Nella classifica comunitaria sulla spesa per ricerca e sviluppo l’Italia si colloca, in base agli ultimi dati disponibili (2018), al tredicesimo posto, superata non solo dai Paesi dell’Europa Settentrionale ma anche da diversi Paesi dell’Est Europa (Slovenia, Repubblica Ceca ed Ungheria). Lo sottolinea una recente pubblicazione dell’Istat su questo tema.
Si tratta di un dato preoccupante, considerato che siamo la seconda nazione manifatturiera dell’Unione e che dovremmo pertanto investire risorse coerenti al nostro tessuto industriale. In Italia la spesa per ricerca e sviluppo è stata pari nel 2018 complessivamente a 25,2 miliardi di euro, pari all’1,43 del prodotto interno lordo.
La spesa delle imprese
La spesa delle imprese costituisce la componente principale degli investimenti in ricerca e sviluppo (63,1%), in aumento rispetto al 2008 (56,6%). In termini di incidenza sul Pil, la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese è pari allo 0,9% del Pil.
Le imprese inevitabilmente puntano in modo prevalente sulle fasi di ricerca applicata e sviluppo sperimentale, mentre una quota marginale (7,6%) investe nella ricerca di base. Le imprese italiane finanziano poco, in misura inferiore all’andamento europeo, la ricerca delle Università e del settore pubblico.
Crescono gli investimenti delle Pmi
Cresce la quota di investimenti da parte delle piccole e medie imprese, con meno di 50 addetti, che passano da 856 milioni di euro di investimenti nel 2008 a 2,7 miliardi nel 2018, con una incidenza sugli investimenti delle imprese che raddoppia, passando dall’8,4% al 17,3%. Al contrario, il contributo delle gradi imprese cala di quasi 20 punti percentuali.
Ancor più rilevante è la correlazione stretta tra appartenenza a gruppi industriali ed investimenti in ricerca e sviluppo: l’87,5% della spesa è sostenuta da imprese che appartengono a gruppi, il 75,7% da multinazionali ed oltre un terzo della spesa (36,3%) da multinazionali con vertice residente all’estero.
Ricerca di base: la prima del Sud è Isernia
Nell’ultimo decennio si registra un deciso spostamento della spesa dal settore istituzionale pubblico verso il settore delle imprese, in netta controtendenza rispetto alle evidenze che dimostrano la rilevanza degli investimenti pubblici per favorire l’innovazione.
Un terzo della ricerca di base si concentra nelle province di Milano e di Roma. Tra le province meridionali si segnala l’incidenza di Isernia, sesta nella graduatoria nazionale con il 2,9%, mentre Napoli si colloca al tredicesimo posto con l’1,7%. Nella ricerca applicata Milano e Roma concentrano il 27,9%; superano il valore medio nazionale solo 22 province, e di queste nessuna è meridionale. Nello sviluppo sperimentale Roma e Torino raggiungono il 47,2% del valore totale, è solo Napoli, tra le province meridionali, si colloca sopra la media nazionale, con una incidenza pari all’1,4%.
Classifiche e record negativi
Due terzi della spesa delle imprese per ricerca e sviluppo sono investite da aziende del settore manifatturiero. Il 75% della spesa in ricerca e sviluppo delle imprese è concentrata in sole cinque regioni: Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte, Veneto e Lazio. L’intero Mezzogiorno copre solo poco più del 10% della spesa nazionale per ricerca e sviluppo delle aziende. La Calabria è all’ultimo posto della graduatoria.
Se si osserva l’andamento della spesa per ricerca e sviluppo a livello regionale nel quadriennio 2015-2018, la Calabria registra, assieme alla Valle D’Aosta, la più decisa regressione, con un calo nel periodo del 21,5%, dovuto in particolare alla contrazione della ricerca effettuata dall’Università (-38,7%), mentre cresce con il tasso più elevato del Paese la ricerca e sviluppo finanziata in Calabria dalle imprese (91,7%), anche se partiva da un battente iniziale molto basso. A diminuire nel Mezzogiorno sono, oltre la Calabria, la Puglia e la Sicilia.
Un cambiamento
L’incidenza della spesa per ricerca e sviluppo sul prodotto lordo calabrese cala nel quadriennio considerato, passando dallo 0,72% allo 0,54% del Pil, in questo accomunata al calo che fa registrare la Puglia, che però partiva da valori più elevati (dall’1,02% del 2008 allo 0,79% del Pil nel 2018).
Se guardiamo alla dinamica degli addetti nel settore della ricerca e sviluppo, articolato per composizione percentuale tra i settori esecutori, va sottolineato un cambiamento radicale in Calabria: mentre nel 2015 l’Università pesava per il 65,6% e le imprese occupavano solo il 16,4%, nel 2018 le aziende hanno raggiunto il 46,2% degli addetti, superando l’Università, che raggiungeva il 44,1%.
Investimenti necessari
Costruire l’innovazione è possibile solo se si investono risorse adeguate in ricerca e sviluppo. Questo dati segnalano la criticità di un sistema nazionale poco attento agli investimenti verso nuovi prodotti e nuovi servizi. L’Italia registra una situazione critica in confronto a diversi Paesi della Unione Europea.
Il Mezzogiorno è in una condizione maggiormente asfittica, contribuendo per solo un decimo alle attività nazionali di ricerca e sviluppo.
Una delle azioni che dovrebbero essere messe in campo nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) consiste nella decisa ripresa della ricerca di base da parte delle istituzioni pubbliche. Serve non solo per investire nella innovazione embrionale che non può essere compito dei privati, ma serve anche a sostenere gli sforzi degli imprenditori nella sperimentazione e nella ricerca applicata. Per il Mezzogiorno, e per la Calabria, questa azione ha un carattere strategico ancor più rilevante.
Se resteremo inchiodati a valori bassi negli investimenti in ricerca e sviluppo, non ci sarà alcuna politica industriale capace di generare una effettiva rivitalizzazione del territorio meridionale.
La maggior parte dei lettori non avrà quasi idea di cosa siano i caratteri mobili per comporre un testo da imprimere sul foglio. I tipografi non sono più quelli di una volta, la professione è cambiata moltissimo negli ultimi decenni. Le innovazioni sono state tantissime e hanno mutato radicalmente il modo di lavorare, fino alla rivoluzione introdotta dalle tecnologie digitali. Le piccole tipografie locali hanno subito duri contraccolpi e l’introduzione di diversi macchinari ha reso molte figure non più necessarie.
Basti pensare al compositore, che si occupava di comporre la pagina da stampare unendo pazientemente i pezzetti di piombo con lettere, spazi e segni di punteggiatura. Nei periodi elettorali, invece, si utilizzavano dei grandi caratteri in legno, utili a stampare inviti di voto su carta colorata di diverse dimensioni. Anche questo sistema è tramontato, e l’innovazione ha semplificato notevolmente i passaggi.
Stampatori da primato
Il primo libro stampato a Reggio Calabria risale al 1475 ed è la più antica opera in caratteri ebraici stampata al mondo. A Cosenza già nel 1478Ottaviano Salomonio, anche lui probabilmente di origine ebraica, imprimeva con i suoi torchi alcuni opuscoli che recano impressi data e luogo di stampa. A dispetto di questo rapido arrivo, le tracce delle tipografie calabresi scomparvero per quasi un secolo, per ricomparire negli ultimi anni del ‘500.
Agli inizi dell’800 l’istituzione delle Intendenze da parte dei dominatori francesi portò all’impianto di una nuova tipografia a Cosenza. Era quella di Francesco Migliaccio, stampatore appartenente ad una famiglia napoletana già operante nel settore che attraverso i propri torchi darà luce a moltissime opere di autori locali noti. A cominciare da “Il Bruzio” di Vincenzo Padula, pubblicato nel 1865, ma anche opere e operette di autori meno noti che altrimenti avrebbero difficilmente lasciato una traccia nella storiografia.
Gutenberg calabresi
Nell’ultimo quarto dell’800 il boom. Il monopolio di Migliaccio venne pian piano eroso da altre piccole tipografie, spesso legate alla diffusione di giornali e periodici espressione di particolari categorie o correnti culturali. Nel 1884 a Cosenza si contavano Giovanni Alessio, della tipografia dell’Indipendenza, Domenico Bianchi, Davide Migliaccio e Francesco Principe, della tipografia Municipale. Questi, con tutta probabilità titolari degli stabilimenti, avevano a loro volta diversi operai. Anche in provincia erano presenti attività tipografiche, tra cui quelle di Leonardo Condari e di Francesco Patetucci a Castrovillari, di Giuseppe Giuliani a Cerchiara, la tipografia del Ginnasio a Corigliano, a Lungro quella di Gaetano Guzzi e a Paola la tipografia della Concordia di Salvatore Stancati Vasquez.
Nel Catanzarese la situazione era altrettanto vivace. Nel capoluogo c’erano le tipografie degli editori Vitaliano Asturi e Luigi Mazzocca, la tipografia della Prefettura di Giuseppe Dastoli, la tipografia Municipale e quella di Francesco Veltrie C. A Nicastro la tipografiaColavita, a Filadelfia la tipografia della Società operaia. Monteleone contava le tipografie di Fedele Gentili, Francesco Rubo, Giovanni Troise e la Tipografia Cordopatri, mentre a Crotone operava Tomaso Pirozzi. A Reggio Calabria operavano Luigi Ceruso della tipografia “all’insegna del Petrarca”, Domenico Corigliano, Adamo D’Andrea, Marianna Pananti Lipari e l’editore Paolo Siclari. A Palmi stampavano Giuseppe Lo Presti e Domenico Lipari.
Stampa e politica
Era il periodo della diffusione dei periodici locali, soprattutto cittadini, spesso semplici fogli in concorrenza tra loro e schierati su fronti diversi. Molti di questi si erano dotati di una propria tipografia per ridurre i costi dalla stampa del giornale. Queste piccole officine della parola scritta passavano non di rado dalla stampa del giornale alla pubblicazione di opere a tiratura più o meno elevata. Pasquale Rossi, antesignano della psicologia sociale, si serviva spesso per le sue opere dalla tipografia del giornale cosentino “La Lotta”. E allo stesso modo facevano oscuri intellettuali locali con scritti di cui non resta quasi memoria.
La tipografia Riccio durante l’alluvione del 1959 (Foto dal gruppo fb “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza.”)
Tra fine ‘800 e inizi ‘900 nasce così anche in Calabria, e nel Cosentino in particolare, una piccola classe di operai-tipografi. Il lavoro dei tipografi iniziava ad essere “politico” e si svolgeva in modo sparso nella città. Nella prima metà del ‘900 il quartiere cosentino di Rivocati ne accoglieva più di una, mentre la tipografia Riccio occupava uno stabile sul Lungo Crati soggetto a inondazioni. Una foto dell’alluvione del 1959 mostra l’edificio con ancora l’insegna della tipografia dipinta a grandi lettere sull’intonaco sopra l’ingresso principale.
L’onorevole Aldo Moro visita i locali dove veniva stampato Parola di Vita (Foto in Salvatore Fumo, Il giornalismo cattolico e lo sviluppo della Calabria Editoriale, Progetto 2000-2004)
La parte alta di corso Telesio ospitava nei locali del palazzo vescovile, poco lontano da quelli dove ancora campeggia l’insegna del giornale “Cronaca di Calabria”, la tipografia che sarebbe diventata “La Provvidenza”, i cui torchi diedero alle stampe molto materiale di ambito cattolico. In tal senso è da segnalare la presenza in città negli anni ’40 di una tipografia della Pia Società S. Paolo, le note Edizioni Paoline, che tra l’altro diede alle stampe nel 1948 un’edizione dell’opera del sacerdote antifascista don Luigi Nicoletti, Meditazioni Manzoniane, che sarebbe finita sui banchi di molte scuole d’Italia.
Un leghismo d’altri tempi
All’alba del Novecento il termine “leghismo” aveva un senso e un colore politico opposti a quello odierni. Muratori, sarti, falegnami, panettieri, calzolai, facchini e tipografi cosentini diedero vita nel 1906 ad altrettante “leghe di resistenza”. Si trattava di movimenti di fratellanza operaia, veri e propri cordoni solidaristici capaci di proteggere e orientare menti non eccelse e braccia toste come il legno silano, che unendosi avrebbero potuto porre un freno alla forza padronale e un argine ai rischi connessi a lavori duri e pericolosi.
La lega dei tipografi cosentini era presieduta da Federigo Adami, uno dei fondatori del circolo repubblicano intitolato ai Fratelli Bandiera, destinato a diventare nel 1913 il primo segretario della Camera del Lavoro di Cosenza.
«Dovete fidare soprattutto in voi stessi, se volete davvero incamminarvi per la luminosa via de la rivendicazione» ripeteva Adami ai giovani apprendisti tipografi. Negli annali della Camera del Lavoro e del socialismo cosentino, Adami è descritto come organizzatore degno di stima, sempre pronto alla battaglia. Esercitava un certo influsso sui giovani apprendisti, che vi si affidavano per ogni cosa.
Il tipografo d’idee repubblicane Federigo Adami, primo segretario della Camera del Lavoro di Cosenza
All’epoca i tipografi come i muratori, i falegnami o i fornai si dividevano in due macro-categorie: i “mastri” – custodi dell’arte e proprietari di un’attività – che speravano nel buon andamento e magari in un ampliamento della stessa, e i “garzoni” che stavano a bottega dal mastro artigiano con la prospettiva di diventare anch’essi capi d’arte e chiedevano semplicemente condizioni di trattamento migliori. La Cosenza d’inizio Novecento andava estendendosi verso le campagne ca minanu a Renne: si aprivano ovunque cantieri, e nei piccoli opifici di contrada Castagna il lavoro abbondava.
Primo maggio 1906
Insieme ai muratori del rione Massa, i giovani tipografi che facevano capo ad Adami furono i protagonisti della prima celebrazione del 1° maggio, datato 1906, che si svolse a Pianette di Rovito perché la pubblica sicurezza vietò il comizio in una piazza cosentina. Nei giorni precedenti tipografi e muratori avevano cercato di convincere sarti e calzolai delle migliori boutique di corso Telesio ad astenersi dal lavoro. Il favore di questi “artigiani privilegiati” sarebbe servito a far udire le lagnanze salariali ai ceti agiati della città che vi si servivano. Così fu.
Durante la celebrazione del 1° Maggio 1906 fece la propria comparsa tra gli applausi l’anziano tipografo Rosalbino Serpa, dalle mani solcate da decenni di fatica. Era il “proto”, coordinava cioè il reparto di composizione e controllava l’esecuzione tecnica della stampa del giornale “La Lotta”, che al tempo fomentava la battaglia politica cittadina. Come ricorda Pietro Mancini: «Egli [Serpa] ci comunicò subito che era rimasto solo nella tipografia e quindi era stato mandato via a festeggiare il primo maggio dal direttore del giornale».
La tipografia degli orfanelli
A Cosenza l’infanzia abbandonata, i cosiddetti “trovatelli”, e insieme a loro ladruncoli e perdigiorno trovavano posto nell’orfanotrofio “Vittorio Emanuele II”. L’ospizio nacque nel periodo preunitario con l’obiettivo di garantire un futuro e avviare al lavoro i figli della miseria provenienti dai quartieri e rioni popolari di Massa, Spirito Santo e Santa Lucia. Nella seconda metà dell’Ottocento fu installata nell’orfanotrofio un’officina tipografica, destinata a diventare nei decenni una vera e propria scuola.
Il reparto di composizione della scuola poligrafica dell’Orfanotrofio Vittorio Emanuele II di Cosenza
Con entusiasmo il deputato provinciale Francesco Vetere nel 1882 la presentò come una gloria nell’insegnamento delle «arti meccaniche, di cui l’Ospizio può attingere un incremento di forza, e gl’infelici orfani e trovatelli, raccolti dalla pubblica carità, potere apprendere un’arte colla quale possano campar la vita, acquistare un posto nella società». Fino ai 18 anni i giovani aspiranti tipografi venivano suddivisi in squadre di sette elementi alle dipendenze di un capo d’arte. Il frutto del loro lavoro – libri, opuscoli ecc. – sarebbe stato venduto e 1/5 dell’utile (al netto delle spese) sarebbe stato diviso in parti uguali tra i giovani lavoranti.
Sfruttamento e futurismo
Ma le cose non andarono sempre per il verso giusto. Già sei anni dopo, il commissario governativo Tancredi ravvisò che i capi d’arte sfruttavano il lavoro degli apprendisti per proprio tornaconto, che nessuno degli alunni aveva appreso le prime nozioni e tutti lavoravano senza compenso. La tipografia dell’orfanotrofio conoscerà una stagione ben più florida negli anni ’50 del Novecento. L’ospizio era presieduto da Ruggero Dionesalvi e nel consiglio d’amministrazione figurava l’avvocato e giornalista sampietrese Giuseppe Carrieri (1886-1968) definito dal suo compaesano Alfredo Sprovieri «primafila dell’ultima avanguardia futurista italiana in grado di sedurre il mondo».pIO
La “poesia silenziosa” di Carrieri venne scandagliata attraverso le opere di Pietro De Seta e Gaetano Gallo pubblicate proprio nel “Baraccone”, com’era chiamata l’officina annessa all’orfanotrofio e trasformata il 10 giugno 1950 in una vera e propria scuola poligrafica allo scopo «di tenere il piccolo drappello di fanciulli lontano dai rumori e vizi della città […] educare alla scuola del lavoro le tenere e frequenti vittime dei pregiudizi e dei disordini sociali».
La vecchia tipografia dell’orfanotrofio, oggi cadente e in preda al degrado, fu tagliata fuori dal progetto di ristrutturazione, adeguamento antisismico e riconversione dell’ex convento dei Carmelitani, e che fu sede dell’orfanotrofio, nel moderno Istituto Alberghiero “Mancini”, una delle opere di edilizia scolastica del primo mandato di Mario Oliverio quale presidente della Provincia.
Con l’inverno, cambiamenti climatici permettendo, arriverà nuovamente la neve sulle montagne della Sila. Ma se avete in un ripostiglio un paio di sci è possibile che anche quest’anno debbano restare lì a prendere polvere.
Il motivo è che l’apertura degli impianti di risalita di Camigliatello e Lorica resta ancora assai incerta e ormai la stagione invernale incombe.
Lorica e il nodo del gestore
Come si ricorderà il destino sciistico di Lorica è stato segnato dall’incursione della Dda, che sequestrò gli impianti mandando in fumo i sogni turistici del comprensorio per i quali si prevedevano 13 milioni di euro di investimenti. Successivamente l’autorità giudiziaria autorizza la prosecuzione dei lavori, che prontamente riprendono e sono ormai prossimi alla conclusione.
Il passaggio più importante deve però ancora essere formalizzato. È l’approvazione di un protocollo tra le parti interessate: la ditta che ha realizzato i lavori in Sila, il comune di Casali del Manco, nel cui territorio ricade l’area, e la Regione Calabria. Da questa intesa deve emergere il soggetto che gestirà gli impianti. La Regione, infatti, deve decidere se assumerne direttamente la conduzione, indire un avviso pubblico oppure procedere ad un affidamento diretto.
Nessuna risposta
«Stiamo inviando continuamente Pec alla Regione, sollecitando l’approvazione dell’intesa – ci racconta Roberto Esposito, coadiutore giudiziario della Lorica Ski – ma ancora non abbiamo ricevuto alcuna risposta». Al contrario, il comune di Casali del Manco ha rapidamente recepito la proposta di intesa della Lorica Ski, aderendo all’idea per sfruttare la stagione sciistica.
Il nodo sta nel fatto che, pur finendo in tempi brevi i lavori, la ditta non saprebbe a chi consegnare “le chiavi” dell’impianto. E senza l’indicazione istituzionale di un gestore ogni sforzo verrebbe vanificato. A questo si aggiunga l’urgenza dettata dai tempi. Prima che gli impianti diventino concretamente fruibili da sciatori e turisti, è necessario provvedere ai collaudi che precedono ogni inaugurazione. E anch’essi esigono tempi ben precisi.
Fausto Orsomarso, assessore regionale al Turismo
A riguardo l’assessore Orsomarso replica non senza una certa irritazione, rivendicando di essere stato lui uno dei protagonisti dell’individuazione del percorso che ha portato al dissequestro degli impianti e alla ripresa dei lavori in Sila «grazie alla proficua collaborazione di tutte le parti, gli amministratori di Casali del Manco e i vertici di Lorica Ski», affermando quindi che la Regione la sua parte l’ha fatta tutta. Se i protagonisti di questa vicenda non parleranno la stessa lingua, quindi, gli appassionati potranno guardare la neve cadere ma senza sciarci sopra.
Niente soldi a Camigliatello
Per Camigliatello la situazione è diversa, ma non meno ingarbugliata. La struttura che consente di salire in quota sulle piste deve essere sottoposta alla verifica ventennale e per farlo serve denaro. E non poco. Sempre Orsomarso nei mesi passati aveva annunciato sui social che la Regione aveva stanziato 3,8 milioni di euro «perché l’Arsac aspettava da anni finanziamenti per la manutenzione ed autorizzazioni».
Il problema pareva risolto, ma per nulla disposti ad indulgere all’ottimismo invece sono all’Arsac. Carlo Monaco, responsabile amministrativo degli impianti a fune di Camigliatello, dice che ad oggi di quei soldi non c’è traccia. «Al momento siamo fermi e dobbiamo realizzare il collaudo ventennale, per il quale servono risorse. La Regione le ha promesse, ma concretamente qui non è arrivato nulla», racconta con disincanto Monaco.
Tempi lunghi e/o prestiti
Anche su questo aspetto Orsomarso cerca di fare chiarezza, spiegando che il denaro è stato stanziato, ma essendo stato spostato da un capitolo di spesa ad un altro, è necessario rimodulare la formulazione del finanziamento presso la Corte dei conti. I tempi previsti potrebbero estendersi fino ad ottobre inoltrato. Poi ci sono quelli richiesti per i lavori di collaudo, insomma molti mesi.
Ma Orsomarso ha una soluzione: «L’Arsac con in mano la delibera può andare presso un istituto di credito e farsi prestare i soldi, così da procedere rapidamente ai lavori necessari». Per il futuro, secondo l’attuale assessore regionale al Turismo la gestione degli impianti dovrebbe essere assegnata alle competenze dei Trasporti, salvaguardando le professionalità che intanto sono state formate.
Tra Pec cui non c’è risposta e risorse economiche che sono solo sulla carta, anche questo inverno la neve rischia di cadere invano. Almeno per chi vorrebbe sciare in Sila.
Stiamo ormai entrando nella fase di attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Non abbiamo dinanzi a noi un tempo molto lungo per realizzare tutti gli obiettivi che sono stati tracciati: entro il 2026 le azioni definite debbono essere completate.
Il futuro del Mezzogiorno si lega in buona parte agli investimenti ed alle riforme da completare in questo arco temporale, mettendo a terra quella montagna di risorse finanziarie a disposizione grazie al PNRR. Veniamo da una lunga stagione difficile, nella quale il divario tra il Sud ed il resto del Paese si è allargato.
La spesa pubblica dimezzata in dieci anni
Il PNRR dovrebbe consentire di invertire il trend che, tra il 2008 e il 2018, ha visto scendere di più della metà la spesa pubblica per investimenti nel Mezzogiorno, da 21 miliardi di euro a poco più di 10. Secondo quanto espressamente indicato nel documento del Governo, il Piano mette a disposizione del Sud un complesso di risorse pari a non meno del 40 per cento delle risorse territorializzabili del PNRR (pari a circa 82 miliardi), incluso il Fondo complementare, per le otto regioni del Mezzogiorno, a fronte – si sottolinea nel Piano – del 34 per cento previsto dalla attuale normativa vigente in favore del Sud per la ripartizione degli investimenti ordinari destinati su tutto il territorio nazionale.
Non solo risorse europee
Il Piano prevede, in aggiunta alle risorse europee, ulteriori 30,6 miliardi di risorse nazionali che confluiscono in un apposito Fondo complementare al PNRR finanziato attraverso lo scostamento di bilancio approvato nel Consiglio dei ministri del 15 aprile e autorizzato dal Parlamento, a maggioranza assoluta, nella seduta del 22 aprile scorso.
Il Piano nazionale per gli investimenti complementari al PNRR è stato approvato dal decreto legge n. 59 dal 6 maggio 2021, con una dotazione di 30.6 miliardi di euro per gli anni dal 2021 al 2026. Il D.L. n. 59/2021 provvede altresì alla ripartizione delle risorse del Fondo tra le Amministrazioni centrali competenti, individuando i programmi e gli interventi cui destinare le risorse ed il relativo profilo finanziario annuale.
I conti che non tornano
Il PNRR si propone insomma l’ambizioso obiettivo di ridurre sensibilmente il divario tra il Mezzogiorno e il resto del Paese. La quota del Mezzogiorno sul PIL nazionale salirebbe dal 22 per cento del 2019 al 23,4 per cento nel 2026.
Secondo il governo 82 miliardi sono destinati al Mezzogiorno nel PNRR. Per verificarlo, per ogni misura Gianfranco Viesti ha controllato se sia stata indicata una precisa e vincolante allocazione territoriale delle risorse.
Si è così potuto appurare che una precisa quantificazione dell’investimento nel Mezzogiorno è contenuta in 33 delle 157 misuredel PNRR, e in 5 del Fondo Complementare (FC). Tali misure indirizzano verso il Mezzogiorno investimenti per un totale di 22,2 miliardi di euro. Nei documenti ufficiali è quindi individuabile solo poco più di un quarto delle risorse ipoteticamente destinate al Mezzogiorno.
Quanto andrà davvero al Sud?
Tuttavia, in altre 22 Misure del PNRR e in altre 6 del FC vi sono degli indirizzi tali da lasciar prevedere che una parte delle risorse disponibili sarà allocata nel Mezzogiorno. Su ciascuna di queste misure è stata operata una stima, con un margine di errore. Il totale degli importi di queste misure ammonta, secondo le stime effettuate da Gianfranco Viesti, a 13,126 miliardi. Sommando le cifre appostate chiaramente al Mezzogiorno (22,2 miliardi) con le stime riconducibili al Sud (13,1 miliardi), si ottengono 35,3 miliardi di euro, ben al di sotto della metà della somma teoricamente destinata al Mezzogiorno dal PNRR.
Quali sono le misure che non hanno un’allocazione territoriale predefinita? Da che cosa dipenderà questa allocazione? Vi sono in primo luogo alcune misure di incentivazione degli investimenti di imprese, che saranno allocate sulla base delle richieste. In altre misure i beneficiari non sono le imprese ma soggetti del settore pubblico.
Laddove non vi è alcun indirizzo di allocazione territoriale, essa scaturirà dalle decisioni relative al riparto delle risorse effettuate dai decisori pubblici nazionali incaricati dell’attuazione delle misure. Assai frequenti sono i casi nei quali ciò avverrà attraverso meccanismi a bando fra le amministrazioni pubbliche destinatarie finali.
Nessun indirizzo chiaro
Il principale problema consiste nella mancanza di un indirizzo politico verso la perequazione delle dotazioni infrastrutturali e della disponibilità dei servizi nelle diverse aree del paese, in presenza di divari territoriali estremamente ampi.
Particolarmente interessante è il caso degli asili nido, per i quali vengono destinati ben 4,6 miliardi; la misura, sia pur con una indicazione generica, è priva di qualsiasi indirizzo territoriale, in presenza di disparità estremamente ampie.
Ciò significa che il Governo non ha ritenuto di dover garantire, seppur tendenzialmente, pari diritti ai cittadini italiani in più tenera età, ma di affidarli all’alea di procedure competitive.
L’allocazione delle risorse tra le ripartizioni territoriali del Paese dipenderà in buona parte dai criteri che saranno definiti nei bandi competitivi previsti per la realizzazione di una parte consistente degli investimenti del PNRR.
Da questo punto di vista l’esperienza italiana è particolarmente critica e richiederà la massima attenzione. Sono infatti molto numerosi i casi in cui i criteri per i bandi hanno contenuto indicatori e criteri tali da penalizzare le regioni più deboli del Paese.
Le amministrazioni locali saranno all’altezza?
Certamente conteranno anche le capacità delle amministrazioni di volta in volta chiamate a concorrere per queste risorse. Pur non essendovi evidenze univoche a riguardo, è possibile ipotizzare che proprio nelle aree più deboli del paese, le amministrazioni possano essere meno attrezzate proprio a queste progettualità. Tutto ciò si vedrà con i processi di attuazione degli interventi previsti dal PNRR e dal Fondo Complementare.
Quindi, solo 35 miliardi di euro sono certamente allocati nel Mezzogiorno. Ciò non significa, è bene ricordarlo, che il resto delle risorse del PNRR siano allocati tutti fuori dall’area. Ma lascia un dubbio assai rilevante, dato lo scarto fra le cifre, sull’esito finale.
La cifra di circa 82 miliardi di investimenti nel Mezzogiorno indicata nel Piano appare dunque, seguendo l’attenta analisi di Gianfranco Viesti, come un “totale in cerca di addendi”. Conseguentemente, l’impatto del PNRR sull’economia e l’occupazione del Mezzogiorno, così come presentato nel Piano è anch’esso al momento solo una ipotesi; è possibile, ma non garantito.
Il debito della sanità calabrese? Azzeriamolo. Questa è la parola magica pronunciata in campagna elettorale dalla politica che promette di risolvere il dramma del buco nero del debito, la cui portata reale non è ancora stata interamente quantificata. Comprensibilmente è pure l’argomento cui i calabresi sono maggiormente sensibili, perché qui si decide se ci si può curare oppure no, se si devono cercare altrove centri specializzati e terapie che qui non funzionano.
Per questo è anche il terreno di gioco dove si consuma la partita più importante, quella in cui si possono vincere oppure perdere le elezioni e l’idea di azzerare il debito della sanità è così suggestiva che finisce per accomunare tutti i candidati. Un desiderio destinato ad infrangersi contro l’ultimo verbale del “Tavolo Adduce”, la commissione che vigila sullo stato dei conti della sanità calabrese. E che spiega impietosamente che ogni ipotesi di stralcio non ha reale fondamento. Il documento evidenzia come «al momento non è stata quantificata l’entità del debito pregresso».
Annunci da destra…
Eppure in mille occasioni ogni candidato continua a sostenere la promessa di cancellare il disavanzo. Il primo a sollevare questa ipotesi è stato Roberto Occhiuto, che già nel dicembre del 2020 annunciava trionfante che grazie ad un suo emendamento «di fatto si azzera il debito». In realtà la supposta conquista del candidato della destra è piuttosto una rateizzazione del «debito sanitario diluendolo in 30 anni con un tasso d’interesse del 1,2%». Ma nel gioco delle parole il parlamentare, che ancora non era candidato alla presidenza della Calabria, nel settembre di quell’anno spiegava che «il problema del debito verrà azzerato».
Nino Spirlì e Roberto Occhiuto, il ticket che il centrodestra propone per la guida della prossima Giunta regionale
Sullo stesso fronte nel marzo dello scorso anno il presidente facente funzioni Spirlì proclamava in una delle sue dirette social, ma anche in maniera più ufficiale, di aver avanzato «la richiesta di azzeramento al ministro della Salute Speranza». Il leghista spiegava che tale ipotesi «si poggia sulla constatazione che se non si riparte da zero sarà impossibile poter prevedere nuovi investimenti».
… E da sinistra
Ma se credete che il sogno della cancellazione del disavanzo appartenga solo alla destra vi sbagliate: la candidata del centro sinistra, Amalia Bruni, ha in più occasioni affermato la necessità di ricorrere a questa cura, perché «la ricetta necessariamente deve passare dall’annullamento del debito». Sulla stessa linea si è espressa Dalila Nesci, unica calabrese tra i sottosegretari del governo dei Migliori guidato da Draghi. L’esponente dei 5 Stelle, parlando della sanità regionale ha esortato a «lavorare per azzerare il debito». A questo miraggio non si sottrae nemmeno de Magistris, nel cui programma è scritto con chiarezza che si deve ottenere la «fine immediata di ogni commissariamento» e procedere «all’azzeramento del debito sanitario»
I casi di Reggio e Cosenza
La proposta dell’azzeramento rivela la misura della distanza tra il meraviglioso mondo della teoria e il severo mondo della realtà. E a marcare questa distanza è la dimensione del debito che gela ogni ipotesi di stralcio. Ma, soprattutto, sono le parole con cui si chiude la relazione del Tavolo Adduce.
L’Asp di Cosenza: l’ultimo bilancio consuntivo approvato risale al 2017 e sulla sua attendibilità sussistono parecchi dubbi
«Con riferimento alla richiesta di costituire gestione stralcio per affrontare la questione del debito pregresso, con particolare riferimento alle ASP di Reggio Calabria e Cosenza, valutano che eventuali modifiche normative che potrebbero rendersi necessarie, dovranno essere valutate una volta definita la quantificazione del debito pregresso». Fuori dalla rigidità del lessico burocratico, vuol dire che non potete stralciare nulla, anche perché non siete stati in grado di dirci a quanto ammonta il debito e soprattutto come coprire l’eventuale azzeramento.
Roma dice no
Ma non è finita. La stessa relazione mette sull’avviso che «occorre poi attentamente valutare eventuali proposte normative che potrebbero generare effetti emulativi e ricadute in termini di finanza pubblica nel breve e nel lungo periodo, dopo un lavoro di risanamento dei conti del SSN che ha richiesto impegno pluriennale da parte di tutte le regioni». Tradotto in soldoni significa che le altre regioni che stanno affrontando piani di rientro con successo e sacrifici, potrebbero esigere di azzerare anch’esse il debito residuo.
La sede del Ministero della Salute
E in conclusione di tutto ciò, lapidariamente si afferma che «pertanto la proposta di una gestione stralcio per il debito pregresso, per le motivazioni su esposte, non si ritiene percorribile». Se qualcuno pensava di risolvere la questione con un fantasioso scurdammoce ‘o passato, si è sbagliato alla grande.
Il porto di Gioia Tauro nasce da una tragedia italiana, vale a dire dal fallimento abortivo nella costruzione del quinto centro siderurgico nazionale. Tutto cominciò con l’invettiva “boia chi molla” dei fascisti a Reggio Calabria. Serviva dare anche una risposta politica a quella rivolta. E la costruzione della grande fabbrica era esplicitamente presentata come una misura compensativa rispetto alla scelta di Catanzaro come capoluogo della Regione.
L’affare del secolo
Altre promesse mai mantenute erano contenuto nel cosiddetto “pacchetto Colombo”.
Il giorno della memoria della Resistenza, il 25 aprile 1975, l’allora presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, pose la prima pietra di una fabbrica che non nascerà mai. Ma fu, in compenso, un affare del secolo per i mammasantissima, proprietari per gran parte di quei 300 ettari di terreni nella Piana, che lo Stato espropriò a valori stratosferici.
Al servizio dello stabilimento siderurgico mai nato si costruirono cinque chilometri di banchine portuali. Poi non successe più nulla. Tutto rimase nell’abbandono più totale e desolante: sino al 1993 non attraccò neanche una nave. Edoardo Scarpetta avrebbe detto, parafrasando Gabriele D’Annunzio, neanche ’o vuttazziell ‘e zi Nunzio.
L’ombra delle ‘ndrine
Angelo Ravano, un brillante imprenditore marittimo genovese, comprese che quella risorsa infrastrutturale – rimasta senza alcuna utilizzazione – si adattava perfettamente alle dinamiche del traffico commerciale emergente, vale a dire i collegamenti navali transoceanici tra Asia ed Europa.
Sin dall’inizio delle attività, il porto è stato tenuto sotto scacco dalle cosche Piromalli e Molè. La Commissione parlamentare antimafia – nel febbraio del 2008 – ha concluso che la ‘ndrangheta «controlla o influenza gran parte dell’attività economica interna al porto e utilizza l’impianto come base per il traffico illegale».
Eppure, nonostante i pesanti condizionamenti della criminalità organizzata, Gioia Tauro, a cavallo tra la metà degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, si è conquistata un posto nelle rotte della globalizzazione. Poi, per una parentesi durata un decennio, anche il ruolo di snodo nelle grandi rotte delle navi portacontenitori è entrato in crisi. Il gestore del terminal container ha bloccato il piano di investimenti necessario per mantenere e rilanciare la competitività.
I rischi di un’unica vocazione
Questa paralisi di recente è stata superata, con il cambio nell’asseto proprietario della società che gestisce il terminal. E nel 2020, nonostante la crisi, il porto di Gioia Tauro è tornato a superare la soglia dei 3 milioni di teu. Va bene così? Siamo tornati su un corretto tracciato di sviluppo? La mia risposta è negativa, per diversi ordini di motivi. Innanzitutto, il porto Gioia Tauro non ha mai superato la caratteristica monovocazionale, vale a dire la assoluta dipendenza dal solo traffico di transhipment dei contenitori. Si tratta di un posizionamento rischioso. Se cambiassero le convenienze del mercato, ci si mette un attimo a perdere tutto il traffico, come ha dimostrato l’esperienza recente del porto di Taranto.
Hinterland e trasbordo
Le navi impiegano nulla a virare la prua e andare dove si dovessero manifestare convenienze economiche maggiormente interessanti. Oltretutto parliamo di un posizionamento in un segmento di mercato a basso valore aggiunto per il porto che gestisce questa attività.
Ma soprattutto il porto non parla al territorio della sua Regione. Arrivano le grandi navi portacontenitori, si effettuano le operazioni di riordino sulle banchine e partono le navi di minore dimensione per le destinazioni finali dei container. Nel gergo marittimo si distingue tra container “hinterland”, destinati o in origine dal territorio circostante al porto, e container di “trasbordo”, che non escono dalla cinta daziaria e vengono movimentati solo per il transito da una nave madre ad una nave figlia.
I container “hinterland” per il porto di Gioia Tauro sono pari a zero, mentre tutto il traffico gestito riguarda i container di “trasbordo”. Il valore aggiunto per il territorio regionale è praticamente nullo, se si esclude l’attività all’interno del porto stesso, che consiste sostanzialmente nel riordino dei contenitori da una nave di dimensioni maggiori verso le navi “feeder”, che portano la merce alla destinazione finale.
Nessuna ricaduta
Qualche numero ci può aiutare meglio a comprendere il ragionamento sul destino di Gioia Tauro, sostanzialmente sganciato dalle dinamiche del territorio regionale calabrese. Se consideriamo il traffico commerciale nella sua interezza, prendendo in considerazione tutte le tipologie di merci movimentate, Gioia Tauro è completamente assente nei segmenti delle rinfuse liquide e solide, mentre concentra la sua attività nelle merci varie, esclusivamente per il traffico dei contenitori.
Lo si legge nel Grafico 1: il porto di Gioia Tauro non esiste per nulla nelle rinfuse solide e liquide. Invece pesa nel 2020 per il 16,5% sul totale del traffico nazionale, espresso in tonnellate, nel segmento delle merci varie; Gioia Tauro incide per il 9% sulla movimentazione delle merci complessive dell’Italia.
Grafico 1
La rilevanza dei numeri che sono movimentati dal porto di Gioia Tauro sul volume del traffico nazionale di merci non riflette però una ricaduta che si esprime nel radicamento del porto rispetto al territorio regionale. Si tratta di uno degli effetti della globalizzazione: si può essere snodo della rete globale senza essere snodo per il territorio in cui si è collocati.
La chiave di interpretazione strategica è ancora più chiara quando facciamo riferimento nello specifico al traffico dei contenitori. Nel Grafico 2 si verifica che, in base ai dati 2020, sempre espressi in tonnellate. Mentre il traffico “hinterland” non esiste per nulla nel porto calabrese, Gioia Tauro pesa per il 78,4% nel traffico di trasbordo sul totale nazionale.
Serve a tutti tranne alla Calabria
Complessivamente, l’incidenza totale sul traffico contenitori nazionale è pari al 29,9% Insomma, Gioia Tauro serve al mondo, all’Italia, forse alla criminalità organizzata, ma non alla Calabria. Questo è il punto nodale sul quale occorre riflettere, per le implicazioni di politica regionale e meridionale. Ovviamente, non si tratta di perdere una caratteristica che costituisce un elemento di forza, ma di rendere questo aspetto non l’unico fattore sul quale puntare per il futuro del porto di Gioia Tauro.
L’evoluzione strategica della portualità internazionale nel corso dell’ultimo decennio dimostra che i porti di “transhipment” si sono trasformati anche in porti “gateway”, capaci di dialogare con il territorio nel quale sono presenti. È accaduto ad Algesiras ed a Valencia, tanto per fare due esempi.
Grafico 2
Un deserto industriale
Perché si è determinato questo andamento? Innanzitutto perché la Calabria è un deserto industriale. Un porto non genera merce, ma trasporta ciò che il territorio è in grado di esprimere. Quindi il primo punto per determinare una svolta riguarda la necessità di inspessire una struttura produttiva gracile.
Da questo punto di vista la zona economica speciale può costituire una opportunità da cogliere, se si è in grado di attrarre investimenti manifatturieri che possono capitalizzare la rete di collegamenti mondiali di cui il porto di Gioia Tauro è dotato.
Poi, un secondo punto riguarda la rete delle altre infrastrutture di connessione, che costituisce un elemento di debolezza competitiva del porto calabrese. Per decenni si è parlato della necessità di migliorare la qualità della rete ferroviaria per il traffico merci, ma le chiacchiere stanno ancora quasi a zero. Solo a tale condizione si può allargare quella che si chiama la catchment area, vale a dire il territorio di influenza della infrastruttura portuale. Un intervento di tale natura consentirebbe non solo di consegnare per ferrovia una parte consistente dei container rivolti ai più rilevanti mercati italiani, ma anche di cominciare a lavorare i contenitori stessi, non solo per lo stoccaggio ma anche per operazioni a maggior valore aggiunto.
Una trasformazione necessaria
Trasformare il porto anche in una fabbrica logistica può mettere al riparo dalla fluttuazione dei traffici dei contenitori, che dipendono, quando si è specializzati solo nel segmento del trasbordo, esclusivamente dalle dinamiche della globalizzazione.
Nella fase successiva alla pandemia certamente il modello di specializzazione internazionale del lavoro e di dislocazione delle fabbriche è destinato a cambiare. È presto per dire esattamente quali saranno queste dinamiche, ma è molto probabile che le grandi macroregioni del mondo tenderanno a scambiare merci più all’interno dei grandi blocchi, che non su scala globale.
Qualche segno lo si comincia a cogliere, proprio a Gioia Tauro. Lo vediamo nel Grafico 3. Nel primo semestre del 2021, l’incidenza del porto calabrese sul totale dei contenitori movimentati a livello nazionale è scesa, rispetto dato annuale del 2020. Nel trasbordo si è passati dal 78,4% al 75,6%, mentre sul totale del traffico contenitori si è passati dal 29,9% al 26,1%.
Grafico 3
Insomma, stare solo sul business del trasbordo dei contenitori non lascia nulla alla Calabria, e non costruisce un futuro solido per lo stesso porto di Gioia Tauro. Servono le opere di completamento delle infrastrutture ferroviarie. Serve un serio piano di industrializzazione regionale, assieme ad un disegno logistico per rendere più robusto il posizionamento competitivo dello scalo calabrese. In altri termini, va messa in campo una strategia, e la capacità di attuarla. La zona economica speciale e gli investimenti del PNRR possono essere le due gambe per mettere in campo una operazione di innovazione industriale, logistica e sociale.
Iniziamo coi numeri, tutt’altro che rassicuranti: chi amministrerà la Calabria, dal 4 ottobre, dovrà misurarsi con un dato pesantissimo, espresso da due cifre, calcolate con prudente approssimazione e, probabilmente in difetto.
La prima ammonta a 2 miliardi e 600 milioni. È il passivo totale della Sanità, la croce a cui dal 2009 sono inchiodati i calabresi, che subiscono le aliquote regionali più alte d’Italia per coprire quel che si può di questa voragine senza ottenere un’assistenza sanitaria decente.
La seconda cifra ammonta a un miliardo circa. È meno inquietante di quella sanitaria, ma fa paura lo stesso, perché è il totale dei passivi delle società partecipate.
Tuttora, la Regione è presente in sei società: Ferrovie della Calabria, Fincalabra e Terme Sibaritide (delle quali è socio unico), Banca Popolare Etica, Sorical e Sacal.
Questo miliardo di passivi mette a rischio tutte le leve attraverso le quali la Regione influisce nelle attività degli enti locali e, quindi, pesa in maniera diretta sulla vita dei cittadini.
In altre parole, è confermato, anzi di sicuro aggravato, il deficit della Sanità, che nel giudizio di parificazione della Corte dei Conti del 2019, blocca il 79% del bilancio regionale. Ma tutto il resto (trasporti, gestione idrica e rifiuti) rischia di finire gambe all’aria o, alla meno peggio, di zoppicare parecchio.
Un’ecatombe di Comuni
Se si stringe il campo visuale sui territori, il dramma calabrese emerge alla grande e ha per protagonisti e vittime i Comuni, quasi tutti messi malissimo dopo la sentenza della Corte Costituzionale 80 del 28 aprile 2021.
Questa sentenza, che di fatto vieta di spalmare i debiti nel generoso lasso di trent’anni previsto nel 2015 dal governo Renzi, si è abbattuta come una mazzata sugli enti locali, che ora rischiano di brutto. Stando all’allarme lanciato dal sindaco di Rende Marcello Manna i Comuni in pericolo di dissesto sarebbero duecento circa. Ma, a ben vedere, la differenza tra chi è dissestato e chi non lo è ancora è solo una questione di dettagli: per i cittadini i tributi sono al massimo in entrambi i casi e i servizi risultato ridotti o a repentaglio.
Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza
Questo in Calabria, perché in altre realtà, ad esempio Torino, il livello dei servizi è qualitativamente sostenuto, a dispetto delle condizioni finanziarie del Comune, che non sono proprio il massimo.
Tra gli ottantadue Comuni che vanno al voto, i due più importanti consentono un paragone calzante: sono Cosenza, che è in dissesto dal 2019, e Lamezia Terme, che è in riequilibrio finanziario ma barcolla non poco, visto che non può più approfittare della “rateazione” trentennale. Nelle linee di fondo, la situazione delle due città è piuttosto simile: tributi a palla e servizi in calo o insufficienti.
Il decreto sostegni non basta
Ma non serve proiettarci verso il futuro per intuire la portata dell’Apocalisse, perché la catastrofe c’è già.
Dei Comuni che vanno al voto il 3 ottobre assieme alla Regione, otto sono nei guai. Si va dai guai gravissimi di Cosenza, Badolato, Casabona e Bova Marina, al caos di Chiaravalle, che oscilla tra dissesto e riequilibrio da circa sette anni, alla situazione grave di Lamezia e di tutti gli altri paesi in riequilibrio.
Ma se si considera il totale dei Comuni nei guai, la cifra è terribile: sono ottantasette.
L’unica speranza è il decreto sostegni, che ha stanziato circa 600 milioni per alleviare il deficit strutturale. Questi soldi potrebbero fare molto per i Comuni in riequilibrio, soprattutto Reggio. Ma possono sì e no alleviare i conti dei municipi dissestati, cioè Cosenza.
La domanda, a questo punto, sorge spontanea: che c’entra il dissesto dei municipi coi passivi della Regione, visto che Comuni e Regioni fanno cose diverse, quindi hanno regimi finanziari separati?
Un cane di debiti che si morde la coda
Con rara crudezza, il presidente della Sezione regionale della Corte dei Conti Vincenzo Lo Presti aveva lanciato un monito alla Regione, che come tutti gli enti pubblici della Penisola ha il vizio di “lavorare” le cifre per ridimensionare l’annaspamento: i residui attivi sono sovrastimati, quelli passivi sottostimati.
Era il 10 dicembre 2020 e, come già anticipato, i magistrati contabili valutavano il Bilancio regionale del 2019, che è l’ultimo documento utile, visto che la Corte non si è ancora pronunciata sull’esercizio 2020.
È il caso di mettere da parte la Sanità, il cui debito è calcolabile solo in maniera presuntiva, visto che mancano dati certi dall’Asp di Reggio.
Occorre concentrarsi, piuttosto, sulle partecipate, una delle quali è un punto di contatto tra la finanza regionale e quelle dei Comuni.
Ci si riferisce alla Sorical, la società mista detenuta al 54% dalla Regione e al 46% da Acque di Calabria, una spa con socio unico, la francese Veolia.
I crediti mai riscossi
La Sorical non morirà di debiti, che pure ci sono (si ipotizzano 370 milioni circa, ma i vertici della società giurano di aver tagliato del 68%). Ma di crediti: la società avanza una somma impressionante, circa 200milioni, dai Comuni, quasi tutti morosi, in particolare Cosenza, Reggio e Catanzaro.
I residui attivi, cioè i crediti non ancora riscossi, condizionano l’attività corrente. In altre parole, la vita quotidiana dell’ente e dei cittadini che vi si rivolgono per ottenere servizi.
Vengono senz’altro “appostati” nel Bilancio, ma non sono liquidità. Anzi, molti di questi diventano inesigibili perché si prescrivono o possono essere recuperati solo con molta fatica e, spesso, non nelle quantità sperate.
La catena perversa è facile da ricostruire: i cittadini pagano poco e in pochi ai Comuni, i quali pagano quel che possono o non pagano affatto (nel caso della Sorical, c’è chi spera, come Cosenza e Vibo, che nasca la società unica di gestione delle acque, che esoneri i Comuni anche dalla gestione diretta delle reti idriche).
Risultato: la Regione deve intervenire a ripianare i passivi delle partecipate che non riescono a recuperare i crediti. Ciò vale anche per Sacal, piegata dal Covid, che ha messo in ginocchio le compagnie aeree che fanno scalo soprattutto a Lamezia, e per Ferrovie della Calabria, letteralmente ostaggio del trasporto su gomma e oberata da clientele.
Non ci salverà l’Europa
Non fidiamoci troppo dei fondi europei, che abbiamo dimostrato di non saper utilizzare o di utilizzare male il più delle volte, né dei 9 miliardi del Pnrr.
Questi finanziamenti, come ribadisce l’articolo 119 della Costituzione, possono essere impiegati solo per investimenti. E sperare che questi investimenti producano utili (e quindi imponibile su cui far cassa) è fantascienza, almeno al momento: significherebbe sperare che i calabresi diventino ricchi a tempi record per poter risanare la Regione.
Ma come può diventare ricca una popolazione strangolata a livello fiscale da una Regione che, al massimo, è in grado di riscuotere poco più del 60% delle tasse che impone?
L’alternativa alla capacità di impiego dei fondi europei, ordinari e di emergenza, richiederebbe capacità politiche che al momento non ci sono: la piena attuazione del federalismo fiscale, che attiverebbe gli automatismi del fondo di perequazione calcolato sulla differenza di gettito tra i territori.
Capitale economico e umano
Già: il problema vero della Calabria è la sua povertà endemica, che, unita alla costante decrescita demografica, ha creato un mix micidiale. I Comuni e gli utenti non “guadagnano” abbastanza, quindi non possono pagare a dovere i servizi regionali e la Regione, con poco meno di un miliardo di utili l’anno, deve tappare le falle.
La situazione ordinaria è questa. Il resto (cioè i finanziamenti promessi, in particolare quelli dell’estate appena trascorsa) è propaganda.
Ma il vero capitale che manca è quello umano: i Comuni, oberati anche da personale non sempre qualificato, non possono permettersi i progettisti per attingere ai fondi europei e la Regione è ancora lontana dall’avere le competenze necessarie per la piena informatizzazione dei servizi. Deve ancora “smaltire” il personale prodotto dal vecchio Concorsone del 2004 e i dirigenti diventati tali in seguito alle vecchie “verticalizzazioni”, prima di procedere a un turnover adeguato.
La situazione attuale
Il 2019 terminò con un “onore delle armi” all’amministrazione Oliverio, che riuscì a malapena a rattoppare qualche buco nella riscossione e, finalmente, a conteggiare quasi come si sarebbe dovuto (e come avrebbe dovuto anche lui nei primi quattro anni di mandato) i debiti e i crediti.
Ora c’è il rischio di un salto nel buio. E forse non sbaglia chi promette rivoluzioni alla Calabria: non c’è davvero quasi altro da fare.
Al posto della chiave inglese, il microfono e le cuffiette. Invece della rumorosa catena di montaggio, il silenzio della propria stanza. Così vivono la loro giornata gli operatori della Abramo Customer Care, le vocine anonime che spesso mandiamo a quel paese se rispondendo al telefono ci rendiamo conto che dall’altra parte c’è un call center. Da quando lo smart working ha sostituito le postazioni ricavate in cabine e scrivanie, tantissimi di loro lavorano confinati in casa, isolati dai propri colleghi.
In Calabria, Sicilia e a Roma 3mila sono i dipendenti di questa fabbrica immateriale. Team leader e operatori al netto percepiscono otto euro all’ora. Mentre le società committenti fatturano centinaia di milioni, i contratti part-time permettono ai lavoratori di portare a casa tra i 650 e i 950 euro mensili. Da ormai tanti giorni vivono in solitudine l’agonia dell’impresa di cui sono dipendenti.
Il 18 febbraio scorso, Heritage Venture Ltd Investment Company aveva manifestato disponibilità all’affitto del ramo d’azienda. Ma il 24 marzo comunicava al Tribunale di Roma e agli organi competenti di «non ritenere più valida ed effettiva l’offerta di affitto ponte d’urgenza». Il fondo irlandese precisava che «il trascorrere del tempo senza alcun riscontro e l’aggravarsi della situazione di mercato della Abramo rendono per noi non più proseguibile questa iniziativa». In seguito, s’era detto pronto ad acquistare la società all’asta che però il 22 luglio scorso è andata deserta.
Un digitale sfuggevole
Il cosiddetto terzo settore avanzato avrebbe dovuto rimpiazzare il sogno naufragato di insediamenti industriali che nella zona a nord di Cosenza non hanno mai attecchito. Qui è tangibile “lo sviluppo senza gioia”.
In Calabria, nella seconda metà del ‘900, l’illusione che poter impiantare fabbriche ovunque fosse possibile aveva seminato scheletri di incompiute e veleni industriali provenienti da altri territori, senza però redistribuire ricchezza tra la popolazione.
Negli ultimi decenni del secolo scorso, si è affermata la convinzione che un’economia basata sul digitale e sulla telematica potesse rimpiazzare il sogno tradito di importare al sud almeno una parte della produzione industriale italiana. Così migliaia di persone hanno potuto lasciare la propria famiglia d’origine per generarne una nuova, contrarre mutui, evitare l’emigrazione, prestando la propria opera in modalità intermittente, cioè “a chiamata”, all’interno di queste nuove promettenti imprese.
Oggi la crisi di aziende come Almaviva e Abramo certifica la fine di questa illusione. Tra i lavoratori di questo settore serpeggia un mix di timore e attesa. Raccontano storie di rassegnazione, ma anche di orgogliosa rivendicazione dei propri diritti. “Paternalista” è l’aggettivo ricorrente che spesso adottano per evidenziare l’atteggiamento del titolare dell’azienda, Gianni Abramo. Gli subentrò per quasi tre anni il fratello Sergio, sindaco di Catanzaro e di recente transitato nel partito “Coraggio Italia” di Giovanni Toti. Le redini dell’impresa tornarono interamente a Gianni nel 2016.
Tanti dei suoi dipendenti lo dipingono come un uomo disponibile ad aiutarli nei momenti difficili e ne esaltano la conduzione della Abramo CC con le modalità di una “grande famiglia”. Nei messaggi privati, qualcuno gli scrive che lo considerava “più di un padre”, riconoscendogli di aver sempre tenuto “alla sua azienda e ai suoi lavoratori più della sua vita”. Al tempo stesso, c’è chi segnala il rischio che in ogni famiglia persino il migliore dei padri possa divenire padrone.
Una causa tira l’altra
Sarà stato anche questo il motivo che ha spinto alcune operatrici a ribadire un principio elementare: ogni lavoro impone doveri, ma anche diritti. Ci sono storie di rara indignazione, come quelle di Concettina Pezzulli e Francesca Passarelli, che pur avendo maturato negli anni un rapporto di fedeltà nei confronti dell’azienda, a un certo punto si sono sentite costrette a chiedere l’intervento di un giudice.
Concettina ha gli occhi vispi e un dolcissimo volto che s’imperla di lacrime quando rievoca i momenti più aspri della propria vicenda. «Sono stata assunta nel 2007 – racconta – e già l’anno successivo mi hanno assegnato il compito di coordinare il lavoro di altri colleghi. La direzione mi ha anche affidato incarichi di alta responsabilità, come recarmi in Albania per la start up di un nuovo call center». Come spesso accade, i problemi per Concettina iniziarono quando decise di tesserarsi a un sindacato.
Concettina Pezzulli e Francesca Passarelli hanno intrapreso una battaglia legale contro Abramo Customer Care
«Nel marzo 2017 – prosegue l’operatrice – fui eletta RSU per la Uilcom. Già negli anni precedenti, quando avevo mansioni di coordinamento, non volli esercitare pressione sui collaboratori a progetto, che non avendo un rapporto di subordinazione non possono essere inquadrati in turni lavorativi. Nel 2018, a tutti gli altri team leader l’azienda propose un avanzamento di livello, promuovendoli al quarto. A me no! Anzi, fui demansionata, mi imposero di tornare in cuffia».
Così Concettina decise di fare causa. Il 7 luglio 2020 il giudice del Lavoro, Alessandro Vaccarella, le ha dato ragione, ordinandone l’inquadramento nel quinto livello. «È passato più di un anno – conclude la lavoratrice – ma l’azienda non ha ancora applicato la sentenza. Tutto ciò in me genera impotenza, frustrazione, crisi profonda. In tanti anni di lavoro, m’aspettavo un riconoscimento. Invece, ho ottenuto solo richiami verbali, richieste di rientro in presenza durante la pandemia. E tra i miei colleghi c’è stato pure chi mi ha consigliato di lasciare il sindacato».
Ostilità verso le mamme
Sulla scia di Concettina, anche la crotonese Francesca Passarelli ha deciso di ribellarsi. «Dopo essere tornata dalla maternità – racconta l’operatrice – ho avvertito un clima di totale ostilità nell’azienda, da parte dei superiori e persino dei colleghi. Due anni e mezzo di pressioni su di me, in molti casi documentate, finché non hanno messo in campo il demansionamento. Ti chiedono: “Ma vuoi proprio farlo l’allattamento? È preferibile non prendere astensione”. È così che inizia tutto. Se non rinunci ai tuoi diritti, la paghi. Se vuoi lavorare, crescere tuo figlio diventa insostenibile».
Così, anche Francesca si è rivolta a un legale. «Ho trovato la forza di rinchiudermi in un’aula di tribunale – prosegue Passarelli – per difendere con le unghie e con i denti la mia dignità di mamma. Il procedimento sta proseguendo, tra vari rinvii. Si è un po’ allungato anche a causa della pandemia, ma io sono fiduciosa. Credo molto nella giustizia”.
In caduta libera
La competizione spietata delle altre imprese che delocalizzano e abbattono i costi, la deregolamentazione nella gestione delle commesse Telecom, l’abbassamento qualitativo delle prestazioni in smart working dal primo lockdown in poi, l’assenza di un programma di rilancio. Sarebbero queste le principali cause visibili della crisi che ha investito l’intero settore in Calabria.
Per la Abramo CC il calo delle commesse sta comportando il collasso. Dalle 10mila chiamate giornaliere che nel 2019 gestiva per Telecom, si è scesi a 3mila. «Tim è certamente la commessa più solida e importante di Abramo – spiega Valeria Maria Tarasio, già team leader sulla commessa Vodafone -, ma negli ultimi anni anche il fatturato di Vodafone raggiungeva circa mezzo milione al mese, con 250 co.co.co che effettuavano chiamate in outbound».
«Peccato – continua Valeria Maria – che il committente non si sia più fidato della condizione precaria di Abramo in concordato. E a partire da gennaio ha ridotto i volumi gradualmente, fino alla chiusura totale al 15 settembre. Ci hanno rimesso il posto circa 250 operatori, di cui 150 della sede di Montalto, alcuni dei quali lavoravano su questa commessa da più di 10 anni. Purtroppo, trattandosi di lavoratori precari, nessuna clausola di salvaguardia sociale ha potuto salvarli. L’intero staff è al momento in attesa di conoscere la propria sorte».
Le attività sono transitate su altri partner di Vodafone, ma gli operatori di Abramo sono rimasti a spasso. Così non è andata, per esempio, con la commessa di HO mobile, assorbita a maggio da Transcom, operazione in cui sono state correttamente utilizzate le clausole sociali che hanno costretto Transcom ad aprire una sede a Rende e ad assorbire tutti i dipendenti operanti su questa commessa.
Invece, per gli operatori rimasti al servizio della Abramo CC, i guai non sono finiti. La crisi dell’azienda ha provocato scompensi per centinaia di famiglie. In passato i pagamenti sono stati sempre puntuali, ma nel 2020 la situazione è mutata. Lo stipendio di ottobre non è mai stato corrisposto. Nello stesso anno è saltato pure il 30 per cento della mensilità di settembre. E a fine annata la tredicesima è stata calcolata solo su due mesi di prestazione. Oggi la cassa integrazione oscilla tra una media di cinque giornate mensili per i team leader e un massimo di quindici, come nel caso degli operatori della sede di Catanzaro.
La Regione assente
I sindacati non hanno mai avuto vita facile in questo settore. L’anno scorso i confederali promossero un bizzarro sit-in domenicale davanti all’azienda, convocandolo soltanto la sera prima. Adesso lamentano la mancata consegna di un piano industriale, sebbene il nuovo direttore generale, Giovanni Orestano, lo avesse promesso nel marzo 2020. All’epoca si prospettava l’alternativa di un’espansione dell’azienda in settori diversi dalle telecomunicazioni, come quello assicurativo oppure nel finanziario. Ciò non è avvenuto.
«Fino ai primi mesi del 2019 tutto sembrava rose e fiori, nonostante una certa miopia nella gestione del personale e nelle scelte strategiche. Poi l’azienda Abramo ha iniziato la sua parabola discendente, motivandola con un notevole calo di volumi della Commessa Tim, che equivale al 70% del suo fatturato milionario annuo», raccontano gli operatori aderenti al sindacato Cobas. «A ogni inizio mese speriamo di non ricevere messaggi aziendali come successo a fine 2020, quando siamo stati informati del blocco dei pagamenti. Da qualche mese – proseguono i dipendenti – è attivo un tavolo di crisipresso ilMISE, alla presenza di tutti i soggetti possibilmente coinvolti, comprese le istituzioni locali e regionali».
«La Regione Calabria – proseguono – è l’unica che non ha mai partecipato ai tavoli convocati. Né con il suo presidente né con l’assessore o un membro della giunta regionale, né con un dirigente del settore Lavoro. E questo fa rabbia. Soprattutto sapendo che fra 20 giorni il consiglio regionale sarà rinnovato e questa gente verrà nuovamente rieletta. Crediamo sia necessario che le grandi aziende che fanno capo alla filiera vengano messe spalle al muro. Internalizzare i servizi di contact center – concludono i Cobas – è l’unica soluzione per poter fornire sicurezza occupazionale, salari dignitosi e inquadramenti contrattuali adeguati a tutti noi che ci troviamo periodicamente a fare i conti con i cambi d’appalto o con crisi aziendali di questo tipo».
Brutte nuove
Nelle ultime ore, due notizie hanno suscitato ulteriore sconforto tra i lavoratori. Non ha niente di incoraggiante l’annuncio “Vendesi” apparso on line sul capannone che da anni a Montalto ospita la Abramo CC, sebbene da più parti ci si affretti a segnalare che lo stabile è in vendita già da tempo per recuperare liquidità. Dal faccia a faccia tra i vertici dell’azienda e i rappresentanti sindacali, giovedì scorso, è emerso che si andrà verso l’amministrazione straordinaria, con udienza a Roma il 13 ottobre. E che Poste italiane pagherà direttamente gli stipendi fino al 1° dicembre, data di scadenza della commessa. Se qualche azienda deciderà di acquisire Tim, in blocco o per singola attività, tutti auspicano l’applicazione della clausola di salvaguardia sociale. Garantirebbe l’assorbimento dei dipendenti della Abramo CC.
Altrettanta preoccupazione ha scatenato un post, circolato nelle chat, che attesterebbe la volontà dell’azienda di costruire “un nuovo team per il sito sloveno” e verificare la disponibilità degli operatori a farne parte. I più ottimisti intravedono nell’annuncio la semplice possibilità che si aprano condizioni per lavorare oltre l’Adriatico. I critici sbuffano: «Mentre qua non si sa neanche se paga gli stipendi, all’estero apre nuove attività». Gli scettici sono sicuri che si tratti di fake news. Ma nella “società artificiale”, purtroppo, “ciò che deve accadere accade”.
Nella definizione degli incentivi per le Zes (zone economiche speciali) si è perso un sacco di tempo. La legge aveva individuato subito il credito di imposta sugli investimenti come attrattore delle imprese. Ci sono poi voluti due anni per stabilire che il meccanismo per l’assegnazione del credito di imposta poteva funzionare in modo automatico, senza passaggi di approvazione preventiva.
Qualche tempo in più è stato necessario per stabilire che anche le imprese di logistica erano destinatarie del credito di imposta, e quindi comprese nel perimetro dei soggetti che potevano beneficiare del pacchetto localizzativo delle ZES. Era una contraddizione in termini che da un lato si considerassero i porti e le aree logistiche come il cuore del sistema insediativo delle imprese, escludendo dall’altro il settore che doveva costituire la centralità dell’azione di politica industriale.
Semplificazione all’italiana
Sul nodo della semplificazione amministrativa, che costituisce in tutto il mondo uno degli assi fondamentali per la competitività delle ZES, sono stati spesi fiumi di inchiostro nel nostro Paese, senza riuscire a sfiorare per quasi quattro anni il tema in modo adeguato.
Solo con il Governo Draghi, a quattro anni dalla legge, si è giunti alla approvazione della autorizzazione unica per l’insediamento di una impresa. Nelle formulazioni precedenti, l’autorizzazione ZES si sovrapponeva a tutti gli altri procedimenti amministrativi esistenti (trentaquattro!), divenendo sostanzialmente uno strato aggiuntivo di cipolla, con una logica tipicamente nazionale di semplificazione: fare l’opposto del significato della pratica che si intende perseguire.
C’è la governance, non le azioni
Sulla governance si è egualmente perso un tempo spendibile in attività più produttive. La legge stabiliva che l’organismo di governo per ciascuna zona economica speciale era il comitato di indirizzo, con a capo il presidente della Autorità di Sistema portuale di riferimento e composto da rappresentanti del presidente del Consiglio e del ministro dei Trasporti.
Si erano appena insediati i comitati, quando la legge ha stabilito che ogni ZES avrebbe dovuto avere alla guida un commissario straordinario. Sinora solo la zona economica speciale calabrese si trova nella condizione di poter disporre di un assetto di governance completo.
Ma, ovviamente, disporre di un meccanismo di governo completo, non vuol dire di per sé riuscire ad indirizzare fenomeni economici complessi.
La legge istitutiva delle zone economiche speciali lascia alle Regioni la possibilità di emanare provvedimenti autonomi e specifici che siano in grado di rafforzare il pacchetto di attrazione per la localizzazione degli investimenti. Allo stato, non risulta alcuna azione messa in campo dalla regione calabrese.
Nella implementazione dei processo di attuazione, infine, siamo a carissimo amico.
Non solo economia
L’esperienza internazionale testimonia che non basta solo chiarezza nel pacchetto localizzativo per poter attrarre le imprese sui territori. A caratterizzare le esperienze di successo è stata la capacità di articolare un sistema di meccanismi e di misure non solo di carattere normativo ed economico, che pure sono indispensabili.
Serve una azione di marketing e di comunicazione capace di porre in evidenza tutte le qualità dei territori che non sono esplicite negli incentivi economici; la presenza di centri di ricerca all’avanguardia, le caratteristiche del capitale umano, la rete delle istituzioni con le quali si potrà collaborare.
La fase di attuazione richiede un concerto tra le istituzioni nei diversi livelli di governo, la collaborazione del sistema bancario e finanziario, un tessuto di regole certe nella giustizia capace di affermare la legalità, la collaborazione costante tra imprese ed Università.
Solo se si determina la convergenza degli strumenti di politica economica con lo strumento della zona economica speciale e se tutte le istituzioni lavorano in maniera coordinata, si possono allora conseguire risultati positivi. Altrimenti, avremo sprecato questa ennesima opportunità.
Oasi nel deserto
Per la Calabria, la zona economica speciale è ancora più cruciale che per il resto del Mezzogiorno. Il deserto industriale va popolato almeno con alcune oasi produttive che comincino ad essere fattori di inversione di tendenza, luoghi di sviluppo e di legalità, per dare opportunità ai giovani, per evitare lo spopolamento che prosegue da tempo, per alimentare la crescita del Porto di Gioia Tauro, che non può essere solo luogo di smistamento dei contenitori ma deve diventare anche una finestra logistica per il territorio calabrese.
Per poter evitare di sprecare questa ennesima opportunità, si tratterà di mettere a sistema la zona economica speciale di Gioia Tauro con il Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza. Solo se gli investimenti pubblici del PNRR che saranno previsti per la Calabria si incroceranno con il pacchetto localizzativo per l’attrazione del capitale internazionale potranno costruirsi le condizioni per far arretrare il deserto industriale che oggi soffoca ogni opportunità di sviluppo. Per questo serve un patto tra istituzioni, imprenditori, forze sociali. Ma soprattutto serve che la cappa di immobilismo va sradicata da una forte volontà di cambiamento.
Da quattro anni è stata approvata in Italia la norma primaria che ha istituito le zone economiche speciali nelle regioni meridionali del nostro Paese. La Calabria ne è parte integrante, con la ZES di Gioia Tauro. Il momento è opportuno per tracciare un primo bilancio, per capire quello che non ha funzionato e per indirizzare lo strumento esistente, con gli opportuni correttivi, verso un miglior funzionamento.
Le aspettative erano inizialmente molto elevate. Si introduceva in Italia uno strumento di politica economica che aveva determinato profondi processi di trasformazione in molte realtà economiche internazionali che, attraverso fiscalità di vantaggio e regole di semplificazione, avevano attratto consistenti investimenti manifatturieri tali da consentire a quei Paesi di entrare nelle catene globali del valore. Sono più di 5.500 le zone economiche speciali nel mondo. Questo numero dovrebbe farci comprendere che esiste una intensa competizione su scala globale tra territori per attrarre gli investimenti internazionali.
La logistica fondamentale
L’atteggiamento verso le zone economiche speciali in Italia è oscillato tra il messianismo e l’indifferenza. Per alcuni era una bacchetta magica capace di sovvertire l’arretratezza industriale, per altri non serviva assolutamente a nulla, erano solo chiacchiere di professori astratti.
Entrambi gli approcci ovviamente non erano funzionali ad un efficace processo di azione amministrativa. Sappiamo bene ormai che le riforme richiedono un lavoro certosino nelle tre fasi che sono fondamentali per il successo di una azione di politica economica: l’analisi delle finalità, la definizione degli strumenti, l’implementazione dei processi di attuazione.
Sulla definizione degli obiettivi, il legislatore aveva individuato una correlazione tra sviluppo industriale ed armatura logistica. In tutte le esperienze internazionali si era dimostrato che una delle ragioni di attrazione per gli investitori era stata la disponibilità di infrastrutture e servizi per la connettività di elevato livello qualitativo. La logistica, infatti, è diventata, nell’economia della globalizzazione, una delle chiavi fondamentali per la competitività dei territori.
Nella definizione degli obiettivi è mancata la capacità di calibrare correttamente la lettura dei territori. Il Mezzogiorno non è, ormai da tempo, una realtà omogenea. Comprende regioni che hanno avviato percorsi di nuova industrializzazione, come la Campania e la Puglia, ma anche altre realtà, come la Calabria, che sono purtroppo ancora in una trappola di desertificazione produttiva. Strumenti omogenei di politica economica per realtà disomogenee non sono destinati a determinare la stessa efficacia nei territori più deboli.
Per attrarre investimenti in Calabria occorre superare specifiche barriere all’entrata per il capitale nazionale ed internazionale. La qualità infrastrutturale del territorio, al di là del porto di Gioia Tauro, non è adeguata. Le interferenze ambientali della criminalità organizzata generano diffidenza e vischiosità che non sono certamente elementi attrattivi per gli investitori. Il tessuto dei servizi pubblici e privati non brilla certo per qualità. Occorre avere consapevolezza che non contano solo gli incentivi economici per entrare nella short list delle decisioni imprenditoriali. Occorre anche affrontare le debolezze strutturali che caratterizzano la realtà economica, sociale ed istituzionale della Calabria.
Il ruolo delle multinazionali
C’era anche un’altra questione che è rimasta in ombra nella analisi delle finalità delle zone economiche speciali. L’architettura del sistema industriale internazionale si era riorganizzata sulla base delle catena globali del valore, nella quali totalità dei casi guidate dalle grandi imprese multinazionali, che sono tornate ad occupare la scena centrale proprio per effetto della globalizzazione, ed anche grazie alle zone economiche speciali.
Fare i conti con questa geografia del potere economico è assolutamente indispensabile se si vogliono generare effetti moltiplicativi nel processo di attrazione degli investimenti. Le esperienze internazionali dimostrano infatti che uno dei fattori di successo delle zone economiche speciali consente nell’attirare soggetti multinazionali, che poi sono in grado di generare altre capacità attrattive.
Proprio per questa ragione diventa rilevante in modo decisivo il sistema delle regole amministrative e burocratiche con le quali si deve confrontare il mondo industriale. La semplificazione deve essere particolarmente efficace per poter generare effetti attrattivi per le imprese che devono realizzare investimenti significativi.
Ovviamente, questi meccanismi non si attivano automaticamente, ma richiedono specifici strumenti. Più che incentivi generalizzati a tutti gli operatori, per poter attrarre grandi multinazionali apparirebbe più opportuna una personalizzazione del pacchetto localizzativo mediante lo strumento del contratto di programma, entro un perimetro di compatibilità che può essere stabilito dalla legge.
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