di bilancio soprattutto in prospettiva, dato che la crisi demografica e l’invecchiamento della popolazione certamente non aiutano a far quadrare i conti.

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    Quota 41 e l’Italia che invecchia

    Secondo l’Istat, nel 2070 in Italia ci saranno 47,2 milioni di abitanti, 12 milioni in meno rispetto ad oggi. La popolazione italiana, se proseguirà il trend attuale, e quindi senza interventi correttivi di cui allo stato non si vede traccia, fino al 2040 calerà annualmente del 0,2-0,3%; tra il 2040 e il 2050 tra lo 0,3 e lo 0,5%; fino al 2070 più dello 0,6%.
    Nel 2020, l’età media italiana era di 46,2 anni, nel 2021 di 45,9 anni. Meno di vent’anni fa era di 41,9 anni. I dati indicano che nel 1950, in Italia, i bambini e ragazzi tra gli 0 e i 19 anni rappresentavano il 35,4% della popolazione; oggi il 17,5.
    Il forte calo è avvenuto tra il 1980 e il 1995, quando gli under 19 sono passati dal 30 al 21%. Le persone tra i 20 e i 30 anni sono invece scese dal 35 al 21%, con un più rapido calo dal 1995. La fascia tra i 40 e i 59 anni era il 22% nel 1950, ora è il 31. I residenti di età compresa tra i 60 e i 79 anni erano meno del 23% nel 1950, ora il 31, con un aumento continuo nel tempo. Lo stesso per gli over 80, che nel 1950 erano l’1% della popolazione e ora sono il 7,5.

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    Crisi demografica e forza lavoro

    Andiamo adesso a esaminare altri dati, altrettanto significativi e importanti per la riflessione che stiamo facendo.
    In Italia (sempre dati Istat), nel 2019, quasi il 30% delle abitazioni censite, 10,7 su 36 milioni, non era occupato. Il loro numero proseguirà l’ascesa nei prossimi anni anche a causa della crisi demografica. Sud e Isole guidano questa classifica, con quasi il 36% delle abitazioni vuote.
 Nel Centro il dato scende al 24,8%, con 1,7 milioni di case inabitate su 6,8; nel Nord-Est è del 25,6% su 6,7 milioni di abitazioni. Nel Nord-Ovest è del 28,2% su circa 10 milioni di case.
    Nelle province calabresi, abbiamo Reggio al 42,3%, Vibo al 49,3, Catanzaro al 45,2, Crotone al 44,9 e Cosenza al 44,6.

    Altro dato oggettivo: gli imprenditori e i sindacati italiani, singolarmente e tramite le loro organizzazioni di categoria, da tempo reclamano un aumento consistente dei flussi di lavoratori da inserire nel tessuto produttivo nei settori primario, secondario e terziario. L’ultimo decreto prevede alcune centinaia di migliaia di ingressi, reputati assolutamente insufficienti. Ai confini del nostro Paese, nel contempo, premono per entrare altre centinaia di migliaia di persone, spinte a lasciare i Paesi d’origine per sfuggire alle guerre, alle discriminazioni razziali e di genere, alla povertà, alla siccità.

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    Controcorrente

    A questo punto, abbiamo una serie di elementi (o dati e metadati, se vogliamo utilizzare un linguaggio al passo coi tempi):

    • il desiderio, e la necessità, di abbassare l’età pensionistica;
    • la difficoltà a reperire le risorse necessarie;
    • la crisi demografica, data dalla diminuzione in termini assoluti della popolazione e dall’invecchiamento della stessa;
    • un patrimonio abitativo di gran lunga superiore alle necessità dei residenti;
    • milioni di esseri umani, in età da lavoro, in cerca di uno sbocco di vita dignitoso e stabile, tale da accrescere in maniera esponenziale i contributi per il fondo pensionistico.

    Se inserissimo tutte queste informazioni in un apposito programma di intelligenza artificiale, certamente avremmo la soluzione a portata di mano. Al contrario, le stesse informazioni date in mano al Governo in carica (a tutto il Governo, e non solo alla Lega, che secondo la vulgata corrente è la forza politica che spinge in questa direzione) partoriscono l’ennesima stretta all’immigrazione, sotto forma della cancellazione della protezione speciale – incentiverebbe l’immigrazione – e della dichiarazione dello stato d’emergenza.

    Quota 41 vs la difesa della patria

    E qui entrano in gioco la stupidità, l’irrazionalità, il ragionamento di pancia. Il razzismo, perché di questo, alla fine, si tratta. Il razzismo che fa comportare questi signori come il marito che per fare dispetto alla moglie si evira. Voglio quota 41, o 40, o quello che sia. Ma siccome dare corpo a questa solenne promessa elettorale porterebbe alla sostituzione etnica – è già successo in America Latina, diciamo noi, dove la popolazione di alcuni Stati è composta per il 30-40% di italiani immigrati e non di nativi – vi rinuncio, con conseguenze disastrose per la Patria della quale “difendo i confini” dai barchini affollati di poveracci armati solo della loro disperazione.
    Questo è il paradosso tragico. Una situazione da win–win (mi scuso per il “forestierismo”, e meno male che ancora non ci sono le multe) si trasforma in una lose–lose (mi scuso ancora) nella quale tutti perdono a causa della stupidità umana. O del razzismo, nient’altro che un sinonimo di quella.

  • Mendicino contro la Regione: quattrini pubblici e palazzi in avaria

    Mendicino contro la Regione: quattrini pubblici e palazzi in avaria

    Il ministero fa, il ministero disfa. E il Comune rischia.
    È il riassunto di un lungo braccio di ferro tra Mendicino, un paesone di 9mila abitanti alle porte di Cosenza, e la Regione Calabria, in cui sono stati coinvolti due sindaci e quattro amministrazioni regionali. Anzi sei, se si considerano gli “interregni” di
    Morale della favola: Mendicino dovrebbe restituire alla Regione circa mezzo milione.
    Se lo facesse, rischierebbe di compromettere il bilancio, che non è tragico come quello del capoluogo, ma neppure troppo allegro.
    L’alternativa è il ricorso, annunciato dal sindaco e ribadito dal responsabile dell’Ufficio tecnico. L’oggetto del contendere è un progetto di edilizia agevolata.

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    Antonio Palermo, l’attuale sindaco di Mendicino

    Il progetto della discordia

    Andiamo con ordine. Tutto inizia in piena era Berlusconi. Per la precisione con il decreto 2295 del 26 marzo 2008, attraverso il quale il Ministero delle Infrastrutture attiva un programma di riqualificazione urbana per alloggi a costo sostenibile.
    L’idea è notevole, come tante cose italiane: riqualificare catapecchie semiabbandonate, col concorso dei quattrini pubblici, e trasformarle in alloggi per i cittadini più deboli senza espropriare nessuno.
    Secondo il ministero, avrebbe dovuto funzionare così: lo Stato mette una parte dei soldi, la Regione un’altra e il Comune, a cui spetta comunque il ruolo di passacarte e controllore, un’altra ancora. Il proprietario mette il resto.
    Chiariamo di più: il pubblico (Stato, Regione e Comune) paga gli oneri di urbanizzazione (allacci fognari, strade da fare o rifare ecc) più parte della ristrutturazione (il 35% del costo di tutti i lavori). Il proprietario dell’immobile ristrutturato, in cambio, si impegna a far gestire il bene per vent’anni al Comune perché lo affitti a chi a bisogno a un canone di assoluto favore. Facile no?

    I quattrini per Mendicino

    Per quel che riguarda la Calabria, a questo progetto non ha aderito solo Mendicino. Lo prova

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    Ugo Piscitelli, l’ex sindaco di Mendicino

    la somma stanziata da Ministero e Regione dal Pollino allo Stretto: 21 milioni, di cui 12.369.217,31 a carico dello Stato e 8.630.782,69 a carico della Regione.
    Mendicino, all’epoca amministrata dallo scomparso Ugo Piscitelli, decide di partecipare. E ottiene l’approvazione di un progetto dal valore di 1.500mila, divisi come segue: 852.900,00 a carico di Stato e Regione, 159.600,00, a carico del Comune, il resto (487.500) a carico dei privati.
    Fin qui tutto bene: il Comune invia i documenti alle amministrazioni superiori, anche in tempi accettabili, e si parte.
    E, nel 2015, Mendicino incassa 481.574,94 euro per le prime due tranche di finanziamento pubblico.

    Iniziano i guai per Mendicino

    Troppo bello per essere vero: il Comune procura case a costi stracciati ai cittadini più bisognosi e, allo stesso tempo, recupera zone del suo centro storico (tra l’altro molto bello, come tanti borghi antichi della Calabria) aiutando i proprietari a ridar vita a immobili altrimenti trascurati.
    Il “ma” è dietro l’angolo: i privati devono anticipare tutto per recuperare il 35% delle somme. Siccome il Ministero tarda (l’approvazione del progetto è del 2012, ma i quattrini arrivano tre anni dopo), alcuni privati si sfilano. E non sono pochi: cinque su undici che avevano aderito.
    A questo punto inizia il braccio di ferro. La Regione chiede chiarimenti, il Comune risponde con documenti e richieste di dilazione.

    Un dettaglio del centro storico di Mendicino

    Il balletto delle cifre

    L’inghippo è questione di numeri. Infatti, la Regione sostiene che, visto che il Comune ha speso troppo in urbanizzazione e troppo poco per gli alloggi, ci sono somme da restituire.
    L’amministrazione di Mendicino, invece, replica che quelle spese di urbanizzazione sono state comunque necessarie (se si rifà una fognatura questa copre tutta la zona, a prescindere se un proprietario si sia o meno tirato indietro).

    La botta

    La Regione agisce in autotutela e, lo scorso 5 aprile, ordina al Comune di Mendicino di restituire i 481.574,94 euro già finanziati.
    In tutto questo, si sono succeduti due sindaci: lo scomparso Piscitelli e l’attuale Antonio Palermo, rimasto col cerino in mano.
    Il duello giudiziario, che si terrà con tutta probabilità al Tar, sta per iniziare. E dal suo risultato dipende la salvezza finanziaria di un’amministrazione che ha essenzialmente una responsabilità: aver aderito a un progetto per avere di più e ora, tra una disfunzione e un’altra, rischia di restare nelle classiche braghe di tela.