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  • Calabria: non è una regione per donne

    Calabria: non è una regione per donne

    Accoltellata a morte dal marito. Il barbaro femminicidio di Sonia Lattari, 43enne, assassinata dal marito, Giuseppe Servidio a Fagnano Castello, nel Cosentino, riapre il dibattito sulla condizione delle donne in Calabria. Discriminate, ghettizzate, con minori opportunità di accesso al mondo del lavoro e alle istituzioni. E, spesso, vittime di violenze o uccise.

    I numeri su omicidi e violenze

    In un anno, in Italia, sono state uccise 105 donne. È il 38% degli omicidi volontari. Il dato emerge dall’annuale dossier del ministro dell’Interno. Il periodo di riferimento del dossier è quello che va da agosto 2020 a luglio 2021.

    Sonia Lattari è la quarta donna uccisa in Calabria dall’inizio dell’anno per mano di partner o ex compagni. Spesso il delitto si consuma al termine di un periodo, più o meno lungo, di violenze fisiche e psicologiche. Se, infatti, il numero di vittime in Calabria non registra picchi particolarmente significativi rispetto alla media nazionale, ciò che preoccupa sono i cosiddetti “reati spia”. Quelli, cioè, che possono preludere a un epilogo ancor più drammatico. «In questo momento in Procura abbiamo un numero elevatissimo di denunce per reati di violenza di genere ed è un trend che è in crescita». Ad affermarlo il procuratore capo di Cosenza, Mario Spagnuolo.

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    Sonia Lattari insieme al marito, oggi accusato di averla uccisa a coltellate

    Ma non sempre si denuncia. La stessa Sonia Lattari, nel passato, aveva subito percosse dall’uomo. Ma non aveva denunciato. «Troppe volte ematomi e ferite vengono giustificati in termini non credibili, quando arriva la polizia sul luogo delle violenze. E allora invitiamo a denunciare, perché abbiamo tutta una struttura di supporto per affrontare i drammi di queste persone, se si affidano a noi», aggiunge Spagnuolo.

    Antonella Veltri, presidente della Rete nazionale dei centri antiviolenza, dà una chiave di lettura diversa: «Le donne stanno dimostrando grande resistenza. Ma le donne non denunciano perché con il sistema attuale si ripropongono a una vittimizzazione secondaria».

    La donna in Calabria

    Oltre ai casi di violenza diretta, ciò che preoccupa è la condizione generale della donna in Calabria. A cominciare da quella lavorativa. Il mercato del lavoro calabrese che sino al 2019 mostrava un lieve ma costante recupero, nel mese di giugno 2020 registra un arresto di tale trend positivo. A certificarlo il rapporto sull’economia della Calabria della Banca d’Italia. Ovviamente su tale situazione, molto ha inciso la pandemia da Covid-19. Ma a pagare sono sempre le “solite” categorie. La riduzione della occupazione ha riguardato principalmente la fascia di lavoratori di età compresa tra 15 e 29 anni. E la componente femminile.

    Nel 2018 per l’Italia aumenta la distanza nel tasso di occupazione femminile dalla media europea. Che passa da 11,5 a 13,8 punti percentuali. A livello nazionale si riduce il gap tra uomini e donne. Questo per effetto della contrazione nel periodo del tasso di occupazione maschile. Ma il divario è più elevato rispetto alla media europea. Tra il 2008 e il 2018, per quanto riguarda il tasso di occupazione femminile il Mezzogiorno, già molto lontano, perde ulteriormente terreno. Attestandosi al 30,5 del 2018.

    Numeri già non lusinghieri. Che, nella nostra regione, peggiorano ulteriormente. Secondo quanto riportato nel Documento di indirizzo strategico regionale per l’avvio della programmazione 2021-2027 «la Calabria esprime un tasso di occupazione del 31%, di oltre 30 punti inferiori alla media europea». Sempre nel medesimo Documento, l’individuazione delle cause di tali numeri inquietanti: «La scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro è legata in buona parte alla carente disponibilità di servizi di cura e assistenza (anche, ma non solo, per la prima infanzia), insufficienti investimenti nelle politiche di welfare e di conciliazione tempi di lavoro/tempi di vita, rigidità organizzative del lavoro, squilibrio persistente nel riparto del lavoro di cura all’interno della famiglia».

    La rete antiviolenza smantellata

    In Italia, il reato di femminicidio è stato introdotto solo nel 2013. La legge 19 luglio 2019, introduce talune disposizioni a tutela delle vittime di violenza domestica e di genere. Ed è l’occasione per chiarire il funzionamento del sistema penale per la tutela delle vittime di femminicidio. Il cosiddetto “Codice Rosso”. Negli ultimi 10 anni, in Calabria sono circa 100 le donne uccise.

    «Vorrei superare lo stereotipo calabrese del vittimismo. La situazione delle donne in Calabria rispecchia grossomodo quello che avviene a livello nazionale. Ma vorrei che su questo si interrogassero anche gli uomini. Non c’è stata una presa di coscienza maschile. Che io invece invoco», afferma ancora Antonella Veltri.

    Nonostante il Documento di indirizzo strategico regionale per l’avvio della programmazione 2021-2027, individuasse precisamente entità e cause della condizione di svantaggio in cui versa la donna in Calabria, è stata di fatto smantellata la rete di consultori familiari, presidi socio sanitari e centri antiviolenza. Tutte strutture che potrebbero prevenire delitti. Ma che potrebbero contrastare, anche culturalmente, le violenze e le discriminazioni nei confronti delle donne.

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    Uno striscione di protesta contro la panchina rossa installata di fronte alla questura di Cosenza
    Nessun segnale dalle istituzioni

    Tali strutture necessitano di figure professionali quali psicologi, psicoterapeuti e psichiatri. Ma sono stati colpiti dalla scure del Piano di rientro dal debito sanitario della Calabria. Sul punto, Antonella Veltri chiede un impegno a tutte le istituzioni: «Non ha senso sbandierare le belle panchine rosse, su cui andiamo a fare accomodare le donne vittime di violenza. Chiedo quindi che venga data forza ai centri antiviolenza. Essi sono l’avamposto per contrastare tutto questo».

    Ma la cartina al tornasole di quanto manchi una presa di coscienza, soprattutto culturale, è data dalla scarsa partecipazione alla vita pubblica delle donne. Anche il Consiglio regionale della Calabria è, da sempre, un “affare” quasi esclusivamente per uomini. E anche le imminenti Regionali (che porteranno al voto con la doppia preferenza di genere). Anche su questo, Antonella Veltri ha un’idea controcorrente: «Sono sempre stata contraria alle Pari opportunità, ma la doppia preferenza può essere, effettivamente, un facilitatore. Non mi piace, ma vedremo cosa accadrà. Insisto, però: le donne non sono messe nelle condizioni di dimostrare il proprio valore».

    La lista delle “zoccole”

    Non si perde l’occasione, però, di dimostrare, anche pubblicamente, un presunto disvalore femminile. Sarebbe infatti grottesco, se non fosse parimenti inquietante, quanto accaduto qualche giorno fa a Cinquefrondi, in provincia di Reggio Calabria. Sui muri del paese della Piana di Gioia Tauro, infatti, è apparsa quella che è stata battezzata la “lista delle zoccole”.

    A segnalare l’accaduto, un’attivista cosentina del Collettivo Fem.In (lo stesso che incastrò l’allora commissario alla sanità, Giuseppe Zuccatelli con le sue dichiarazioni no-mask). Sul punto è intervenuta anche l’amministrazione comunale di Cinquefrondi, entrando in contatto con le autorità. Nel tentativo di individuare il responsabile o i responsabili delle continue affissioni notturne. Ma anche i cittadini si sono organizzati in vere e proprie “ronde” per scovare chi, tra i 6500 abitanti di Cinquefrondi abbia ideato questa lista offensiva e discriminatoria.

    Un elenco di donne, con tanto di nomi e cognomi, additate come “zoccole”. Un pratica che viene ormai praticata da tempo, avendo trovato anche una connotazione sociologica: “slut shaming”. La vergogna pubblica nei confronti di donne considerate troppo disinvolte nei comportamenti sessuali. O nel modo di vestire. Donne di facili costumi, quindi. O, comunque, degne di riprovazione. Soprattutto per ragioni di tipo sessuale. Ma non solo. Alle malcapitate viene affibbiato ogni tipo di insulto. «Leggi, ma non strappare», il messaggio di accompagnamento.

  • Questione calabrese, l’economia non cresce con i gattopardi

    Questione calabrese, l’economia non cresce con i gattopardi

    C’è una questione calabrese nella più ampia questione meridionale. Non appartiene più alla verità dei fatti la descrizione di un Mezzogiorno compatto nella sua arretratezza. Sia pure con un modello geografico a chiazze isolate, qualche territorio meridionale ha intercettato percorsi di nuova industrializzazione e di sviluppo coerente con le traiettorie dell’economia internazionale.

    La Calabria resta un’eccezione. È l’unica regione meridionale che non ha agganciato in nessuna area il treno della nuova industrializzazione. Le due grandi crisi del 2008 e del 2011-2013, unite al blocco pandemico, hanno determinato un complessivo arretramento del tessuto economico e sociale, con una breve tregua durante il biennio 2015-2016. A tempo alternato solo il porto di Gioia Tauro è riuscito ad entrare nel gioco della competizione internazionale, in un ruolo però solo strettamente funzionale alla rete degli scambi mondiali come scalo di transhipment, senza esercitare un ruolo diffusivo sul territorio calabrese.

    Gli effetti del Covid 

    Le misure di distanziamento fisico e la chiusura parziale delle attività durante il 2020, nonché il clima di paura e incertezza legato alla diffusione della pandemia da Covid-19, hanno avuto pesanti ripercussioni sull’economia calabrese, che si trovava già in una fase di sostanziale stagnazione.
    Sulla base dei dati Prometeia, lo scorso anno il PIL calabrese in termini reali sarebbe sceso di circa 9 punti percentuali, un dato sostanzialmente in linea con il resto del Paese. La caduta dell’attività economica è stata particolarmente ampia nel primo semestre del 2020, in connessione anche al blocco più intenso e generalizzato della mobilità.

    Dopo una ripresa nei mesi estivi, le nuove misure di contenimento introdotte per fronteggiare la seconda ondata pandemica avrebbero determinato una ulteriore contrazione, seppure più contenuta rispetto a quanto osservato in primavera.
    Gli investimenti privati in Calabria si sono contratti notevolmente durante la doppia recessione avviatasi nel 2008. In particolare, il calo è stato più intenso a seguito della crisi dei debiti sovrani iniziata nel 2011.

    Durante la successiva fase di ripresa la dinamica degli investimenti è rimasta debole, a fronte di un parziale recupero registrato a livello nazionale. Nel 2018 gli investimenti privati in Calabria erano inferiori di circa la metà rispetto ai livelli pre-crisi: l’incidenza sul PIL si è notevolmente ridotta, passando da oltre il 20% del 2007 a meno del 13%.
    In base alle stime Istat, nel 2020 il valore aggiunto a prezzi costanti del settore primario è diminuito del 9,1 per cento, in misura più pronunciata rispetto al resto del Paese, risentendo in particolare del forte calo del valore della produzione nell’olivicoltura (-21,6 per cento), che presenta un marcato andamento ciclico.

    La crisi per i privati

    L’emergenza Covid-19 ha avuto rilevanti ripercussioni sull’attività delle imprese. Le indagini di Bankitalia segnalano una diminuzione del fatturato molto diffusa per le aziende operanti in regione, riflettendo essenzialmente il forte calo dei consumi, oltre che i provvedimenti di chiusura e le altre restrizioni adottate per arginare la pandemia.
    Nel contempo, le imprese hanno ulteriormente ridotto i propri livelli di investimento, che già negli anni precedenti erano risultati contenuti, soprattutto con riguardo agli investimenti più avanzati in risorse immateriali e tecnologie digitali.

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    Il settore più colpito dalla crisi pandemica è stato quello dei servizi privati non finanziari, in particolare i trasporti, il commercio al dettaglio non alimentare e il comparto alberghiero e della ristorazione, su cui ha inciso la caduta delle presenze turistiche.
    L’attività produttiva si è ridotta in misura più contenuta nelle costruzioni, che hanno in parte beneficiato di una lieve ripartenza del comparto delle opere pubbliche, ancora tuttavia frenata dai tempi lunghi di realizzazione degli interventi.

    Il brusco calo delle vendite ha accresciuto il fabbisogno di liquidità del sistema produttivo, colmato essenzialmente dai prestiti garantiti dallo Stato e dalle misure di moratoria, che in Calabria sono stati più diffusi della media nazionale.
    Il sostegno pubblico ha contenuto fortemente l’uscita di imprese dal mercato, anche tra quelle maggiormente indebitate e fragili, la cui condizione rimane più esposta alla velocità di uscita dalla crisi.

    Ancora meno lavoro di prima

    Le ricadute della crisi pandemica sul mercato del lavoro sono state rilevanti, annullando il modesto recupero dei livelli occupazionali che si era registrato a partire dal 2016.
    Dopo la sostanziale stasi del 2019, l’occupazione in regione nel 2020 è tornata a diminuire a causa delle ricadute della pandemia di Covid-19. Secondo i dati della Rilevazione sulle forze di lavoro dell’Istat, la riduzione su base annua del numero degli occupati calabresi è stata del 4,3 per cento, pari ad oltre il doppio di quella rilevata sia a livello nazionale che nel Mezzogiorno (per entrambe, -2,0 per cento).

    Guardando alle dinamiche dell’ultimo decennio, l’unica variazione peggiore risale al 2013 (-6,2 per cento), a seguito della crisi del debito sovrano. Il tasso di occupazione è sceso al 41,1% (era al 42 nel 2019), con una differenza di 17 punti percentuali dal dato medio nazionale.

    Il calo delle posizioni lavorative si è concentrato soprattutto tra gli autonomi e i dipendenti a termine, mentre il calo del lavoro dipendente a tempo indeterminato è stato contrastato da un eccezionale aumento dell’utilizzo degli ammortizzatori sociali e dal blocco dei licenziamenti. Gli effetti negativi sono risultati più intensi per le categorie caratterizzate già in precedenza da condizioni sfavorevoli sul mercato del lavoro: i giovani, le donne e gli individui meno istruiti.

    Il calo dei redditi da lavoro è stato sensibilmente mitigato dall’introduzione di nuove misure di sostegno economico ai lavoratori e alle famiglie, che si sono aggiunte alla Cassa integrazione guadagni e al Reddito di cittadinanza. Ciononostante, la contrazione dei consumi è risultata accentuata, in connessione sia alle difficoltà nella mobilità sia a motivi precauzionali, che si sono riflessi in un netto incremento della liquidità delle famiglie.

    Servizi e consumi

    Nel settore dei servizi, maggiormente interessato dalle misure di contenimento, il calo dell’attività è stato ancora più pronunciato. Oltre alle restrizioni alla mobilità, ha pesato anche la contrazione dei consumi connessa all’incertezza circa l’evoluzione della crisi, che ha inciso negativamente sulle decisioni di spesa delle famiglie.

    L’indagine della Banca d’Italia, che si concentra sulle imprese dei servizi privati non finanziari con almeno 20 addetti, conferma il diffuso calo dei ricavi; circa due terzi delle imprese partecipanti ha segnalato una riduzione del fatturato rispetto al 2019. Inoltre il 60% delle imprese ha segnalato una riduzione degli investimenti nell’anno e circa metà un calo dei livelli occupazionali.

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    Secondo le stime di Confcommercio, la spesa in termini reali per beni e servizi si sarebbe ridotta di circa il 12%, in linea con il dato nazionale. Sull’andamento ha inciso anche la dinamica dei consumi per beni durevoli: in base ad elaborazioni sui dati dell’Osservatorio Findomestic, sarebbero diminuiti dell’11 per cento rispetto all’anno precedente.
    In particolare, sono diminuite in misura intensa le vendite di autovetture: le immatricolazioni sono fortemente calate tra marzo e luglio dell’anno scorso, come nel resto del Paese, per poi tornare sui livelli precedenti alla caduta nei mesi successivi. In media d’anno il calo è stato del 21 %, a fronte del 28%in Italia.

    La ripresa dei consumi dipende in modo cruciale da una progressiva attenuazione dell’epidemia nei prossimi mesi. È però probabile che il rafforzamento dei consumi sarà lento risentendo della gradualità con cui sarà riassorbita l’incertezza che ha sospinto l’aumento della propensione al risparmio.

    Turismo ed export

    Dopo anni di crescita, i flussi turistici presso gli esercizi ricettivi regionali hanno subito una brusca caduta. In base ai dati dell’Osservatorio turistico della Regione Calabria, le presenze nel 2020 sono diminuite di oltre il 50%. Dopo l’azzeramento quasi totale nei mesi del lockdown, con il miglioramento della situazione sanitaria e la rimozione delle restrizioni agli spostamenti si è assistito da luglio 2020 a un graduale recupero delle presenze di turisti italiani, mentre la forte caduta delle presenze straniere si è protratta.

    In particolare, nei tre mesi da luglio a settembre si sono concentrati quasi il 90% dei pernottamenti dell’anno (70% nel 2019). Tale parziale recupero ha temporaneamente attenuato l’impatto negativo della crisi sull’ampio indotto di operatori economici delle zone balneari (dove si concentrano i flussi turistici regionali), spesso caratterizzati da un elevato ricorso al lavoro stagionale.

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    Nel 2020 le esportazioni di merci hanno subito un deciso calo (-16,2% a prezzi correnti). In virtù dell’andamento negativo dello scorso biennio l’export calabrese è tornato sui valori del 2016. Le vendite, condizionate dagli effetti della pandemia sugli scambi internazionali, sono diminuite in tutti i principali settori di specializzazione regionale, anche nell’agroalimentare che era cresciuto ininterrottamente dal 2015. Pur interessando tutti i principali mercati di sbocco, il calo delle esportazioni risulta particolarmente accentuato nei paesi UE.

    Digital divide, eterno problema

    Molto significativo resta ancora il divario di digitalizzazione che caratterizza la società calabrese. Secondo gli ultimi dati resi disponibili dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM) riferiti al 2019, l’incidenza delle linee fisse ultraveloci (oltre 100 Megabit/secondo) era in Calabria meno della metà di quella italiana. Il divario con la media nazionale si allarga considerando la domanda di accesso ad internet: secondo i dati Istat, solo due terzi delle famiglie calabresi disponevano di un abbonamento a internet a banda larga, di cui il 41 per cento a rete fissa (in Italia erano rispettivamente 75 e 54%).

    La Calabria risulta inoltre tra le ultime regioni per competenze digitali degli utilizzatori effettivi di internet e nell’uso dei servizi internet; ad esempio, risultano ancora scarsamente impiegati i servizi bancari online. Anche l’adozione delle tecnologie digitali da parte delle imprese calabresi è al di sotto della media nazionale: vi influisce principalmente la bassa quota di aziende che utilizzano tecnologie digitali di livello avanzato.

    Con riferimento all’indice che valuta l’e-government, calcolato considerando i dati riguardanti gli enti locali, la Calabria si attesta molto al di sotto della media italiana nell’offerta di servizi pubblici digitali. Secondo i dati della Corte dei Conti, nel 2019 solo i due terzi dei comuni calabresi offriva almeno un servizio online ai cittadini, mentre l’offerta media italiana di servizi digitali alle imprese attraverso lo Sportello unico per le attività produttive e lo Sportello unico per l’edilizia si attestava al 35% (rispettivamente 77% e 53 % nella media nazionale).
    Un’evidenza analoga emerge con riferimento ai servizi sanitari, in particolare alla scarsa diffusione del fascicolo sanitario elettronico e della telemedicine.

    Le ICT non decollano

    Nel 2018 (ultimo anno per cui i dati sono disponibili) in Calabria i settori delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) contribuivano per il 4,2% al valore aggiunto del settore privato non finanziario, una quota inferiore alla media nazionale e in calo nell’ultimo decennio. Anche l’utilizzo dei beni e servizi ICT come input produttivi da parte delle imprese calabresi è inferiore alla media nazionale: in base agli ultimi dati disponibili dell’Irpet, nel 2016 il loro valore in rapporto al PIL era pari in regione al 2,5%, a fronte del 4,4 della media italiana.

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    Secondo i dati del primo Censimento permanente delle imprese condotto dall’Istat nel 2019, nel triennio 2016-18 le imprese calabresi, pur in presenza di investimenti in connettività (connessione a internet e soluzioni in tecnologie basate su internet) superiori al dato nazionale, mostravano tassi di adozione inferiori alla media per tutte le tecnologie digitali più avanzate. Il divario appariva marcato anche nell’uso di servizi cloud e di software gestionali.

    Che fare?

    Intanto prosegue la desertificazione demografica della Calabria, che ha registrato tra il 2002 ed il 2018 altri 700.000 emigranti. Di questo passo, nel 2065 la popolazione regionale sarà poco più di un milione di abitanti.
    Che fare, di fronte ad un panorama calabrese caratterizzato da stagnazione, regressione, mancanza di innovazione? Sono due i fronti aperti su cui fare leva per innescare un sentiero di cambiamento: da un lato la costruzione della zona economica speciale di Gioia Tauro e dall’altro l’implementazione degli investimenti per il Piano Nazionale di Rilancio e Resilienza.
    Questi due strumenti di politica economica vanno saldati in un meccanismo unitario di azione: attrarre investimenti produttivi, industriali e logistici, diventa possibile se si rende il territorio calabrese più competitivo attraverso investimenti adeguati in moderne infrastrutture fisiche e digitali.

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    La variabile temporale assume una rilevanza decisiva: rinviare l’attuazione dei programmi di modernizzazione alle calende greche sarebbe esiziale. Solo un disegno sinergico fatto di visione e di prospettive può consentire all’economia calabrese di intercettare i meccanismi di generazione delle catene del valore che caratterizzano l’economia internazionale. Guardare alle esperienze del passato fondate solo sulla industrializzazione statale non serve: è anzi controproducente.

    Le liste elettorali per le prossime votazioni regionali non inducono ad alcun ottimismo: prosegue la lunga stagione del gattopardismo e della mediocrità. Sotto questa cenere si nascondono i consueti interessi che hanno affossato la Calabria. Niente di nuovo, per ora, sul fronte meridionale. Il mondo, intanto, va verso tutt’altra direzione. I territori competono per essere compresi dentro le catene globali del valore. Chi ne resta fuori, sarà guidato da altri attori e da altre logiche, che pensano all’interesse di pochi contro l’interesse di tanti.

  • Calabria, la Regione più povera ha i politici più ricchi

    Calabria, la Regione più povera ha i politici più ricchi

    «Tre gruppi spendono i soldi degli altri: i bambini, i ladri, i politici. Tutti e tre hanno bisogno di essere controllati», diceva l’ex parlamentare texano Dick Armey. Tralasciamo le facili battute sugli ancor più facili accostamenti tra alcuni dei gruppi in questione, tutti i candidati ci spiegano che a spingerli a entrare nei palazzi del potere sono sempre e solo i più nobili degli ideali. Ma proviamo a ragionare sull’assurda ipotesi che, sotto sotto, a qualcuno di loro possa interessare pure il vile denaro. Una domanda a quel punto bisognerebbe farsela: quanti soldi passano dalle tasche dei politici regionali ogni mese una volta eletti?

    Differenze tra Consiglio e Giunta

    La risposta non è sempre uguale. Sono molte le variabili da considerare quando si parla di emolumenti alla Regione Calabria, tutte relative al ruolo ricoperto dai singoli. Un assessore guadagnerà più di un consigliere, i presidenti delle commissioni o i capigruppo più dei loro colleghi meno “altolocati”, quelli di Giunta e Consiglio più di qualsiasi componente dei medesimi organi. Certo è che tutti loro a fine serata un pasto caldo possono permetterselo senza preoccuparsi di tirare la cinghia per non arrivare al verde a fine mese.

    Il primato della politica

    In una terra in cui il reddito pro capite medio supera di poco i 15mila euro annui, ai rappresentanti istituzionali dei calabresi spettano infatti ogni mese come minimo circa 12.150 euro. E i Nostri possono arrivare, nel caso dei presidenti di Giunta e Consiglio, anche a quasi 18mila. È il massimo consentito per le Regioni a statuto ordinario. In altri territori italiani dall’economia più florida c’è chi ha scelto di percepire meno, ma qui i politici – visti i brillanti risultati ottenuti in mezzo secolo di regionalismo in salsa calabra – hanno optato per fare bottino pieno. Un omaggio alla meritocrazia che sfugge solo agli osservatori troppo maliziosi, senza dubbio.

    Indennità di carica e di funzione

    Ma come si arriva a certe cifre? Presto detto: ogni politico regionale ha diritto a una indennità di carica – lo stipendio vero e proprio, per così dire – pari a 5.100 euro. A questi vanno aggiunti i quattrini della indennità di funzione. In questo caso si parte dai 1.500 euro per i capigruppo per arrivare ai 2.000 destinati ai presidenti di commissione, gli assessori, i vicepresidenti del Consiglio o quello della Giunta. Se poi si guidano la Giunta o il Consiglio l’indennità di funzione, noblesse oblige, aumenta ancora, toccando i 2.700 euro mensili.

    Vettura e autisti

    Se pensaste che il conto sia finito qui pecchereste d’ingenuità. Non vanno dimenticate, infatti, le spese «per il noleggio e l’esercizio delle autovetture utilizzate per l’esercizio delle funzioni». Da non confondere con il salario per gli autisti inseriti nelle strutture degli eletti: i circa 29.000 euro lordi che vanno ogni anno a uno chaffeur al 100% – se ne possono prendere due volendo, purché si dividano a metà lo stipendio – sono un’altra cosa. Per la loro vettura i politici incassano ancora una volta in base al ruolo ricoperto: segretari questori e vicepresidenti del Consiglio si vedono accreditare ogni 30 giorni 2.355 euro, agli assessori ne toccano 3.115. Quando poi si presiedono la Giunta o il Consiglio la somma sale fino a sfiorare i 3.900 euro.

    Massimo cinque missioni, ma soldi ogni mese

    Il timore che l’iperattivismo dei nostri rappresentanti possa portarli alla fame fa sì che alle somme appena elencate se ne aggiungano altre. Tant’è che per ogni componente di Giunta e Consiglio ci sono 6.000 euro mensili destinati alle spese per l’esercizio del mandato. Ogni consigliere ha pure diritto a un’ulteriore somma, pari a poco più di 1.035 euro, «a titolo di contributo forfettario mensile per le missioni». E poco importa che le missioni rimborsabili ogni anno siano al massimo cinque, meno della metà dei mesi del calendario.

  • Terme Luigiane: «Per riaprire serviranno anni, altro che 2022»

    Terme Luigiane: «Per riaprire serviranno anni, altro che 2022»

    Il pasticciaccio che ha portato alla chiusura delle Terme Luigiane continua a tenere banco. Nei giorni scorsi avevamo intervistato il sindaco di Acquappesa, Francesco Tripicchio, che per replicare alle accuse subite in questi mesi era andato all’attacco di Sateca. La sua versione, però, è diametralmente opposta a quella dell’azienda che ha gestito il compendio termale dal 1936 all’anno scorso. I vertici di Sateca parlano di «opera di disinformazione» da parte dell’amministratore comunale. E smentiscono categoricamente che le proteste di questi mesi siano «una montatura costruita ad arte dai gestori storici» come reputa Tripicchio. Così, per offrire ai lettori un’informazione più ampia possibile, dopo i lavoratori, gli utenti e il sindaco abbiamo sentito anche gli imprenditori affinché potessero dire la loro su quello che sta accadendo.

    I Comuni vi hanno fatto un’offerta affinché le attività nel 2021 proseguissero, perché l’avete rifiutata?

    «La società è stata costretta a rifiutare perché l’accettazione era condizionata dalla seguente formula vessatoria e quindi inaccettabile: “resta inteso che tale proposta è subordinata al ritiro di tutti i contenziosi in atto, nessuno escluso”. E il canone che ci chiedevano era assolutamente fuori mercato in termini economici».

    Eppure secondo Tripicchio le cifre non si discostano da quelle che si pagano altrove. Se in posti come Fiuggi o Chianciano l’acqua costa di più, perché Sateca dovrebbe spendere meno per l’acqua delle Terme Luigiane?

    «Non sappiamo se il sindaco Tripicchio dica certe cose per manifesta incompetenza o malafede. Ma a smentire le sue affermazioni c’è il rapporto del Dipartimento del Tesoro secondo il quale la totalità delle terme del Lazio (compreso Fiuggi) pagano annualmente canoni per 179.000 Euro e quelle della Toscana (compreso Chianciano) 106.000 Euro».

    Quelle però sono le concessioni, la vostra è una subconcessione. Tripicchio spiega che il calcolo del vostro eventuale canone futuro è figlio di un accordo del 2006 tra Stato e Regioni. Perché dovreste continuare a pagare molto meno?

    «In realtà il sindaco fa riferimento ad un documento di indirizzo delle Regioni in materia di acque minerali, cosa molto diversa. È per questo che Fiuggi, distribuendo bottiglie in tutto il mondo, paga un milione di canone. I conti tornano. Forse il sindaco pensa di rimediare al dissesto del suo Comune rifacendosi sulla Sateca? Una pubblica amministrazione non può sparare cifre a vanvera, dovrebbe fare riferimento al mercato. Non a quello delle acque da imbottigliamento, però».

    Per il sindaco sono solo 44 i vostri dipendenti, altri parlano di 250 lavoratori: quanti sono in realtà?

    «Tripicchio purtroppo non sa leggere i bilanci e neanche i certificati camerali. Nella nota integrativa allegata al nostro bilancio del 2019 (ultimo anno pre-covid) si indica un numero medio annuo (quindi riferito a 365 giorni) di 100 lavoratori, per i quali la Sateca spa ha speso 2.122.000 Euro. Se fossero stati solo 44 dipendenti, avremmo pagato uno stipendio medio a dipendente di 48.227 euro. Purtroppo non possiamo permettercelo».

    Voi contestate ai Comuni di non aver pubblicato un bando, loro replicano che la procedura adottata sia equivalente secondo il Codice degli appalti. Come se ne esce?

    «Riteniamo la manifestazione d’interesse non valida e abbiamo presentato ricorso. Purtroppo il Tar ha rimandato a ottobre la sentenza, prevista all’inizio di luglio, su richiesta dei due Comuni e della Regione, che sembra non abbiano fretta di chiarire le cose. Tripicchio fa, inoltre, riferimento all’art.79 del Codice degli Appalti, che però non riguarda minimamente l’argomento in questione. Dopo mesi che chiediamo qualche riferimento normativo alle assurde azioni dei due sindaci, Tripicchio ci fornisce un articolo di legge che non c’entra nulla».

    La subconcessione a vostro favore, comunque, è scaduta da 5 anni. Per quale motivo avrebbero dovuto farvi continuare come se niente fosse?

    «Non esiste al mondo che si sbatta fuori in maniera illegale, come siamo certi verrà dimostrato dalla magistratura, e con la forza il subconcessionario di un servizio pubblico prima dell’insediamento di chi prenderà il suo posto. Vale per tutti i servizi di pubblica utilità, soprattutto per quelli sanitari. Il tutto gridando al rispetto della legge senza mai dire a quale legge si faccia riferimento».

    Su una cosa con Tripicchio potreste essere d’accordo, però: il sindaco trova strano che, oltre a voi, a rispondere all’invito dei Comuni siano state solo ditte campane. Che idea vi siete fatti a riguardo?

    Il fatto che alla manifestazione d’interesse abbiano partecipato solo aziende di Castel Volturno, Casalnuovo di Napoli, Casoria etc. , tutte operanti nel settore edile, con capitali sociali modestissimi e senza alcuna esperienza termale e che, secondo il sindaco, questa sia una “strategia”, perché poi con l’avvalimento potranno subentrare altri soggetti, secondo noi è molto preoccupante. E anche delle amministrazioni comunali responsabili dovrebbero preoccuparsi. Perché un’azienda seria e fatta da persone perbene non partecipa direttamente ad una manifestazione d’interesse ma manda avanti delle “teste di ponte”? Questo atteggiamento di Tripicchio non fa altro che alimentare le preoccupazioni e le voci su imprenditori chiacchierati e interessati.

    Il parrocco di Guardia ci ha raccontato di aver ricevuto minacce per essersi schierato dalla parte dei vostri dipendenti. Cosa avete da dire a riguardo?

    «L’affermazione del sindaco “Al parroco porterò sostegno se davvero è stato minacciato” lascia molte perplessità sulle qualità umane di Tripicchio, non pensiamo che tale affermazione meriti alcun commento».

    Tripicchio però è certo che le Terme riapriranno già nel 2022, con o senza Sateca. Quante probabilità ci sono che vada davvero così secondo voi?

    «Noi della Sateca siamo cresciuti a “pane e zolfo”. Sappiamo benissimo cosa vuol dire avviare uno stabilimento da zero, visto che i sindaci prima di appropriarsene coattivamente ci avevano espressamente richiesto che fosse totalmente sgombro. Ad essere ottimisti, la ristrutturazione – siamo in zona soggetta a vincoli ambientali – e tutta la parte burocratica (autorizzazione sanitaria, accreditamento, budget, autorizzazioni di VVF, certificazioni varie…) necessitano di anni. Anche con lo scandaloso, perché passa il principio che chi distrugge viene premiato, contributo economico promesso ai due sindaci da Orsomarso l’apertura l’anno prossimo è assolutamente impossibile».

    A che pro allora un annuncio di quel genere?

    «Ci auguriamo che il proclama di Tripicchio non vada ad inserirsi nella campagna elettorale di Rocchetti (il sindaco di Guardia Piemontese, il comune che insieme ad Acquappesa gestirà le acque termali fino al 2036, nda) e Orsomarso e che non inizi una campagna di promesse ed impegni sulle terme che nessuno potrà certamente mantenere. Chiediamoci se una Giunta regionale che dovrebbe svolgere solo l’attività ordinaria in attesa delle elezioni possa, invece, promettere finanziamenti, posti di lavoro e contributi a destra e a manca».

    Possibile che gli errori siano tutti della pubblica amministrazione?

    «Il ritardo accumulato dal 2016 ad oggi nel fare il bando è esclusivamente da attribuire ai due Comuni. Non sono stati in grado per anni di presentare la documentazione richiesta dalla Regione, nonostante questa si fosse dichiarata disponibile ad aiutarli. Tripicchio e Rocchetti, anche grazie all’immobilismo della proprietaria delle acque, la Regione, hanno distrutto una realtà imprenditoriale, assolutamente non perfetta, ma che con il suo lavoro teneva in piedi l’economia della zona e consentiva a centinaia e centinaia di lavoratori una vita dignitosa e a migliaia di curandi il benessere. Parliamo di una realtà imprenditoriale mai sfiorata da alcuna collusione con la criminalità, incentrata sul totale rispetto della normativa e dei contratti di lavoro. Di questa distruzione dovranno rispondere sia in sede civile che penale».

    Ma perché dovrebbero accanirsi contro di voi come sembrate pensare?

    «Siamo amareggiati, in Calabria le cose vanno sempre al rovescio: chi distrugge in maniera gratuita aziende e posti di lavoro ha il coraggio di ricandidarsi e chi fa chiudere le Terme Luigiane facendo perdere centinaia di posti di lavoro viene addirittura premiato, proprio dall’assessore al lavoro Orsomarso, con un milione di euro di finanziamento. È iniziata la campagna elettorale, non c’è altro da dire».

  • Pnrr ultimo treno di una regione disconnessa

    Pnrr ultimo treno di una regione disconnessa

    Viviamo tempi radicalmente differenti rispetto alle caratteristiche sociali ed economiche che hanno segnato il ventesimo secolo. Eravamo abituati a considerare fondamentali per lo sviluppo le questioni legate all’intervento pubblico per l’avvio della industrializzazione. Ne abbiamo conosciuto la parabola, soprattutto nelle regioni meridionali: dalla stagione della crescita produttiva nelle industrie di base (chimica e siderurgia) sino alla drammatica crisi che ha chiuso quella fase negli ultimi decenni del secolo passato.

    Con la globalizzazione il quadro si è profondamente trasformato. È cominciata una competizione tra territori per attrarre gli investimenti produttivi. Si sono affacciati sulla scena nuovi attori economici, che hanno generato uno scenario radicalmente differente.
    Oggi, come ha efficacemente spiegato il politologo Parag Khanna, la gerarchia della competitività è data dalla rete di connessioni che i diversi territori sono in grado di offrire alla comunità dei cittadini e delle imprese.

    Parag Khanna, politologo e collaboratore della CNN
    Calabria e Mezzogiorno in ritardo

    Le infrastrutture per la mobilità non sono più tanto rilevanti per gli effetti occupazionali immediati durante la fase di costruzione, quanto per la qualità dei servizi connettivi che sono in grado di generare in quella di funzionamento operativo. La lunga stagione keynesiana degli investimenti pubblici anticiclici nelle infrastrutture per rilanciare il motore dell’economia volge al termine. Eppure spesso capita ancora che le scelte vengano effettuate sulla base di criteri ormai non più attuali.
    Oggi sono i territori connessi, fisicamente e telematicamente, a determinare gli esiti della concorrenza internazionale. La Calabria, come del resto l’intero Mezzogiorno, si trova a fronteggiare questa discontinuità di scenario senza essersi per tempo preparata a questa trasformazione.

    Italia a due velocità

    Contano nell’attuale gioco competitivo parametri radicalmente differenti: visione globale delle reti, rapidità di esecuzione degli investimenti, capacità di cucire collegamenti internazionali con reti locali. Cominciamo con la celerità di attuazione dei programmi. Ci sono voluti più di 54 anni, dalla prima progettazione all completamento, per costruire la Salerno-Reggio Calabria. Mentre in otto anni veniva completata l’Autostrada del Sole, si è impiegato quasi sette volte tanto per completare l’asse stradale fondamentale per connettere la Calabria con l’Italia. Sono tempi incompatibili con qualsiasi ragionevolezza infrastrutturale. In più di mezzo secolo, cambia completamente la storia e la geografia dei territori.

    Recuperare il tempo perduto

    Ora lo stesso rischio si corre per la costruzione del nuovo collegamento ferroviario tra Salerno e Reggio Calabria, previsto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Non c’è dubbio che tale investimento sia necessario, ma è anche urgente. Come è accaduto per la rete autostradale, anche per il sistema ferroviario ad alta velocità si sono realizzati i collegamenti prima nel centro nord del Paese. Ora bisogna recuperare il tempo perduto senza scegliere strade che determinino uno spostamento alle calende greche del completamento dell’opera. Qualche segnale preoccupante invece c’è nel progetto predisposto da Rete Ferroviaria Italiana, almeno per due ragioni.

    Quale alta velocità serve?

    Da un lato si vagheggia la possibilità di realizzare anche nel Sud una rete ad alta capacità, vale a dire in grado di far correre anche i treni merci. L’investimento realizzato al Centro-Nord testimonia che questa scelta è inutile e dannosa. I treni merci non sono in grado di pagare il pedaggio di accesso ad una rete con queste caratteristiche. E difatti nessun treno merci transita oggi sulla rete ad alta capacità. I costi per realizzare una infrastruttura con queste caratteristiche, poi, superano di un terzo quelli di una rete AV dedicata solo ai treni passeggeri.

    Dall’altro lato viene individuato un tracciato interno al territorio calabrese, che richiede la realizzazione di 85 km di gallerie. Non ci vuole un indovino per immaginare che in questo modo, otre ad incrementare di molto i costi, si allunghino di moltissimo i tempi di completamento dell’investimento.
    Varrebbe la pena di ragionare con grande attenzione su questi due punti, se vogliamo che l’investimento nel potenziamento della rete ferroviaria meridionale non sia l’ennesima occasione perduta.

    Il porto di Gioia Tauro

    E veniamo al secondo punto fondamentale, vale a dire la visione globale necessaria per disegnare la rete dei collegamenti capace di posizionare un tessuto economico e sociale nel contesto nazionale ed internazionale.
    Il caso del porto di Gioia Tauro è emblematico in questa direzione. Nasce, come è noto, nell’ambito del fallimentare progetto per costruire il quinto centro siderurgico, e per decenni resta una cattedrale nel deserto. L’intuizione di un imprenditore dotato di visione internazionale, Angelo Ravano, determina una rivitalizzazione del porto, grazie alla sensibilità del primo Governo Prodi.

    Navi cariche di container nel porto di Gioia Tauro

    Lo scalo di Gioia Tauro si inserisce nella rivoluzione delle rotte marittime internazionali, diventando uno dei porti di transhipment capaci di ospitare le grandi navi portacontenitori tra l’Oriente e l’Europa. Poi, dall’inizio del ventunesimo secolo conosce una stagione di rallentamento e di crisi, perché la governance del terminal container attraversa una fase di stagnazione strategica, fino alla ripresa recente con un rilancio della competitività determinato dalla strategia dell’attuale gestore, la seconda compagnia mondiale per traffico di container.

    Quello che manca, perché Gioia Tauro possa giocare un ruolo strutturalmente positivo – per la Calabria e per l’Italia – è un disegno strategico di Paese sulla costruzione di una rete di scali marittimi complementari e competitivi. Più che aver determinato la generazione di un sistema portuale nazionale forte ed unitario, la scelta è stata quella di aver messo in competizione tra loro gli scali italiani, quando invece era piuttosto necessario elevare la scala della competizione su un orizzonte globale.

    Sono mancati a Gioia Tauro quegli investimenti complementari di connessione alla rete ferroviaria e stradale che erano indispensabili per non svolgere soltanto la funzione di transhipment, attività a basso valore aggiunto e basso impatto sul territorio. Senza generare attività logistiche la funzione del porto di Gioia Tauro resterà meno centrale di quanto non possa essere.

    La concorrenza distruttiva tra aeroporti

    Anche per quanto riguarda la rete degli aeroporti non si sono effettuate scelte strategiche e si sono messi in competizione scali limitrofi, all’interno dello stesso territorio regionale calabrese, con l’effetto di dar vita a una concorrenza distruttiva che non ha consentito di generare quella massa critica indispensabile per attirare investitori e compagnie aeree. Tra Lamezia e Reggio Calabria si è assistito nell’arco dei decenni ad una danza di spostamenti di rotte, come accadeva alla sfilate di Mussolini che intendevano mostrare una potenza non vera. L’effetto è stato un depotenziamento ed una marginalizzazione delle connessioni aeree, anch’esse strategiche sia per il turismo sia per il business.

    Per la Calabria, con il PNRR, si apre ora una stagione decisiva per recuperare competitività. Serve puntare sulle reti di connessione per mettere in sintonia il territorio e l’economia con il sistema nazionale ed internazionale. Da un lato, però, occore una analisi strategica degli investimenti necessari, anche nelle caratteristiche tecniche dei progetti. Dall’altro, serve la capacità di realizzarli in tempi che siano compatibili con la ripresa effettiva di competitività.
    Sulla mobilità si gioca la partita decisiva per il futuro della Calabria e del Mezzogiorno. Non si presenterà un’altra occasione come quella che abbiamo di fronte nel prossimo quinquennio.

  • Terme Luigiane, è l’ora del confronto: Molinaro dice sì, gli altri?

    Terme Luigiane, è l’ora del confronto: Molinaro dice sì, gli altri?

    Lo stop alle attività delle Terme Luigiane nel 2021 rappresenta, a prescindere da chi ne sia responsabile, una sconfitta per l’intero territorio e la sua economia. In questi giorni abbiamo provato ad approfondire per i nostri lettori i dettagli della vicenda, dando voce ai protagonisti. Abbiamo fatto parlare prima i lavoratori, gli utenti, la società che aveva in gestione il compendio, per poi ascoltare l’altra campana, quella della politica locale.

    Una scelta precisa, all’insegna dell’imparzialità e dell’approfondimento per il bene della comunità, che il nostro direttore intende portare avanti fino in fondo. Per trovare una soluzione, ha scritto nel suo ultimo editoriale, c’è bisogno che gli attori protagonisti del dramma delle Terme Luigiane si incontrino. E che parlino apertamente con i cittadini di ciò che è stato fatto e di ciò che bisognerà fare per arrivare a una soluzione come tutti auspicano.

    Il primo a dare la sua disponibilità per un confronto pubblico a più voci è stato il consigliere regionale Pietro Molinaro (Lega), inviandoci la lettera che potete leggere poche righe più sotto. La risposta del direttore, riportata subito dopo, conferma le nostre intenzioni di non lasciare che tutto si limiti a un rimpallo di responsabilità o al chiacchiericcio pre-elettorale.

    Ma, soprattutto, è un invito a tutti gli altri protagonisti – politici, imprenditori, lavoratori – della diatriba ad aderire a questa proposta.
    Confidiamo che contattino, così come ha fatto il consigliere Molinaro, la nostra redazione per partecipare a un dibattito aperto. Il dialogo e il confronto sono l’unico modo per restituire ai cittadini la fiducia nella politica e nell’imprenditoria locale.

    La lettera a I Calabresi del consigliere regionale Pietro Molinaro 

    Egregio direttore,

    mi riferisco al suo articolo Le Terme Luigiane muoiono, annegate dalle chiacchiere, ed in particolare alla parte in cui sollecita i politici a parlarne pubblicamente, “vis-à-vis con i lavoratori che hanno perso il lavoro, con gli operatori commerciali – albergatori in primo luogo – già messi K.O. dal Covid, con quei calabresi che alle terme ci debbono andare, nella propria terra, specie se qui possiamo vantare una volta tanto «un fiore all’occhiello»”.

    Condivido la sua opinione che i politici parlino in pubblico della vicenda delle Terme Luigiane, confrontandosi con le principali vittime dello scempio costituito dalla chiusura degli stabilimenti. Per questo, le esprimo la mia disponibilità ad accogliere il suo eventuale invito a parlare pubblicamente della vicenda delle Terme Luigiane ed a confrontarmi con chi riterrà opportuno. Se con il suo giornale vorrà organizzare un incontro pubblico a più voci sulla vicenda, non mancherò. Con l’auspicio che non serva ad alimentare polemiche ma a trovare soluzioni.

    I miei atti pubblici documentano il mio impegno, non a chiacchiere ma con atti politici ed amministrativi, per l’apertura delle Terme Luigiane. Ho preso posizione pubblicamente sulla vicenda fin dal dicembre 2020. Ho sollecitato, con comunicazioni scritte ufficiali, Orsomarso e Spirlì a far svolgere alla Regione un ruolo attivo per garantire le prestazioni sanitarie e l’occupazione. E l’ho fatto sia pubblicamente che in incontri personali.

    Ho scritto al Direttore generale del Dipartimento Attività produttive che il 1° luglio mi ha risposto ma successivamente ha interrotto la comunicazione, nonostante sia stato sollecitato più volte, sempre in forma scritta. Ho incontrato i lavoratori nel corso dell’occupazione pacifica dello stabilimento termale. Ho partecipato alla manifestazione pubblica dei lavoratori. Ho presentato una interrogazione alla Giunta regionale alla quale non ho ricevuto risposta. Ho presentato una mozione in Consiglio regionale che non è stata discussa. Mi sono mosso anche in altre direzioni istituzionali che per ora ritengo opportuno mantenere riservate. Non è bastato e ne sono dispiaciuto, ma onestamente, da consigliere regionale credo che non avrei potuto fare di più.

    Per svolgere il mio compito ho assunto una posizione di cui sono fermamente convinto anche se è molto distante da quella dell’Assessore Orsomarso e del Presidente ff. Spirlì. Facciamo parte della stessa maggioranza ma questo, per me, non vuol dire accettare tutto quello che fa la Giunta regionale. Su singoli atti, nel merito, considero doveroso e legittimo dissentire ed io l’ho fatto senza farmi frenare da vincoli di maggioranza. Da eletto, rispondo innanzitutto alla mia coscienza ed ai miei elettori e poi alla maggioranza di cui faccio parte. Ognuno legittimamente sostiene le proprie posizioni, ed io sarei disposto a cambiare posizione se Orsomarso e Spirlì mi fornissero motivazioni valide che finora non mi hanno fornito.

    Dunque, ben venga anche un’iniziativa pubblica organizzata dal suo giornale, per un confronto schietto tra le diverse posizioni che ci sono in merito alle Terme Luigiane. In ultimo, mi permetto di formularle i miei auguri per la nuova iniziativa editoriale de I Calabresi. Fin dalle prime settimane di vita il suo giornale si sta caratterizzando per essere realmente il “giornale d’inchiesta” che ha dichiarato di voler essere. Per questo mi complimento con lei e con i suoi collaboratori. La Calabria potrà trarre grande utilità da un’informazione sempre più ricca di inchieste che aiutino i cittadini ad andare oltre le apparenze ed il qualunquismo. Un cordiale saluto.

    Pietro Molinaro

     

    La risposta del direttore de I Calabresi, Francesco Pellegrini

    Egregio consigliere,

    Apprezzo molto la sua disponibilità ad un confronto pubblico con gli altri soggetti politici e istituzionali, ma anche con altri attori coinvolti nella crisi delle Terme Luigiane, di cui tutti, i lavoratori in primo luogo, auspicano e richiedono una pronta soluzione.
    Vi sono altri, molti altri problemi in Calabria a forte impatto economico e sociale che impongono alla classe politica, a tutela della sua credibilità ed onorabilità, che non pare godere di buona salute, un reale e trasparente confronto con i cittadini. Si preferisce invece – anche con la compiacenza di alcuni professionisti della “disinformazione” – il gioco stucchevole e penoso delle promesse avveniristiche, meglio se collocate in un tempo lontano – decenni, non mesi – che assicurano l’immunità ai falsi profeti.

    Noi, come Lei cortesemente ricorda, siamo nati per introdurre o rendere più ampia la pratica del confronto e della comunicazione pubblica, la sola idonea a determinare scelte politiche e convincimenti consapevoli della comunità dei cittadini.
    Quindi accogliendo la sua disponibilità chiediamo ai sindaci di Acquappesa e Guardia Piemontese, all’assessore Orsomarso, al presidente Spirlì, alla Sateca e, soprattutto, ai lavoratori delle Terme Luigiane di comunicare la loro condivisione della proposta del consigliere Molinaro. Noi, con le necessarie intese, provvederemo all’organizzazione dell’incontro presso le Terme – o, in alternativa, presso la nostra sede a Cosenza – e alla sua diffusione in streaming.

    Cordiali saluti
    Francesco Pellegrini

  • Terme Luigiane, il sindaco spara a zero su Sateca: «Il 90% dei lavoratori d’accordo con me»

    Terme Luigiane, il sindaco spara a zero su Sateca: «Il 90% dei lavoratori d’accordo con me»

    Francesco Tripicchio è il sindaco di Acquappesa, uno dei due Comuni coinvolti nella querelle che ha portato alla chiusura delle Terme Luigiane. Di critiche in questi mesi ne ha subite parecchie, ma sulla strategia per respingerle la pensa come Gentil Cardoso: la miglior difesa è l’attacco. Secondo lui, tutta la polemica intorno alla vicenda sarebbe una montatura costruita ad arte dai gestori storici – sono lì dal 1936 ed era previsto ci rimanessero fino all’affidamento di una nuova concessione (attesa dal 2016, data di scadenza della precedente ottantennale) a chicchessia, loro compresi, da parte dei due enti pubblici – degli stabilimenti. Quanto alla responsabilità dello stallo venutosi a creare, con tutti i danni economici che ha comportato per l’economia del territorio, non sarebbe sua e del suo collega di Guardia Piemontese, Vincenzo Rocchetti. Né della Regione, apparsa ai più poco incisiva nella crisi che ha portato alla paralisi il compendio termale, abbattendo anche l’indotto che generava. A stabilire chi abbia ragione, come spesso accade da queste parti, finiranno per essere i tribunali.

    Tutti dicono che la politica ha fatto chiudere le Terme lasciando a casa 250 lavoratori, lei cosa risponde?

    «Che la politica non ha fatto chiudere proprio nulla: è stata fatta una proposta alla società che gestiva il compendio termale da 85 anni e quella l’ha rifiutata. Le è stato detto di proseguire le attività nel 2021 a un prezzo di 90mila euro, tenendo presente che fino all’anno scorso ne pagava 44mila».

    Il canone è più del doppio del precedente, non trova normale che abbiano rifiutato?

    «No, perché fino al 2020 spese come la manutenzione delle strade, l’illuminazione pubblica e i consumi elettrici erano a carico loro. Adesso sono passate ai Comuni, che per questo hanno chiesto soldi in più che corrispondono a questi nuovi costi. La società non ha accettato, la loro proposta era di darci 30mila euro all’anno per 40 litri al secondo di acqua calda. Le nostre sorgenti forniscono in totale 100 l/s, di cui proprio 40 di acqua calda.

    Guarda caso vogliono tutta quella calda loro: significherebbe che nel resto del compendio non si può lavorare. Capisco che chi ha avuto un monopolio lo difenda con le unghie e coi denti, ma non può averlo più. E poi chiedevano garanzie per il futuro che nessuno può dar loro perché parliamo di beni pubblici che vanno messi a bando. Quindi Sateca, come tutte le società del mondo, deve partecipare a un bando. E chi lo vince gestirà gli stabilimenti nel compendio».

    I Comuni però non hanno fatto un bando…

    «C’è una manifestazione d’interesse, è la stessa cosa perché l’articolo 79 del Codice degli appalti prevede le manifestazioni d’interesse con procedure negoziate. Hanno partecipato in sei. Compresa Sateca, che ha fatto pure ricorso».

    La procedura scelta non aumenta la discrezionalità degli enti nella scelta del nuovo gestore?

    «Non è così, nessuna discrezionalità. Anche così ci sono parametri e paletti che la pubblica amministrazione deve mettere a tutela dei beni comuni. Chi presenta e chi valuta le proposte si deve attenere a quelli, non c’è nessuna differenza».

    Perché allora nell’avviso parlate di 40 litri al secondo in cambio di 70mila euro annui e a Sateca ne chiedete 90mila per il 2021 e quasi 400mila per il futuro?

    «La base d’asta è di 70mila euro, aumentabili, più una percentuale sul fatturato pari all’1%. Sateca ha lasciato macerie, chi andrà a gestire dovrà investire almeno un milione per poter operare perché la società ha portato via perfino le vasche dallo stabilimento tornato in nostro possesso. Questo sarà oggetto di separata azione giudiziaria. Il canone, comunque, non si discosta di tanto dai 90mila euro chiesti a Sateca.

    Ma di parecchio dai 400mila euro futuri…

    Abbiamo fatto un calcolo sulla base di quanto stabilito nella Conferenza Stato-Regioni del 2006, considerando i valori medi. E i valori medi hanno dato un risultato di circa 370mila euro. Abbiamo dato la disponibilità per applicare il nuovo corrispettivo da dopo il 2022 per arrivare ai 370mila euro progressivamente nel giro di 5-6 anni. Perché Chianciano e Fuggi pagano un milione di euro e le Terme Luigiane, che hanno acque di qualità superiore, dovrebbero pagare cifre molto inferiori?».

    Forse perché lì si parla di acque minerali oltre che termali?

    «Questa, perdoni il termine, è una grande cazzata. Così come 85 anni di gestione indisturbata sono un caso unico al mondo».

    Nei rapporti del Mef degli anni scorsi sulle acque minerali e termali c’è scritto altro, però. Le acque termali e le minerali sono distinte, così come i loro prezzi, e la storia del termalismo italiano è zeppa di concessioni perpetue…

    «C’è differenza tra concessione e subconcessione: la prima la hanno i Comuni, che poi affidano a terzi il servizio».

    La vostra concessione dura fino al 2036, giusto?

    «Sì, perché qualcuno l’ha trasformata. Quanto alla subconcessione, gli enti pubblici possono stabilire, giustificandoli s’intende, i canoni. Addebitare a Comuni e Regione la chiusura del compendio termale è vergognoso: è l’azienda che ha chiuso, che non ha voluto proseguire, che dice di voler tutelare lavoratori ma non tutela nessuno.

    A proposito, i lavoratori non sono 250, secondo i bilanci sono 44. Questo pseudocomitato che scrive a nome dei lavoratori vorrei sapere da chi è composto: il 90% dei dipendenti sono incazzati con la società, mi arrivano tantissimi messaggi e telefonate in questo senso, posso dimostrarlo».

    Le manifestazioni di questi mesi mostrano parecchi lavoratori in protesta però, non le pare che questo contraddica la sua versione?

    «C’è chi si porta i parenti, chi gli amici, mica sono lavoratori delle Terme Luigiane! E in quelle manifestazioni non c’è nessuno di Guardia o Acquappesa, anche perché i posti di rilievo la Sateca li ha dati tutti a gente che non è di qui. I lavoratori veri che protestano sono 3 o 4, se fa un giro per strada e parla con la gente del posto le diranno quello che dico io, non quello che dicono l’azienda o quei 3-4 lavoratori».

    Lo abbiamo fatto e ci hanno detto cose diverse dalle sue. Compreso il parroco, che ci ha raccontato di minacce subite per aver criticato voi politici…

    «Al parroco porterò sostegno se davvero è stato minacciato. Ma io e il mio collega di Guardia stiamo pensando di denunciarlo perché in un video pubblicato dal Corriere della Calabria ha detto che io e Rocchetti siamo dei mafiosi».

    Nell’avviso parlate di 15 anni più altri 15, quindi di una (sub)concessione fino al 2051, ben oltre il 2036…

    «Parliamo di un’opzione per i successivi quindici anni. Nel momento in cui avremo dalla Regione il rinnovo della concessione – magari verrà fuori che è stato fatto un abuso e che è illegittimo non averla mantenuta perpetua (la Consulta ha stabilito nel gennaio 2010 che modifiche di questo genere sono a norma, nda) – ci potranno essere gli eventuali altri quindici. Certamente non ci potranno più essere altri 85 anni di monopolio assoluto».

    In altre terme, anche calabresi, la situazione sembra identica a quella che c’era da voi e lei contesta. Cosa ha da dire a riguardo?

    «Io mi occupo del mio Comune, non degli altri. E dopo 85 anni sto cercando di far rivivere le Terme Luigiane. Se responsabilità politica c’è nella situazione che si è creata, non è dei sindaci di Acquappesa e Guardia o di chi è ora alla Cittadella. Semmai è di qualche altro politico regionale precedente, che ha fatto ingerenze e interferenze degne dell’attenzione dell’autorità giudiziaria».

    L’assessore Orsomarso dalle colonne del Quotidiano del Sud ha parlato di «proroghe a ripetizione» prima del vostro avviso pubblico: quante sono state?

    «Due, nel 2016 e nel 2019. Qualcuno dice che i comuni non sono stati in grado di fare il bando negli ultimi cinque anni, ma non è così. I comuni hanno avuto la durata della concessione in loro favore il 18 dicembre 2019: prima cosa potevo mettere a bando se non sapevo per quanto avrei potuto affidare il servizio?. L’iter della trasformazione della concessione da perpetua a temporanea è iniziato in Regione nel 2015, sotto Oliverio».

    Che era stato appena eletto però, il tempo non lo avrà perso chi c’era prima ancora di lui? Si sapeva da 80 anni che la concessione sarebbe scaduta nel 2016

    «L’atto che reputo illegittimo lo ha fatto lui e per quasi cinque anni non ci ha dato la durata della concessione. Poi nel 2019 il sottoscritto si è messo ad andare quasi ogni giorno in Regione per ottenerla. Oliverio e i suoi hanno solo ostacolato i Comuni, l’ho detto anche all’autorità giudiziaria. Ho la coscienza pulita e non ho nulla da temere, faccio quello che la legge prevede di fare. Ora le Terme Luigiane devono rivivere, ma non a vantaggio di un privato che fattura 6 milioni di euro in 4-5 mesi e lascia nei Comuni 44mila euro, 25mila dei quali versiamo alla Regione. Per me i 370mila euro chiesti a Sateca sono pure pochi».

    Eppure anche Orsomarso nell’intervista contestava la vostra scelta di applicare i presunti prezzi medi e non quelli minimi…

    «Ripeto, per quest’anno chiedevamo 90mila euro. Orsomarso si riferisce agli anni dal 2022 in poi. Non c’entra nulla che le acque siano termali o minerali, noi abbiamo calcolato le somme per analogia, sulla base della Conferenza Stato-Regioni di cui parlavo, con il metodo di interpolazione lineare. I 370mila euro sono un prezzo più basso di quello che sarebbe venuto fuori con la media aritmetica».

    Il minimo auspicato dall’assessore, invece, a quanto ammonterebbe più o meno?

    «Circa 250mila euro. Io avrei optato proprio per il massimo, che sfiorava il milione di euro».

    Lei ritiene sia compatibile col mercato un prezzo simile?

    «Assolutamente sì. Solo di budget regionale per le prestazioni sanitarie accreditate Sateca prende da anni 2,7 milioni di euro, senza contare il non convenzionato. Che saranno 370mila euro a confronto?».

    Ci sono pure i costi per l’azienda però, quelli non li considera?

    «I costi li hanno anche gli enti, che peraltro hanno la Corte dei Conti a controllarli. Io ho il dovere di mantenere determinati parametri per evitare che la magistratura contabile mi contesti scelte».

    Il dissesto del suo Comune ha avuto peso nei calcoli sui nuovi canoni?

    «Se lo avesse avuto, avrei dovuto applicare il massimo. Anche sulle concessioni, come per le aliquote, i Comuni in dissesto dovrebbero applicare le tariffe più alte, ma considerando le particolarità del caso e le ricadute occupazionali sul territorio abbiamo chiesto di meno».

    Perché allora nell’avviso che avete pubblicato non si parla del mantenimento dei livelli occupazionali?

    «Una manifestazione d’interesse dà indicazioni generali. Poi, nella lettera d’invito ai partecipanti che hanno i requisiti si mettono una serie di parametri e in base a quelli si assegnano i punteggi. La lettera non è ancora partita, ma lì ci sarà il mantenimento dei livelli occupazionali come criterio premiale. Spero che al massimo entro una decina di giorni venga inviata».

    Come mai si è arrivati a uno scontro e allo stallo totale di fronte a ripercussioni economiche enormi per il territorio, tanto più in pandemia?

    «Nei mesi estivi qui c’è stato il pienone negli alberghi. Probabile che a settembre ci sia un calo, come lamenta qualcuno, ma ad agosto c’è stato un aumento delle presenze».

    Le Terme Luigiane però non lavoravano solo ad agosto…

    «Lo facevano 4-5 mesi all’anno. In base al bando che stiamo preparando dovranno restare aperte per almeno 8-10 mesi e, giocoforza, i livelli occupazionali aumenteranno».

    Altro problema: si parla di condotte a rischio danneggiamento per colpa della chiusura e di pericoli di inquinamento perché l’acqua sulfurea destinata agli stabilimenti ora finisce in un torrente. Cosa ha da dire a riguardo?

    «Il nuovo subconcessionario non utilizzerà quella condotta, perché quella riguarda proprietà della Sateca. In ogni caso al suo interno ci può essere qualche incrostazione di zolfo che con un minimo di pulizia si elimina, le tecnologie moderne lo permettono. Nessun danneggiamento quindi, né condotte da rifare ex novo».

    Quindi servono comunque nuove condotte se quella utilizzata finora è di Sateca?

    «No, quelle comunali ci sono già nel compendio. Abbiamo “chiuso l’acqua” nell’altra condotta per non farla defluire in una struttura privata che non aveva più un contratto in essere. Le pubbliche amministrazioni devono tutelare i beni pubblici e possono procedere anche senza l’autorizzazione dei giudici, come abbiamo fatto riprendendoci gli stabilimenti all’interno del compendio».

    Avete fatto almeno un’ordinanza prima di riprenderveli?

    «Non ce n’era bisogno procedendo con l’apprensione coattiva, tant’è che nessuno ci ha detto nulla. Non avevano contratto, l’acqua non gli spettava».

    E l’inquinamento potenziale?

    «Non c’è. Lo scarico utilizzato è quello storico, non si può neanche parlare di sversamento: chiusa la condotta va tutto lì, ma non è un agente inquinante, è quello che fuoriesce naturalmente dal sottosuolo. Se ci fosse stato pericolo d’inquinamento sarebbero intervenuti i carabinieri, no?».

    Le indagini spesso sono lunghe e gli interventi della magistratura arrivano dopo…

    «Al momento nessuno ci ha contestato reati ambientali. Se fosse stato illegale quello che facciamo la prefettura non ci avrebbe mandato forze di polizia a supporto quando abbiamo ripreso lo stabilimento comunale da Sateca».

    Gran parte delle strutture legate al termalismo in zona sono di Sateca, c’è il rischio che le Terme Luigiane muoiano se loro chiudono i battenti?

    «Lo stabilimento San Francesco d’ora in poi sarà di chi si aggiudica il bando e non è detto che gli impianti termali siano più piccoli degli attuali. Lo stabilimento ha tre blocchi, dipenderà dai progetti presentati. E i clienti potranno comunque andare in alberghi esterni, di Sateca come di altri. Se ci sono o meno loro, le Terme Luigiane vanno avanti lo stesso. Tant’è che se quest’estate la Sateca li avesse aperti avrebbe incassato: la gente è andata nei paesi vicini a dormire, avrebbero avuto ospiti come altri».

    Torniamo al “bando”: se Sateca perde e fa ricorso rischia di saltare anche la stagione termale 2022?

    «Chiariamo: io non ho problemi se vince Sateca. Loro cercano di mostrare la loro indispensabilità, ma tutti sono sostituibili al mondo. E i ricorsi possono arrivare da qualsiasi partecipante, non solo da Sateca, a prescindere da chi vinca la gara. Poi dipenderà dal Tar, se darà sospensive, se farà procedere a consegne in via d’urgenza o altro. Io mi auguro che non ci siano ritardi e farò di tutto perché si riparta a regime da subito».

    Cos’ha da dire sulle voci che parlano di imprenditori locali “chiacchierati” che beneficerebbero dello scontro per prendersi le Terme Luigiane?

    «È un tentativo di diffamazione: se, tranne Sateca, alla manifestazione hanno partecipato solo aziende non calabresi quali dovrebbero essere gli imprenditori locali chiacchierati?».

    Chi ha risposto al vostro avviso però non si occupa di termalismo, non lo trova strano?

    «L’ho notato anche io, ma immagino che sia una strategia degli imprenditori. Esiste l’istituto dell’avvalimento: io partecipo a una manifestazione d’interesse, poi nella fase successiva posso dire con chi faccio l’avvalimento. Magari anche Sateca presenterà un progetto in avvalimento con qualcuno. Al momento, tra l’altro, sono loro quelli con i maggiori requisiti, dopo si vedrà».

    Quindi gli imprenditori discutibili potrebbero rientrare dalla porta di servizio, non va specificato dall’inizio che si opera con dei partner?

    «No, solo dopo aver ricevuto la lettera d’invito. E i progetti saranno valutati con la massima attenzione. Io penso che aggiudicheremo la subconcessione entro i primi di novembre. Quindi anche se ci saranno ricorsi in un paio di mesi sarà tutto pronto. La stagione 2022 alle Terme Luigiane si farà. Vogliamo aprirci al mercato e in futuro non escludo che a offrire cure termali possano essere i Comuni stessi, magari in società con qualche privato, con benefici per la comunità e non solo per dei monopolisti».

     

  • Terme Luigiane, minacce al prete e impianti a rischio

    Terme Luigiane, minacce al prete e impianti a rischio

    Tra Guardia Piemontese e Acquappesa aleggia ancora l’effluvio di zolfo, simile all’odore di uovo sodo. Spenti gli stabilimenti termali, ristagna l’acqua sulfurea che sgorga dalla sorgente. Prima di tuffarsi dritto in mare, il prezioso rigagnolo bollente scolpisce tra le rocce una caldissima vasca di color verde smeraldo, dove pochi freak turisti s’immergono e se la godono. Anche a Lamezia, nelle terme di Caronte, o in altre località italiane come nella toscana Saturnia, oltre agli impianti a pagamento, da sempre esistono pozze di deflusso accessibili a tutti. Tra questi boschi però il fenomeno è recente. E al di là di qualche amatore e di pochi curiosi, si sono esauriti gli ultimi barlumi di vita sociale.

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    Una pozza d’acqua sulfurea nei pressi delle Terme Luigiane

    È confinato nella nostalgia dei boomers il ricordo delle Terme Luigiane che richiamavano giovani moltitudini al tempo della mitica discoteca Onda Verde. Sbarrate porte e finestre degli alberghi, deserte le strade, gracidanti ranocchie sguazzano nella piscina termale, fino all’anno scorso stracolma di bagnanti. Resistono solo un’eccellente pizzeria napoletana e uno dei pochi cinema superstiti sulla costa tirrenica cosentina, “La Sirenetta”. Non si vedono più in giro i 32mila turisti, gran parte dei quali russi, che nel 2019 riempirono hotel e B&B. Desolante appare la piazzetta dove un tempo si ballava, cani randagi latranti minacciano i pochi runner che s’avventurano quassù, in un ex luogo che riverbera le solitudini di altri centri abbandonati nei recessi delle Calabrie.

    Nutrito sarebbe l’elenco dei paesini fantasma. Mentre in altre aree della regione, come Roghudi e Cavallerizzo di Cerzeto, alluvioni, emigrazioni, frane e smottamenti hanno colpito duro, nella zona termale di Guardia Piemontese, madre natura e sorella povertà non sono imputabili dello sfacelo. Se le Terme Luigiane restano chiuse, la colpa non è delle calamità. Nel momento più critico di un’estenuante vertenza, sono stati i sindaci di Guardia Piemontese e Acquappesa ad assumersi la responsabilità di serrare i rubinetti dell’acqua che generava fanghi e vapori sulfurei.

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    Vacche pascolano liberamente intorno agli stabilimenti chiusi delle Terme Luigiane

    Dallo scontro feroce tra le due amministrazioni comunali e Sa.te.ca, la società subconcessionaria che da tempo immemore gestiva gli impianti, sono emerse soltanto macerie. E nemmeno la pandemia era riuscita a desertificare le corsie di questi stabilimenti. Persino nel 2020, sebbene l’utenza delle cure termali si fosse ridotta dell’80 per cento, gli impianti avevano continuato a funzionare. Ma quest’anno il duello s’è fatto più aspro e ha finito per azzerare tutto. Dove neanche il coronavirus ha potuto sortire effetti devastanti, è riuscita a provocare danni irreparabili l’umana cupidigia.

    Un bene (poco) comune

    Il getto d’acqua sulfurea da 100 litri al secondo, di cui s’alimentavano le Terme Luigiane, è di proprietà della regione Calabria che lo concede ai comuni siamesi di Acquappesa e Guardia Piemontese. Questi a loro volta ne affidano la gestione alla società privata Sa.te.ca. Così è stato per 80 anni, dal 1936 al 2016. Alla scadenza della concessione, è iniziata una partita che al momento non registra vincitori. L’attuale situazione di stallo infatti lascia sconfitto un territorio dalle potenzialità turistiche immense, consegna 250 lavoratori e lavoratrici alla disoccupazione e priva migliaia di pazienti delle cure necessarie ad affrontare fastidiosissime patologie.

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    Una protesta dei lavoratori delle Terme Luigiane rimasti a spasso a causa della chiusura degli stabilimenti

    Tra i contendenti è in atto da sempre una partita a briscola. Nessuno di loro vuole cedere il mazzo. Uno dei partecipanti, la Regione, gioca in modo distratto. Dal 2016, quando sono cambiate le regole, tutti hanno iniziato a lanciare le carte in aria. E per capire se qualcuno abbia barato, bisognerà attendere gli esiti delle inchieste aperte dalla Procura di Paola e i responsi dei giudici amministrativi, subissati da ricorsi.

    Forse neanche il compianto drammaturgo Vincenzo Ziccarelli, che per anni nel complesso termale diresse la rassegna culturale Zolfo e malie, sarebbe stato in grado di ideare le scenette tragicomiche, degne del miglior Charlie Chaplin, avvenute alla fine dello scorso inverno, quando le amministrazioni comunali si sono riappropriate dei beni detenuti dalla Sa.te.ca. S’è registrata tensione altissima tra i rappresentanti dei due enti e dell’azienda, con le forze dell’ordine a fare da cuscinetto in un derby disputato intorno a un pallone liquido e gassoso.

    La pantomima tra i sindaci e i legali della Sa.te.ca al momento della restituzione di parte degli immobili del complesso termale in un video pubblicato dal Quotidiano del Sud a febbraio

    Lo scontro si è rivelato inevitabile nel gennaio 2021, quando a distanza di due settimane dal nuovo protocollo d’intesa, che avrebbe previsto un’ulteriore proroga della concessione alla Sa.te.ca fino al subentro del nuovo gestore, l’accordo firmato in Prefettura è stato di fatto ribaltato dalla determinazione delle due amministrazioni comunali a concedere tale concessione fino al novembre 2021, non oltre.

    Missione impossibile

    I pochi viandanti, perlopiù calabresi ormai trapiantati altrove, che si avventurano nell’area desertificata delle terme, sbigottiti chiedono come mai qui sia tutto chiuso, quali siano le responsabilità di cotanto degrado. Centoquarantasei metri più in basso, sul livello del mare, qualche turista più curioso interroga il titolare di uno dei bar di Guardia marina: «Come si è arrivati allo scontro?». Il barista stringe le spalle e risponde sottovoce: «Interessi politici». Gli avventori incalzano e rilanciano l’amara considerazione che ormai ha un tono proverbiale: «Che peccato! Guardia è un posto meraviglioso. Una risorsa termale come questa, al nord creerebbe migliaia di posti di lavoro per tutto l’anno. Ma come si fa a tenerla chiusa?».

    Già, come si fa? Se in tutta questa vicenda c’è stato un peccato originale, è nella mancata indizione di un regolare bando pubblico per affidare la gestione dello stabilimento a un nuovo gestore. È opinione diffusa che i Comuni avrebbero potuto e dovuto farlo nel 2016, magari preparando i termini della gara almeno un anno prima, all’approssimarsi della scadenza della concessione quasi secolare. Invece, in questi cinque anni non ci sono riusciti. Secondo la controparte, in realtà Guardia e Acquappesa non hanno mai avuto la volontà politica di bandire l’asta pubblica.

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    Le piscine ormai deserte delle Terme Luigiane

    Dal canto loro, i Comuni sostengono che sarebbe «alquanto difficile avviare una procedura di gara di un compendio abbandonato (perché inutilizzati ed inutilizzabili sono la gran parte degli edifici) e devastato». Strano però che fino all’autunno 2020 queste strutture fossero attive e funzionanti. Di fatto, comunque, le due amministrazioni comunali si sono limitate a produrre avvisi esplorativi che di solito preludono ad affidamenti diretti, benché nel novembre 2017 precisassero che «I soggetti che avranno manifestato l’interesse ad effettuare tale progettazione, potranno presentare la propria proposta progettuale che, nel caso di migliore proposta, sarà fatta propria dagli Enti ed assunta come base di gara successiva per la gestione della realtà termale Terme Luigiane».

    Niente bando e prezzi alle stelle per le Terme Luigiane

    All’epoca, un interessamento informale sarebbe pervenuto da potenti gruppi imprenditoriali locali, già impegnati nella sanità e in edilizia. Alcune vicissitudini avrebbero però impedito che dai primi contatti si passasse a un’assunzione di responsabilità. Non sono calabresi, bensì campane, e si occupano di asfalto, edilizia, movimento terra, progettazione e studi di fattibilità (attività non proprio legatissime al termalismo), le ditte che all’inizio di questa estate hanno presentato altre manifestazioni di interesse. Intanto, dopo le proroghe della concessione, che nell’ultimo lustro hanno permesso il funzionamento della stazione termale, nell’ultima annata tra le amministrazioni comunali e l’azienda privata Sa.te.ca si è imposta una cortina di ferro, carta bollata e reciproche accuse.

    «Ci troviamo di fronte ad una società che ai Comuni paga 43mila euro annui, mentre, soltanto dalle prestazioni convenzionate con l’Asp ricava oltre 2milioni e 700mila euro (sempre annui). E non vogliamo inserire, nel calcolo, la somma delle prestazioni effettuate a pagamento», strillano i sindaci di Guardia e Acquappesa. Alla fine del maggio scorso, la Sa.te.ca ha formulato una proposta che avrebbe previsto lo sfruttamento di 40 litri al secondo di acqua calda al prezzo di un canone annuo di 30mila euro per il 40 per cento dell’acqua termale, considerato che i Comuni versano alla Regione 22mila euro per il 100 per cento della risorsa.

    Davvero difficile pervenire a un accordo, perché pochi giorni dopo, i Comuni hanno chiesto a Sa.te.ca 93mila euro. E per gli anni successivi 373mila euro, riducendo però la disponibilità a 10 litri al secondo. Qualora invece l’azienda avesse voluto impegnare nei propri impianti 40 litri, i Comuni hanno fatto sapere che avrebbero alzato il prezzo a 1.000.742,40 euro. Qualcuno fa notare che ammonta a questa cifra il 66 per cento del totale annuo versato agli enti titolari da tutte le società private che gestiscono gli stabilimenti termali italiani.

    Il grande assente

    Prima che l’avvento dell’homo cellularis virtualizzasse i giochi adolescenziali e le relazioni umane, quando ancora si disputavano agguerrite partitelle a calcio negli improvvisati campetti realizzati tra un condominio e l’altro, accadeva spesso che in assenza di un arbitro, le azioni di gioco contestate sfociassero in risse verbali e fisiche. A volte, il proprietario del pallone lo afferrava e, indispettito, pronunciava la frase più temuta: «Ah sì? Allora me lo porto a casa e non si gioca più!». Sembra evocare quei romantici scenari l’atteggiamento assunto dai due sindaci che hanno chiuso il rubinetto dell’acqua calda, un tempo incanalata negli impianti gestiti dalla Sa.te.ca. Ma è soprattutto la mancanza di una giacchetta nera a consolidare la metafora. In tutta questa vicenda, grande assente è infatti la Regione.

    «Siamo rimasti profondamente delusi dal comportamento del presidente Nino Spirlì – racconta un dipendente di Sa.te.ca, che preferisce restare nell’anonimato -. Nella primavera scorsa, ha convocato le parti e ci è sembrato coraggioso, preparato, disponibile. Ha diffidato i Comuni, minacciando la revoca della concessione. Poi, però, si è chiuso in un silenzio assoluto. È chiaro che sarà stato richiamato all’ordine dai suoi alleati politici. Non avrà voluto ostacolare i loro interessi».

    Le parole dei lavoratori

    Gli fa eco un collega, anch’egli dipendente per tanti anni della struttura termale: «I sindaci si rifiutano di riceverci. Dicono che non ci riconoscono come interlocutori. E neanche l’ex prefetto di Cosenza, Cinzia Guercio, si è mai degnata di ascoltarci. Ma il comportamento più inqualificabile lo ha avuto l’assessore regionale al Turismo, Fausto Orsomarso. A parte scendere in polemica, nulla di concreto ha fatto per evitare il blocco degli stabilimenti. Qualche mese fa, è venuto addirittura a promettere lo stanziamento di 230mila euro per la realizzazione di un parcheggio. Cosa ce ne facciamo di un parcheggio, se le terme sono chiuse? E poi si è rifiutato di salvaguardare il funzionamento della miniera. Il suo ufficio, attraverso il dirigente Cosentino, si è categoricamente rifiutato di applicare la norma della legge regionale 40/2009 che prevede la sospensione/revoca in caso di morosità da parte dei Comuni concessionari, superati i 240 giorni. Eppure sono trascorsi due anni e mezzo».

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    Uno striscione contr l’assessore Orsomarso durante le proteste dei lavoratori delle Terme

    Un’altra lavoratrice si schiera con l’azienda: «I sindaci parlano di ricavi per 2 milioni e 500 mila euro, in realtà si tratta dell’incasso per le prestazioni sanitarie, non del ricavo. Nel 2019 la Sa.te.ca ha speso 2.400.000 solo per gli stipendi. Abbiamo paura di perderla, perché ci ha sempre garantito la massima legalità. Temiamo di finire come altre strutture sanitarie calabresi, che stanno passando di mano sempre secondo lo stesso schema degli avvoltoi che si lanciano sulla preda quando è ormai agonizzante. È vero che solo una minoranza tra di noi ha in tasca un contratto a tempo indeterminato. Gli altri sono stagionali, ma più di 1000 lavoratori fanno parte dell’indotto termale».

    La delusione dei clienti

    Analogo e bipartisan è il risentimento tra gli utenti abituali delle terme. Giuliano ha 48 anni ed è un insegnante che conosce bene questo scorcio di Tirreno: «Quest’anno, niente aerosol e inalazioni! Già prevedo guai per le mie tonsille. Grazie alle cure estive – spiega –, in inverno evitavo intere settimane a letto. Mi dispiace pure per il personale sanitario. Sono persone molto gentili e preparate. Però i loro guai dipendono proprio dai politici che dicono di volerle difendere. Non ho niente contro Giuseppe Aieta. E mi sembra strana la faccenda del voto di scambio. Da queste parti ha racimolato poche decine di voti. Ma lui e Carletto Guccione, con quale faccia si siedono a un tavolo di mediazione? Il gruppo dirigente del loro partito è formato da gente che ha mangiato l’inverosimile e ha costruito piccoli imperi sfruttando le clientele in settori importanti come la telematica e le fonti di energia alternativa».

    «Chiuditi la bocca, prete!»

    Il più indignato di tutti è don Massimo Aloia, parroco di Guardia marina e delle Terme. «In questa storia – spiega il sacerdote – latitante è la verità. Per ovvie ragioni legali, quella che gli operai gridano, non può essere tutta la verità. L’anomalia è il comportamento delle istituzioni. All’inizio, ci siamo sforzati di non pensar male, ma la chiusura delle acque è stata la prova della loro malafede. I sindaci dicono che è un atto dovuto, ma allora perché non l’hanno fatto negli anni precedenti?».

    Don Massimo parla con tono pacato e severo. «Le amministrazioni comunali – prosegue – hanno dichiarato illegittimo l’accordo che loro stesse avevano da poco sottoscritto in Prefettura. Ci sono tanti aspetti oscuri in questa vicenda. Non capisco come mai il presidente Spirlì, che pure fa riferimento a un partito sedicente portatore dell’ordine e della legalità, non abbia avuto il coraggio di revocare la concessione ai Comuni, dopo 240 giorni di inadempienza, come la legge prevedrebbe».

    Sono diverse le famiglie dei dipendenti rimasti senza lavoro ad aver chiesto aiuto economico alla parrocchia. Il vescovo ha inviato appositi fondi a don Massimo. Poche settimane fa, però, alla sua porta hanno iniziato a bussare anche le minacce: «Telefonate intimidatorie, bigliettini anonimi, i soliti messaggini che pervengono a chi parla troppo», denuncia il sacerdote, senza esitazione.

    Le Terme Luigiane in coma. Irreversibile?

    Le ferite sociali stanno per tramutarsi in piaghe che a breve rischierebbero di portare alla morte del paziente. Tra gli oneri pattuiti nel vecchio accordo di concessione, l’illuminazione intorno agli impianti, la pulizia e la manutenzione stradale spettavano al gestore, quindi a Sa.te.ca. In uno dei tanti passaggi della vertenza, i Comuni hanno revocato persino l’assegnazione di queste competenze. È presumibile che se tali settori non saranno assegnati in tempi brevi a un nuovo soggetto privato, il già visibile degrado si alimenterà dei disservizi.

    Il danno peggiore, comunque, potrebbe scaturire proprio dalla chiusura del rubinetto principale. L’adduzione delle acquee sulfuree avveniva mediante un tubo sotterraneo, prodotto a suo tempo dalla Dalmine. Secondo il parere di alcuni manutentori, se la condotta non è piena, con tempo lo zolfo forma dei residui che nel medio periodo si accumulerebbero e, tappandolo, lo renderebbero inservibile. La tragedia avrebbe così un epilogo già andato in scena innumerevoli volte, nelle Calabrie saccheggiate dalla malapolitica e dai profitti dei privati.

    Ma la politica che ne pensa?

    Ormai quasi nulla di quel che resta dell’immenso patrimonio naturale di un’intera regione appartiene ai calabresi. Una multinazionale detiene i laghi della Sila e decide quanta acqua distribuire agli agricoltori; le spiagge sono cementificate o recintate; l’acqua è nelle mani di una società a prevalente capitale pubblico, i cui fili sono retti dalla politica; il vento che muove le pale eoliche è accaparrato dai privati; il legname dei boschi finisce negli impianti a biomasse; il ciclo dei rifiuti non è per niente virtuoso e continua a imbottire i territori di velenifere discariche.

    Sono temi che dovrebbero riempire le agende delle forze politiche impegnate nelle prossime elezioni amministrative, sia regionali che comunali. Ma quanti sono i candidati che hanno a cuore le risorse naturali? La maggior parte di loro si trastulla con le chiacchiere tracimanti da quelli che ci ostiniamo a chiamare “social”, ma che di sociale non hanno un bel niente, essendo piattaforme private. Anzi, privatistiche, dunque disinteressate alla difesa e all’esercizio dei beni comuni. Come tutti i soggetti responsabili, a vario titolo, della chiusura delle Terme Luigiane.

  • Sacal e Sorical, debiti pubblici e profitti privati

    Sacal e Sorical, debiti pubblici e profitti privati

    Gli interessi della politica e dell’imprenditoria si incontrano nel mondo delle società miste. La partecipazione del pubblico in quota maggioritaria rispetto al privato ne è una caratteristica distintiva. Ma spesso, per esempio in Calabria, queste Spa se ne ricordano solo quando c’è bisogno di appianare debiti e disastri vari. Se le cose vanno bene privatizziamo i profitti, se vanno male pubblicizziamo le perdite.

    Prendere in esame due casi distinti e distanti come quelli di Sorical e di Sacal può aiutare a capire le cause e gli effetti di certi paradossi sui nostri territori. Anche perché, nonostante vi si investano parecchi soldi pubblici, i cittadini sanno spesso poco delle vicissitudini societarie, finanziarie e talvolta anche giudiziarie che attraversano queste società.

    La Regione salva la Sacal

    La Società aeroportuale calabrese sta patendo parecchio, com’era prevedibile, gli effetti del crollo del traffico aereo nell’anno della pandemia. Ne è derivata una crisi di liquidità che ha allarmato a tal punto la Regione. Che è intervenuta per evitare la messa in liquidazione, con una ricapitalizzazione da 10 milioni di euro. C’è stato un primo step legislativo in consiglio regionale con un impegno di spesa di 927mila euro per il 2021 (proporzionato al 9,27% delle azioni della Cittadella). Il facente funzioni Nino Spirlì ha garantito a un’Aula non del tutto convinta che bisogna affrontare questo passaggio per «mantenere la maggioranza pubblica». La linea è sottile: attualmente sono 13.666 le azioni in mano a enti pubblici e 13.259 quelle dei privati.

    Cantieri per 60 milioni di euro

    Poi, solo «successivamente si valuteranno – continua Spirlì – ulteriori investimenti» e arriveranno «cantieri per 60 milioni di euro» sui tre aeroporti calabresi. Sacal infatti gestisce non solo lo scalo più attivo, quello di Lamezia, ma dal 2017 anche quelli di Reggio e Crotone. Gli ultimi due reduci dai fallimenti delle rispettive società di gestione e accorpati a Sacal sotto la presidenza del prefetto/poliziotto Arturo De Felice. Era arrivato un mese dopo la bufera dell’inchiesta “Eumenidi”.

    Il supermanager in quota Lega

    Spirlì ha poi garantito che «il presidente della Sacal (il supermanager in quota Lega Giulio de Metrio, ndr) ha già affrontato il piano strategico. Tra qualche giorno saranno coinvolti nella discussione i soggetti interessati perché nessuna parte del territorio abbia a patire le dimenticanze registrate in passato». Qui si fermano le notizie sul Piano industriale.

    Gli enti pubblici stanno mettendo i soldi per la ricapitalizzazione. Compreso il Comune di Lamezia, che detiene il 19,2% delle azioni, con una variazione di bilancio da 150mila euro. Non si sa ancora nulla di come e con quali investimenti si dovrebbero rilanciare i tre aeroporti della Calabria. Intanto la Metrocity di Reggio vuole entrare e non ci riesce. Catanzaro (Comune e Provincia, per un totale di circa il 16% delle azioni) vuole uscire suscitando polemiche dentro e fuori dal capoluogo.

    E i lametini pagano

    I lametini si sentono quasi defraudati perché sono gli unici, a parte la Regione, a metterci i soldi pur avendo l’aeroporto che fa più numeri, mentre crotonesi e reggini lamentano i mancati investimenti di Sacal sui loro scali e qualcuno, sommessamente, ripropone i dubbi di sempre sulla capacità della Calabria di reggere la presenza di tre aeroporti.
    A Lamezia oltre al Piano industriale aspettano anche la nuova aerostazione: bocciato dalla Commissione europea un progetto da 50 milioni di euro, rimasto solo sulla carta, si è parlato di un altro più contenuto – dovrebbe costare la metà – di cui De Metrio aveva anche tratteggiato i contorni.

    Nella principale porta d’ingresso di treni e aerei nella regione si aspetta da anni anche un collegamento «multimodale» tra stazione ferroviaria e aeroporto, un ultimo miglio di cui c’è bisogno come il pane ma che ormai sta assumendo i contorni della leggenda. Tutto bloccato, specie con la mazzata del Covid: i dati di giugno di Assaeroporti fanno registrare, su Lamezia, un calo del 50,2% di passeggeri rispetto al 2019.

    La Sorical in liquidazione con le consulenze a go-go

    Per Sorical, società che dal 26 febbraio 2003 gestisce le risorse idriche calabresi (53,5% della Regione, 46,5% di una società controllata dalla multinazionale Veolia), la bestia nera sono invece i Comuni. Molti sono in dissesto e pre-dissesto: tanti cittadini non pagano l’acqua, tante reti sono vetuste e hanno perdite, tanti allacci sono abusivi. E il risultato è che i crediti vantati dalle amministrazioni locali ammonterebbero a circa 200 milioni di euro. La società, che paga un canone di solo 500mila euro all’anno per la gestione degli acquedotti calabresi, è in liquidazione volontaria dal 13 luglio 2012 ma oltre a continuare a garantire il servizio – e ci mancherebbe – in questi anni ha visto aumentare anche la spesa per il personale (a cui va aggiunta quella per i consulenti esterni): 13,9 milioni nel 2017, 14 milioni nel 2018, 15,6 milioni nel 2019 (fonte: Piano di razionalizzazione periodica delle partecipazioni societarie della Regione, dicembre 2020).

    E rimetti a noi i vostri debiti Sorical

    L’esposizione debitoria di Sorical quantificata in un iniziale Accordo di ristrutturazione partiva da 386 milioni di euro, oggi è scesa di parecchio – secondo la società del 68% – ma resta comunque un bel problema. Specie perché, ora che si vorrebbe revocare la liquidazione e rendere il capitale interamente pubblico, c’è da fare i conti con una banca tedesco-irlandese, la Depfa Bank, che è assieme a Enel il principale creditore di Sorical, con cui anni fa ha sottoscritto degli strumenti finanziari derivati e a cui ha dovuto evidentemente cedere delle garanzie.

    Pronti al Recovery

    Ma fermi tutti, ora c’è il Recovery fund. Il Pnrr assegna un gruzzolo molto sostanzioso alle risorse idriche, ma per metterci le mani sopra bisogna rilevare le quote dei privati e convincere la banca, cosa che non riuscì alla Giunta guidata da Mario Oliverio. Vedremo se ce la farà la governance leghista che accomuna Spirlì e il commissario Sorical Cataldo Calabretta. Quel che è certo è che la Regione dovrà metterci dei soldi perché è l’unica, anche stavolta, a poterlo fare.

    Per ora di concreto c’è solo un atto di indirizzo per verificare le condizioni e la fattibilità dell’operazione, intanto va chiarito che una Spa, anche se sarà interamente a capitale pubblico, resta un soggetto di diritto privato. La disciplina a cui è sottoposta è quella dettata dal codice civile in materia di impresa. Poi ci sono i ritardi dell’Autorità idrica calabrese, l’ente di governo d’ambito diventato operativo dopo anni di inerzia. Non ha ancora individuato il soggetto gestore che, a questo punto, non potrà che essere la “nuova” Sorical.

    I timori dei comitati per l’acqua pubblica

    Le perplessità dei comitati per l’acqua pubblica, che continuano a chiedere che venga rispettata la volontà popolare espressa con il referendum tradito di 10 anni fa, riguarda quello che potrebbe succedere dopo. Dopo che eventualmente la Regione avrà messo i soldi per revocare la liquidazione e dopo che gli investimenti sulle reti saranno realizzati con i soldi del Recovery. Non è che una volta sanata la società e ammodernati gli acquedotti – si chiedono gli attivisti – si spalancheranno di nuovo le porte ai privati? Non è che l’obiettivo è far tornare la gestione dell’acqua calabrese appetibile per chi cerca il profitto e per chi non vede l’ora di svendere i beni comuni in cambio di nuove clientele?

    Il rapporto dell’Arera

    Intanto l’Arera (Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente) proprio qualche giorno fa ha segnalato a Governo e Parlamento che «permane nel nostro Paese un Water Service Divide» e che «persistono situazioni, principalmente nel Sud e nelle Isole, in cui si perpetuano inefficienze». La segnalazione si basa sui risultati del monitoraggio semestrale sugli assetti locali del servizio idrico integrato svolto dalla stessa Autorità attraverso l’analisi delle informazioni trasmesse dagli enti di governo d’ambito e da altri soggetti territorialmente competenti secondo la legislazione regionale.

    Se non si cambia rotta addio soldi del Pnrr

    Un quadro di criticità che evidenzia «la necessità di un’azione di riforma per il rafforzamento della governance della gestione del servizio idrico integrato, soprattutto in considerazione del permanere di situazioni di mancato affidamento del servizio in alcune aree del Paese». Quali? «Molise e Calabria, nonché la parte maggioritaria degli ambiti territoriali di Campania e Sicilia». Senza questi adempimenti, insomma, i soldi del Pnrr – che indica la strada della gestione «industriale» delle risorse idriche – rischiano di restare un sogno. Forse anche per questo c’è tanta fretta dopo anni di ritardi e di gestione evidentemente fallimentare dei manager indicati dalla politica. Chissà poi chi eventualmente sarà, tra il Pollino e lo Stretto, a governare questi flussi di denaro e questa gestione «industriale» dell’acqua dei cittadini.

  • Porti, Sud e PNRR: dov’è la visione strategica?

    Porti, Sud e PNRR: dov’è la visione strategica?

    La questione marittima, quindi dei porti, può costituire una delle opportunità da cogliere per riportare l’economia meridionale in una linea di galleggiamento, dopo i recenti decenni che hanno aumentato il divario rispetto al centro-nord. In un Paese con oltre 8.000 chilometri di coste, la cerniera tra territorio e mondo costituita dai porti è uno degli elementi fondamentali per interpretare il ruolo dell’Italia nell’economia internazionale.
    Eppure, nonostante l’evidente natura strategica della questione, tale tema stenta a trovare il posto di rilievo che dovrebbe avere nella discussione pubblica sulle prospettive dell’Italia. Me ne sono occupato in un recente libro, pubblicato da Guida editore: “Il futuro dei sistemi portuali italiani. Governance, spazi marittimi, lavoro”.

    I porti meridionali sullo sfondo del PNRR

    Anche nel Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza (PNRR) non emergono novità particolarmente significative nella visione del sistema portuale italiano. Prosegue una concezione delle infrastrutture che si disarticola per le diverse modalità, senza un disegno unitario del sistema logistico. Non emerge una prospettiva internazionale in chiave europea e mediterranea. Oggi – ancor di più – si avverte l’esigenza di un progetto geopolitico e geostrategico che sia in grado di collocare gli investimenti infrastrutturali in un perimetro largo composto dalle politiche industriali, logistiche e turistiche su scala internazionale.

    Ancora una volta i porti meridionali, che pure movimentano quasi la metà delle merci in arrivo ed in partenza dal nostro Paese, sono rimasti sullo sfondo di una visione tradizionale, ancorata sostanzialmente all’economia italiana di diversi decenni fa, quando il nostro Paese esprimeva capacità competitiva attraverso le grandi industrie settentrionali ed i distretti del nord est.vIntanto tutto lo scenario si è radicalmente modificato, e noi non abbiamo riflettuto sulle modalità attraverso le quali assicurare una continuità competitiva al sistema produttivo nazionale, nell’era delle catene globali del valore, e nel passaggio dal capitalismo dei territori a quello delle piattaforme.

    Il treno della rivoluzione tecnologia è passato

    L’Italia, ed il Mezzogiorno ancor di più, si è sganciata dal treno della rivoluzione tecnologica, restando in buona parte estranea alla riorganizzazione del capitalismo digitale, se si esclude il decentramento produttivo di alcune industrie alla ricerca tattica di economia di costo. È mancata una visione strategica ed ora se ne vedono le conseguenze, dopo una lunga stasi della produttività totale dei fattori.

    Il sistema portuale ha risentito dell’arretramento competitivo nazionale. Non ha colto le opportunità di crescita, mentre si sono sprecati fiumi di inchiostro sull’Italia quale piattaforma logistica del Mediterraneo. Solo l’intuizione di un imprenditore illuminato, quale è stato Angelo Ravano, ha consentito a Gioia Tauro di intercettare parte dello sviluppo mediterraneo del traffico dei contenitori, nel modello del porto di transhipment che ha intercettato i transiti delle navi madre, di dimensione crescente, oggi sino ai 24.000 contenitori per le unità più grandi.

    I monopolisti del settore

    Ora, in un contesto che rende sempre più solidi i monopoli e gli oligopoli, stiamo consegnando capisaldi decisivi del nostro sistema infrastrutturale ai pochi soggetti che detteranno le condizioni al mercato. Nel caso del trasporto marittimo stanno maturando le condizioni per la realizzazione di un oligopolio bilaterale che stringe legami tra vettori marittimi e terminalisti portuali, particolarmente nel settore dei containers.

    MSC è il secondo armatore al mondo, subito dopo Maersk: tra le due aziende si è formata una alleanza che assieme ad altri due raggruppamenti governa quasi il 90% del traffico containers. La stessa MSC sta raggiungendo un dominio particolarmente esteso nei terminal portuali italiani del Mar Tirreno, con il governo dei terminal containers a Gioia Tauro, Napoli, Civitavecchia, Genova.
    Gioia Tauro, che aveva conosciuto nella seconda metà degli anni Novanta ed all’inizio del nuovo millennio una crescita particolarmente robusta, sta tornando in questi mesi ai livelli di traffico precedenti. Proprio l’acquisizione del terminal da parte di MSC, che prima era azionista al 50%, ha determinato un rilancio delle quantità di contenitori concentrate nel porto calabrese.

    Nel disegno della portualita’ italiana che viene tracciato dal PNRR torna di attualità la vecchia tesi delle due “ascelle” portuali settentrionali, rispettivamente collocate nel Mar Tirreno e nel Mar Adriatico, mentre il resto del sistema è visto sostanzialmente in una funzione ancillare.
    Oltretutto, la quota più rilevante delle risorse destinate agli investimenti nella portualità (3,3 miliardi di euro per la durata del PNRR, sino al 2026) è indirizzata per la realizzazione della diga foranea di Genova, con uno stanziamento previsto di 500 milioni di euro, rispetto ad un costo dell’intero progetto pari, secondo le stime più attendibili, a poco meno di 2 miliardi di euro.

    Il ruolo delle ZES

    La novità più significativa, aggiunta nella fase conclusiva della redazione del PNRR, riguarda il rilancio delle zone economiche speciali (Zes). Il Governo di Mario Draghi, per iniziativa del ministro Mara Carfagna, ha assunto, nell’ambito del Decreto Semplificazioni, l’opportuna iniziativa di varare l’autorizzazione unica per insediare nelle Zes nuovo stabilimenti industriali e logistici: rispetto alle 34 autorizzazioni precedentemente necessarie si tratta di un rilevante passo in avanti per attrarre investimenti e rilanciare lo sviluppo. Questo provvedimento si affianca ai 630 milioni di euro previsti per rafforzare l’armatura infrastrutturale delle Zes, portando a circa 4 miliardi il totale delle risorse stanziate per il sistema portuale italiano nel PNRR.

    Lo strumento delle zone economiche speciali, che sono oggi più di 5.000 nel mondo, costituisce una nuova chiave di politica industriale che ha rappresentato la formula di successo dei porti di Tanger Med in Marocco o Shenzhen in Cina. Anche qui, però, non si può pensare che le zone economiche speciali abbiamo successo se il Paese non sarà in grado di intercettare le catene globali del valore con le quali si articola l’economia mondiale. Un solo dato potrebbe aiutare a riflettere: negli anni settanta del secolo passato operavano circa 7.000 grandi aziende multinazionali. Ora questo munero è arrivato a superare quota 140.000: l’Italia, invece, continua ad essere caratterizzata da medie e piccole imprese, se si esclude qualche caso di aziende che però definiamo “multinazionali tascabili”.

    La Cina è vicina

    La danza del cambiamento è guidata dalla grande dimensione, e gli altri soggetti economici sono sostanzialmente vassalli nella struttura delle catene globali del valore. Senza un riposizionamento economico del tessuto produttivo, nazionale e meridionale, sarà davvero molto difficile tornare a contare nel disegno della geopolitica internazionale, composta da poteri economici che strutturano i mercati, determinando una gerarchia concorrenziale.

    Alla base di un disegno strategico così lacunoso sul sistema portuale italiano esiste una carenza di visione geopolitica e geoeconomica. Per l’intera Unione Europea la partita dei prossimi due decenni si giocherà nel Mediterraneo: un quarto dei traffici marittimi mondiali transitano nel Mare Nostrum, all’interno del quale la Cina ha posizionato le due pedine strategiche di posizionamento nel porto del Pireo e nei porti del Nord-Africa. Dal punto di vista militare la Russia e la Turchia stanno progressivamente incrementando la propria sfera di influenza mediante il ricorso ad una presenza militare sempre più visibile, dalla Siria alla Libia.

    L’Ue e il Mediterraneo

    L’Unione Europea non potrà mai aspirare ad un ruolo nel confronto tra le grandi potenze se non sarà in grado di imporre il proprio punto di vista in casa sua, vale a dire nel sistema mediterraneo. L’Italia potrebbe e dovrebbe svolgere questo ruolo, assieme a Francia, Spagna, Grecia. Il Next Generation EU prevedeva non soltanto azioni nazionali dei singoli membri, ma anche interventi trasversali di diverse Nazioni su temi strategici di interesse comune. Che a nessuno sia venuto in mente di costruire un disegno di consolidamento e di sviluppo per il Southern Range mediterraneo è sintomo di una grave debolezza strategica del pensiero comunitario.

    Nulla si dice sulla necessità strategica di potenziare le autostrade del mare tra la sponda nord e quella Sud del Mediterraneo, così come è stato fatto nel Nord Europa, dove questi collegamenti sono finanziati con risorse comunitarie. Sarebbe nell’interesse comunitario intessere una rete fitta di collegamenti marittimi nello spazio mediterraneo per contrastare l’egemonia cinese.

    Le connessioni, oltre alle infrastrutture, giocano un ruolo di assoluto primo piano nella politica commerciale internazionale, perché determinano opportunità di scambio che possono modificare anche la mappa delle relazioni internazionali dalla quale dipende il confronto concorrenziale tra i grandi blocchi economici.
    Si rischia di perdere una grande occasione che riguarda non solo l’Italia, ma l’intera Europa. Nello spazio economico mediterraneo si gioca una delle partite decisive per il posizionamento geostrategico in un mondo che sarà caratterizzato da una globalizzazione sempre più di natura regionale.

    La principale innovazione contenuta nella ultima versione del PNRR riguarda lo stretto legame che si costruisce tra piano degli investimenti e riforme per la modernizzazione. Sin dall’inizio questo principio costituiva un pilastro nelle linee guida del Next Generation EU.
    Anche per l’organizzazione futura dei porti il disegno riformatore sarà un elemento centrale. Sono previsti una serie di interventi importanti per superare gli immobilismi che hanno rallentato la competitività del sistema italiano. Innanzitutto, la semplificazione normativa dovrebbe consentire tempi di attraversamento minori per la realizzazione degli investimenti.

    Poi sarà definito finalmente un regolamento sulle concessioni che si attende dalla legge 84/94, con la definizione dei criteri in base ai quali saranno assegnate ai privati le concessioni delle attività economiche nei porti.
    Si vedrà come saranno superare le resistenze che si preannunziano già per le concessioni turistico ricreative, per le quali oggi esiste una legge nazionale, in ampio e chiaro contrasto con la normativa comunitaria, che prevede una proroga di queste concessioni al 2033.

    Riforme con una visione

    Proprio sul fronte delle riforme si potrà misurare l’efficacia delle azioni previste dal PNRR. Superare l’ingessamento burocratico – che ha sinora impedito una risposta competitiva dei porti italiani rispetto alla evoluzione dei mercati – sarà la sfida fondamentale per consentire al sistema portuale italiano di supportare il tessuto industriale mediante una adeguata organizzazione logistica.
    Resta però la necessità di allargare la vista, e di considerare il futuro della portualità italiana all’interno di un orizzonte più vasto, connettendola al rilancio industriale, alla logistica, al ridisegno delle relazioni internazionali. Non si tratta solo di costruire infrastrutture. È necessario avere una visione.

    E non dobbiamo nemmeno dimenticare che l’economia nazionale continua ad essere caratterizzata da una componente di produzione sommersa ed illegale. I porti rispecchiano anche queste antiche distorsioni del nostro Paese, anche e soprattutto nel Mezzogiorno. Ed i porti italiani, anche quelli meridionali, si caratterizzano per tutta una serie di traffici illegali: dal traffico di armi a quello della droga, dalle esportazioni di rifiuti pericolosi alla importazioni di prodotti contraffatti.

    Stroncare l’illegalità è un requisito indispensabile per rilanciare la portualità nazionale nello scenario dell’economia globalizzata dei nostri tempi. Oggi invece siamo stretti nella doppia gabbia di un modello economico entrato in crisi irreversibile, e di un sistema che spesso funziona andando oltre la soglia della legalità.

    Il sistema a un bivio

    Il combinato disposto di questi due mali conduce alla marginalizzazione dell’Italia e del suo Mezzogiorno. Le ingenti risorse che l’Unione Europea ha deciso di investire in Italia servono proprio a riscrivere i meccanismi di funzionamento del sistema. I prossimi passi sulle riforme saranno davvero decisivi. I primi tre pilastri che stiamo affrontando riguardano la riforma della giustizia, la legge sulla concorrenza, la riforma delle concessioni. Si vedrà dall’esito finale delle votazioni parlamentari se ne usciremo con adattamenti gattopardeschi oppure se, una volta tanto, decideremo davvero di imboccare la strada, difficile ma necessaria, del cambiamento e della trasformazione.