Tag: economia

  • Dal clochard al parrucchiere, la città di vecchi e nuovi poveri

    Dal clochard al parrucchiere, la città di vecchi e nuovi poveri

    La povertà non si vede più. Nessuna illusione: non è stata sconfitta, si è solo trasformata, anche a Cosenza. Mettete da parte lo storpio davanti alla chiesa e la bambina rom con la mano protesa al semaforo. Queste figure continuano ad esistere, ma “il presepe della miseria” oggi conosce nuovi protagonisti, impensabili fino a ieri.  Se volete scoprire cosa accomuna lo straniero che attende una moneta all’ingresso del supermercato alla signora che si accorge di non poter fare la spesa, dovete domandarlo a chi nella trincea delle vecchie e nuove povertà ci sta da parecchio.

    Suor Floriana in prima linea contro il disagio

    Suor Floriana, per esempio, monaca da prima linea contro le forme di disagio che da sempre esistono nella perifericità urbana e sociale della città vecchia. Il suo quartier generale è lo Spirito Santo, zona del centro storico di confine tra vecchi e nuovi bisogni sociali. «Qui troviamo condizioni diverse, microcriminalità, famiglie con congiunti costretti ai domiciliari, oppure detenuti. Tutti contesti di sofferenza e fragilità», spiega suor Floriana. Da qui parte la sua opera di soccorso dei marginali, conoscendo le singole storie accomunate da una sorte di fatica umana. «Dal 2015 nel centro storico si sono spostate molte famiglie rom», continua suor Floriana spiegando che «pagano un fitto per le case che occupano, ma quasi mai alle persone che sono proprietarie degli appartamenti». Infatti quelle case sono state abbandonate dai proprietari e a governare questo fenomeno sono individui che non operano proprio nella legalità.

    Rione di antico degrado

    La frontiera di questa città dolente è ancora Santa Lucia, rione di antico degrado umano, per il quale in passato la vecchia amministrazione aveva annunciato il risanamento grazie a fondi che mai si sono visti. «Qui l’intervento è a tutto campo, dal doposcuola per i bambini, all’assistenza di vario genere rivolta a persone che pur essendo cittadini comunitari, non godono di alcun diritto», spiega ancora la suora, parlando di una schiera di invisibili per le istituzioni che diventano automaticamente indesiderabili per il resto della comunità.

    Crolli e macerie a Santa Lucia, nel centro storico di Cosenza
    Il parrucchiere, il negozio chiuso e il mutuo da pagare

    Ma nemmeno gli “italiani” si salvano, la miseria risucchia pure chi fino a ieri si considerava in salvo. «La vita era quella di prima, non questa» sussurra Anselmo, un parrucchiere la cui quotidianità prima del lockdown era promettente: una discreta clientela, un mutuo per una casa, un orizzonte tutt’altro che cupo. Poi l’imprevedibilità dell’epidemia, il negozio chiuso, il fitto e il mutuo da pagare e l’esaurirsi rapido dei risparmi. Così si è varcato quel confine sottile tra un relativo benessere e lo scivoloso declivio dell’inattesa povertà.  Di qui alla necessità di trovare il coraggio di rivolgersi alle associazioni per avere un sostegno. «Non immaginavo sarebbe mai successo e invece mi sono trovato obbligato a chiedere aiuto e non è stato facile». Non facile, ma inevitabile per Anselmo che ora va a casa delle signore a fare loro le acconciature e da qui prova a ripartire.

    Sergio Crocco: pasti portati pure nei quartieri borghesi

    «Quelli che si vergognano maggiormente sono quelli che non immaginavano di diventare poveri, gli altri sono abituati a chiedere aiuto», spiega Sergio Crocco, punto di riferimento della Terra di Piero, nota associazione cittadina impegnata sui vari fronti del bisogno sociale. Oggi la geografia dell’emergenza povertà si è allargata dalle periferie fino a quelle strade dove le luci del benessere sembravano destinate a non spegnersi mai.
    Sergio Crocco racconta che con i volontari della Terra di Piero nel corso del lockdown ha portato centinaia di pasti ogni sera a chi ne faceva richiesta, dai luoghi storici dell’emergenza economica, fino ai quartieri borghesi.

    Sergio Crocco, presidente e fondatore de La Terra di Piero
    Le istituzioni assenti

    Il rapporto con le istituzioni fin qui è stato vano. «Alessandra De Rosa, esponente dell’amministrazione Occhiuto, è spesso venuta da noi, mostrando sincero coinvolgimento personale – prosegue Crocco – ma mai il suo impegno si è potuto trasformare in intervento reale a causa della mancanza di risorse destinate al bisogno delle persone». Dentro questa mappa della disperazione ci sono gli ultimi tra gli ultimi, quelli che dormono sotto i ponti, quello di Calatrava per l’esattezza. «Sono circa una quarantina di stranieri, che trovano rifugio lì sotto, nell’assoluta indifferenza dei Servizi sociali», continua Crocco rammentando che «quando c’era padre Fedele, di gente che dormiva per strada non ce n’era».

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    Un rifugio di fortuna costruito da un clochard sotto il ponte di Calatrava nell’estate del 2021
    Il nemico si chiama pure povertà educativa

    Alla miseria materiale corrisponde quella immateriale. Si chiama povertà educativa. Riguarda non solo l’assenza di opportunità culturali, ma anche di consapevolezza dei diritti di cittadinanza. Giorgio Marcello, sociologo dell’Unical, impegnato da tempo su questo fronte, spiega che è qui che maggiormente si consuma l’ingiustizia sociale. «Il contesto familiare, la mancanza di opportunità culturali, segnano le nuove generazioni», dice il sociologo, confermando che le aree maggiormente deprivate di tali opportunità restano quelle periferiche dell’area urbana. Contro questo nemico sono stati messi in campo interventi delle associazioni di volontariato, «ma la diffusione del tempo pieno a scuola sarebbe lo strumento di maggiore efficacia contro l’impoverimento culturale», spiega il sociologo aggiungendo che «questo comporta una politica educativa, mentre i processi di scolarizzazione sono stati considerati residuali». L’impoverimento della città è un nemico difficile da battere a mani nude, servono strategie e risorse.

  • Terme Luigiane, il Tar boccia i due Comuni: atti illegittimi

    Terme Luigiane, il Tar boccia i due Comuni: atti illegittimi

    Il Tar Calabria mette il primo punto fermo su quel gran pasticcio delle Terme Luigiane accogliendo il ricorso presentato dalla società Sateca contro le Amministrazioni comunali di Guardia Piemontese e Acquappesa.
    Dunque secondo il Tribunale amministrativo i Comuni «hanno impedito a Sateca l’esercizio del diritto previsto dalla clausola dell’accordo del 2019 e la prosecuzione dell’attività fino al subentro del nuovo sub-concessionario». Pertanto, «sono senz’altro illegittimi gli atti di esercizio del potere di autotutela pubblicistica posti in essere dai Comuni».

    Fin qui l’avvocatesca interpretazione dell’arcinota vicenda che ha visto contrapposte la società Sateca e i Comuni di Guardia e Acquappesa. L’ennesimo scandalo calabrese su cui si è giocata la solita partita a perdere tra personaggi politici schierati su fronti opposti ma accomunati tutti dalla fallimentare gestione del dossier “Terme Luigiane”.

    La stagione saltata

    Ma mettiamo sul piatto qualche cifra, dal momento che questa vicenda ha avuto conseguenze ben più sostanziose di un chiacchiericcio politico. L’impasse generata dal mancato accordo ha fatto saltare la stagione termale ed ha lasciato sul lastrico i 250 lavoratori dello stabilimento termale. E non è possibile quantificare con precisione quante prestazioni socio-sanitarie e servizi termali sono stati cancellati, quanti turisti sono stati indotti a cambiare destinazione e a quanto ammonta il danno prodotto agli oltre mille lavoratori dell’indotto che ruota attorno alle Terme Luigiane. Altrimenti, dati alla mano, avremmo la fotografia di un collasso socio-economico di proporzioni gigantesche.

    Le responsabilità di sindaci e Regione

    Un dato certo è che, di questo pasticciaccio, la politica porta un pezzo importante di responsabilità. I sindaci dei comuni di Guardia Piemontese ed Acquappesa, anzitutto, per avere pervicacemente, di fatto, provocato uno stallo nella vertenza certificato dalla fallimentare gestione della gara indetta per individuare il nuovo gestore dello stabilimento che non a caso è andata deserta. Un fallimento politico-amministrativo certificato adesso dalla pronuncia del Tar.

    Non meno grave è la responsabilità della Regione, proprietaria del solo sfruttamento delle acque termali (legge 40/2009) che non ha voluto – o non ha saputo – creare le condizioni affinché dal 2016, anno di scadenza della subconcessione, potesse essere messo a bando lo sfruttamento delle acque termali, eventualmente anche revocando la concessione ai Comuni alla luce delle continue inadempienze rispetto a scadenze e cronoprogrammi.

    Un voto in controtendenza

    Una disfatta su tutta la linea: le Terme Luigiane sono diventate l’emblema di una politica compiacente, inadeguata e irresponsabile che provoca danni, cancella posti di lavoro e non si preoccupa di rispondere del proprio operato.
    Per una degna conclusione di questa brutta storia, torniamo alle ultime Amministrative di ottobre. Perché nonostante tutto quello che è accaduto e il ruolo svolto nell’affaire delle Terme, il sindaco uscente di Guardia Piemontese, Vincenzo Rocchetti, si ricandida e viene rieletto a pieni voti.

  • L’Università della Calabria fatica a guardare oltre se stessa

    L’Università della Calabria fatica a guardare oltre se stessa

    Tra qualche mese saranno passati cinquanta anni dalla decisione di istituire l’Unical,  l’Università della Calabria. Mezzo secolo è un tempo più che congruo per fare il punto sulle modalità con le quali si è determinato il rapporto tra territorio e cultura accademica. Ne parliamo con Alessandro Bianchi, ministro dei Trasporti nel secondo governo Prodi e, dal 1999 al 2006, rettore dell’Università Mediterranea, istituzione con una storia di ormai quaranta anni.

    Era il 1972, e qualcuno fece una scommessa: Beniamino Andreatta e Paolo Sylos-Labini crearono, ad Arcavacata di Rende (ai confini di Cosenza), l’Università della Calabria, che nel 2019 ha conquistato il secondo posto, dopo Perugia, nella graduatoria stilata dal Censis dei grandi atenei statali italiani (da 20 mila a 40 mila iscritti). La valutazione ha riguardato i servizi, le strutture, le borse di studio offerte agli studenti, la comunicazione e l’internalizzazione.

    Da allora le università calabresi si sono ritagliate isole d’eccellenza nelle discipline del futuro, come l’Intelligenza Artificiale, ma non sono riuscite, almeno sinora, a generare una ricaduta positiva sul territorio. Nella società contemporanea, che è sempre poi guidata dalla conoscenza e dai saperi, i legami tra società locale ed istituzioni universitarie sarebbero preziosi per innescare processi di sviluppo: nell’economia per promuovere imprenditorialità ed innovazione, nella società per orientare la discussione culturale e la consapevolezza dei cittadini. Cerchiamo di capire perché non si è saldata la cultura accademica prodotta dalle Università con il territorio calabrese. L’opinione di Alessandro Bianchi è preziosa per la sua esperienza diretta alla direzione della Università Mediterranea.

    Attraverso quali strumenti le Università calabresi hanno interagito con i diversi stakeholders del territorio (politica, industria, società civile, associazioni)?

    «In generale direi che l’interazione è stata molto marginale sia con il mondo produttivo che con la società civile, e le ricadute sul funzionamento delle Università di modesta consistenza. Un caso a parte quanto riguarda il versante della politica, ma solo perché le interazioni sono state indispensabili con le amministrazioni locali, in particolare quelle comunali, perché legate alla realizzazione delle nuove sedi che per tutte e tre le Università hanno comportato lavori complessi e di lunga durata.

    Un rapporto che poco a che fare con quello che dovrebbe essere un legame strutturale tra Università e Territorio che, a mio parere, non si è mai costruito per una duplice responsabilità: delle Università, che hanno teso a rinchiudersi nei loro confini culturali e disciplinari; e della Regione, che non ha mai considerato l’Università un interlocutore a tutto campo, un soggetto con il quale condividere le scelte di politica economica, sociale e territoriale».

    Quali sono i punti di forza e di debolezza che l’Unical ha espresso nel corso della sua decennale esperienza?

    «L’esperienza è stata molto più che decennale soprattutto per UNICAL e Università Mediterranea che nascono nei primi anni Settanta. Per UNICAL il punto di forza è sempre stato quello contrassegnato dal suo stesso atto di nascita: un’apposita legge istitutiva, il requisito statutario della residenzialità, una sede appositamente costruita, finanziamenti cospicui per le diverse attività, un corpo docente fondativo di alta qualità. Poi su questa solida condizione di partenza ha saputo costruito una ricerca e una didattica di alto livello, come viene riconosciuto ormai da molti anni a livello nazionale.

    Il punto di maggiore debolezza è stato nell’atteggiamento di distacco tenuto nei confronti delle altre realtà universitarie che nel tempo sono nate, quasi che queste nascite rappresentassero un delitto di lesa maestà. Questa è una delle ragioni principali della mancata costruzione di un sistema universitario regionale.

    E quelli della Mediterranea?

    La Mediterranea ha vissuto una vicenda completamente diversa, molto controversa fin dalla nascita (la legge istitutiva della UNICAL diceva che doveva essere l’unica Università in Calabria): è stata avviata come semplice Istituto Universitario di Architettura ed ha avuto per lungo tempo sedi molto precarie e scarsi finanziamenti. Tuttavia ha saputo emergere progressivamente grazie all’azione esercitata da tre rettori che si sono susseguiti dai primi anni Settanta fino a metà degli anni Duemila.

    Antonio Quistelli, che anche grazie al supporto di una personalità insigne come Ludovico Quaroni, ha saputo attrarre a Reggio Calabria una moltitudine di docenti di grande prestigio soprattutto nelle aree scientifiche dell’architettura, della storia e dell’urbanistica, che per molti anni hanno fatto acquisire una posizione di primo piano alla Facoltà di Architettura. Rosario Pietropaolo che ha svolto un lavoro analogo per la Facoltà di Ingegneria e che ha saputo portare a compimento, superando difficoltà di ogni genere, la realizzazione della nuova sede universitaria.

    Il sottoscritto, che si è giovato del solido retroterra costruito dai suoi predecessori per proiettare l’Università in una dimensione nazionale e internazionale giocando sul rapporto con l’area mediterranea (a cominciare dalla denominazione Mediterranea da me introdotta). È stata una scelta vincente, testimoniata dalla rete di relazioni con molte delle principali università della Riva Sud oltre che della Spagna e della Francia, e dalla continua presenza nelle sue iniziative scientifiche e culturali di personalità del calibro di Asor Rosa, Umberto Eco, Gustavo Zagrebelski, Gil Aluja, Francesco Rosi, Bernardo Secchi, per citare quelli di maggiore spicco. Non a caso il punto di debolezza della Mediterranea è stato l’aver abbandonato quella dimensione e quella tensione culturale, il che l’ha riportata nel ristretto di una dimensione locale».

    Perché le forze della cultura non sono state in grado di far maturare un capitale di legalità indispensabile per la modernizzazione della Calabria?

    «Credo che le ragioni vadano trovate nel fatto che le forze della cultura esterne all’Università, pur potendo annoverare punte prestigiose, sono poche e molto fragili, mentre quelle presenti all’interno delle Università hanno preferito rimanere chiuse nei loro fortilizi al riparo dalla pervasività del mondo illegale che ha continuato ad essere dominante nella società calabrese.

    La dimostrazione che un diverso comportamento avrebbe potuto cambiare le cose è rappresentato dal fenomeno Progetto Calabrie, una associazione nata dalla convergenza di un pugno di docenti dell’Unical e della Mediterranea, che puntò ad assumere la guida della Regione con una proposta innovativa sulla quale raccolse consensi vasti e diffusi. Ma la politica ufficiale avvertì il pericolo e oppose una resistenza intransigente, sicché il progetto naufragò».

    Quali sono le azioni che devono essere poste in campo per rivitalizzare il patrimonio culturale delle Università calabresi in rapporto con il territorio?

    «A questa domanda non so rispondere perché per farlo bisogna essere all’interno e al governo delle strutture universitarie per fare scelte comunque non facili anche perché il cosiddetto territorio non mostra grande attenzione per le Università. Certamente non lo mostra la Regione; in misura maggiore lo fanno singoli Comuni, ma sempre con rapporti episodici e di scarsa consistenza».

    Avrebbe senso costruire una rete delle Università meridionali per rilanciare un pensiero e una cultura meridionalista?

    «Avrebbe certamente un senso ma direi di più, direi che è una necessità stringente anzitutto per equilibrare i rapporti con le Università del Centro-Nord, oggi totalmente sbilanciati a favore di queste ultime. Da lì si potrebbe partire per affermare un pensiero e una cultura meridionalista.
    Ma sul punto sono del tutto pessimista perché non vedo un solo segnale in quella direzione, mentre ne vedo molti in quella opposta della difesa dei propri localistici interessi».

    Cosa potrebbero fare le Università calabresi per sostenere gli sforzi del PNRR?

    «Nella situazione attuale assolutamente nulla. Si sarebbero dovute fare avanti già da molto tempo, ora i giochi sono in fase avanzata e non ci sono spazi per azioni significative. Né, bisogna dirlo, qualcuno dal centro ha chiesto un qualche coinvolgimento delle Università calabresi. Possiamo solo auspicare un loro coinvolgimento nella fase attuativa dei progetti, ma anche questo dipende dai comportamenti che assumerà la Regione».

    Quanto ha pesato e pesa il deficit infrastrutturale anche per lo sviluppo della cultura e delle Università in Calabria?

    «Ha pesato moltissimo nel periodo a partire dal dopoguerra e fino alla prima metà degli anni Duemila, durante il quale la carenza di infrastrutture e dei connessi servizi ha reso difficoltosa la mobilità verso l’esterno e all’interno dell’intero territorio calabrese, che per questo aspetto ha rappresentato un caso estremo anche rispetto al resto del Mezzogiorno. Di questo le Università hanno certamente risentito in modo negativo. Negli anni più vicini la situazione è in qualche misura migliorata (penso al completamento della infinita Salerno-Reggio Calabria) ma le carenze restano enormi.

    Che dire dei cinquanta anni trascorsi senza dare soluzione adeguate al porto di Gioia Tauro? O al collegamento ferroviario Lamezia-Catanzaro? O all’aeroporto di Crotone? O all’attraversamento (non al Ponte) dello Stretto? O alle autostrade del mare? O, più di recente, alle reti di connessione telematica? Il punto è che una attenzione e una progettualità per il territorio calabrese non esiste a livello centrale a motivo della prevalenza della questione settentrionale, né a livello regionale per la inadeguatezza della classe politica».

  • BOTTEGHE OSCURE | Chiuso un “Tanninu” si apre una Legnochimica

    BOTTEGHE OSCURE | Chiuso un “Tanninu” si apre una Legnochimica

    Sono due i ricordi che la maggior parte dei cosentini di una certa età collega alla parola tanninu”. Il primo è la grande vasca d’acqua nella quale venivano raccolti gli scarti di lavorazione, ma che i ragazzi dei quartieri di Casali, Massa, Garruba, Spirito Santo utilizzavano per fare il bagno e fronteggiare la calura estiva. C’è persino chi in quella vasca imparò a nuotare.

    Cosenza, 1949. In basso a destra gli scivoli tra la stazione e la fabbrica (foto Stenio Vuono)

    Il secondo ricordo riguarda il suono deciso della sirena che scandiva i turni di lavoro dello stabilimento. Inevitabilmente, finiva per segnare i ritmi della vita quotidiana nei quartieri al di qua e al di là del fiume Crati. La sirena prima di andare a scuola, la sirena di mezzogiorno per “calare la pasta” e così via.

    La parola “tannino” si ricollega invece con una certa difficoltà al disastro ambientale connesso alla ex Legnochimica di Rende. Lì dove “u tanninu” si era spostato negli anni ’70 seguendo l’espansione a nord della città.

    “U tanninu”, ieri fiore all’occhiello oggi solo degrado

    Ma cos’era “u tanninu”? Oggi esempio eccezionale di archeologia industriale – da decenni nel degrado più totale – con i suoi capannoni che ricordano una cattedrale in rovina e la sua alta ciminiera in mattoni che reca ancora la data 1906. Rappresentò fino al 1970 circa una delle punte di diamante dell’industria locale, sia per quanto concerne i livelli di produzione sia per il numero di operai impiegati.

    L’interno del tannino trasformato in segheria (foto Mario Magnelli)

     

    Il liquido utilizzato per conciare le pelli

    Il nome richiama l’acido tannico che vi veniva prodotto attraverso un procedimento di estrazione dal legno di castagno, che ne contiene in natura una quantità significativa. Il legno veniva essiccato e, dopo diversi passaggi, era possibile estrarne il tannino. Poi veniva commercializzato inizialmente allo stato liquido all’interno di botti in legno e, successivamente, in polvere dentro appositi sacchi. Il tannino estratto veniva usato soprattutto nell’attività di concia delle pelli per la realizzazione di oggetti in cuoio e restò un elemento essenziale per il settore artigianale finché non si riuscì a sintetizzarlo chimicamente. 

    La vecchia fornace (foto Dalena Mmasciata 2016)
    Le cataste dei tronchi e la ferrovia

    A dispetto della marginalità odierna la posizione della fabbrica di Casali era fortemente strategica. Proprio a monte dello stabilimento era posta la stazione delle ferrovie Calabro-Lucane di Cosenza-Casali e questo garantiva l’approvvigionamento quasi sul posto della materia prima. I tronchi di castagno venivano trasportati tramite treni-merci e scaricati alla stazione di Casali. Da qui, attraverso un apposito sistema di scivoli, era possibile indirizzarli direttamente nel piazzale della vicina fabbrica.

    Per chi arrivava in zona, insomma, le alte cataste di tronchi di castagno disposte nei pressi della struttura erano, al pari della ciminiera, parte integrante del paesaggio. Ma non solo. Attorno alla fabbrica del tannino ruotava un significativo indotto. Col tempo sorsero nelle vicinanze anche delle case per gli operai e, tramite la ferrovia, la manodopera affluiva da numerose località del circondario. Tutto ciò era affidato alle cure della famiglia Merola, di origini francesi, giunta a Cosenza appositamente per gestire il tanninificio. 

    “U tanninu” diventa Legnochimica

    La società “TANCAL, Tannini di Calabria”, derivata dalla società francese “Rej et Fils” e che diede avvio alla produzione nel 1906, restò attiva fino agli anni ’50 con una significativa capacità produttiva raggiungendo le 2000 tonnellate annue di estratto. Nel 1954 venne ceduta alla società “LEDOGA” e così continuò a lavorare fino alla fine degli anni ’60, quando intervenne la chiusura dello stabilimento.

    La vecchia ciminiera con la data di costruzione della fabbrica

    La società ambiva ormai a realizzare una moderna struttura a Rende, che impiegasse moderni metodi di produzione e radunasse in essa più strutture in un nuovo assetto societario. Nasceva così la Legnochimica. Dopo il trasferimento dello stabilimento nella zona industriale di Rende, l’enorme struttura posta tra Casali e il fiume Crati venne utilizzata in parte come sede di una azienda di comunicazioni, e in parte come segheria e deposito di materiali di vario genere ancora per alcuni decenni. Oggi versa in uno stato di più completo abbandono.

    Le segherie in Sila

    All’alba del Novecento l’industria forestale era tra le più floride nella provincia di Cosenza, potendo contare su una serie di segherie in Sila che sorgevano in baracconi posti lungo le rotabili e che dalla primavera all’autunno lavoravano a pieno regime. I boscaioli o “mannesi” – forse per via della “mannaia” adoperata – erano addetti all’abbattimento e alla squadratura del legname che veniva accatastato e – prima dell’avvento della ferrovia – trasportato a Cosenza con traini tirati da muli. All’epoca circa il 25% dell’intero territorio provinciale (oltre 660mila ettari) era coperto da boschi. Il castagno faceva da padrone con oltre 14mila ettari che assicuravano una resa di circa 15quintali per ettaro e facevano balzare la provincia di Cosenza al secondo posto in Italia dopo quella di Genova. Ma dal 1906 buona parte del legno di castagno proveniente dal versante cosentino della Sila cominciò a essere assorbita dalla nascente industria estrattiva.

    Tannins di Cosenza

    Tannino si chiamava l’acida molecola che strappava il legname alle foreste silane dando il nome a una fabbrica, lavoro alle genti e pane alli Casali. Il 23 novembre 1906 Agostino Imard le directeur della pregiata Société Nouvelle de Tannins della “Rej et Fils” con sede a Marsiglia presentò alla Prefettura di Cosenza l’incartamento per la registrazione del marchio. Il fondo “Marchi e Modelli” dell’Archivio Centrale dello Stato di Roma ci permette di conoscere la descrizione del logo originale. Un logo che campeggiava sulle prime etichette appiccicate sulle confezioni di estratti di materie tannanti e coloranti: «Impronta costituita da due triangoli equilateri incrociati in modo da formare una stella a sei punte, nel cui mezzo spiccano le iniziali S. N. T. Completa il marchio l’iscrizione intorno Société Nouvelle de Tannins Estraits de Cosenza».

    Registrazione marchio Société Nouvelle de Tannins Estraits de Cosenza_1906 (Foto @Archivio Centrale dello Stato)

     

    Il secondo opificio a San Vincenzo La Costa

    Nei primi anni di attività l’opificio francese di Casali si dimostrò capace di lavorare oltre 15mila metri cubi di legname all’anno. Le grandi potenzialità del legno di castagno a fini estrattivi furono sfruttate dalla Società Italiana per l’Acido Tannico. Nel 1907 decise d’impiantare a Gesuiti di San Vincenzo La Costa un secondo grande opificio, capace di trasformare 5mila metri cubi di legname all’anno.

    Brucia la fabbrica

    «Violentissimo incendio a Cosenza» titolava L’Avanti il 9 settembre 1914. Nel grande opificio francese il rischio d’incendi era all’ordine del giorno. A causa della disattenzione di qualche operaio il giorno prima era andata a fuoco l’intera officina per la fabbricazione delle botti nelle quali veniva conservato l’acido tannico destinato all’esportazione. Le fiamme divamparono inghiottendo buona parte della struttura e i vigili del fuoco e la truppa impiegarono diverse ore prima di estinguerle. L’episodio provocò la chiusura dello stabilimento per alcune settimane, la mobilitazione e il ritorno in patria di tutti gli operai di nazionalità francese.

    Gli stessi che per mezzo di una propria rappresentanza si dissero preoccupati per le condizioni di lavoro nell’opificio cosentino. A stretto contatto con estratti e coloranti nocivi per la salute, e quasi sempre senza alcuna forma di cautela e tutela, presto la maggior parte degli operai francesi chiese il trasferimento a Marsiglia anche se una rappresentanza transalpina continuò a esistere fra gli estrattori almeno fino a tutti gli anni ’30. 

    Le zanzare killer del Crati

    Ma i veri nemici degli operai del tannino, come di quelli che sulla sponda opposta del Crati erano addetti alla colorazione chimica delle “cementine” sfornate nella Mancuso&Ferro, erano le zanzare. Il rione Casali, con l’opificio francese che sorgeva a pochi passi dalla ferrovia, si trovava in piena “zona malarica”. Spinti dal vento e dalla necessità di trovare nutrimento, gli anofeli portatori della “dea febbre” infestavano le numerose pozze d’acqua stagnante e lurida, prodotto delle lavorazioni industriali.

    I lavoratori contraevano il “mal d’aere” e spesso ne morivano. Per effetto della legge del 19 maggio 1904 ogni titolare di opificio era stato obbligato alla somministrazione del chinino di Stato all’interno della propria fabbrica. A fine epidemia ciascun imprenditore sarebbe stato indennizzato dal Comune – e quest’ultimo dallo Stato – della cifra investita nell’acquisto di dosi del prezioso farmaco. A gestire per molto tempo la chinizzazione per bocca degli operai a scopo preventivo fu il dottor Antonio Rodi, direttore del dispensario di Caricchio. 

    L’operaio francese che giocava bene a calcio

    Tra gli operai impiegati nella catena estrattiva dell’acido tannico dal legno di castagno nell’opificio di Casali c’era un francesino che giocava bene al calcio e che di lì a poco avrebbe fatto parlare di sé. Si chiamava Ettore Chenet e proveniva da Prato. Incerte le sue origini, introvabile la fotografia. Francesco Magnini in Bandiera biancazzurra scrive: «Determinante alle spalle delle punte la tecnica di Ettore Chenet, un nome da opera pucciniana. Di questo centrocampista non è rimasta certa la provenienza e nemmeno il destino. Pare fosse di passaporto francese ma di lui raccontano fosse rimasto in città come meccanico dopo aver svolto il servizio militare a Prato (alquanto strano per un francese)». Chenet giunse a Cosenza nella seconda metà degli anni ’20 e, forse con un contatto già in tasca, trovò subito impiego nell’opificio francese.

    Di mattina al Tanninu, nel pomeriggio in campo

    Di mattina in fabbrica e di pomeriggio a sciorinare dribbling su uno di quegli sterrati ai margini della città di allora, quando l’“Emilio Morrone” era ancora un sogno. Crepas, Recanatini, Fresia, Solbaro, Chenet… erano i “pilastri” della formazione del Cosenza Football Club che il 27 novembre 1927 pareggiò con il risultato di 1-1 con il Dopolavoro di Taranto. Pur non entrando nell’azione del momentaneo vantaggio bruzio siglato da «Recanatini su passaggio di Fresia che fece riposare la palla nell’angolo sinistro» il ragazzo, che partita dopo partita si era guadagnato i gradi di capitano, si distinse per «piedi buoni e intelletto da vendere».

    La fabbrica dove si produceva il tannino come si presenta oggi
    Il crollo delle commesse e la fine del Tanninu

    Proprio al tempo in cui l’operaio Chenet custodiva le chiavi del centrocampo bruzio il tanninificio di Casali realizzò il proprio record di produzione: 5 mila metri cubi al mese! Ma nel 1932 a causa del crollo delle commesse e delle mancate esportazioni negli Stati Uniti d’America dovute alla sostituzione del tannino con altri preparati chimici, la produzione si era già drasticamente ridotta segnando praticamente l’inizio della fine del glorioso opificio bruzio. 

  • Imprese e Calabria, le ragioni della crisi di competitività

    Imprese e Calabria, le ragioni della crisi di competitività

    Il censimento industriale 2019  condotto dall’Istat in tutte le Regioni d’Italia mette a disposizione degli osservatori e dei decisori una radiografia produttiva dei territori prima della pandemia. Attraverso questi dati, possono essere messi in evidenza punti di forza e punti di debolezza dell’economia industriale nel nostro Paese.

    Prevalenza delle microimprese, deindustrializzazione, terziarizzazione commerciale, assetto proprietario e gestionale di carattere marcatamente familiare, scarsa attenzione alla internazionalizzazione e sottocapitalizzazione delle aziende costituiscono gli elementi dominanti che emergono dalla lettura dei dati espressi dal censimento industriale in Calabria al 2018.

    Troppo piccole per sfidare il mercato

    La distribuzione dimensionale delle imprese registra in Calabria una più marcata presenza delle micro e piccole imprese rispetto all’Italia. Circa l’87% delle aziende rientrano nella categoria delle microimprese (con 3-9 addetti). Le piccole (10-49 addetti) rappresentano il 12,2% del totale regionale.
    Le medie (50- 249 addetti) e le grandi imprese (250 e più addetti) sono costituite complessivamente solo da 255 unità, ossia circa l’1,2% del totale regionale. Il peso delle medie e grandi imprese a livello nazionale è pari al doppio rispetto alla Calabria, vale a dire il 2,3%.

    Micro_imprese

    Le caratteristiche della competizione internazionale si sono orientate verso la formazione delle catene globali del valore. Queste mettono le microimprese nella condizione di essere meno adeguate alla logica di sviluppo dei mercati, guidati dalle multinazionali capaci di innovare e di guidare il processo di accumulazione della ricchezza.

    La presenza di una struttura industriale fortemente frammentata è ancora più evidente se leggiamo le informazioni sul mercato del lavoro. Oltre il 50% degli addetti regionali calabresi lavorano in microimprese (a livello nazionale lo fa il 29,5%) e oltre il 28% nelle piccole imprese. Medie e grandi aziende impiegano quasi il 22% degli addetti complessivi regionali. La corrispondente quota a livello nazionale supera il 44%, un valore più che doppio.

    Prevalgono le imprese di servizi

    La struttura produttiva calabrese è sempre più caratterizzata da una forte prevalenza delle imprese di servizi rispetto a quelle industriali. Sono attive nel settore industriale più del 25% delle aziende, contro il circa 30% misurato a livello a nazionale. Il processo di terziarizzazione appare uniformemente avanzato in tutte le province del territorio regionale. La percentuale di imprese di servizi varia dal 73,8% di Cosenza e Catanzaro al 76,8% di Reggio Calabria.

    Le imprese di servizi sono circa 15.500 e rappresentano quasi i due terzi del totale regionale. Circa il 44% è costituito da aziende attive nel commercio all’ingrosso e al dettaglio. Il restante 56% è rappresentato da imprese che offrono servizi non commerciali. Le imprese attive nell’offerta di servizi di alloggio e ristorazione rappresentano oltre un quinto delle aziende di servizi.

    La crisi delle costruzioni e il crollo degli addetti

    Rispetto al 2011 la numerosità delle imprese calabresi è pressoché rimasta invariata, con una lievissima diminuzione dello 0,6%. Tale riduzione, inferiore a quella registrata complessivamente in Italia (-1,3%), è dovuta ad una compensazione tra una forte contrazione del comparto industriale (-23,6% nel complesso, e in particolare 32,2% nel settore delle costruzioni) rispetto ad un incremento osservato nel numero di imprese operanti nel terziario (+10,7%), dovuto ad un consistente aumento (+21,0%) delle aziende che offrono servizi non commerciali.

     

    imprese_costruzioni

    Parallelamente alla riduzione del numero di aziende, il periodo 2011-2018 ha registrato una perdita ben più robusta di oltre 12 mila addetti (il 7,3%). È il riflesso soprattutto del ridimensionamento del settore industriale. Più di un terzo delle imprese calabresi (il 36,8%) è localizzata in provincia di Cosenza, più di un quarto in quella di Reggio Calabria, un quinto nella provincia di Catanzaro. Il peso delle province di Crotone e Vibo Valentia è simile, invece, con un totale del 17,1%.

    Come effetto di una maggiore presenza della media e grande impresa, il peso della provincia di Catanzaro in termini di addetti (quasi il 25% del totale regionale) è superiore a quello misurato in termini di imprese (19,6%). L’opposto vale nelle restanti province, dove la quota regionale di addetti oscilla fra il 7,6 % di Vibo Valentia e circa il 35 % di Cosenza.

    Tutto (o quasi) in famiglia

    Non diversamente dal resto del Paese, anche in Calabria la struttura produttiva del settore privato è caratterizzata dalla prevalenza di imprese a controllo individuale/familiare. Nel 2018 le imprese calabresi con 3 e più addetti controllate da una persona fisica o famiglia sono circa 16.488, ossia il 79,6 % del totale (un dato più elevato di quello nazionale, pari al 75,2%).

    Solo nella provincia di Crotone la quota di imprese a controllo familiare non raggiunge il 75%. La quota di unità produttive a controllo individuale e/o familiare diminuisce al crescere della fascia dimensionale; in Calabria è oltre l’80% nel segmento delle microimprese, ma risulta comunque relativamente elevata (quasi il 70%) anche per le imprese con 10 e più addetti.

    La natura prevalentemente familiare delle imprese calabresi ed italiane non riguarda solo la dimensione del controllo, ma investe anche le caratteristiche gestionali. Considerando le sole imprese controllate da persona fisica o famiglia nella fascia dimensionale da 10 addetti in su, in Calabria il soggetto responsabile della gestione è nel 75,9% dei casi l’imprenditore o socio principale/unico e nel 18,6% un membro della famiglia controllante.

    Le situazioni nelle quali la responsabilità gestionale è affidata ad un manager – selezionato all’interno o all’esterno dell’impresa – o altro soggetto riguardano soltanto il 5,5% delle imprese, un dato in linea con quello nazionale.

    Estero e collaborazioni interessano poco

    La larga maggioranza delle aziende calabresi vede nella difesa della propria posizione competitiva uno dei principali obiettivi strategici. In particolare, nel segmento delle imprese con 10 addetti e più, la quota delle aziende che indicano tale obiettivo gestionale fra quelli che intendono perseguire nel triennio 2019-2021 è pari in Calabria all’84%, in linea col dato nazionale uguale all’84,3% . Seguono per ordine di importanza l’obiettivo di ampliare la gamma di beni e servizi (62,9%) e quello di aumentare l’attività in Italia (50,1%).

    L’accesso a nuovi segmenti di mercato è un obiettivo strategico per più di un terzo delle imprese, mentre l’attivazione (o l’espansione) di collaborazioni interaziendali è rilevante per poco più del 24%. Infine, l’espansione dell’attività all’estero è un obiettivo perseguito da solo il 14,8 per cento delle imprese calabresi, meno di quanto rilevato complessivamente nel Paese (24,3%). Questa scarsa proiezione sui mercati internazionali costituisce certamente un fattore di debolezza strategica per le imprese calabresi, che finiscono per operare prevalentemente sul mercato nazionale, se non più limitatamente solo sul mercato locale.

    Di conseguenza, per la maggioranza delle aziende, la competizione assume un carattere essenzialmente locale. Solo il 41,5% di esse vendono oltre i confini regionali sul mercato nazionale e ancora meno, il 13,7%, sui mercati europei. In modo simile, più del 40% delle imprese indica le altre regioni italiane come area di localizzazione dei principali concorrenti, mentre la medesima percentuale è circa dell’8% quando riferita all’Unione Europea.

    Il crollo degli investimenti pubblici

    Infine, appare rilevante osservare il fenomeno di riduzione della intensità di capitale investito, nel corso dell’ultimo decennio. Tale valore misura gli investimenti fissi lordi in percentuale del Pil. In Calabria L’indicatore è pari al 14,8% nel 2018, in netto calo rispetto al 25,5% del 2008. Il valore nazionale di tale indice nel 2018 risulta pari al 18,3%, con il Nord Est che raggiunge il 20,5% ed il Mezzogiorno il 16,5%. Se anche in questi caso confrontiamo tali dati con l’andamento di dieci anni prima, il Mezzogiorno registrava il 21,4%, lo stesso valore medio italiano, mentre in Nord Est per questi indicatore raggiungeva il 23,9%.

    Sono in particolare gli investimenti pubblici ad essere crollati nelle regioni meridionali, contribuendo alla radicalizzazione della crisi industriale ed all’aumento della forbice nella formazione del reddito. Vedremo se il PNRR riuscirà ad invertire l’andamento registrato nell’ultimo decennio.

  • Musei per tutte le tasche, ma poco fruibili: il paradosso calabrese

    Musei per tutte le tasche, ma poco fruibili: il paradosso calabrese

    La cultura di un territorio è determinata da molti fattori convergenti: il grado di scolarizzazione, la diffusione della lettura, la conoscenza e le competenze che si esprimono anche nelle attività economiche e sociali.
    I musei costituiscono una cartina al tornasole che racconta il radicamento nelle proprie radici, la capacità di illustrare le origini ed il presente della propria storia, il meccanismo di attrazione culturale verso un turismo della conoscenza che si è molto sviluppato nel corso degli ultimi decenni in tutti i Paesi che dispongono di un patrimonio culturale di adeguato livello.

    L’indagine dell’Istat

    L’Istat, l’Istituto Nazionale di Statistica, conduce da diversi anni una indagine sui musei del nostro Paese, mettendo a disposizione una serie di indicatori che specificano le caratteristiche di offerta, a livello nazionale ed in ciascun territorio regionale.
    Possiamo in questo modo verificare il grado di armonizzazione o di scostamento tra il modello museale nazionale e la singola realtà territoriale.

    Proprio per questa ragione abbiamo messo a confronto per gli indicatori presi in considerazione dall’indagine i risultati che emergono dalla realtà museale nazionale rispetto a quella calabrese, considerando per ogni indicatore il valore totale, oltre che la sua articolazione tra musei privati e pubblici.

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    Ne viene fuori un quadro a tinte abbastanza fosche. Soprattutto per quel che riguarda una serie di indicatori: l’accessibilità per i disabili, l’adeguamento dei musei alle nuove tecnologie, lo svolgimento di attività didattiche integrative e la capacità di attrarre turisti stranieri sui visitatori totali. I musei privati calabresi in qualche caso riescono a stare nei valori nazionali, mentre sono i pubblici a registrare i maggiori divari.

    I punti di forza

    Cominciamo con qualche dato nel quale la Calabria riesce a posizionarsi meglio della media nazionale. In tema di grado di apertura al pubblico dei musei pubblici l’Italia registra il 62,9%, contro il 64,3% della Calabria. Lo stesso indicatore per quelli privati a livello nazionale è pari al 57,9%, contro il 63,3% della Calabria. Nel valore totale di questo indicatore l’Italia raggiunge il 58,5% contro il 60,8% della Calabria.

    Anche quando andiamo a misurare il grado di diffusione di musei con ingresso gratuito verifichiamo che in Italia tale indicatore è pari al 41,7% rispetto al 48,8% della Calabria. Tale forbice si allarga in particolare quando andiamo a misurare i musei privati con ingresso gratuito, che in Italia sono pari al 46,1% mentre in Calabria si arriva al 61,2%. Nel caso di quelli pubblici tale indicatore in Italia è pari al 42,2%, mentre in Calabria raggiunge il 46,8%.

    Disabili penalizzati

    Le dolenti note cominciano ad emergere quando andiamo a confrontare il grado di accessibilità e fruibilità per persone con disabilità. Nel totale dei musei italiani è pari al 7,7%, mentre in Calabria si raggiunge il 6%. Nei musei privati la percentuale in Italia raggiunge il 5,9%, mentre in Calabria si attesta al 4,2%. Nei musei pubblici in Italia l’accessibilità per i musei pubblici è pari all’11,7%, con la Calabria che si attesta al 7,8%.

    Pubblico e digitale, il divario cresce

    Quando mettiamo a confronto il grado di offerta di servizi e supporti digitali, in Italia la percentuale complessiva è pari al 44,7%, mentre in Calabria si attesta al 36,1%. Nel caso dei musei privati il dato nazionale raggiunge il 41,9%, mentre in questo caso la Calabria è maggiormente performante, con il 46,9%. Se prendiamo in considerazione i musei pubblici, il valore di digitalizzazione nazionale è pari al 49,3%, contro il 33,9% della Calabria.

    Se analizziamo il grado di servizi digitali per visite virtuali sul totale dei musei la
    Calabria raggiunge il 18,6%, mentre i musei italiani arrivano al 24,3%. Tra i musei privati c’è maggiore parità sulla digitalizzazione per le visite virtuali, con la Calabria che arriva al 24,5 , mentre i musei italiani privati si collocano al 25,4%. Nei musei pubblici la forbice di digitalizzazione per visite virtuali è particolarmente rilevante, con la Calabria che arriva al 16,5% e l’ Italia che si attesta 25,3%.

    Poche attività didattiche nei musei

    Nella diffusione di attività didattica educativa la forbice dei musei calabresi rispetto al valore italiano è molto rilevante: 39,8% contro il 51,4% nazionale. Non è così per quelli privati, nel cui caso il grado di diffusione di attività didattiche è pari al 51% per la Calabria rispetto al 48,6% dell’Italia. Molto distante risulta invece la condizione calabrese nei musei pubblici per quanto riguarda la diffusione delle attività didattiche: 37,6% contro il 56,4% dell’Italia.

    Scarso appeal sugli stranieri

    Guardiamo infine alla percentuale di visitatori stranieri sul totale: in Italia è pari al 45,6% rispetto al 26,4% della Calabria. Nei musei privati stavolta la forbice non viene colmata (24,9% in Calabria contro il 48,1% dell’Italia). Ed anche nei musei pubblici si conferma una scarsa presenza di turisti stranieri in Calabria sul totale dei visitatori (26,7%) contro un valore nazionale pari al 44,6%.

    C’è insomma molto lavoro da fare per valorizzare il patrimonio museale calabrese, al fine di allinearlo alle performance nazionali. Soprattutto c’è da rendere queste strutture più vitali dal punto di vista della digitalizzazione, dello sviluppo di attività didattiche, della conoscenza e della apertura verso visitatori stranieri. Una storia culturale così ricca come quella della Calabria merita di essere valorizzata in modo adeguato.

  • BOTTEGHE OSCURE | Donne e lavoro, la rivoluzione dei gelsomini

    BOTTEGHE OSCURE | Donne e lavoro, la rivoluzione dei gelsomini

    “Riviera dei Gelsomini” è la denominazione a uso e consumo turistico che indica il tratto di costa della provincia di Reggio Calabria bagnato dal mar Ionio. Certo, il gelsomino è un bel fiore e il nome suona bene da abbinare a spiagge, località e attrazioni. Ma la motivazione della scelta è ben più profonda.

    Chi avrebbe mai detto, infatti, che un fiore piccolo come il gelsomino abbia dato vita a un’economia locale relativamente florida che, fino alla metà degli anni ’70 del ‘900, ha caratterizzato il paesaggio, la vita e la storia di intere comunità, iniziando da Villa San Giovanni ed espandendosi poi per tutta la costa ionica reggina fino a Monasterace.

    Il trailer del documentario dell’UDI Reggio Calabria sulle gelsominaie “La Rugiada e il Sole”, realizzato dalle giornaliste Paola Suraci e Anna Foti
    Fiori ricercati

    In questo territorio era possibile ammirare le distese di piantagioni in cui veniva coltivato il gelsomino. Dal fiore si ricavavano essenze ricercate per la realizzazione dei profumi ed altri prodotti. La maggior parte del raccolto di gelsomini, dopo la trasformazione in una pasta chiamata “concreta”, prendeva la strada della Francia, dove le tecnologie permettevano la sua lavorazione. I fiori più ricercati giungevano dalla Calabria e dalla Sicilia: nel 1945, il 50% del fabbisogno mondiale di gelsomini, con 600 mila kilogrammi prodotti, proveniva dalle province di Reggio Calabria, Messina e Siracusa.

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    La raccolta del gelsomino a Brancaleone in una cartolina d’epoca

    Le zone costiere erano quelle che meglio ne favorivano la coltivazione. Ciò contribuì a svuotare diversi paesini dell’entroterra favorendo lo sviluppo della marina. È emblematico il caso di Brancaleone. Come evidenzia l’antropologo Vito Teti, era diventata «un’isola quasi felice soprattutto per la produzione del gelsomini, che consente alle famiglie un vivere più dignitoso rispetto alla miseria, alla povertà degli anni precedenti». Grazie alla “valvola di sfogo” del gelsomino e di altre produzioni come quella del bergamotto e del baco da seta, infatti, a Brancaleone l’emigrazione fu un fenomeno più lieve rispetto ad altri centri della zona.

    A capo chino

    A raccogliere i fiori erano le donne, in gran parte ragazze, le gelsominaie. La ragione era semplice: per raccogliere i fiori senza danneggiarli servivano mani attente e delicate. A dispetto della delicatezza necessaria alla raccolta, il lavoro delle gelsominaie era tutt’altro che leggero. Le testimonianze raccontano di alzatacce in piena notte per avviarsi a piedi, in gruppi di venti o trenta persone, e giungere nei campi per iniziare la raccolta quando ancora era buio, nel momento in cui il fiore era aperto. E la raccolta proseguiva per ore, sempre con il capo chino e la schiena curva, per un salario da fame che però era necessario per portare a casa il pane per una stagione.

    Il salario delle gelsominaie rappresentò per decenni un motivo di lotta e rivendicazioni. Le poche lire vennero man mano aumentate anche grazie alle significative lotte sindacali di cui le raccoglitrici di gelsomino si fecero portatrici dal secondo dopoguerra in poi. Giunsero anche ad un «Contratto collettivo 13 agosto 1959 per le lavoratrici addette alla raccolta del gelsomino della Provincia di Reggio Calabria». Il contratto collettivo, insieme ad alcune prescrizioni sulla retribuzione tra cui il pagamento dell’indennità di caropane e di un’altra piccola indennità per il trasporto fino al luogo di lavoro, prevedeva che «ad ogni raccoglitrice sarà corrisposta la somma di lire 195 per ogni chilogrammo di gelsomino raccolto in normali condizioni di umidità».

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    Gelsominaie al lavoro (Collezione Iriti-Venanzio)
    Dai centomila chili al collasso

    Quella del gelsomino calabrese era una produzione relativamente “recente”, risalente a circa un secolo fa. Nel 1933, ad esempio, il periodico L’Italia vinicola ed agraria annunciava con enfasi che la Calabria si apprestava «a diventare uno dei più grandi centri del mondo per la coltura di piante da profumeria». L’autarchica Italia mirava probabilmente a minare il “monopolio” francese della coltivazione del fiore. Dal 1930 al 1933 in Calabria vi erano ancora soltanto «25 ettari coltivati in via sperimentale con gelsomini, rose e gaggie», che avevano prodotto però centomila chili di fiori «eccellenti per ricchezza di profumo».

    A Reggio Calabria operava anche una «Stazione essenze» e la «Cooperativa fiori del sud», che riuniva i coltivatori dei fiori. Già allora si sottolineava la questione del bisogno di manodopera, visto che solo in alcuni mesi in 20 ettari avevano lavorato 250 raccoglitrici. Un numero destinato a crescere con l’aumento delle piantagioni fino a giungere, secondo le testimonianze, a circa 10mila addette. Col tempo sarebbe sorta una distilleria per l’estrazione dell’essenza del gelsomino anche a Brancaleone. Ma, a parte sparute esperienze, la produzione continuava ad essere legata soprattutto alla domanda estera. Quando fu possibile riprodurre sinteticamente alcune fragranze, l’economia del gelsomino collassò.

    In Parlamento

    La prolungata assenza da casa delle madri costringeva i bimbi delle gelsominaie a una vita di stenti. In tal senso l’assistenza istituzionale all’infanzia e alla maternità era cosa pressoché sconosciuta nei piccoli paesi della fascia ionica calabrese. Nel 1968 le dinamiche della vita grama delle raccoglitrici di gelsomini reggine vennero udite tra gli scanni di Palazzo Madama. Il 26 settembre in Senato si discusse la proposta di una «Concessione di un contributo straordinario di lire 13 miliardi a favore dell’Opera nazionale maternità e infanzia».

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    Emilio Argiroffi

    È il senatore comunista Emilio Argiroffi (1922-1998) – che di lì a qualche anno sarebbe stato relatore della legge sull’istituzione degli asili nido – a tirare in ballo le gelsominaie, le loro problematiche e quelle dei loro figliuoli. Secondo quello che sarà il futuro sindaco di Taurianova «gli infelici ragazzi spastici di Girifalco», «il figlio della raccoglitrice di olive di Oppido» come quelli delle gelsominaie del Reggino erano portatori di una serie di una serie di «marchi illiberali» che facevano di loro dei «minorati», condannati prima dalla natura e poi dalla società, e le vittime privilegiate «dello sfruttamento dell’uomo sull’altro uomo».

    In molti casi le gelsominaie erano costrette a portare le proprie creature «a lavorare nei campi di raccolta alle 2 di notte, e sono latori di specifiche sindromi di malattia da lavoro, come le convulsioni e le lesioni neuro psichiche provocate dall’aroma dei gelsomini». Solo alcune potevano contare sulla presenza di figlie più grandicelle cui affidare i propri lattanti.

    I primi servizi sociali

    Si usava “affardellare” e deporre la creatura incustodita ai margini del campo o ai piedi di un albero, nel caso delle raccoglitrici di olive. Ma in alcuni paesi, prosegue Argiroffi, erano le «vecchie invalide» – le cosiddette «maestre di lavoro» – a badare ai loro figli in condizioni pietose: «Trattenuti in un tugurio, seduti in terra o su una fila di panchetti, freddolosamente avvolti nei loro stracci. Durante tutto il giorno costretti a snocciolare litanie incomprensibili, si nutrono con un tozzo di pane o qualche patata».

    È grazie all’intensa attività di Rita Maglio (1899-1994) – antifascista, comunista, femminista impegnata per tutta la vita al sostegno delle classi sociali più umili e disagiate e tra le fondatrici dell’UDI (Unione Donne Italiane) calabrese – che si arrivò alla creazione dei primi servizi sociali a sostegno dell’occupazione femminile e della qualità di vita delle donne: asili, consultori familiari e servizi. A raccogliere la sua eredità fu la figlia Silvana Croce, che dalla fine degli anni ’60 s’impegnò per le donne braccianti. Croce evidenziò come il loro sfruttamento non riguardava solo le discriminazioni salariali, ma anche la mancata tutela della salute e della maternità.

    Damnatio memoriae

    Le donne dedite alla raccolta dei gelsomini in quelle lingue di terra da Bova a Monasterace e le raccoglitrici di olive della Piana condivisero le medesime problematiche e lotte per un salario più giusto e per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Ma a un certo punto, nel bel mezzo degli anni ’70, le loro strade si divisero.

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    Raccoglitrici di olive in Calabria negli anni che precedettero la meccanizzazione

    Il passaggio alla meccanizzazione garantì alle raccoglitrici di olive la sopravvivenza. Mentre nel caso delle gelsominaie, le commesse cessarono e la vecchia fabbrica della “concreta” chiuse i battenti. Abbandonati i campi, con lo scorrere dei decenni anche la memoria di quell’attività gravosa e delle relative lotte s’infragilì fino a diventare labile, soggetta a dimenticanza. Su questo giocò pure il fatto che essendo un’attività praticata unicamente da lavoratrici donne, quella delle gelsominaie s’inserì nel solco dell’assenza o dell’esclusione quasi sistematica dalla narrazione dei fatti storici mainstream.

    Come scrisse la storica Angela Groppi «che le donne abbiano sempre lavorato, tanto all’interno quanto all’esterno della sfera domestica, è oggi un dato storiograficamente acquisito». Ma non è stato sempre così. Il recupero del cosiddetto “lavoro delle donne” soggetto a incertezze, tagli, omissioni è stato possibile grazie alla storia sociale, di genere, alla microstoria, all’oralità, alla trasmissione dei saperi da una generazione di donne all’altra.

    La Rugiada e il Sole

    In questa linea di pensiero e azione va a situarsi il prezioso lavoro dell’UDI di Reggio che, come spiega Titti Federico, ha portato alla realizzazione del documentario La Rugiada e il Sole: «È finalmente venuto a termine un lavoro, nato dall’idea di Lucia Cara e avviato diversi anni fa dal percorso di recupero della nostra identità: raccogliere, conservare e narrare direttamente dalle loro voci la vita e il lavoro delle gelsominaie. Da tempo seguiamo il nostro desiderio di colmare e trasmettere alle nuove generazioni quanto è accaduto e fa parte appieno del percorso di una comunità. Oggi ne consegniamo un tassello restituendo valore e memoria alle tante storie delle donne. Questo lavoro sarà parte integrante dell’archivio dell’UDI e apparterrà alla storia della Calabria».

  • Pnrr e autonomia: Calabria ancora colonia di Roma?

    Pnrr e autonomia: Calabria ancora colonia di Roma?

    La litania va risuonando di nuovo in questi giorni. Canto e controcanto: ci state fregando, anzi scippando, ci toccano più soldi e dovete darceli; no, non credete alle bufale, vi daremo tutto il denaro che vi spetta, anzi se fate i bravi ve ne daremo anche di più, ma dovete saperlo spendere. Da una parte i Robin Hood del vittimismo pseudomeridionalista (che per la causa vendono un sacco di libri), dall’altra i campioni del governismo rassicurante (che offrono il loro prestigio istituzionale a salvaguardia dell’ignoranza del popolino).

    In mezzo ci sono presidenti di Regione, amministratori locali e cittadini a cui lo Stato italiano e l’Unione europea stanno facendo odorare qualcosa come 82 miliardi di euro senza ancora farglieli toccare. Sono queste le posizioni da cui muove l’eterno dibattito sul rapporto (evidentemente e ovviamente non paritario) tra la Calabria e Roma. La diatriba sulla distribuzione dei soldi del Recovery attraverso il Pnrr ne è l’esempio più recente.

    Sette miliardi in ballo

    Le vicende degli ultimi giorni. Repubblica, non esattamente un bollettino neoborbonico, venerdì sbatte in prima pagina un titolone di tre parole e una virgola: Recovery, allarme Sud. In estrema sintesi il quotidiano dice che la quota del 40% del Pnrr al Sud è solo «sulla carta» perché alcune Regioni stanno rifacendo i conti sui primi bandi e si sono accorte che la fatidica percentuale viene calcolata «non sul totale delle risorse» che arrivano dall’Europa «ma solo su una parte di queste».

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    Ballano 7 miliardi perché, alla luce del calcolo sui fondi complessivi (222 miliardi), dovrebbero essercene 89 e invece sono 82. Seguono alcuni calcoli sulle singole missioni – sono 6 in tutto – e «a scavare», dice Rep, «si scopre» che 2 missioni superano il 40% (53% su infrastrutture e 46% per istruzione), una lo «sfiora» (39% per lavoro e inclusione) e le altre 3 (rivoluzione digitale, verde e salute) sono al di sotto. Rispetto al Pnrr «la media delle 6 missioni fa però 40%». Ok.

    Carfagna, Nesci e gi amministratori locali

    Il giorno dopo scatta l’intervista riparatoria alla ministra del Sud Mara Carfagna. Che a domanda risponde quello che tutti si aspettano risponda – «i fondi ci sono, il Mezzogiorno dimostri di saperli spendere» – dicendosi «meravigliata da chi dà credito a una ricostruzione così grossolana senza verificarne la fondatezza». Le fa eco nel giro di poche ore la sua sottosegretaria calabrese, Dalila Nesci, che aggiunge che i nostri 82 miliardi sono «al sicuro» ma «è indispensabile l’apporto progettuale degli enti locali».

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    Sì, gli enti locali, quelle propaggini periferiche dello Stato in cui sindaci che piangono miseria, maneggiando dissesti con la destra e tracciamenti covid con la sinistra, devono sorbire lezioni di buone pratiche da rappresentanti di sottogoverno che non riuscirebbero a mettere insieme neanche una lista per le Comunali in un paesino dell’estremo Sud. Comunque, al di là della retorica dell’«opportunità storica», dell’«ultima spiaggia» e del «treno» che non ripassa, la dialettica Calabria-Roma non si materializza solo sul Pnrr.

    Coloni calabri e palazzi romani

    e Un ex governatore come Mario Oliverio, che durante i suoi 14 anni da deputato non si sognava nemmeno certi slogan, a fine carriera ha rispolverato una crociata contro la «deriva colonialista» che dalla capitale ha commissariato prima la sanità per cui non si è mai incatenato – tutti abbiamo immaginato tremare le colonne di Palazzo Chigi – e poi il suo (ormai ex) partito, il Pd. La crociata è finita alle Regionali con la misera percentuale che sappiamo, ben distante da quella di Roberto Occhiuto che del trovarsi a suo agio tra i palazzi romani ha fatto quello che lui chiamerebbe un brand.

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    Mario Oliverio aveva promesso di incatenarsi a Roma per porre fine al commissariamento della Sanità calabrese

    «Ho avuto a che fare per anni con ministri e leader nazionali, sono il capogruppo di Forza Italia alla Camera, pensate che ora non sappia far valere le ragioni della Calabria con il governo?». Per ora la sua vittoria è servita a Forza Italia a far valere se stessa sul tavolo romano del centrodestra, perché è grazie alla controtendenza calabra che Silvio Berlusconi si può mostrare ringalluzzito a livello 1994 e può ridimensionare Matteo Salvini e Giorgia Meloni.

    La ricetta sino-americana di Occhiuto

    La vittoria di Occhiuto servirà anche al contrario, avrà un ritorno concreto, da Roma, su quel territorio che lui ora è chiamato a governare? O dobbiamo aspettarci solo altre costosissime perle sul genere video-di-Muccino? Tutto da vedere. Intanto, mentre a Milano Beppe Sala fa la giunta in 5 giorni e si dice «pronto per il Pnrr», il neo governatore ha a che fare – per dire – con le pretese di Nino Spirlì e l’inappagamento di Ciccio Cannizzaro.

    Inoltre Occhiuto per ora dispensa in diretta nazionale certe ricette per l’economia calabrese che sembrano un cocktail di turbocapitalismo cinese e liberismo reaganiano poco poco fuori tempo: «Abbiamo un costo del lavoro che è più basso del resto d’Italia. Abbiamo la possibilità – ha detto a Tg2 Post – di attrarre investitori che possano trovare in Calabria un costo del lavoro basso e anche il capitale cognitivo che serve per le loro imprese». Insomma: venite e sfruttateci tutti, vi aspettiamo.

    Autonomia differenziata

    Non parliamo poi dell’Autonomia differenziata. Se ne discute da anni a seguito delle «iniziative intraprese – riporta il sito della Camera – dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna». Ora il governo l’ha rispolverata inserendola, nottetempo, tra i collegati della Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza. Nel testo Nadef del 29 settembre non c’era, in quello del giorno dopo è comparsa.

    Apriti cielo: parlamentari del Sud giurano di non averla votata, politici del Sud si dicono pronti a una nuova battaglia contro il governo. È su questo disegno, che vuole dare più «autonomia» alle Regioni a statuto ordinario evidentemente a vantaggio di quelle che se la passano meglio, che si dovrebbe misurare – più che nel gioco al pallottoliere sui miliardi del Pnrr – la forza politica di chi rappresenta il Sud e la Calabria nelle istituzioni e nei rapporti tra Regioni e Stato centrale.

    Il caso Lamezia

    E anche su ciò che serve davvero per «spendere bene» i soldi, tutti i soldi che da decenni ormai mette a disposizione l’Ue: i tecnici. Abbiamo bisogno di professionisti che scrivano progetti di qualità e che sappiano gestirne le fasi successive fino alla realizzazione sui territori. Nei nostri enti locali non ce ne sono a sufficienza. Un esempio emblematico arriva da Lamezia Terme: la quarta città della Calabria è riuscita ad essere tra gli 8 progetti pilota in tutta Italia del PinQua (Programma Innovativo Nazionale per la Qualità dell’Abitare).

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    Un panorama di Lamezia

    C’è in ballo un interessantissimo progetto di rigenerazione urbana (riqualificazione di edifici pubblici e privati, spazi verdi, piste ciclabili) che ha ottenuto un finanziamento di quasi 100 milioni di euro. Dentro ci sono anche soldi del Recovery, però tutto va realizzato e reso fruibile entro il 31 marzo 2026, sennò si rischia di perdere capra e cavoli. Indovinate: sì, c’è il rischio di non farcela, perché il Comune di Lamezia ha una gravissima carenza di personale e ancora oggi, a 7 giorni da un “mini” turno elettorale che ha sanato alcune irregolarità in solo 4 sezioni su 78, non c’è stata ancora la proclamazione degli eletti. A causa di un black out tra istituzioni che parte da e arriva a Roma, nel centro della Calabria la democrazia è sospesa da quasi un anno.

  • Benvenuti a Crotone, la città che vive in fondo alle classifiche

    Benvenuti a Crotone, la città che vive in fondo alle classifiche

    Misurare le grandezze economiche e sociali per comprendere meglio il livello di sviluppo delle comunità è questione di crescente interesse nella comunità degli esperti e dei decisori. Il principale indicatore della crescita – il prodotto interno lordo – era stato introdotto a valle della Grande Crisi del 1929. Include tutti i tasselli del reddito prodotto, che però non necessariamente stabiliscono il grado di benessere delle popolazioni.

    Dal Pil al Bes

    Già nel 1968 Robert Kennedy affermava che «il nostro Pil comprende l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le ambulanze per liberare le autostrade dalle carneficine. Mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte e le carceri per le persone che le forzano…In breve misura qualsiasi cosa, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta». Il lavoro di analisi finalizzato a riformulare gli indicatori con cui leggiamo la struttura della società e dell’economia è partito nel 2009, proseguendo per un decennio. Ha portato formalizzare una nuova metrica dello sviluppo, basata sulla misurazione del benessere economico e sociale (Bes).

    Anche l’Istat si adegua

    Da qualche anno l’Istat ha cominciato a pubblicare l’andamento degli indicatori nazionali secondo i nuovi criteri di benessere a livello provinciale. Questa nuova chiave di lettura consente di leggere la dotazione di capitale sociale sotto numerosi profili. Tiene conto, infatti, di sanità, servizi sociali, pubblica istruzione, mercato del lavoro, competenze educative, efficienza delle pubbliche amministrazioni, diffusione della criminalità, ampiezza delle istituzioni culturali, qualità del territorio, energia proveniente dalle fonti rinnovabili, struttura della raccolta dei rifiuti, innovazione nei brevetti.

    Qual è il posizionamento delle province della Calabria rispetto all’Italia ed al Mezzogiorno? La serie storica Istat mette anche a disposizione l’evoluzione degli indicatori dal 2004 al 2020. Noi ci limiteremo a fotografare l’istantanea dell’ultimo anno, rinviando ad una successiva occasione l’osservazione dei mutamenti che si sono determinati nel corso degli ultimi quindici anni.

    Quanto viviamo

    Partiamo dalla durata della vita, espressa come speranza di vita alla nascita, misurata in numero medio di anni. In Italia tale indicatore arriva ad 82 anni nel 2020, con un calo vistoso rispetto al 2019 (83,2), sostanzialmente per effetto della pandemia. Il Mezzogiorno registra 81,6 anni nel 2020, con un calo meno vistoso rispetto al 2019 (82,4), segno di una minore aggressività mortale della pandemia.

    La Calabria registra nel 2020 una speranza di vita alla nascita pari allo stesso dato della media nazionale (82 anni), con un calo ancora meno vistoso rispetto al dato del 2019 nei confronti del valore nazionale e meridionale (82,4). Il miglior dato provinciale è quello di Catanzaro con 82,5 anni, mentre il peggiore è quello di Crotone con 81,1.

    Infanzia: mortalità e servizi

    Se però analizziamo il dato della mortalità infantile, espresso come numero per ogni 1.000 nati vivi, la forbice tra Italia e Mezzogiorno è più visibile, ed il risultato della Calabria è complessivamente più allarmante.
    Il numero dei bimbi morti è pari a 2,9 nella media nazionale ed a 3,7 nel Sud. La Calabria registra un valore peggiore rispetto a quello meridionale, con un dato pari a 4. La peggiore performance tra le province calabresi è quella di Reggio Calabria con 4,9, mentre il dato più confortante è quello di Vibo Valentia con 2,4. Rispetto a Reggio Calabria fanno peggio in Italia solo Trapani (6,4), Enna (6), Avellino (5,6), Ragusa (5,1).

    Servizi per l’infanzia

    Passiamo ora alla percentuale di bambini che hanno usufruito di servizi per l’infanzia. In questo caso il differenziale tra Italia e Mezzogiorno è particolarmente robusto: mentre il valore nazionale è pari al 14,7%, nel Sud l’indicatore non arriva neanche alla metà (6,4%) e la distanza rispetto al Centro è abissale (21%).
    In Calabria la situazione è disastrosa, con l’indicatore regionale che è pari al 3,1%. Solo Crotone si colloca sopra il valore della media meridionale (8,8%), mentre Vibo Valentia sta all’1,8% e Reggio Calabria arriva appena ad 1,9%, con una sola provincia in Italia che riesce a fare peggio rispetto alle due province calabresi: si tratta di Caserta (1%).

    Diplomati e laureati

    Se guardiamo alla percentuale della popolazione nella fascia di età 25-34 con almeno il diploma di scuola superiore, in Italia tale valore raggiunge il 62,9%, rispetto al 54,7% delle regioni meridionali. La Calabria si allinea sostanzialmente alla circoscrizione meridionale (54,9%), ma in una forbice di forte differenziazione a livello regionale, con un valore molto basso a Crotone (44,7%) ed un risultato molto più elevato a Cosenza (58,8%). L’unica provincia italiana che registra un valore peggiore per questo indicatore rispetto a quello di Crotone è Barletta-Andria-Trani (43,5%).

    Se, nella stessa fascia di età, andiamo a misurare la percentuale dei laureati, la forbice tra Italia e Mezzogiorno torna ad allargarsi. Mentre l’intera nazione registra il 28,3% di laureati, il Sud si ferma al 22%.
    La Calabria a livello regionale è in linea con il Mezzogiorno, con il 22,1%, ma anche in questo caso le differenze sono molto sensibili a livello provinciale: si passa dal massimo di Cosenza, con il 27,3%, al minimo di Crotone con il 14,6%, poco più della metà rispetto alla migliore performance calabrese. Solo Oristano, con il 13,7%, fa peggio di Crotone in Italia per questo indicatore.

    Il primato dei Neet

    I giovani che non lavorano e che non studiano (Neet) sono in Italia il 23,3%, ma arrivano a sfiorare un terzo nel Mezzogiorno (32,6%). In Calabria questo indicatore supera un terzo a livello regionale (34,6%), ed addirittura arriva a sfiorare la metà a Crotone (47,2%). Per questo indicatore Crotone registra la peggiore performance dell’intera nazione, un primato certamente poco invidiabile.

    Le prove Invalsi

    Nella competenza alfabetica non adeguata, misurata dalle prove Invalsi, l’Italia registra il 34,1%, indicatore già preoccupante in sé. Il Mezzogiorno sta al 43,4%: quasi uno su due dei giovani meridionali deve colmare competenze di base nella espressione e nella comprensione linguistica. La Calabria varca questa soglia già drammatica, ed arriva al 49%, quasi uno su due dei giovani meridionali deve colmare competenze di base nella espressione e nella comprensione linguistica. Crotone, ancora una volta, si spinge oltre, ed arriva al 56,9%, ancora una volta il peggiore indicatore a livello nazionale.

    Nella competenza numerica, sempre misurata con i risultati delle prove Invalsi, la situazione è persino peggiore, per il Paese, per il Sud e per la Calabria.
    In Italia il tasso di inadeguatezza numerica è pari al 39,2%, mentre nel Mezzogiorno si supera la metà: 53,4%. La Calabria a livello regionale arriva al 60,3%, con la punta avanzata nella solita Crotone al 65,9%, anche in questo caso con la peggiore performance nazionale.

    I dati sul mercato del lavoro

    Se misuriamo il tasso di mancata partecipazione al mercato del lavoro, in Italia l’indicatore è pari al 19%, rispetto ad un Mezzogiorno che arriva ad un terzo della popolazione in età attiva (33,5%%). La Calabria si colloca su un valore regionale più elevato rispetto alla media meridionale (37,7%), ma con una forbice rilevante al suo interno tra il 33,5% di Cosenza ed il 48,7% di Crotone, ancora una volta in testa in questa poco invidiabile graduatoria.

    L’occupazione giovanile

    Il tasso di occupazione giovanile, nella fascia di età tra 15 e 29 anni, registra in Italia un valore pari al 29,8%, con il Mezzogiorno che arriva stentatamente ad un occupato per ogni cinque giovani (20,1%). In Calabria il valore regionale e poco inferiore alla media meridionale (19,6%), con una varianza interna provinciale molto marcata: si passa dal 23,2% di Cosenza al 12,6% di Vibo Valentia ed al 12,7% di Crotone.

    Cosenza è la città con meno no profit in Calabria

    Misuriamo infine la presenza sui territori delle organizzazioni no profit, espresse per ogni 10.000 abitanti: in Italia sono 50,7 mentre nel Mezzogiorno arrivano a 38,5. Questo indicatore esprime il capitale sociale diffuso e dedicato a specifiche finalità meritevoli di tutela e di impegno diretto da parte dei cittadini.
    In Calabria il dato è leggermente più positivo del Mezzogiorno (40,6). Vibo Valentia registra il valore più elevato a livello regionale (45,1), seguita da Catanzaro (44). Ancora una volta è Cosenza ad essere fanalino di coda nella graduatoria regionale.

    La popolazione esposta a rischio frane

    Per verificare la qualità del territorio, analizziamo l’indicatore che esprime la percentuale di popolazione esposta al rischio di frane. In Italia questo valore è pari al 2,2%, mentre questa percentuale sale al 3,2% per le popolazioni meridionali. In Calabria questo dato schizza al 4,5%, con una punta del 6,2% a Catanzaro.
    Nella raccolta differenziata dei rifiuti l’Italia ha raggiunto il 61,3%, contro poco più della metà nel Mezzogiorno (50,3%). La Calabria su scala regionale si colloca poco sotto (47,9%), ancora una volta con una forbice molto vistosa tra Cosenza (58,6%) e Crotone (30,8%).

    Crotone prima in Calabria per servizi on line dei Comuni

    Se si osserva la fornitura di servizi interamente on line da parte dei Comuni alle famiglie questo indicatore arriva al 25,1%. Un quarto delle amministrazioni comunali italiane si è attrezzato digitalmente. Questa percentuale scende al 15,6% nel Mezzogiorno.
    In Calabria questa percentuale quasi si dimezza ancora (8,7%), con una punta più positiva nella provincia di Crotone (13,9%) ed un risultato più negativo nella provincia di Cosenza (6,4%), tra i peggiori a livello nazionale.

    La Calabria delle differenze

    Il quadro d’assieme che emerge dalla lettura degli indicatori di benessere economico e sociale relativo alla Calabria evidenzia due questioni strategiche che bisogna prendere in carico. Da un lato la condizione giovanile è in estremo disagio, sia sotto il profilo delle competenze sia sotto il profilo delle opportunità di lavoro. Dall’altro lato, nel disagio generale della Calabria, non esiste una realtà omogenea: per molto indicatori la forbice differenziale tra le province è molto elevata.

    Occorre quindi comprendere innanzitutto che esistono diverse Calabrie, che viaggiano a velocità differente rispetto ad un disagio mediamente allineato a quello del Mezzogiorno. I tasti che le politiche pubbliche devono cogliere sono differenziati in funzione di questi divari interni.
    Poi, senza politiche per la qualificazione delle competenze giovanili e senza la capacità di offrire una prospettiva alle nuove generazioni, la regione sarà destinata ad incartarsi su se stessa. E ad essere un territorio, se va bene, accogliente per i vecchi.

  • PNRR, per ogni miliardo speso al Sud quasi la metà rimbalzerà al Nord

    PNRR, per ogni miliardo speso al Sud quasi la metà rimbalzerà al Nord

    L’impatto del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), non solo per quanto riguarda gli aspetti territoriali, dipenderà moltissimo dalla sua attuazione. Questo percorso di implementazione sarà condizionato dalle regole di semplificazione e dalla capacità amministrativa. Nella esecuzione degli interventi saranno compiute scelte politiche rilevanti, attraverso i criteri di riparto e allocazione e i bandi, che ne determineranno gli effetti. Sarà certamente indispensabile battersi per meccanismi di trasparenza di tutti i passaggi decisionali, e di monitoraggio di tutti gli interventi, che consentano di conoscere e per quanto possibile influenzare queste scelte.

    Mancano quasi 70 miliardi

    Insomma, chi pensa che il Governo abbia deciso di fare investimenti pubblici al Sud per un valore di oltre 80 miliardi è fuori strada. Sarà il percorso di attuazione che determinerà il montante delle risorse effettivamente indirizzate verso il Mezzogiorno.
    E molto dipenderà dalla capacità delle amministrazioni meridionali di progettare e realizzare coerentemente gli interventi che sono nella agenda del PNRR. Va poi valutato il meccanismo delle ricadute delle risorse destinate al Mezzogiorno sugli operatori economici. Per ogni miliardo speso al Sud, poco meno della metà, comunque, rimbalzerà al Nord, per l’acquisto di semilavorati, attrezzature, dispositivi vari.

    Il differenziale che abbiamo sin qui misurato tra le risorse teoricamente destinate al Mezzogiorno e quello che poi effettivamente finiranno nella contabilità degli investimenti, apre un altro ragionamento differenziale, che pure è opportuno tenere presente.
    Mancano infatti, calcolatrice alla mano, circa 70 miliardi per il Sud, anche rispetto agli 80 miliardi teoricamente assegnati dal Governo nel PNRR.

    Stessa formula, risultati differenti

    Il metodo applicato dal Governo italiano è lo stesso che utilizza l’Unione Europea, ossia una formula matematica che compara Pil, popolazione, reddito nazionale, regionale e tasso di disoccupazione di ogni Paese, per determinare l’ammontare delle risorse da assegnare a ogni Paese Ue. Proprio con questa formula sono state calcolate le distribuzioni delle risorse spettanti all’Italia.

    Applicando la stessa formula alla suddivisione territoriale delle risorse destinate all’Italia e sostituendo i parametri europei con quelli su base regionale, si otterrebbe che al Sud spetterebbero circa 150 miliardi, 68 miliardi di euro in più rispetto a quelli attualmente stanziati in teoria dal PNRR.
    Insomma, ci troviamo di fronte ad un duplice differenziale: da un lato quello che si genera tra l’applicazione della formula comunitaria di ripartizione delle risorse e l’ammontare dei finanziamenti teoricamente assegnati dal Governo al Mezzogiorno, e dall’altro quello che si determina se andiamo a misurare le teoriche assegnazioni con le effettive titolarità territoriali formulate nel PNRR.

    Più lenti a spendere e realizzare

    Ma la questione non si ferma qui. I dubbi, forse anche più radicali, si generano se andiamo a valutare l’effettiva capacità di spesa delle istituzioni territoriali del Mezzogiorno.
    A fronte di questa mole di risorse, comunque la si voglia misurare o determinare, la domanda chiave da farsi è se vi sarà la capacità di spendere e di realizzare le opere.

    Secondo un’analisi della Banca d’Italia, basata sui dati dell’Agenzia di Coesione, la realizzazione delle opere richiede in media quasi un anno in più rispetto al Centro-Nord. Le regioni meridionali presentano inoltre i tassi più elevati di inutilizzo dei fondi europei assegnati e di opere incompiute. Ci troviamo di fronte ad un programma estremamente articolato, che richiede elevata capacità di programmazione e controllo, con un governo ferreo delle scadenze temporali.

    Servirebbe una Cassa del Mezzogiorno

    Il nostro PNRR comprende infatti 135 “investimenti” e 51 “riforme”, un totale di 186 interventi. Ed al Sud manca una piattaforma di attuazione, come è stata la Cassa del Mezzogiorno, capace di gestire un complesso ed articolato programma di interventi.
    L’esperienza dei passati decenni in tema di spesa da parte delle amministrazioni meridionali delle risorse comunitarie derivanti dai fondi europei di coesione sta a dimostrare che non si sono generati effetti particolarmente virtuosi. Né dal punto di vista della qualità degli interventi, né dal punto di vista della tempestività nella attuazione.

    Esiste infine un’altra questione decisiva, che riguarda il tessuto economico e sociale del Mezzogiorno, inserito nel sistema produttivo nazionale ed internazionale. Nessun investimento nelle infrastrutture e nelle tecnologie digitali è destinato a generare effetto duraturo se non si determina una trasformazione dell’ambiente economico.

    Il gap con l’Europa si allarga

    L’Italia, ed il Mezzogiorno ancor di più, viene da due decenni di crescita sterile: dopo gli anni ‘90, dai primi anni Duemila l’andamento della produttività totale dei fattori ha iniziato prima a piegarsi verso il basso per poi mostrare una sostanziale stagnazione. Nelle altre principali economie avanzate (come Germania, Francia e Stati Uniti) – crisi 2009 a parte – ha seguito, invece, un percorso di crescita. La perdita di competitività del nostro Paese su un orizzonte temporale di lungo periodo evidenzia l’esistenza di una serie di nodi strutturali che non hanno permesso al tessuto produttivo di cogliere a pieno le opportunità legate alla rivoluzione digitale.

    Tra i fattori che fino ad oggi hanno contribuito ad allargare il gap di competitività con gli altri Paesi va sottolineata in particolare la ridotta dimensione aziendale (addetti nelle micro-imprese: Italia 42,6% vs UE 29,1%; anno 2018); il rallentamento degli investimenti (variazione % media annua 2010-19 in termini reali: Italia -0,8% vs UE +2,5%), compresi quelli ICT (Italia +1,9% vs Germania +2,5% e Francia +7,8%); la bassa spesa in ricerca e sviluppo (% su Pil: Italia 1,5% vs UE 2,2%, anno 2019); la carenza di competenze digitali (imprese che fanno formazione su ICT skills: Italia 15% vs UE 20%; anno 2020)4; l’elevata percentuale di imprese con governance familiare.

    Affari di famiglia

    In merito a quest’ultimo punto, mentre in termini di proprietà familiare l’Italia è in linea con gli altri Paesi europei con l’85,6% di imprese di proprietà familiare, vicino all’80,0% della Francia, all’83,0% della Spagna e al 90% della Germania, è in termini di management familiare che l’Italia si differenzia notevolmente per una bassa propensione a ricorrere a manager esterni alla famiglia. Infatti, le imprese familiari in cui il management è nelle mani della stessa famiglia proprietaria sono ben due terzi in Italia (66,3%), a fronte di un terzo in Spagna (35,5%) e circa un quarto in Francia (25,8%) e in Germania (28,0%).

    Le caratteristiche del nostro sistema produttivo unite alle recenti esperienze di incentivazione agli investimenti in digitalizzazione mettono in luce una serie di rischi rispetto all’obiettivo della piena transizione digitale.

    Le disparità tra Nord e Sud

    Il primo rischio riguarda le disparità territoriali: l’esperienza dell’iper-ammortamento ha mostrato uno sbilanciamento delle risorse assorbite, rispetto alla consistenza imprenditoriale dei territori, al Nord (con particolare riferimento a Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna). E non sembra che le cose vadano meglio neanche nell’ultimo anno. Un’indagine 2020 Centro Studi Tagliacarne-Unioncamere sulle imprese manifatturiere 5-499 addetti evidenzia come la quota di imprese che al 2020 hanno adottato o stanno pianificando di adottare Industria 4.0 è superiore proprio al Nord rispetto al Mezzogiorno (19% vs 14%).

    Questo potrebbe seriamente contribuire ad ampliare i divari di crescita territoriali alla luce di una certa relazione positiva tra ripresa delle attività post-lockdown e decisione dell’impresa di accelerare verso la transizione digitale.
    Forse sarebbero proprie le determinanti del divario in termini di produttività dei fattori e di competitività industriale gli elementi sui quali fare leva maggiormente nel PNRR per imprimere un recupero di efficienza manifatturiera del territorio meridionale, inserendolo finalmente nel tessuto delle catene globali del valore dalle quali deriva lo sviluppo industriale dei nostri tempi.