Dal 2000 ad oggi si sono succeduti in Calabria sei presidenti di regione, con una continua alternanza di schieramenti. L’elenco comprende Giuseppe Chiaravalloti (centrodestra, 2000-2005), Agazio Loiero (centrosinistra, 2005-2010), Giuseppe Scopelliti (centrodestra, 2010-2014), Mario Oliverio (centrosinistra, 2014-2020). Il trend prosegue con l’elezione di Jole Santelli con una coalizione di centrodestra, ma questa esperienza si interrompe drammaticamente dopo pochi mesi per la morte prematura della forzista. E, complice forse la brevità del suo mandato, un anno dopo a uscire sconfitta dalle urne è ancora la gauche, con l’elezione dell’azzurro Roberto Occhiuto.
Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto
Questa quasi simmetrica alternanza dovrebbe evidenziare e segnalare, secondo gli schemi dei manuali di politica, indirizzi e scelte economiche e sociali differenti durante l’esercizio dei mandati. L’analisi dei dati sulla performance della Regione mette invece in evidenza esattamente l’opposto. Vale a dire una linea di indirizzo costante verso il declino di tutti i principali indicatori nella produzione di ricchezza, nella demografia, nella qualità della vita.
La Calabria che si svuota
La demografia, che costituisce la radiografia del tessuto civile, ha cominciato a declinare proprio nel ventunesimo secolo. In particolare dal 2010 è cominciata una costante caduta della popolazione residente in Calabria, interrotta soltanto per un anno, nel 2013. Si è passati da poco più di 2 milioni di abitanti nel 2001 a poco più di 1,8 milioni nel 2020, con una riduzione del 10%. Di converso, è aumentato il numero delle famiglie, passato da poco più di 730mila a più di 805mila. Intanto è tornata a crescere l’emigrazione. La Calabria conta oggi 430mila residenti all’estero, quasi un quarto della popolazione totale della regione: il 42,8% è nella fascia tra i 18 ed i 49 anni.
Investimenti dimezzati negli anni
La spesa pubblica regionale è rimasta sostanzialmente stabile nel corso dell’ultimo ventennio, pur nella diversità delle maggioranze politiche. Ad assorbirla sono state molto più le spese correnti che gli investimenti, diminuiti invece in valore assoluto e percentuale.
Dal 2010 in avanti la spesa per investimenti si è sostanzialmente dimezzata come peso sul totale della spesa. Siamo passati dal 12% del 2010 al 6% del 2012, per poi risalire lentamente sino al 9% del 2020. Va osservato che la spesa pubblica in Calabria dipende per il 98,16% dal governo nazionale, per lo 0,57% dal governo regionale e per l’1,19% dalle municipalità. I margini di manovra per fare la differenza sono quindi molto ristretti.
Cambiano le maggioranze, non le scelte
In buona sostanza, nel primo ventennio del ventunesimo secolo si è alternata sempre la maggioranza politica alla guida della Regione, ma sono rimaste identiche le scelte. E queste hanno condotto ad un arretramento costante della Calabria nelle classifiche della competitività.
La scarsa incidenza delle scelte di politica regionale sull’andamento del tessuto economico e sociale della Calabria si riflette nella analisi di Ernesto Galli della Loggia ed Aldo Schiavone, nel libro appena pubblicato Una profezia per l’Italia (Mondadori 2021). Da almeno quattro decenni il Mezzogiorno è uscito dal discorso pubblico, divenendo soggetto di fiction televisive più che di politiche di sviluppo.
Ernesto Galli della Loggia
Una questione meridionale al quadrato
Dagli Anni Settanta del Novecento ad oggi, il prodotto pro capite del Sud è passato dal 65% al 55% rispetto a quello del Nord, mentre gli investimenti si sono più che dimezzati. Le Regioni, in tutto il Mezzogiorno, sono state una palla al piede per lo sviluppo. Ne hanno frenato le prospettive, ed hanno solo appesantito il tessuto burocratico senza aggiungere alcun valore. Con le Regioni si è affermato quello che Isaia Sales ha chiamato il populismo territoriale.
L’intero impianto del regionalismo, dati di fatti alla mano, sta franando per manifesta incapacità di sostenere lo sviluppo economico dei territori. La Calabria è diventata una nuova questione meridionale nella questione meridionale. In qualche modo ne è il cuore dolente, con il 90% del territorio costituito da montagne e colline, nonostante un apparato costiero che si estende per 800 chilometri e pesa il 10% del totale nazionale.
Differenze tra istituzioni
In questi vent’anni le politiche regionali, sia pur di segno apparentemente diverso per appartenenza politica, hanno solo contribuito ad accompagnare il declino della Calabria. Nella sanità la Regione ha accumulato un debito di oltre un miliardo di euro. E spende ogni anno circa 320 milioni di euro per rimborsare i costi del turismo sanitario dei calabresi che, non trovando risposta di servizio sul loro territorio, si recano in altre regioni.
Gianni Speranza
Non tutte le istituzioni esprimono lo stesso grado di disarmante inerzia. Mentre la Regione Calabria è rimasta sospesa a mezz’aria sospesa nel nulla, Gianni Speranza, sindaco di Lametia tra il 2005 ed il 2015, ha costruito – in soli dieci anni e senza una solida maggioranza consiliare a supportarlo – 50 km di fognature, 35 di illuminazione pubblica, marciapiedi, parchi pubblici, rotatorie, impianti sportivi, un lungomare.
Un patto da riscrivere
Insomma, contano le istituzioni, ma anche le persone. Per altro verso, nell’intero Mezzogiorno contiamo oggi 240 comuni commissariati per collusioni degli amministratori con organizzazioni criminali. Si tratta di una popolazione complessiva di 5 milioni di cittadini italiani e meridionali che si trovano sotto scacco della peggiore arretratezza, in una situazione evidentemente intollerabile. Sono tutti segnali che ci dicono chiaramente che il patto tra cittadini, istituzioni e territori va riscritto con estrema urgenza. A cominciare dalla Calabria, dove nemmeno l’alternanza tra maggioranze politiche con matrici opposte sortisce alcun effetto.
Mentre dai mercati di Wuhan la Cina si preparava a infliggere al mondo la peggiore pandemia che si potesse immaginare, un imprenditore calabrese faceva un biglietto aereo per Changsha, capoluogo dello Hunan, nella Cina centro-meridionale, dove lo stavano aspettando per apprendere da lui l’arte di realizzare pianoforti con la sapienza italiana. Questa è la storia di un sogno che ha il profumo del legno laccato e il suono della musica di Beethoven.
Un piano dalla Calabria
Per raccontarcela Pasqualino Serra ci apre le porte della sua piccola fabbrica, nella zona industriale di contrada Gidora, a Luzzi, a due passi da Cosenza. Lui è uno dei pochi costruttori di piani a coda, a gran coda e verticali in Calabria, se non l’unico. Ce ne sono a Trento, a Pavia, pochissimi in tutta Italia, figurarsi in Calabria, che non ha questa vocazione. Bizzarrie della terra dell’enfant prodige Alfonso Rendano, che già a otto anni componeva le sue prime partiture e da adulto inventò il terzo pedale che ancora oggi porta il suo nome. Davanti a un imponente pianoforte a coda che sfiora i due metri e mette quasi soggezione, ci spiega cosa ci fa una fabbrica così di nicchia in questo dedalo di strade, dov’è facile perdersi tra capannoni di infissi di alluminio o montagne di pellet.
Sessantaquattro anni, stazza di chi è abituato alla fatica, Serra ha
imparato a costruire pianoforti nella mitica Bösendorfer, a Vienna e
oggi collabora con un imprenditore cinese, «un amico – precisa Serra –
oltre che un socio d’affari». Lai Zhiqiang, dice, è arrivato in Calabria per
firmare l’esclusiva di questa intesa, grazie alla quale, negli ultimi anni,
ha più che triplicato il suo fatturato.
Pasqualino Serra si siede sullo sgabello di un pianoforte a coda, mentre parla lo accarezza, come se non fosse soltanto un oggetto.
«Per ventisette anni ho lavorato in importanti fabbriche di strumenti, ho sviluppato e approfondito le tecniche di accordatura», racconta. «Ero affascinato dall’idea di creare in Calabria qualcosa di veramente innovativo». Il nuovo millennio è appena cominciato, lui ha il giusto know-how, passione e determinazione.
L’uomo del destino
Ma le aspettative si scontrano con l’impossibilità di trovare un mercato. «Di fronte ad una realtà molto diversa da quella che mi aspettavo ho dovuto desistere. Ho impacchettato tutti i macchinari e ho messo da parte il mio sogno. Per dieci anni mi sono dedicato ad altro, ho avviato un’azienda di prodotti in legno». Il sogno di “creare” rimane sopito, soffocato dalla razionalità e dalle contingenze economiche. È a questo punto, però, che avviene il primo incontro fortunato: quello tra Pasqualino Serra e Jaques Guenot, un matematico svizzero, studioso di Pitagora e pianista per passione.
Il professor Jacques Guenot
Guenot è tra i fondatori dell’Università della Calabria, preside della facoltà di ingegneria, docente dell’ateneo per 38 anni di fila. Un intellettuale fine e ricercato, schivo ma con un occhio attento e curioso. Sta per andare in pensione, accarezza l’idea di potersi finalmente dedicare alla sua più grande passione: la musica. «Quando gli dissi che costruivo pianoforti, Guenot rimase stupito, la cosa lo entusiasmò molto». Il professore chiese all’artigiano calabrese di mettersi a lavoro per realizzare insieme qualcosa di innovativo. «Jaques mi dava forza, mi trasmetteva il suo entusiasmo, lui ci credeva. Per un anno studio, progetto, provo, fallisco, ritento» racconta.
Requiem per un amico
Poi, l’idea vincente arriva, quella lampadina finalmente si accende. È l’innovazione che aspettavano: «Una bombatura, laterale al piano, con un incavo all’interno dove si mescola il suono della cassa armonica con quello anteriore, rendendo la timbrica più potente». Ma la “gestazione” è complessa: la struttura di legno una volta modellata deve riposare, i pezzi meccanici devono arrivare da lontano, nella maggior parte dei casi dalla Germania.
Tempi lunghi, in questo caso troppo lunghi. «Nel 2015, quando il pianoforte era finalmente pronto,- sospira Serra – purtroppo Jaques è morto». La scomparsa del professore è un grande lutto. Ancora oggi, a ripensarci, gli occhi diventano lucidi. «Era un amico, una persona meravigliosa. È rimasto qui, tra questi strumenti, in tutto quello che ho continuato a fare grazie anche al suo supporto: ho brevettato quell’innovazione».
Si vola in Cina
Accantona l’idea di un’attività in Italia e cerca contatti con la Corea e con la Cina per dare un futuro commerciale ai suoi strumenti. È da Changsha, oggi metropoli con oltre otto milioni di abitanti, che gli arriva una risposta da una fabbrica, la Carod musical instrument, sponsorizzata dal pianista francese Richard Clayderman.
Richard Clayderman e la sua Ballade pour Adeline, successo da 22 milioni di copie
Serra fa il suo primo viaggio in questa città incredibile, negli stessi anni in cui la major del mattone Broad Sustainable Building sta progettando di realizzarvi il grattacielo più grande del mondo (e intanto in diciannove giorni, tira su un prefabbricato di oltre cinquanta piani per i suoi quattromila lavoratori). La Carod piano vuole realizzare pianoforti di qualità e chiede a Serra di guidare gli operai iperspecializzati, praticamente macchine, in una produzione creativa, di alta gamma, con il savoir faire del made in Italy.
Artigiani della quantità
«Con la Carod piano è nato un feeling particolare. In Cina la manodopera è molto settoriale, non è flessibile, non è facile fargli intraprendere una lavorazione artigianale come la intendiamo noi. La proprietà ha chiesto la mia collaborazione e la mia guida … e ci ha visto bene». Nel giro di un anno, racconta, la vendita è cresciuta vertiginosamente. «Sono andato quattro volte in Cina. La prima, nel 2015, la fabbrica produceva 600 pianoforti l’anno. Nel 2018, anno del mio ultimo viaggio, ho trovato una realtà diversa: la Carod aveva intanto acquisito altre due fabbriche e ne costruiva quasi 5mila di piani».
Nella Cina degli strumenti musicali intelligenti, che suonano da soli, senza musicisti, delle ricostruzioni italiane (proprio a Changsha c’è un parco tematico dedicato alle eccellenze tricolori, con riproduzioni di monumenti di Assisi, Venezia e La Spezia), l’imprenditore del Cosentino vede un futuro roseo. E discute di un progetto di extralocalizzazione al contrario: una linea produttiva di alto artigianato con il core businnes nello Hunan e i laboratori in Calabria.
Un pianoforte di Serra pronto per essere venduto sul mercato cinese
Il sogno continua
Tra i due imprenditori il rapporto di affari diventa un’amicizia. Poi, nel 2020, proprio dal Paese asiatico arriva il coronavirus e tutto si ferma. Oggi Serra guarda ancora verso l’estremo Oriente. Nessuno dei suoi figli lavora nel suo laboratorio: quel giovane imprenditore cinese non è solo un amico, ma rappresenta anche l’idea di non disperdere un patrimonio immateriale ma preziosissimo. «La mia speranza resta immutata: realizzare con la Carod in Italia una produzione d’eccellenza qui in Calabria».
Per Serra è un cruccio la scarsa attenzione verso una sapienza unica, ricercata e valorizzata, invece, in altri paesi. A Changsha il suo metodo funziona. Là tutto è possibile, tutto è realizzabile, l’Italia è un modello da seguire e c’è spazio per la Calabria e – perché no? – anche per Rendano. Gli architetti della metropoli cinese potrebbero costruire un intero villaggio per il musicista calabrese, o dedicargli un grattacielo. Prefabbricato, gigantesco, tutto in freddo acciaio. Tanto poi ci pensa la musica a scaldare l’atmosfera.
Raccogliere, differenziare e riciclare. Sono questi i tre principi cardine dell’economia del rifiuto e i loro numeri fotografano lo stato di salute dei nostri paesi e della nostra Regione.
Il rapporto 2021 diffuso dall’Ispra, elaborato su un campione di 177 comuni calabresi su 404, ci illustra dati alla mano tutte le luci e le ombre del sistema.
In controtendenza con i dati europei, tra i pochi effetti collaterali positivi della pandemia c’è senza dubbio la riduzione della produzione dei rifiuti in tutta Italia. È dal 2016 che i rifiuti dichiarati dai Comuni della Calabria sono in calo anno dopo anno. Nel 2020 ogni calabrese ha prodotto in media 381,36 kg di rifiuti a differenza dei 405 kg dell’anno precedente. Un dato che ci posiziona al terzultimo posto della classifica nazionale dietro solo a Molise e Basilicata.
Sarà che prodigi dell’era Covid altro non sono che l’effetto del lockdown sulle abitudini culinarie dei calabresi che ai cibi confezionati hanno preferito produzioni casalinghe. E la ressa per accaparrarsi il lievito di birra è ancora un vivido ricordo. Le province più virtuose nella produzione dei rifiuti sono state Cosenza, Vibo Valentia e Reggio Calabria.
Calabria lumaca della differenziata
La Calabria nel 2020 è riuscita a differenziare ben il 52,2% dei rifiuti prodotti.
Un dato prodigioso se si pensa che nel 2016 la percentuale di raccolta differenziata era appena il 33,2%.
Venti punti percentuali che però non possono essere un vanto se si considera che siamo partiti 20 punti in meno rispetto ai migliori che oggi segnano una percentuale di raccolta differenziata che arriva al 76% come in Veneto.
E quei pochi rifiuti che produciamo non siamo in grado neanche di differenziarli bene.
La Calabria, infatti, è tra le regioni con il valore di raccolta differenziata pro-capite più basso (199 kg).
Le due province che vincono la maglia nera
Le province meno riciclone sono Crotone e Reggio Calabria. Per la provincia di Pitagora la magra consolazione di essersi migliorata di appena due punti percentuali: dal 30,8% del 2019 al 32,7%.
Stesso discorso per la provincia dello Stretto che è passata dal 36,3% del 2019 al 39,6%. Solo 50 punti percentuali di distacco da Treviso, la migliore provincia d’Italia con l’88% dei rifiuti differenziati.
E se si pensa che l’obiettivo da agguantare nel 2020 era il 65%, il gap in questo caso più che impallidire dovrebbe farci arrossire di vergogna. A mettere una toppa i dati della differenziata delle province di Cosenza e Catanzaro che superano anche se di poco il 60%. Un pessimo risultato che affonda le radici in una gestione fallimentare del settore rifiuti che in Calabria non per niente è commissariato da ben 17 anni. A nulla pare siano serviti i milioni di euro sversati per il potenziamento del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti nella nostra regione.
Meglio l’organico che la plastica
Ma se proprio dobbiamo differenziare in Calabria siamo bravissimi a differenziare, nell’ordine: organico, carta, vetro e plastica.
Ogni calabrese nel 2020 ha differenziato 88 kg di umido, 48 kg di carta, 27 kg di vetro e appena 9 kg di plastica e pensare che – secondo il WWF – in media un uomo all’anno ne produce 73 kg.
Un solo inceneritore in Calabria
«In linea generale – secondo l’Ispra – laddove esiste un ciclo integrato dei rifiuti grazie ad un parco impiantistico sviluppato, viene ridotto significativamente l’utilizzo della discarica. Vi sono regioni in cui il quadro impiantistico è carente e poco diversificato». In Calabria, ad esempio, esiste un solo impianto di biogas e si trova a Rende in provincia di Cosenza. E’ nel 2018 sul sito di Calabra Maceri, azienda specializzata nel recupero e smaltimento dei rifiuti urbani, il primo impianto di biometano del Centro-Sud connesso alla rete nazionale del gas naturale di Snam. L’impianto è in grado di trasformare 40mila tonnellate annue di rifiuti provenienti dalla raccolta differenziata in 4,5 milioni di metri cubi di biometano, oltre a produrre 10mila tonnellate di un fertilizzante per l’agricoltura biologica.
A Gioia Tauro sorge l’unico e tanto vituperato inceneritore della Regione usato per trattare appena 1,2% dei rifiuti prodotti anche se negli ultimi anni ha registrato un incremento del +17% con 19mila tonnellate incenerite.
Giusto un po’ di storia, l’impianto di Gioia è stato avviato nel 2005, autorizzato nel 2015 e da qui a breve dovrà essere revisionato, la scadenza dell’autorizzazione segna la data 2025.
Quanto smaltiamo in discarica
Nel 2020 sei sono le discariche ufficiali in Calabria. L’analisi dei dati a livello regionale evidenzia un calo tra il 2019 ed il 2020, riferibile soprattutto al Mezzogiorno dove si registra un calo di oltre 259mila tonnellate di rifiuti collocati in discarica. Al Sud la riduzione maggiore si ha in Calabria (-36,6%), dove circa 23 mila tonnellate di rifiuti derivanti dal trattamento dei rifiuti urbani vengono smaltite fuori regione. In Calabria nel 2020 sono stati prodotti 715.976 tonnellate di rifiuti e smaltiti in discarica 196.169 di cui solo 596 tonnellate provenienti da fuori regione mentre 22.955 tonnellate li abbiamo smaltiti fuori dalla nostra regione.
In media un calabrese smaltisce in discarica 104 kg di rifiuti. Ma c’è chi sta peggio come il Molise con 262 kg per abitante.
Il pro capite nazionale di frazione biodegradabile in discarica risulta, nel 2020, pari a 59 kg per abitante, al di sotto dell’obiettivo stabilito dalla normativa italiana per il 2018 (81 kg/anno per abitante). La Calabria è fra le 12 Regioni che hanno invece conseguito l’obiettivo prefissato nel 2018.
Tuttavia, i nuovi obiettivi di riciclaggio fissati dal d.lgs.152/2006 e successive modificazioni che prevedono entro il 2030 il raggiungimento di almeno il 65% di riduzione dello smaltimento in discarica ed entro il 2035 a non più del 10% dei rifiuti prodotti, renderanno necessario realizzare un sistema industriale di gestione che sia in grado di garantire il necessario miglioramento. La Calabria riuscirà a raggiungere l’obiettivo? Difficile dirlo, ma le premesse, soprattutto se guardiamo quanto accaduto nel settore negli ultimi vent’anni, non sono per nulla rosee.
Mio caro rifiuto
La Calabria è la regione del Sud dove i rifiuti costano di più: 50,35 centesimi al kg. Importo che purtroppo non può tenere conto del dato della città di Catanzaro perché non pervenuto per la stesura del rapporto.
Per definire il costo del rifiuto e renderlo uniforme sul piano nazionale l’Autorità di Regolazione per l’Energia e le Reti e Ambiente (Arera) definisce il perimetro gestionale assoggettato al nuovo metodo tariffario, al fine di renderlo uniforme su tutto il territorio nazionale. Il perimetro gestionale comprende: spazzamento e lavaggio delle strade; raccolta e trasporto dei rifiuti urbani; gestione tariffe e rapporti con gli utenti; trattamento e recupero dei rifiuti urbani; trattamento e smaltimento dei rifiuti urbani.
La voce che maggiormente incide sul costo totale è quella relativa alla raccolta e trasporto delle frazioni differenziate (CRD). Il costo complessivo medio pro-capite nella nostra regione è di 190 euro mentre in Liguria ne sborsano la bellezza 263,3. Il raffronto numerico senza una spiegazione non dà l’idea: perché in Liguria è vero che si spendono più di 70 euro a testa ma è innegabile che la qualità dei servizi legati al rifiuto è colossale.
Quanto costa differenziare
Differenziare costa meno che smaltire. E’ un dato di fatto. Sebbene i dati di riferimento per la Calabria siano statisticamente poco rilevanti perché il campione analizzato non supera in alcuni casi i cinque Comuni , l’Ispra stima un costo di 27,56 centesimi al kg per la carta, 12,49 centesimi/kg per il vetro, 15,87 centesimi/kg per plastica, 15,05 centesimi/kg per metalli e 39,79 centesimi per l’organico.
Economia circolare
Nel futuro la gestione del rifiuto passerà soprattutto dal riutilizzo e dal riciclo. Dopotutto la road map della direttiva Ue 2018/851 prevede un riciclaggio e un riuso al 55% nel 2025, al 60% nel 2030 per raggiungere il 65% nel 2035.
Il decreto legislativo 116/2020 ha introdotto, con il nuovo articolo 198 bis del d.lgs. 152/2006, la previsione del Programma Nazionale per la gestione dei rifiuti, accanto ai piani regionali e ne disciplina i contenuti e le procedure per l’approvazione e l’aggiornamento. Il Programma è aggiornato almeno ogni 6 anni, tenendo conto, tra l’altro, delle modifiche normative, organizzative e tecnologiche intervenute nello scenario nazionale e sovranazionale.
In considerazione dell’attuale e rinnovato sistema normativo e regolatorio, le Regioni dovranno provvedere all’aggiornamento dei Piani regionali di gestione dei rifiuti e dovranno inserirsi nel percorso delineato dall’Unione Europea con il “Nuovo Piano d’Azione per l’economia circolare” (COM/2020/98), che mira ad accelerare il cambiamento richiesto dal Green Deal europeo.
L’aggiornamento rientra all’interno delle condizioni abilitanti, a livello regionale, per l’accesso a finanziamenti del Fesr (Fondo europeo di sviluppo regionale) e al Fondo di coesione.
In Calabria siamo fermi al D.G.R. n. 340 del 02/11/2020 Linee di indirizzo per l’adeguamento del “Piano Regionale di Gestione dei Rifiuti (PRGR) approvato con Deliberazione del Consiglio Regionale n. 156 del 19 dicembre 2016.
Alla nuova Giunta il compito di aggiornare il piano per restare agganciati al treno-Paese e dare finalmente concretezza e significato agli slogan green delle campagne elettorali.
La Giunta regionale ha approvato, con delibera 480, il Documento di Economia e Finanza per il triennio 2022-2024. Emerge un quadro preoccupante sullo stato della Calabria: robusta evasione tributaria sulle tasse automobilistiche, gestione del patrimonio regionale senza adeguato controllo, mancata riscossione delle entrate in conto capitale, perché non si riesce a governare la rendicontazione, a fronte di spese in conto capitale che continuano a crescere.
La voragine sanitaria ed il Pnrr costituiscono le sponde opposte della complessa matassa che va dipanata per dare una prospettiva diversa alla regione. Da un lato c’è una decennale situazione di sbandamento nell’amministrazione finanziaria e nella gestione dei servizi sanitari per i cittadini. Dall’altro si prospetta l’opportunità delle risorse del Pnrr, che costituiscono l’ultima vera occasione per imprimere una svolta verso lo sviluppo.
Il nostro viaggio dentro il Def non può che partire dai numeri, quelli delle entrate e delle uscite. Emergono indicazioni che spiegano meglio di tante altre considerazioni astratte le ragioni della crisi regionale.
Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto
La difficoltà di rendicontare le entrate
Nel 2020 il volume delle entrate totali accertate a consuntivo nel bilancio regionale è pari a 5,74 miliardi di euro, in leggera diminuzione rispetto all’anno precedente (-0,29%). Quanto alle previsioni per gli anni successivi, il valore nettamente più alto registrato nel 2021 per le entrate in conto capitale non è attribuibile a più elevate assegnazioni statali o comunitarie. Riguarda, invece, risorse per contributi a rendicontazione non utilizzate nel corso del 2020, riprogrammate in attesa di definirne l’utilizzo o differite negli anni successivi.
Il valore percentuale del 2021 delle entrate in conto capitale rispetto al volume totale delle entrate (31,9%) rispecchia una difficoltà strutturale nell’utilizzo delle risorse destinate agli investimenti ed allo sviluppo. Eppure, nonostante questa sia la fotografia di un drammatico punto di debolezza, si stima di passare in un anno da un valore rendicontato di poco più di mezzo miliardo di euro del 2020 a 2,7 miliardi nel 2021.
Le previsioni
Considerato che siamo ormai avviati verso la conclusione dell’anno, varrebbe davvero la pena di augurarci che sia così quando dovrà essere redatto il bilancio consuntivo del 2021. I valori molto bassi delle entrate in conto capitale previsti nel biennio 2022 e 2023 scontano, invece, nella scelta di pianificazione condotta dalla Regione, la mancata previsione delle risorse destinate all’attuazione della programmazione comunitaria e nazionale 2021-2027 ancora tutta da definire.
Eppure, forse, qualche stima poteva essere messa in conto, considerando che le risorse di investimenti per il PNRR dovranno tutte essere utilizzate entro il 2026. Non c’è mica molto tempo per spendere e rendicontare questi ingenti finanziamenti disponibili.
Virtuosi all’improvviso? È il contrario
Nel 2020 il volume complessivo degli impegni risulta pari a 5,6 miliardi di euro circa, in aumento rispetto al 2019 (+1,2%). Dall’analisi della composizione della spesa distinta per tipologia si delinea un andamento divergente: aumentano le spese correnti (+0.9%) e soprattutto quelle in conto capitale (+8.8%), diminuiscono le spese per rimborso mutui (-57,3%). In apparenza, siamo entrati improvvisamente nel pianeta dei virtuosi: le spese in conto capitale aumentano molto più rapidamente delle spese di parte corrente, mentre gli oneri finanziari si riducono.
La realtà sta al polo opposto. Mentre corrono le spese in conto capitale, crollano in modo simmetricamente opposto le riscossioni delle entrate in conto capitale, per la incapacità di rispettare i meccanismi della rendicontazione. Si rischia di aprire in questo modo una voragine nei conti regionali, tale da dare il colpo di grazia alla finanza locale. Soprattutto se teniamo in conto il volano di risorse molto ingente che attiveranno contestualmente il PNRR e la prossima tornata di fondi comunitari 2021-2027.
La diminuzione delle spese per il rimborso dei mutui si deve alla sospensione delle rate di ammortamento a carico del bilancio statale in scadenza non pagate nel 2020 per effetto della legge n. 27 del 24 aprile 2020, ma che devono essere coperte nell’annualità 2021 con oneri a carico del bilancio regionale(oltre 3 miliardi di euro), e alla rinegoziazione con Cassa Depositi e Prestiti dei mutui in ammortamento con oneri di rimborso a carico del bilancio regionale per far fronte alle esigenze di liquidità determinate dal Covid 19.
Le riscossioni crollano
Le riscossioni delle entrate in conto capitale sono pari, sul totale delle entrate del 2021, solo all’1,5% rispetto all’11,1% del 2016. Il dato dell’anno in corso di conclusione, anche se parziale, rende in ogni caso ancora più evidente la difficoltà di riscossione dei contributi a rendicontazione. Il suo ammontare desta al momento forti preoccupazioni, soprattutto se rapportato al livello dei pagamenti. La riscossione delle entrate in conto capitale è passata da 579,5 milioni di euro nel 2016 a 58,1 milioni nel 2021.
Evasione fuori controllo
L’altro fenomeno da ricondurre ancora sotto controllo è l’elevato livello di evasione fiscale, che riguarda innanzitutto le tasse automobilistiche. Ogni anno vengono inviati in Calabria oltre 250.000 accertamenti, per un valore approssimato pari circa al 33% del tributo dovuto (180 milioni di euro).
Nonostante le azioni attivate per il recupero, resta circa un 20% di introiti fiscali che non vengono incassati dalla Regione Calabria per le tasse automobilistiche. La situazione sta andando a peggiorare: nel 2021 le riscossioni spontanee ammontano a 91 milioni di euro, rispetto ai 123,3 milioni di euro del 2018. Per gli altri tributi regionali la situazione è meno preoccupante, ma non certo tranquillizzante perché i soggetti passivi sono inferiori di numero e si tratta prevalentemente di persone giuridiche.
Gestione patrimoniale: una catastrofe
Il patrimonio regionale costituisce un altro fronte aperto di dimensioni significative. A fronte di 37 atti di concessione, di cui 10 a titolo gratuito e 27 a titolo oneroso, si registra un introito annuo per la Regione di 31.661 euro. Non è un errore di battitura: trentunomilaseicentosessantuno euro. Sembra una barzelletta, ma le cose stanno proprio così.
Per sole otto concessioni sono stati versati i canoni dovuti, per 6 è stato emesso un decreto di risoluzione con contestuale pagamento degli arretrati, per altre 6 è stato avviato lo stesso procedimento, mentre per altre 7 sono in corso gli accertamenti sui pagamenti effettuati.
Poi c’è il capitolo dolente del contenzioso. Al 31.12.2020 la Regione ha accantonato un fondo rischi per potenziali soccombenze pari a 136,6 milioni di euro, con un incremento rispetto all’anno precedente del 51%. Nel bilancio 2021 ne sono stati accantonati altri 23,1 milioni, con una previsione di ulteriori 11,2 milioni per ciascuna successiva annualità del 2022 e del 2023.
Altri 3 milioni di euro se ne vanno ogni anno per debiti fuori bilancio e per esecuzione di pignoramenti da parte di terzi. L’importo dei pignoramenti viaggia attorno ai 30 milioni di euro all’anno. Deriva in parte rilevante dalla esecutività di sentenze originate da situazioni debitorie di soggetti terzi a loro volta debitori verso la Regione Calabria.
Le società partecipate tra liquidazioni e fallimenti
Sono quindici le società partecipate dalla Regione Calabria: tre sono pienamente controllate con il 100% delle azioni (Ferrovie della Calabria, Terme Sibarite e Fincalabra), cinque sono in fallimento, quattro in liquidazione: sembra più un ospedale che una sistema di organizzazione economica.
L’indirizzo della Regione consiste nel mantenere l’assetto azionario in sei casi, alienare sotto forma di cessione a titolo oneroso in un caso (Comalca scrl), seguire le procedura di liquidazione per le restanti tre ed attendere l’esito delle altre 4 procedure fallimentari.
La diga del Menta, gestita dalla Sorical, società partecipata della Regione Calabria
Crescono le addizionali
A distanza di circa undici anni dall’avvio del commissariamento, la gestione sanitaria costituisce la più grave problematica della regione, per via di un persistente debito che si mantiene ancora molto elevato, oltre che per una qualità dei servizi molto modesta.
Per ridurre quell’enorme disavanzo è stato approvato un piano di rientro. In nome del risparmio, oltre a ricalcare i tagli già previsti a livello nazionale, ha smantellato diversi ospedali, comportando disagi alla popolazione. Ha previsto inoltre riduzioni di spese, producendo una carenza di servizi, che non garantiscono, ancora dopo undici anni, la risposta alle esigenze di salute per troppo tempo compromesse nella regione.
Non si è nemmeno riusciti a ricostruire il quadro del contenzioso che grava come ulteriore spada di Damocle sulla già pesante situazione debitoria. Nel 2020 il 67,4% del bilancio regionale è destinato al funzionamento del Servizio sanitario, comprese le risorse derivanti dalla fiscalità regionale finalizzata alla copertura dei disavanzi.
In considerazione del disavanzo non coperto per gli anni 2018 e 2019, portato a nuovo, si sono realizzate nel 2020 le condizioni per l’applicazione degli automatismi fiscali previsti dalla legislazione vigente. Ciò comporta l’ulteriore incremento delle aliquote fiscali di IRAP e addizionale regionale IRPEF per l’anno d’imposta in corso, rispettivamente nelle misure di 0,15 e 0,30 punti.
La Calabria storicamente mostra uno scarsissimo indice di attrattività sanitaria, a fronte di una elevatissima mobilità passiva, determinata, principalmente, dalla carenza di servizi sanitari. Nel 2020 il saldo di mobilità sanitaria extraregionale è pari a -287,3 mln di euro, mentre quello di mobilità sanitaria internazionale è pari a -1,5 mln di euro.
La presentazione del Pnrr con la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio, Mario Draghi
Verso il Pnrr
Questo è lo stato di forma con la quale l’istituzione territoriale si presenta all’appuntamento del PNRR. La forbice tra rendicontazione delle entrate in conto capitale e aumento delle stesse spese in conto capitale è una questione che rischia di essere deflagrante per i prossimi anni.
La Calabria viene specificamente citata nel PNRR per diversi cantieri di attività:
la conversione verso l’idrogeno delle linee ferroviarie non elettrificate e caratterizzate da elevato traffico in termini di passeggeri con un forte utilizzo di treni a diesel;
le misure per garantire la piena capacità gestionale nei servizi idrici integrati;
gli interventi infrastrutturali e tecnologici nel settore ferroviario con particolare riferimento alla realizzazione dei primi lotti funzionali delle direttrici Salerno-Reggio;
i collegamenti ferroviari ad Alta Velocità verso il Sud per passeggeri e merci permettendo di ridurre i tempi di percorrenza e di aumentare la capacità;
il miglioramento delle stazioni ferroviarie nel Sud;
il rafforzamento delle Zone Economiche Speciali (ZES) mediante una riforma che punti a semplificare il sistema di governance delle ZES e a favorire meccanismi in grado di garantire la cantierabilità degli interventi in tempi rapidi.
Trecento milioni di euro dovrebbero inoltre essere assegnati alla Calabria per interventi destinati a migliorare le infrastrutture sanitarie. Una cifra sostanzialmente identica spetta alla Calabria per interventi per la mobilità sostenibile e per il miglioramento della qualità nelle ferrovie regionali. Si tratta di un volume di investimenti di estremo rilievo in settori dove la debolezza competitiva della Calabria oggi genera scenari che non consentono di liberare adeguate energie per lo sviluppo del territorio.
La giunta regionale ha licenziato il Documento di Economia e Finanza, che costituisce la base di riferimento per delineare le politiche economiche e finanziarie che il nuovo Governo regionale intende realizzare nel triennio 2022-2024. Per garantire alla Calabria adeguate linee di sviluppo e di crescita economica. Dalla Sanità, il cui governo dopo tanti anni è stato restituito ai calabresi con l’assegnazione da parte del governo del ruolo di commissario al presidente della Regione, al Turismo e alla tutela dell’Ambiente, dall’emergenza idrica allo sviluppo delle imprese, dalle politiche attive per il lavoro alle emergenze della mobilità e delle infrastrutture.
La sfida più importante che va affrontata, e che costituisce la leva decisiva di politica economica regionale, è rappresentata dalla nuova programmazione dei Fondi Comunitari 2021-2027, e soprattutto dall’attuazione del Pnrr, Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Il Pil della Calabria perde il 9,6 % nel 2020
La pandemia lascia in eredità alla regione la peggiore recessione mai sperimentata in tempo di pace, con una caduta del PIL nel 2020 di 9,6 punti percentuali, il valore più elevato tra le regioni meridionali. Ma non è solo questo crollo imputabile alla crisi pandemica che ha segnato le vicende economiche della Calabria nel corso dei primi due decenni del ventunesimo secolo.
Il porto di Gioia Tauro
Già negli anni precedenti la crescita era molto più rallentata rispetto alle altre regioni meridionali. Nel periodo 2001-2007 il tasso di crescita annuale cumulato del PIL è stato del 3,1%, inferiore a quello del Mezzogiorno (+4,0%) e delle altre ripartizioni territoriali e della media nazionale che ha registrato un incremento del 8,1%.
In particolare, la crisi economica ha affondato l’andamento del Pil della Calabria segnando una flessione tra il 2008 ed il 2014 del 14,3% (la media nazionale è stata di -8,5%), sensibilmente superiore anche rispetto al Mezzogiorno (-12,6%). Tra il 2008 ed il 2014 la Calabria ha registrato un vero e proprio crollo degli investimenti, pari al 42,5%, in uno scenario comunque negativo per l’intero Paese (-29%).
Pochi occupati tra i giovani laureati
Segnali positivi erano apparentemente emersi nel periodo 2015-2018. Durante questa fase la Calabria registrava, seppur di poco, valori positivi (+0,6%). Ma si trattava di un dato non confortante se confrontato con il resto del Paese: era significativamente inferiore sia rispetto al Mezzogiorno (+2,5%) sia rispetto all’Italia (+4,8%).
Non esiste insomma indicatore economico, nei primi due decenni del ventunesimo secolo, nel quale la Calabria non registri un andamento peggiore non solo rispetto all’andamento dell’Italia, ma anche a quello del Mezzogiorno. Questo dato strutturale significa che non si può procedere per modifiche incrementali, o per leggere correzioni di rotta.
Secondo gli ultimi dati di Eurostat, inoltre, la Calabria si posiziona tra le peggiori per occupazione di giovani laureati tra i 20 e i 34 a tre anni dal conseguimento del titolo: risulta occupato appena il 37,2%, dato più basso dell’intero contesto regionale europeo. La media nazionale è del 59,5% a fronte dell’81,5% della media Ue a 27. La demografia segue gli stessi trend: ne abbiamo parlato recentemente in un altro articolo.
Un export che vale solo l’1,4 % del Pil
L’economia calabrese si presenta come un sistema chiuso, poco orientato agli scambi con l’estero. L’export calabrese, infatti, rappresenta in modo strutturale appena l’1,4% del PIL regionale, contro il 12,4% del Mezzogiorno e il 26,6% della media nazionale.
Siamo in presenza di una economia asfittica, poco densa nella sua articolazione manifatturiera, con caratteristiche di impresa squilibrate verso la piccola e piccolissima dimensione, a scarso tasso di innovazione, con mercati prevalentemente locali o limitrofi.
Anche nell’anno in corso, mentre il Paese fa registrare una ripresa economica più significativa rispetto alle altre nazioni dello spazi economico comunitario, la Calabria cresce meno.
La Calabria supera solo la Basilicata
Nel 2021 si stima che la Calabria registri un aumento del PIL del 2,1%, aumento più basso di tutta la penisola, con il Mezzogiorno che cresce del 3,3% e l’Italia del 4,7%.
La tendenza non varia anche nel 2022, sulla base delle previsioni che vengono formulate dai modelli econometrici: la Calabria, con una crescita del 3% precede solo la regione Basilicata (mezzogiorno +3,2 e Italia +4). La ripresa calabrese avanza con un passo meno veloce rispetto alle altre regioni. Senza un colpo di reni, ed una decisa inversione di tendenza, il percorso di marginalizzazione e declino della Calabria non è destinato a modificarsi.
L’ultimo Rapporto Svimez, ripreso un po’ frettolosamente dai media e subito strumentalizzato a livello politico, fotografa con precisione il cosiddetto “rimbalzo”, cioè la crescita italiana dopo la fase dura della pandemia. Il tutto nell’ottica particolare del Mezzogiorno, di cui esce un’immagine problematica, in cui sofferenze e speranze si mescolano in un intreccio fisso. A voler tentare una sintesi delle cinquecento e passa pagine del rapporto si può affermare che nell’Italia che ha ripreso a crescere il Sud arranca un po’, con la classica situazione a macchia di leopardo. E la Calabria appare ferma.
Lo ribadiscono alcuni indicatori, in particolare l’agricoltura (meno 10% di occupati nel settore, che pure da noi pesa il 4% del Pil, il doppio rispetto al resto del Paese) e l’informatica, gravata da una forte persistenza del digital divide.
Eppure, come tutte le situazioni croniche, le possibilità di miglioramento non mancano. Anzi. Più che le “lacrime e sangue”, ci aspettano gli sforzi, che potrebbero essere efficaci grazie all’iniezione di fondi del Pnrr.
Lo spiega Amedeo Lepore, professore ordinario di Storia economica presso l’Università Vanvitelli di Napoli, docente di Economia presso la Luiss e membro del cda di Svimez, per cui ha curato la parte relativa alla bioeconomia del Rapporto 2021.
Iniziamo dall’informatica, in cui il digital divide e l’analfabetismo tecnologico sembrano inchiodare il Sud rispetto al resto del Paese. La Calabria, addirittura, mostra una situazione contraddittoria: è la regione in cui sono stati effettuati massicci investimenti. E tuttavia, il numero di persone che non accedono ai servizi digitali resta elevato…
«A dire il vero, la contraddizione non è solo calabrese e meridionale. La pandemia ha senz’altro stimolato l’uso dei sistemi informatici, in misura nettamente maggiore che in passato. Tuttavia, si segnala un forte rallentamento proprio nel settore digitale, a partire dalla contrazione degli acquisti».
In pratica, le persone sono andate di più su internet ma hanno acquistato meno device. È così?
«In maniera grossolana, sì. Il calo non è da poco: meno 16% al Sud».
Eppure il Sud ha molta fibra e la Calabria è una delle zone più cablate in Europa.
«Il problema non riguarda tanto le infrastrutture, che erano centrali fino a qualche anno fa. Il gap dipende dalla differente geografia economica, determinata da strutture industriali molto diverse. Il maggiore investitore nell’informatica risulta la pubblica amministrazione, che ha speso complessivamente il 35% in più».
E i privati?
«Le aziende di grandi dimensioni hanno speso l’1% in più. Il problema vero riguarda le piccole imprese, che hanno speso il 5% in meno. Va da sé che il Nord, in cui la presenza di grandi imprese è nettamente maggiore risulti il maggior investitore e fruitore di mezzi e servizi informatici».
Ma questo trend si può modificare?
«Senz’altro: il dato su cui abbiamo ragionato non è assoluto, ma è suscettibile di una certa evoluzione, dovuta alla crescita delle piccole e medie imprese e delle startup. In questo caso, la divisione tradizionale Nord-Sud cede il passo a una situazione a macchia di leopardo: la prima regione per nuove startup è senz’altro la Lombardia. Ma le altre quattro sono meridionali: nell’ordine, Lazio, Campania e Calabria».
Ma resta ancora molto da fare.
«L’aspetto positivo è che molte imprese ed enti stanno facendo sforzi notevoli e c’è da dire che anche le Università, soprattutto al Sud, sono in prima linea nel processo di informatizzazione».
Tuttavia, le pubbliche amministrazioni calabresi sono al palo per quel che riguarda l’informatizzazione dei servizi.
«La bassa informatizzazione è la punta d’iceberg di un problema generale che coinvolge tutte le pa e che al Sud e in Calabria pesa di più: il ricambio generazionale. L’indice di ricambio, a causa dei tagli e del blocco del turnover è di 1. E ciò genera un forte gap culturale, che si esprime con due elementi: l’età media alta dei dipendenti pubblici e il livello non elevato dell’istruzione. La quantità dei dipendenti comunali muniti di laurea supera raramente il 30%. Nel Mezzogiorno questa situazione pesa di più, perché gli enti locali sono in crisi finanziaria cronica e quindi il ricambio risulta più rallentato che altrove».
E come se ne esce?
«Di sicuro con un soccorso delle amministrazioni centrali. Ma anche i Comuni devono fare la loro parte. Anzi, la maggior parte dello sforzo grava sugli enti territoriali, che devono elaborare piani di risanamento seri e rifare da capo le proprie piante organiche».
Anche in agricoltura i dati del Rapporto 2021 sono particolari: da un lato, alcune regioni, Basilicata e Campania, sono in crescita occupazionale, la Calabria arretra in maniera forte.
«L’agricoltura è un settore su cui il Pnrr investe molto, perché sta tornando al centro del sistema produttivo grazie all’innovazione tecnologica. Penso, in particolare, all’agroindustria e all’agrifood, che in alcune zone sono in netta crescita, ad esempio in Puglia. Anche in Calabria vi sono realtà positive che lasciano ben sperare».
Lei, in particolare, insiste sulle potenzialità della bioeconomia.
«È un’intuizione importante ma non nuova. Il primo che tentò di connettere l’agricoltura alla chimica fu Raul Gardini, che anticipò, appunto, i processi di bioeconomia circolare. Oggi la crescita delle tecnologie rende applicabili questi processi su scale enormi, con un evidente beneficio potenziale per il Sud».
Come?
«Attraverso la combinazione dell’uso di fonti energetiche rinnovabili, di cui il Sud è ricchissimo, procedure hi tech (si pensi all’uso dei sensori per l’irrigazione di precisione) e la produzione di materiali biodegradabili per uso industriale. In pratica, si metterebbero assieme gli elementi base dell’economia circolare, basata sul riutilizzo virtuoso più che sul semplice consumo, e della green economy. Questo mix consente di ottenere una forte innovazione e comporta un salto di qualità».
In che modo può incidere il Pnrr in questa crescita?
«Diciamo subito che al Sud spettano 82 miliardi, più il 50% degli investimenti su base regionale. Che non è davvero poco. Al riguardo, sorge spontaneo il paragone con la vecchia Cassa del Mezzogiorno, che stimolò importanti investimenti e contribuì a ridurre la forbice tra le due parti del Paese. Anche in questo caso, occorre un intervento straordinario che crei le precondizioni per questo salto, indispensabile non solo per la Calabria e per il Mezzogiorno, ma per tutto il sistema Paese».
In pratica, è un modo di dire che se cresce il Sud cresce il Paese?
«Sì. Il Centronord è saturo di investimenti ed è al massimo della produttività. Se il Sud riesce ad avere una crescita apprezzabile sui volani di cui abbiamo parlato, stimolerà a sua volta una crescita di tutto il sistema, con benefici enormi».
Anche lo smart working può contribuire attraverso la delocalizzazione del lavoro?
«Sì, ma non nella misura in cui si crede comunemente. Innanzitutto, ci sono attività che possono essere svolte solo in determinati posti. Poi, non tutte le attività intellettuali (quelle a cui si prestano meglio le modalità smart) possono funzionare in telelavoro».
Resta il grosso nodo, che più dei divari economici, continua a dividere il Paese: le infrastrutture.
«In questi casi occorre sviluppare non solo le infrastrutture longitudinali, ma è necessario incidere anche sulla latitudine. Soprattutto per quel che riguarda il Mezzogiorno, la direttrice est-ovest è altrettanto importante di quella nord-sud, perché può mettere in contatto, ad esempio, realtà produttive importanti e far comunicare tra loro i porti».
Che comunicano piuttosto poco, come Gioia Tauro, ad esempio…
«Nel Pnrr sono previsti 600 milioniper le Zes e per infrastrutturare le aree portuali. Al riguardo, è significativo l’investimento fatto in Irpinia, per collegare con efficacia l’area industriale agli sbocchi adriatici attraverso la Puglia. Anche la Calabria può entrare benissimo in questo sistema. I miracoli non esistono, ma si può fare tanto per crescere. Basta volerlo e saperlo fare».
Gli economisti hanno spesso cercato spiegazioni sull’andamento dell’economia italiana, spesso paragonata al paradosso del calabrone: tutte le leggi indurrebbero a ritenere che non possa alzarsi in volo, eppure accade. Sta succedendo anche in questo 2021, con l’Italia che fa registrare incrementi della ricchezza prodotta superiori a quella degli altri principali Paesi occidentali. Ma la regola del calabrone non vale per la Calabria. Cerchiamo di capire perché.
Una crisi anomala
Quella del Covid è stata una crisi anomala rispetto alle esperienze del capitalismo moderno. Se nelle recessioni tradizionali le componenti della domanda che registrano le contrazioni più ampie sono i consumi di beni durevoli, questa volta è caduta molto, e più a lungo, la domanda di servizi che solitamente presenta tendenze relativamente stabili (turismo, viaggi aerei e ferroviari, alberghi, ristoranti, spettacoli), nonché alcuni consumi che hanno risentito in maniera indiretta della crisi per effetto del mutamento degli stili di vita, come l’abbigliamento e le calzature. Per contro, si sono verificati andamenti positivi per altre filiere, come le attività legate alla digitalizzazione ed all’informatica, ed i servizi di trasporto e logistica, per effetto della diffusione dell’e-commerce.
I valori in picchiata del 2020
Il calo del Pil è stato nel 2020 relativamente omogeneo a livello territoriale, con un Sud leggermente meno colpito: -8,2% nella media delle regioni meridionali e -9,1% nel Centro-Nord, con una punta del -9,4% nel Nord-Est e una dinamica al Centro in linea con la media nazionale (-8,9%). Nel 2020 il valore aggiunto del settore agricolo, meno toccato dal rallentamento complessivo, ha segnato una contrazione del 3,8% rispetto al 2019. La flessione è leggermente più intensa al Centro-Nord (-4,4%) rispetto al Mezzogiorno (-2,9%); tuttavia, a differenza del Centro-Nord, la contrazione del comparto interviene nel Sud dopo un 2019 molto positivo (+3,6%).
La crisi ha determinato effetti differenziati nelle varie regioni meridionali. La contrazione maggiore tra il 2019 e il 2020 è stata quella della Calabria (-11,6%): questo crollo non è assolutamente connesso alle caratteristiche pandemiche, e traccia un solco profondo rispetto al resto del Paese. Questo è il primo segno di una anomalia calabrese che va osservata con estrema attenzione.
Clementine della Sibaritide, una delle eccellenze agricole calabresi
La crisi del settore manifatturiero
Considerando il comparto manifatturiero, la differenza di performance tra le due macro-aree dell’Italia è risultata più accentuata: il valore aggiunto manifatturiero è diminuito del -10,1% al Sud, mentre per le industrie localizzate nelle regioni centro-settentrionali la riduzione è stata del -11,6%.
Anche nel terziario, il cuore della crisi pandemica, il crollo delle attività è stato molto rilevante. Il valore aggiunto prodotto dai servizi in Italia segna un calo dell’8,1% nel 2020 rispetto al 2019: al Centro-Nord leggermente più alto (-8,2%) rispetto al Mezzogiorno (-7,8%). Complessivamente, il valore aggiunto della Calabria mostra durante la pandemia un calo più alto della media della circoscrizione meridionale (-9,3%): questo andamento è dovuto alla maggiore flessione di agricoltura (-11,6%), costruzioni (-11,2%) e servizi (-9,1%); inferiore alla media del Sud risulta la flessione dell’industria in senso stretto (-9,1%).
Il paradosso del calabrone
Il calabrone calabrese non si libra in volo perché da tempo sta perdendo capacità competitiva. Le ragioni sono molteplici, sinteticamente le individuiamo nella demografia, nella giustizia, nella sanità e nell’innovazione. Cominciamo dalla demografia. Se osserviamo il periodo tra il 2010 ed il 2018, prima della pandemia, la Calabria è una delle sei regioni italiane che perde addetti, ed è la terza in questa speciale graduatoria (-5.447 unità), preceduta solo da Sicilia e Sardegna.
Nel 2020, il saldo migratorio interno è in media negativo al Sud per oltre 50mila unità a favore delle regioni del Centro-Nord (era pari a – 71 mila nel 2019). Questo fenomeno non è omogeneo nelle diverse aree. Il saldo demografico dei comuni delle aree interne tra il 2012 ed il 2020 è stato negativo per il 9,4% in Calabria, la seconda performance più negativa del Paese, migliore solo rispetto all’Abruzzo (9,8%).
Tempi lunghi per i procedimenti civili
Passiamo al nodo della giustizia, che pesa sul contesto sociale ed economico. Il Mezzogiorno presenta la più alta domanda di giustizia, con una media di 777 nuovi casi (ogni 10mila abitanti) iscritti a ruolo ogni anno a fronte dei 704 del Centro e dei 541 del Nord. Non è solo questione di personale. Il Sud dispone in media di una dotazione di personale togato superiore alla media nazionale: nel 2019 operavano al Sud circa 11 magistrati ogni 100mila abitanti (con punte di 15 magistrati in Calabria e 13 in Campania) a fronte dei circa 9 del Centro e 7 al Nord.
L’ingresso del tribunale di Cosenza
Nel 2019 per chiudere un procedimento civileoccorrevano circa 280 giorni nei tribunali del Nord, 380 al Centro e quasi 500 nel Mezzogiorno (dati pesati per la popolazione). Va tuttavia segnalato come il sistema giustizia al Sud, partito da una situazione molto critica (nel 2004 occorrevano in media 650 giorni per chiudere un procedimento), nei 15 anni osservati sia riuscito a registrare il miglioramento più significativo contraendo i tempi dei processi di circa il 25%.
Per la giustizia penale si brancola nel buio
Mentre si è registrato un progresso, sia pure in un ritardo persistente, nel settore della giustizia civile nel Mezzogiorno, per la giustizia penale si brancola ancora nel buio. Nel 2019 un processo penale si chiudeva al Nord in 290 giorni (+9% rispetto al 2004), in 450 giorni al Centro (+23% rispetto al 2004) e in 475 giorni (+7%) nel Mezzogiorno.
Non è migliore la situazione nel settore della salute. Se prendiamo in considerazione i punteggi regionali sui livelli essenziali di assistenza nella sanità, la Calabria si colloca nel 2019 al penultimo posto nella graduatoria nazionale, seguita solo dalla Sardegna. Rispetto alle regioni settentrionali del Paese i valori sono pari quasi alla metà e nel confronto con le altre regioni del Sud siamo ad un valore inferiore di un quarto. Non bisogna poi stupirsi di quello che è accaduto in Calabria durante la pandemia.
Calabria ultima per ricercatori
Nela ricerca e nella innovazione la situazione è catastrofica. La Calabria è assisa sul podio negativo per numero di ricercatori ogni 10mila abitanti, con un indicatore pari a 0,9, preceduta solo da Valle d’Aosta e Basilicata. Anche in termini di numero di ricercatori occupati nelle imprese in percentuale sul totale degli addetti la Calabria si colloca all’ultimo posto in graduatoria in Italia assieme alla Basilicata (0,2%). Il numero degli incubatori in Calabria è pari solo a due, con una performance migliore esclusivamente rispetto al Molise, che ne registra uno solo. Infine, la graduatoria sulla percentuale di persone che usano regolarmente Internet vede la Calabria all’ultimo posto (67%), assieme alla Puglia ed alla Basilicata.
Il calabrone calabrese è appesantito dunque da diversi fattori strutturali che piombano le ali. Su questi elementi si deve lavorare per tentare di spiccare il volo, come ancora riesce a fare il resto dell’Italia. Non c’è più molto tempo per recuperare i gap che affossano ancora la Calabria.
Dalle neviere ai fichi ci fa da trait d’union la scirubetta. Era una e una sola l’essenza per eccellenza che si mescolava alla neve raccolta al momento e trasformata in granita nel bicchiere: il miele di fichi. Questa leccornia tanto ricercata quanto complessa da ottenere, è solo uno dei prodotti che nella Calabria e nel Cosentino si ricavavano dalla coltivazione dei fichi. Oltre al frutto da mangiare fresco e al miele ricavato tramite la sua bollitura e spremitura, a tenere alta la bandiera calabrese negli scorsi decenni sono stati i fichi secchi, che nella seconda metà dell’Ottocento raggiungevano le tavole di mezza Europa rappresentando per la Calabria una significativa fonte di guadagno.
Altro che “non valere un fico secco”!
Ficu prene
La cultura popolare e contadina ha poi elaborato il prodotto in varie altre declinazioni, in base alla forma, all’intreccio, all’essiccazione, al passaggio in forno o all’abbinamento con altra frutta secca. Le crucette, che Accattatis nel suo Vocabolario del dialetto calabrese chiama anche ficu prene e definisce «due o quattro fichi spaccati, imbottiti di noci e simili ingredienti, incastonati a forma di croce e tostati al forno», sono forse i prodotti più noti, ma non sono i soli. Ficu ‘mpurnate, cioè passate al forno, jette, trecce di fichi secchi infilzati ad un’asta di canna, ficu a pallune, i fichi secchi e infornati, uniti all’interno di foglie a formare una palla dalla grandezza di un pugno, sono solo alcune delle specialità tradizionali più ricercate. Ma a volerle elencare tutte… te salutu ped’e ficu!
Fichi al forno (foto Rosalia Spadafora)
Influssi astrali
Tra Cinquecento e Seicento i fichi calabresi erano rinomati soprattutto fuori regione. Ne offre una preziosa testimonianza lo storico Giovanni Fiore da Cropani in Della Calabria Illustrata (1691): «Nientemeno più prezioso, e per la copia e per la perfezzione egli è il raccolto delli Fichi. Principia egli nel mese di Giugno, e si allunga fin all’altro di Decembre». Fiore scrive a proposito della coltivazione, della diversità delle specie e dell’esportazione verso Napoli, Sicilia, Roma e addirittura Malta.
Ma come tutti i prodotti della terra, si credeva che anche i fichi fossero soggetti agli influssi astrali e che richiedessero particolari attenzioni nella coltivazione. L’astronomo/astrologo cosentino Rutilio Benincasa nel suo Almanacco Perpetuo divideva i frutti in tre gruppi di dodici. Li distingueva tra quelli che «si mangiano tutti», quelli che «si mangiano dentro» e quelli che «si mangiano quello di fuora». I fichi «che si mangiano tutti» erano dominati dall’Orsa maggiore. Nel calendario annuale, invece, era da annotare la data del 31 agosto, in cui «Andromeda appare, e fa freddetto, ed in questi tempi si domesticano li fichi, e s’incomincia dai 14 di luglio ad innestare et insertare».
Secondo Benincasa persino il lattice, cioè la sostanza bianca che stilla dal fico non ancora maturo appena raccolto o dalle sue foglie, aveva proprietà benefiche, tanto che a chi avesse voluto far passare il gonfiore di punture di api o di vespe consigliava: «Sopra detto morso vi metterete latte di fico».
Dalla seta ai fichi
Dalla fine del Settecento la coltivazione prendeva sempre più piede nelle campagne calabresi, con un particolare incremento nel Cosentino. Nel 1792, nel corso di un viaggio in Calabria, attraversando il Cosentino l’economista e intellettuale napoletano Giuseppe Maria Galanti notò che i fichi stavano lentamente prendendo il posto dei gelsi, a testimoniare un’involuzione dell’economia della seta. Quella dei fichi era infatti una delle “estrazioni della provincia” e «olio, fichi ed uve passe, qualche volta grano» erano le uniche esportazioni che giungevano «fuori dal Regno».
Certo, il commercio era ostacolato da numerose “vessazioni”. Tra queste, il “lasciapassare” che era necessario anche all’interno della Calabria «per trasportarsi i generi d’olio, di cotone, formaggio, lana, lino, canapa, fichi secchi, da un lato all’altro». Galanti non può fare a meno di notare e annotare che «la miseria sembra estrema ne’ casali di Cosenza. La principale industria era la seta; si tagliavano prima li castagni per piantare gelsi: oggi si esercita a pura perdita ed in luogo di gelsi si piantano fichi». Anche nel Vallo, cioè nei paesi della Valle del Crati, «da pochi anni si sono fatte gran piantagioni di olivi e di fichi dove i gelsi si sono invecchiati».
Così pure nel «litorale da Amantea a Belvedere» l’industria della seta, un tempo principale, era in declino, mentre era attivo un discreto commercio di fichi secchi. La coltivazione dei fichi era praticata abbondantemente anche nelle altre aree della regione, ma non sempre riusciva a travalicare i confini territoriali. A tal proposito lo stesso Galanti fa notare che nei dintorni di Tropea «i fichi secchi si reputano i migliori del paese» ma la loro esportazione era scarsa: «si seccano i fichi e le prugne damascene, che sono ottime, ma sono per l’uso del paese».
Trecentomila quintali
A fine Ottocento le qualità più pregiate venivano coltivate a Cosenza, Rende, Rose, Castiglione Cosentino, Roggiano, Torano, Rovella e Zumpano. La produzione in media raggiungeva i 300 mila quintali. La gran parte di questi veniva esportata «al prezzo medio di L.34 per ogni quintale». Il prodotto di prima scelta veniva confezionato e spedito all’estero.
La Francia ne importava ancora agli inizi del Novecento le quantità più significative, ma fichi calabresi giungevano anche in Olanda, in Austria e, ovviamente, in tutte le regioni d’Italia. Se ne trova menzione anche nel carteggio di Filippo Turati, uno dei fondatori nel 1893 del Partito dei lavoratori italiani dai quali nascerà lo storico Partito socialista. In una sua lettera del 1920, infatti, Turati accenna a un Berardelli indicandolo come «quello dei fichi di Cosenza».
Dal gruppo Facebook “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza”
Dal gruppo Facebook “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza”
Non mancavano le note dolenti. Non sempre i prodotti calabresi riuscivano a imporsi all’estero, e a difettare non era la qualità, ma spesso la capacità di saperli presentare in modo efficace. Durante un congresso di frutticoltura nel 1927 uno dei relatori, a proposito dell’esportazione dei fichi di Cosenza, notava che spesso «difetti nella scelta delle razze, nella cernita e nella confezione del prodotto, nei sistemi di imballaggio, tengono i nostri fichi secchi in condizione di inferiorità» ma allo stesso tempo ricordava che «i migliori fichi di Cosenza, esportati in Francia e pagati a prezzi modici, vengono quivi accomodati in modo civettuolo in eleganti cestini e rimessi in commercio col nome di fichi di Smirne!».
Siccaficu e leghe bianche
Ogni quintale di fichi secchi richiedeva un notevole lavoro. Trattandosi di un prodotto essiccato al sole la variabile metereologica incideva molto. La parte destinata all’essiccazione veniva raccolta dagli alberi una volta giunta a maturazione, i passulùni, e riposta sulle cannizze, graticci di canne intrecciate, pronte a essere ritirate in fretta all’asciutto al primo accenno di pioggia. Ma anche dopo riposte sulle cannizze, il lavoro non era finito. Periodicamente era necessario girarle da un lato, dall’altro, e anche con la punta in alto, perché si essiccassero in maniera uniforme.
Fichi in essiccazione sulla “cannizza” (foto Rosalia Spadafora)
Distese di cannizze colme di fichi al sole costellavano così le campagne attorno alla città e quelle più vicine ai paesi attorno a Cosenza. Per gli abitanti di Sant’Ippolito, ad esempio, Vincenzo Padula riporta il soprannome di siccaficu, a conferma che l’attività era tanto diffusa da caratterizzare il paese. E una simile cosa doveva avvenire a Torzano, attuale Borgo Partenope, dove ancora negli anni ’20 del secolo scorso si era soliti fare anche una “raccolta delle fichi”, oltre che di grano e mosto, per sovvenzionare le feste di Santa Maria e dell’Immacolata che si tenevano all’inizio e alla fine di settembre, il mese dei fichi per eccellenza.
Donne al lavoro in una fabbrica di fichi – I Calabresi
In questi centri, così come a Donnici e negli altri paesi del Cosentino, gli intermediari acquistavano la parte migliore per poi immetterla sul mercato. Le famiglie, invece, tenevano quelle di minore qualità da ‘mpurnàre o trasformare in crucette conservandole in apposite ceste o nei casciùni. A contrastare l’attività lucrosa degli intermediari provò don Carlo De Cardona che, nel primo decennio del Novecento, tramite le sue “leghe bianche” aveva incentivato la nascita di una cooperativa di produzione. La cooperativa aveva rappresentanti a Marsiglia, dove giungeva una parte significativa dei fichi calabresi.
Un frutto, tante varietà
«Che dir dobbiamo ai venditor di fichi?» si chiede Nicola Leoni in Della Magna Grecia e delle Tre Calabrie (1844). Nel suo pistolotto lirico lo scrivente ammonisce i contadini calabresi dediti a ogni sorta di magheggio pur di piazzare la propria mercanzia: «I buoni esporre de’ canestri in fuori […] i viziosi e i duri occultare in sotto». E di fichi eccellenti, o almeno di buona qualità, in quelle ceste non dovevano essercene in grande quantità. I pezzi migliori, cioè quelli più grassi e intonsi, erano destinati all’esportazione.
“Ficu citrulare” – I Calabresi
Gli almanacchi di cultura popolare calabrese e le istruzioni a uso del contadino citano molteplici varietà. Tra queste:
il dottato (volgarmente ottato), «varietà squisita che viene principalmente e specialmente adoperata per seccare»
i fichi melignana, che per forma e colore rassomigliavano a una melanzana
il calastruzzo, «piccolo e saporito»
i fichi biferi
i fichi fiore (fioroni), con buccia verde, frutto paonazzo «grossi e di sapore gradito»
il messinese
il natalino nero
il troiano
Cosenza vs Smirne
Nella seconda metà dell’Ottocento il fico dottato bruzio era rinomato e secondo soltanto a quello coltivato nella città turca di Smirne. Il motivo è presto detto: il fico cosentino «è più ricco in glucosio, ma più deficiente in sostanze proteiche dei fichi di Smirne: in confronto a quelli i prodotti calabresi sono più piccoli». Anche in termini di peso medio la differenza era macroscopica: 22 grammi contro 10.
Ciò secondo gli “addetti ai lavori” era dovuto a una coltura praticata in maniera non razionale, senza cure alla pianta e in maniera promiscua, cioè affiancata ad altre piante. Anche per quanto riguarda le fasi successive il caro vecchio almanacco si premura di sentenziare: «Converrebbe migliorare la tecnica dell’essiccamento che si fa al sole pei primi fichi e al forno per gli ultimi, ma sempre con mezzi deficienti, in caso di variazioni dell’andamento della stagione».
Figues de Cosenza
Dal gruppo Facebook “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza”
Bertini, Garritano, Colavolpe, Aloisio sono solo alcune delle decine di aziende del Cosentino con una solida tradizione famigliare alle spalle dedite alla lavorazione e al commercio di fichi infornati, ricoperti, imbottiti. Molti anni prima delle fortune di costoro altri imprenditori, autentici pionieri nel settore, guardavano Oltralpe per piazzare la propria migliore mercanzia.
Una preziosa testimonianza sulle qualità e le tipologie di fichi esportati è offerta dai marchi e modelli originali custoditi nei corposi registri dell’Archivio Centrale dello Stato. La città di Cosenza e il suo produttivo hinterland (Bisignano, Torano, Vaccarizzo, Montalto Uffugo) si presentavano sul mercato transalpino con un tripudio di etichette sulle quali campeggiavano ancore, pavoni, docili mucche e felini, stemmi inquartati e divinità alate.
P. Barone&C., Bisignano, Marque Croix, Bisignano, 1932
Fratelli Maltese, fu Pietro, Spezzano Albanese,1907
Carlo Spada, Cosenza, 1919
Giuseppe Gallo, Cosenza, 1891
Catiello Florio, Cosenza, 1883
P. Barone&C., Marque Aiglon, Bisignano, 1932
Alcuni sono davvero essenziali, come quello studiato da Catiello Florio, dedito alla fichicoltura dal 1883. C’è poi la ditta Barone&C. di Bisignano, che negli anni ’30 del Novecento si presentava sulle piazze di Parigi, Lione e in tutta la Francia con addirittura quattro specialità a base di fichi e una “prima scelta” propagandata da due falchi divisi da una stella. Infine nel 1906 Guglielmo Pellegrini Lise si rivolge senza mezzi termini ai propri affezionati clienti: «Tra i fichi di Cosenza preferite “la marca sette colli”, esclusiva produzione del luogo».
Dal gruppo Facebook “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza”
La Banca d’Italia ha recentemente pubblicato tra gli Occasional Papers della serie Questioni di Economia e Finanza il lavoro “I divari infrastrutturali in Italia: una misurazione caso per caso” a cura di Mauro Bucci, Elena Gennari, Giorgio Ivaldi, Giovanna Messina e Luca Moller.
Si tratta di uno studio che, per misurare l’adeguatezza delle infrastrutture in un determinato territorio, sia economiche (reti di trasporto su strada e su ferro; porti e aeroporti; reti elettriche, idriche e di telecomunicazioni) sia sociali (ospedali e impianti di smaltimento dei rifiuti), propone un nuovo approccio.
I risultati non fanno altro che attestare un quadro desolato di accentuate differenze nella dotazione delle diverse aree del Paese, evidenziando il più delle volte una situazione di svantaggio del Sud e delle Isole.
Occorre precisare che vi sono notevoli difficoltà di ordine metodologico nel misurare il capitale infrastrutturale di un territorio. La letteratura, infatti, ha elaborato una pluralità di indicatori – monetari, fisici e, più recentemente, di accessibilità. Tuttavia, essi colgono aspetti parziali (l’entità delle risorse spese, l’estensione fisica delle reti, la marginalità geografica di un’area) senza consentire di valutare come effettivamente le infrastrutture incidano sulla vita economica e sociale dei territori. In tal senso, l’analisi promossa da Banca d’Italia differisce da altre basate su indicatori fisici o di spesa pubblica, che offrono una visione unidimensionale che il più delle volte si rivela fuorviante.
Meno investimenti? Colpe da dividere
In Italia le risorse destinate sia all’ampliamento sia alla manutenzione delle infrastrutture sono diminuite nell’ultimo decennio. La riduzione della spesa per investimenti pubblici è stata particolarmente intensa fra il 2009 e il 2019 (dal 4,6% al 2,9% del PIL). Ne è conseguito un allargamento del divario quantitativo e qualitativo rispetto agli altri paesi d’Europa. La dotazione di capitale pubblico delle aree del Paese che già segnavano un ritardo ne ha risentito notevolmente.
L’indebolimento infrastrutturale delle regioni meridionali non è da attribuirsi soltanto, come retorica vuole, alle scelte sbagliate dello Stato centrale. Il contesto italiano, infatti, si caratterizza per il sovrapporsi delle responsabilità fra più livelli di governo in materia di infrastrutture (sanità, istruzione, trasporto pubblico locale, smaltimento dei rifiuti urbani). Pertanto la responsabilità ricade per una parte significativa nella sfera decisionale delle amministrazioni locali, che erogano oltre la metà della spesa pubblica per investimenti.
Il federalismo fiscale e la ricognizione mai effettuata
Le capacità tecniche delle amministrazioni locali di selezionare i progetti e di portare a termine i lavori nei tempi programmati si sono rivelate troppo spesso inadeguate.
In termini pro capite, nella media dell’ultimo decennio, l’entità delle risorse per investimenti infrastrutturali è stata all’incirca pari a 780 euro per le regioni meridionali e insulari, contro gli oltre 940 delle regioni centrosettentrionali. È evidente che questa non sia la premessa migliore per affrontare l’ormai prossimo avvio del PNRR.
Nel 2009 la legge di attuazione del federalismo fiscale aveva previsto l’individuazione dei divari territoriali circa «le strutture sanitarie, quelle assistenziali e scolastiche, la rete stradale, autostradale e ferroviaria, quella fognaria, idrica, elettrica, di trasporto e distribuzione del gas, nonché le strutture portuali e aeroportuali». Ad oggi, tale ricognizione non è stata ancora realizzata.
Sud e isole fuori dai mercati
I dati disponibili, tuttavia, sono eloquenti. Dal momento che la competitività delle imprese è strettamente legata alla disponibilità di una rete adeguata di trasporti e di telecomunicazioni, nonché alla qualità del servizio energetico e idrico, che rappresentano input essenziali dei processi di produzione, è evidente che le opportunità di accesso ai mercati sono molto ridotte per la maggior parte delle aree localizzate nel Meridione e nelle Isole, come nelle zone appenniniche interne. Infatti, i territori con i collegamenti più veloci sono collocati nelle regioni settentrionali, soprattutto nella parte orientale.
In merito alle telecomunicazioni, un forte ritardo caratterizza il Paese nel suo complesso circa la disponibilità della tecnologia più innovativa: la connessione di rete fissa a banda larga ultraveloce. La Calabria, fatta pari a 100 la media italiana, raggiunge un indice di appena 15,9, nettamente inferiore anche a quello del Mezzogiorno (37,6).
I problemi con acqua e luce
Per quanto concerne il servizio elettrico, nelle regioni meridionali e insulari i buchi di tensione si verificano con una frequenza significativamente maggiore rispetto al resto del Paese. Per non parlare del servizio idrico: in molte provincie del Sud si registrano perdite di entità rilevante tali per cui alcune realtà sono soggette a fenomeni di razionamento dell’acqua per uso domestico. Addirittura, in capoluoghi quali Catanzaro, Palermo, Enna e Sassari, il razionamento idrico non è limitato ai periodi estivi ma interessa, per alcune ore al giorno, l’intero arco dell’anno.
A fronte di questo impietoso scenario, come agire per colmare o almeno ridurre, i divari?
Tenendo conto sia della componente ordinaria che di quella aggiuntiva dell’attività di investimento dell’operatore pubblico alle regioni meridionali e insulari dovrebbe essere destinata una quota di spesa almeno pari al 45%, in ogni caso sensibilmente più elevata rispetto alla quota della popolazione residente.
«Noi crediamo fermamente che la Calabria possa uscire dallo stallo del basso indice di lettura solo se le istituzioni scolastiche si impegneranno una volta per tutte a creare dei percorsi di lettura tra gli studenti. Bisogna coinvolgere autori e editori locali. Ci stiamo muovendo in questa direzione sensibilizzando l’Ufficio scolastico regionale e le istituzioni. Confidiamo nell’attenzione della vicepresidente della Regione, Giuseppina Princi, della quale conosciamo le grandi capacità manageriali e la sensibilità verso il mondo della cultura».
Così spiega il suo punto di vista l’editore Franco Arcidiaco in relazione al fatto ormai consolidato per cui in Calabria, in media, si legga poco o nulla. Nel 1997 Arcidiaco ha deciso di coltivare la sua passione per la lettura e ha fondato Città del Sole Edizioni con la moglie Antonella Cuzzocrea. La casa editrice è presente, con propri stand, nelle più importanti fiere di settore, dal Salone del Libro di Torino alla Fiera Più Libri Più Liberi di Roma.
Covid e lettura
«I dati rilasciati dalle associazioni di editori – aggiunge Arcidiaco – non riguardano certamente la Calabria, che rimane sempre fanalino di coda (a livello mondiale) per indici di lettura. Sono più le persone che scrivono di quelle che leggono e comunque anche quelle che scrivono non comprano i libri degli altri». Poi l’editore continua: «La lettura in tempo di Covid si è sviluppata sui social, non certo sulla carta stampata. Noi da 5 anni abbiamo affiancato all’attività di produzione vera e propria, un’attività “sociale”. Abbiamo aperto in pieno centro a Reggio, lo “Spazio Open” che è un luogo dove ha sede la nostra casa editrice. Lì si possono anche comprare i nostri libri e si possono organizzare eventi culturali con una capienza di 80 posti in osservanza alla normativa vigente per la pandemia. Inutile dire che siamo stati fermi oltre un anno…».
Come funziona la filiera di vendita? «Il principale canale – dice Arcidiaco – è il nostro distributore che ha sede a Torino, poi vengono i grandi siti di e-commerce. Per fortuna abbiamo la vendita diretta nel negozio e nel nostro sito che ci consente di andare avanti. Le librerie on line comunque hanno il pregio di essere puntuali nei pagamenti e di garantirci una buona visibilità. La distribuzione assorbe il 60% del prezzo di copertina. Se aggiungi che il 10% va agli autori (come diritti) e il 30% non è nemmeno sufficiente per la lavorazione del prodotto, ecco che razza di business è il nostro… ci guida solo la passione».
La regione in cui si legge meno
Il punto è che non c’è nessuna politica regionale seria, secondo la critica letteraria Maria Franco, per favorire la lettura di qualità. Qui avremmo un numero di librerie tuttora alto rispetto ad altri territori. Lo stand che rappresenta la Calabria e i suoi editori alle giornate del Salone internazionale del libro al Lingotto di Torino, invece, è stato considerato non all’altezza. E importanti eventi storicizzati, che puntano sull’avvicinamento dei giovani calabresi a questo mondo, sono pure rimasti fuori dalla partita dei fondi per la cultura.
Lo scrittore Mimmo Gangemi – i Calabresi
Secondo l’Istat, quattro calabresi su 100 vanno in biblioteca almeno una volta l’anno(la media nazionale si attesta a 14 su 100) e i dati sulla lettura ci confermano anche nel 2020 in fondo alla classifica delle regioni italiane in termini di lettori di libri e quotidiani cartacei e online. «È molto triste che siamo ancora ultimi nonostante il presunto risveglio culturale», afferma sconsolato lo scrittore tra gli altri de La signora di Ellis Island, Mimmo Gangemi.
I numeri sulle vendite in libreria, infatti, in termini assoluti sembrano buoni e arriverebbero anche incoraggianti segnali di crescita dal mercato nazionale del libro. «Trovo interessante – afferma con sarcasmo il giovane scrittore Daniel Cundari – il tema affrontato dal vostro giornale. Dopo tutto la Calabria resta sempre la regione più magica del pianeta, in tutto il suo realismo tragico. Dovremmo farci annettere da qualche Repubblica caraibica».
Il poeta Daniel Cundari – I Calabresi
I libri che cambiano la vita
È ottimista sullo stato delle cose, invece, il libraio Nunzio Belcaro, quando spiega il suo punto di vista sulla nuova vita del libro, che appare rinato con la pandemia come hanno evidenziato negli ultimi grandi eventi le associazioni di settore. In un quadro regionale, invece, come abbiamo visto, caratterizzato da tendenze negative e mancate politiche di settore per aumentare i lettori. A Catanzaro Lido, da dieci anni, è iniziata la sua nuova avventura in una catena di librerie indipendenti: «Mi ha cambiato davvero la vita», ammette.
«Ho iniziato a lavorare con i libri nell’autunno del 2006. In verità tutto è cominciato a giugno dello stesso anno, quando decisi di dimettermi dal lavoro precedente e di aprire la mia prima piccola libreria indipendente, che, data la portata della pazzia, decisi di chiamare Don Chisciotte». Le cose sono andate meglio del previsto: «Siamo una sorta di catena ibrida formata da librerie indipendenti. Abbiamo un nostro supporto di vendita online che si chiama IoLettore, è una app in forte crescita. Tuttavia, è in libreria che ci giochiamo la nostra sfida principale ed è lì che sappiamo di poter offrire quel valore aggiunto che nessun canale online esistente e futuro potrà mai offrire».
La rivincita degli indipendenti
Secondo Belcaro, 43 anni, le vendite di libri nel 2021 e i comportamenti nati nel lockdown, fanno ben sperare, soprattutto, in una regione come la nostra in cui, in media e in termini assoluti, si legge poco e ancor meno si frequentano biblioteche e musei. Dunque, ai numeri diffusi sulla crescita nazionale, per comprendere meglio si deve affiancare una dimensione umana fatta di fatica e impegno. E originalità.
«È diventato un casino il mondo del libro, abbiamo una sola certezza per fortuna: il libro non morirà», ci dice Francesca Londino di Ferrari editore. Non è un caso che a crescere oltre all’online, siano state proprio le librerie indipendenti e di proposta. Quello che non funziona più è la libreria in stile supermercato, con commessi al posto di librai.
Sopravvivere all’e-commerce
«All’inizio è stata una scelta dettata dall’incoscienza. Unire una grande passione, quella dei libri, alle competenze commerciali che avevo accumulato dai precedenti lavori. Nel 2006 però tutto ciò che ruotava intorno al mondo del libro appariva nefasto. L’avvento degli ebook si pensava potesse far accadere la stessa cosa che era accaduta nel mondo della musica, dove i supporti fisici per ascoltarla venivano sostituiti dal digitale. E poi i grandi sconti della grande distribuzione, l’avvento dei primi e-commerce. Oggi posso dire che è stato giusto seguire quel sentimento, investire in una grande passione. Tutto ciò che appariva un incubo si è rivelato inconsistente. Eil libro e le librerie indipendenti e di proposta come la nostra, hanno vinto», sostiene Belcaro.
Nunzio Belcaro sulla sua Vespa, pronto a consegnare libri – I Calabresi
Dopo la pandemia, per una serie di concomitanze favorevoli, ha visto la situazione «decisamente migliorare». La grande visibilità avuta dal libraio calabrese grazie all’idea delle consegne a domicilio in vespa durante il lockdown, la nuova legge del libro che ha equiparato gli sconti dell’e-commerce a quelli che possono fare le librerie, l’avvento del fenomeno dei manga che ha riportato fra gli scaffali gli adolescenti e, in generale, il riavvicinamento al libro in un periodo difficile delle esistenze di tutti consegnano una dimensione in continuo rinnovamento.
Belcaro conclude così: «La nostra è una libreria generalista che prova a soddisfare le esigenze della comunità dei lettori a cui deve rispondere. Pensiamo sia la formula vincente per una piccola città di provincia. Promuovere e proporre libri per chiunque. Il futuro è fra i libri, di questo non ho dubbi».
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