Nel decreto Sostegni ter il Governo ha disposto, tra l’altro, la soppressione della riduzione (al 30%) dell’accisa sui prodotti energetici utilizzati “nei trasporti ferroviari di passeggeri e merci”. Come spesso accade, la mano destra non sa cosa fa la mano sinistra. Mentre ci si continua a sciacquare la bocca di intermodalità e misure per favorire il riequilibrio modale, in nome della transizione ecologica, puntualmente, per calmierare gli effetti degli incrementi dei costi energetici sulle bollette, si spezzano le gambe al trasporto ferroviario nel suo segmento più delicato e vulnerabile, vale a dire le manovre nei porti, negli interporti e nei raccordi industriali.
Sembra quasi una congiura giocata nel silenzio. Le manovra costituiscono uno degli elementi più delicati tra le operazioni ferroviarie, perché sono costose ed avvengono proprio nei luoghi che possono alimentare maggiormente i traffici. A cosa serve che nel PNRR siano previsti investimenti per migliorare la qualità dei raccordi ferroviari nei porti se poi si determina un appesantimento dei costi industriali che spiazza la competitività della soluzione ferroviaria?
Gioia Tauro e la retorica della politica
Accade troppo spesso, e sempre più spesso, nel nostro Paese che la distanza tra retorica della politica ed interventi di politica economica si allarghi a dismisura, fino a diventare insostenibile. Pensiamo al porto di Gioia Tauro, che per decenni ha inseguito la propria competitività anche sulla capacità di giocare la carta intermodale.
Ora che finalmente, dopo ritardi davvero inenarrabili, si comincia a disporre di una architettura infrastrutturale sostanzialmente adeguata, questa misura allontana la possibilità di mettere in campo una soluzione di connessioni ferroviarie capace di allargare la catchment area del mercato potenzialmente servito.
Viene davvero da chiedersi se sia mai possibile continuare con un meccanismo di interventi pubblici così scoordinati e pasticcioni. Per ottenere incassi davvero ridicoli da questa manovra, si buttano all’aria investimenti da decine e decine di milioni di euro.
Al prossimo convegno, il politico di turno si alzerà a parlare e declamerà l’auspicio di un futuro intermodale per il porto di Gioia Tauro. Sarebbe finalmente il caso di cercare di imitare il quasi inimitabile Antonio De Curtis, in arte Totò, intonando senza tema di smentita una sonora pernacchia.
Questa è un’avventura di impresa resistente, di identità e di passione per un tesoro che la Calabria non sa di avere.
Dalla città di Cosenza partivano carichi di zafferano in pieno Rinascimento, richiesti in tutto il mondo. Nel 1844 Luigi Zucoli, autore di una guida per viaggiatori, cita questa ricchezza bruzia. In “Italy under Victor Emmanuel. A personal narrative” del 1862, Carlo Arrivabene parla di tre rarità del sud: i vini siciliani, le donne di Bagnara e lo zafferano di Cosenza.
Una pagina del libro “Italy under Victor Emmanuel. A personal narrative”, pubblicato nel 1862
La spezia di Cleopatra a Castiglione
Oggi piccole aziende, sparse per la regione, lo hanno riscoperto. Una di queste è lo “Zafferano del re” di Castiglione Cosentino, impresa partita benissimo e che, come tante, ha subito la batosta pandemica. Ma le sorelle Linardi, Benedetta e Maria Concetta, non mollano. La spezia più costosa sul mercato, fino a 25 euro al grammo, ha fatto tanta strada da Cleopatra alla Calabria. La regina egizia lo usava ogni giorno per dorare la sua pelle. E così lo riscopriamo come antenato dei gettonati illuminanti della cosmesi di oggi.
«Sì, è così, la provincia cosentina era una delle maggiori esportatrici al mondo. Ci sono fonti storiche che raccontano della sua produzione in Presila nel 1500». Benedetta Linardi, 35 anni, laureata in scienze politiche e consulente finanziaria, insieme con sua sorella Maria Concetta, 39 anni, laurea in scienze della nutrizione, hanno ereditato i terreni di famiglia e hanno deciso di cambiarne il destino.
La collina si tinge di viola
C’è un momento, tra ottobre e novembre, in cui la collina di Castiglione, a 400 metri sul livello del mare, si tinge di viola, proprio mentre intorno l’autunno ha già spento tutti i colori. È l’ora della fioritura dello zafferano e dura circa 15 giorni. «Andiamo a raccogliere i fiori uno per uno – spiega Benedetta Linardi – un lavoro che facciamo personalmente perché richiede estrema cura». Il fiore raccolto deve arrivare integro alla fase dello “sfioramento”, parola ricca di fascino poiché contiene in sé l’atto di eliminare il fiore dal gambo, ma anche la necessità di farlo con estrema delicatezza.
Una cesta con i fiori di zafferano appena raccolti
L’azienda è nata nel 2018 e i clienti sono per lo più ristoratori. La spezie, cara alla Sardegna e indispensabile per il famoso risotto alla milanese, oggi è laboratorio gastronomico di chef stellati che valorizzano tradizioni calabresi. «Le nostre ricerche – spiega ancora Benedetta, – ci hanno permesso di rintracciare un legame forte con il territorio e di farne un racconto. Ed è un aspetto fondamentale, perché il tipo di consumatore medio vuole apprezzarne le qualità ma anche conoscerne la storia». Sono grandi chef gli amici partner dello Zafferano del re (sul sito https://www.zafferanodelre.it, nella sezione partner, ci sono i loro piatti coloratissimi e i video sulle relative preparazioni). Come Luigi Ferraro, originario di Cassano allo Jonio, ambasciatore nel mondo della buona Calabria a tavola, oggi chef nelle strutture del lussuoso Four Season Hotel di Doha in Qatar.
Luigi Ferraro, originario di Cassano allo Jonio, è chef del rinomato Four Season Hotel di Doha in Qatar
La grande sfida, adesso, è riprendersi dalla crisi
L’azienda delle combattive sorelle Linardi, da startup di successo si è dovuta subito scontrare con il Covid. Quarantamila euro di fatturato, 20mila bulbi l’anno, sono numeri di tutto rispetto per una realtà appena nata.
L’impresa è partita nell’anno in cui si faceva un gran parlare di scavi per trovare il tesoro del Sacco di Roma nei fiumi cosentini e le due sorelle, un po’ per cavalcare l’onda, un po’ per scherzo, l’hanno battezzata “Zafferano del re” pensando ad Alarico. «Il vero tesoro, quello che abbiamo sotto gli occhi, è la terra. Noi ci crediamo. In un territorio, piuttosto che inseguire qualcosa di inesistente, bisogna cercare e preservare ciò che realmente c’è».
«I primi duemila bulbi siamo andati a prenderli in Toscana – continua Benedetta.- La nostra scommessa è nata a partire da quel piccolo scrigno».
Uno dei campi di zafferano delle sorelle Linardi
I compaesani “prestano” gratis i loro terreni
I terreni – in contrade dai nomi che richiamano un passato lontano, Pristini, Canterame, Orbo – sono appezzamenti di famiglia. Altri se ne sono aggiunti, concessi in comodato gratuito da privati. «Erano abbandonati e incolti. Ci sono stati consegnati volentieri, i nostri compaesani hanno creduto in noi e il loro modo per dimostrarcelo è stato offrire quello che poteva servirci». È il Genius loci che si manifesta nell’idea di comunità che condivide terra e sapienza. «Nei piccoli paesi è facile che si inneschi questo meccanismo di supporto reciproco», sorride.
Fiori d’ottobre
Quella dello zafferano è una produzione molto semplice: «piantiamo i bulbi intorno a ferragosto, quando la temperatura comincia a cambiare. La pianta cresce in pochi mesi, a fine ottobre fiorisce». È questo il momento più importante, perché tutto deve essere svolto in pochissimo tempo e manualmente, per non rovinare i fiori, molto delicati, che devono essere adagiati nelle ceste. A questo punto la lavorazione avviene nel laboratorio, dove il fiore viene separato dal pistillo (è questa la cosiddetta “sfioratura”) che verrà poi essiccato. Lo zafferano ottenuto viene infine conservato nel vetro, in attesa di essere imbustato e confezionato.
Le sorelle Linardi piantano i bulbi intorno a ferragosto
«Il 90% dei nostri clienti sono ristoratori – spiega Benedetta – ma pochissimo di ciò che produciamo resta in Calabria, solo il 10%». Le sorelle dello zafferano in pochi anni sono diventate un caso, un esempio di impresa giovane, coraggiosa, attenta alla qualità e al territorio. L’azienda ha ricevuto premi e riconoscimenti.
Il prodotto più contraffatto al mondo
«Il 2020 è stato un anno nero – ammette -. Un po’ per tutti, certo, ma noi abbiamo avuto un crollo quasi totale della produzione. Nessun aiuto, nessun sostegno, perché tecnicamente rubricati come florovivaisti e non come agricoltori, non ne avevamo diritto». Con la ristorazione in ginocchio la loro attività ha subito una brusca battuta d’arresto. «Eravamo un’azienda in crescita. Abbiamo investito moltissimo e aspettavamo di raccogliere i primi frutti. Non avremmo mai immaginato di trovarci invece a dover affrontare un’emergenza tanto grave come una pandemia. Non è facile sostenere i costi di produzione in una situazione del genere e questo alla lunga non può reggere».
Bisogna poi considerare il problema della concorrenza. «Lo zafferano è il prodotto più contraffatto al mondo – aggiunge – e la nostra piccola produzione deve misurarsi con quelle intensive dell’Iran, del Marocco e della Spagna. Questi paesi portano sui mercati uno zafferano che al grammo arriva a costare due euro, contro i venticinque di quello italiano».
I colori inconfondibili dello zafferano
L’afrodisiaco di Richelieu
Non c’è rassegnazione nelle parole di questa giovane e caparbia imprenditrice. «La strada da seguire è sicuramente quella di unire le forze», dice. «Noi piccoli produttori siamo tanti e tutti abbiamo difficoltà simili che possiamo superare creando una rete, una collaborazione che ci consenta di stare sul mercato e di diventare davvero competitivi. In questo momento siamo a terra, ma stiamo valutando nuove strategie».
Piccoli ma tenaci come il fiore di croco dell’oro rosso.
In passato con lo zafferano si curavano reumatismi, gotta e forti infiammazioni come il mal di denti. Usato anche come polvere abortiva, era più noto come afrodisiaco (tra gli abituali consumatori il cardinale Richelieu). Per gli imperatori e i sacerdoti romani era un prezioso profumatore di saloni sfarzosi e templi, i contadini calabresi lo spargevano sul letto della prima notte degli sposi. Una spezia dai mille usi, un mondo da scoprire. Oltre il risotto alla milanese.
Ammassati nella tendopoli a San Ferdinando o nel campo di contrada Russo a Taurianova. Ospiti dell’accampamento container di Testa dell’Acqua a Rosarno o dei tanti casolari abbandonati tra gli aranceti della Piana di Gioia: dalla rivolta dei migranti del 2010 poco o niente è cambiato, con i nuovi insediamenti (più o meno) abusivi, che si sono sovrapposti ai vecchi, mutuandone le stesse dinamiche. Una situazione grave, sostanzialmente immutata nel tempo e incancrenita da inefficienze e sprechi. Una situazione che si lega, inevitabilmente, con il mercato del comparto agricolo – che della manodopera migrante, nella Piana, si serve per sopravvivere – divenuto a sua volta un vero e proprio Far West fatto di caporalato e sfruttamento, norme cervellotiche e finanziamenti a pioggia.
La rivolta di Rosarno del 2010
Le battaglie solo annunciate
Sono tra sei e settemila (anche se un censimento accurato non è mai stato realizzato) i lavoratori migranti che nella stagione della raccolta convergono nelle campagne alle spalle del porto di Gioia Tauro. E se anche i numeri si sono parzialmente ridimensionati nei due anni di pandemia, sono sempre i lavoratori africani a sostenere l’intero comparto, fatto, in questo pezzo di Calabria, di una proprietà più che atomizzata, costituita da migliaia di minuscole aziende a conduzione familiare.
Micro appezzamenti di uno, massimo due ettari di estensione, divisi tra filari di agrumi e kiweti, per aziende – circa 13 mila in totale – che non riescono a creare rete e che, in genere, sopravvivono con ricavi che somigliano a mance. Quelle delle grandi aziende di produzione di succhi, che pagano per i frutti, in molti casi raccolti direttamente a terra, meno di dieci centesimi al chilo. E quelle delle catene della grande distribuzione, che comprano attraverso aste al ribasso arance e mandarini destinate al consumo e pagate ai produttori tra i 20 e i 25 centesimi al chilo. Va un po’ meglio con i kiwi, che riescono a ritagliarsi un prezzo vicino agli 80 centesimi.
Frutta e verdura in esposizione all’interno di un supermercato
Una decina di anni fa, le associazioni di categoria (Confagricoltura e Coldiretti) avevano annunciato – con tanto di convegno in grande stile e annessa sfilata di trattori – una battaglia campale su due fronti: da una parte il prezzo minimo al chilo da ottenere dalle multinazionali che si riforniscono nella Piana, dall’altra la percentuale minima di succo da inserire nelle bevande. Una rivoluzione che avrebbe fatto bene all’intero settore. Passati gli anni, di quella battaglia su cui si sarebbe dovuta riscrivere la nuova economia agricola della Piana, resta solo qualche poster ingiallito dal tempo, ma di risultati neanche a parlarne.
Far West
E se la parcellizzazione esasperata della proprietà agricola non aiuta, a complicare ulteriormente le cose per uno dei settori che in passato era stato la forza di questo territorio ci sono una serie di regole legate al mercato del lavoro agricolo che sembrano essere state scritte per facilitare il lavoro nero. Regole che fissano a 102 il tetto massimo per le giornate lavorative per ogni ettaro di terra che possono essere frazionate a più lavoratori e che possono essere regolarizzate nei giorni successivi all’effettiva prestazione resa.
Un meccanismo controverso che, anche a causa della antica carenza di ispettori del lavoro, favorisce la mancata contrattualizzazione dei raccoglitori che, quando va bene, riescono a farsi mettere in regola solo per poche giornate al mese. Il resto, raccontano le innumerevoli operazioni della Procura, finisce sul “mercato” delle attestazioni lavorative false. Un mercato illegale così esteso (sfruttato principalmente per ottenere benefici pensionistici) che diventa difficile anche solo provare a quantificarlo. A pagarne il prezzo, ovviamente, i migranti, che di questa Babele sono l’anello più debole. La mancata o, nel caso migliore, la parziale contrattualizzazione, favorisce infatti il fenomeno dello sfruttamento del lavoro in nero, con i braccianti africani costretti per bisogno ad accontentarsi di salari più che dimezzati rispetto alla norma.
In strada per salari decenti
Una deriva che, sul campo, è contrastata dalle associazioni di volontariato e dal cosiddetto “sindacato di strada” che la Flai Cgil mette in campo da anni nel tentativo di informare i lavoratori di San Ferdinando e dintorni rispetto ai loro diritti. Tra le complanari di campagna alla ricerca dei braccianti che attendono il “caporale” di turno o all’esterno delle aziende agricole, durante le poche pause dal lavoro, Rocco Borgese e i suoi colleghi del sindacato, passano le giornate a tentare di convincere i lavoratori a non piegarsi ai salari da fame che gli vengono proposti.
Un servizio su base volontaria (a cui si aggiunge quello di assistenza legale e sanitaria) portato avanti anche da due lavoratori africani che si perpetua tre volte a settimana e che è riuscito anche a raccogliere i primi frutti. Ma che rappresenta, purtroppo, solo una goccia nel mare in un’emergenza lavorativa che si ripercuote anche sulla possibilità di affittare una normale abitazione. Fatta salva una consistente sacca di razzismo e diffidenza infatti, molti dei migranti non riescono ad affittare un alloggio decente proprio a causa della precarietà del loro lavoro. Nessuno (o quasi) è disposto ad affittare loro un casa vera e, di conseguenza, insediamenti abusivi e baraccopoli più o meno regolarizzate sono spuntate come funghi in tutti i comuni della Piana.
Nuova chiusura per San Ferdinando
Sorto qualche giorno dopo e a distanza di poche centinaia di metri dalla baraccopoli sgomberata dopo un blitz dell’ex ministro dell’interno Salvini, l’accampamento nato nel retroporto continua ad essere uno dei punti di riferimento per la forza lavoro africana che nelle stagioni della raccolta si concentra sul territorio da tutta Italia. Ufficialmente dismessa dall’estate del 2021 (ma ancora popolata da circa 500 persone che ci vivono in condizioni subumane), la tendopoli di San Ferdinando dovrebbe avere i giorni contati. Nelle settimane passate infatti il Prefetto di Reggio ha annunciato la futura chiusura del sito: chiusura che però resta condizionata all’intervento della Regione, che dovrebbe dare il via alla riconversione in foresteria di una delle tante strutture industriali abbandonate presenti in zona.
In seguito ad un vertice tra i sindaci di Gioia e San Ferdinando (Rosarno è guidata da una terna prefettizia in seguito all’arresto del sindaco Idà) e i funzionari regionali, la scelta è caduta sui capannoni dell’ex Opera Sila, lo stabilimento per la trasformazione delle olive da anni in rovina e già utilizzato dai lavoratori africani come rifugio improvvisato, prima dello scoppio della rivolta. L’area, di proprietà della Regione, necessita però di un radicale intervento di bonifica e trasformazione e i tempi di realizzazione del progetto non saranno brevi. Così, in attesa della riconversione dell’opificio regionale si naviga a vista, con progetti in corso d’opera che, per tamponare l’emergenza, ripropongono l’uso di moduli abitativi temporanei (leggi container) o si appoggiano a fondi di garanzia di matrice assistenzialistica che finora non hanno riscosso risultati apprezzabili.
Le case fantasma da tre milioni di euro
Sullo sfondo, rimangono le palazzine nuovissime costruite alla periferia di Rosarno grazie ai quasi 3 milioni di euro di fondi per l’emergenza migranti e ancora in attesa di assegnazione. Restano disabitate, in contrada Torricelle, ennesimo monumento incompiuto all’inefficienza amministrativa calabrese. Sostanzialmente completate da tre anni, le palazzine (4 padiglioni in tutto capaci di ospitare comodamente 250 persone) avrebbero bisogno degli ultimi lavori di rifinitura e del collettamento alla rete fognaria cittadina. Un progetto nato tra le polemiche e che sembra essersi smarrito a un passo dal traguardo, soffocato da vecchie e nuove baraccopoli.
Iniziamo dai numeri. La Calabria consuma oltre 5 miliardi di kWh, ma ne produce ben 17. Il surplus di energia elettrica è enorme, quasi +180%. La stessa Calabria, però, è tra le regioni italiane che più consumano gas (oltre 2,5 milioni di metri cubi all’anno) per alimentare le centrali termoelettriche. Proviene da fonti rinnovabili solo un terzo della nostra energia. Il resto arriva da fonti tradizionali, quelle che prima o poi finiscono e che comunque ci tengono appesi alla geopolitica mondiale.
C’è un altro dato oggettivo, per cui non servono rilevazioni statistiche ma bastano i nostri occhi: vaste porzioni di territorio sono state inesorabilmente modificate da centinaia di enormi pale che sembrano infilzare il paesaggio. In questo nuovo orizzonte calabrese oggi ci sono oltre 400 impianti eolici. Le vie del vento sono infinite, c’è però da chiedersi quali e quanti vantaggi ne traggano le comunità locali. In queste settimane molti Comuni sono in rivolta contro nuovi progetti di cui contestano l’esibita ecosostenibilità e a cui oppongono, paradossalmente, ragioni di tutela ambientale.
Dal sito della Guardia costiera di Crotone
La nuova frontiera dell’eolico
La nuova frontiera è l’eolico off-shore galleggiante. Secondo il Pniec (Piano nazionale integrato energia e clima) da qui al 2030 l’Italia dovrà installare pale in mare per 900 MW. Ad oggi non c’è ancora nessun impianto in funzione ma sono stati presentati almeno 40 progetti. Se si concretizzassero, produrrebbero 17mila MW, una potenza di quasi 19 volte superiore a quella prevista dal Pniec.
Due colossi del settore vogliono installare un’ottantina di pale in Calabria, in un vasto tratto di mar Jonio che tocca tre province, da Crotone fino a Monasterace: 33 turbine eoliche per Repower Renewables, altre 45 per Minervia Energia, società creata ad hoc da Falck Renewables e BlueFloat Energy, che stanno provandoci anche in Puglia. I parchi galleggianti sorgerebbero nel primo caso tra 60 e 75 km dalla costa, nel secondo tra 13 e 29 km. Le aziende ne pubblicizzano i potenziali benefici in termini di mancate emissioni di anidride carbonica e di posti di lavoro. Gli scettici lanciano allarmi su possibili danni a un ecosistema marino importante proprio per la produzione di ossigeno.
L’area al centro del progetto della Repower Renewable s.p.a.
C’è chi dice no
Nella seconda categoria vanno annoverati i Comuni di Crotone e Isola Capo Rizzuto, nonché il Wwf Calabria. Il consiglio comunale crotonese ha deliberato a maggioranza di opporsi al rilascio della concessione. Un territorio «già compromesso nella sua integrità ambientale – si legge nella delibera – da numerosi impianti per la produzione di energia, dai pozzi per la coltivazione di idrocarburi, dalle discariche per rifiuti di vario tipo, dall’inquinamento del suolo e del sottosuolo, non può tollerare ulteriori pressioni sul patrimonio naturalistico».
Non ci sono solo gli aerogeneratori in mare, ma anche gli elettrodotti: quello sottomarino e quello terrestre in parte interesserebbero il Sito di interesse nazionale “Crotone, Cassano e Cerchiara”. Il cavidotto attraverserebbe un habitat ad alta biodiversità («praterie di Posidonia oceanica») che serve anche da «salvaguardia della costa per il contributo alla fissazione dei fondali ed alla protezione delle spiagge dall’erosione». Toccherebbe poi dueZone speciali di conservazione. Sarebbe infine prossimo al Sic Colline di Crotone e all’area marina protetta di Isola Capo Rizzuto.
Castelli ed eolico
Proprio il Comune di Isola, che può già vantare «il parco eolico più grande d’Europa», ha inoltrato nei giorni scorsi le sue osservazioni al Ministero: quattro pagine con motivazioni che vanno dalla «deturpazione paesaggistica del territorio» ai possibili danni al comparto pesca. «Probabilmente – sostiene l’amministrazione – chi propone ciò non ha mai visto il sole che tramonta alle spalle del Castello Aragonese di Le Castella, simbolo turistico della Calabria nel mondo. Che simbolo sarebbe con alle spalle un ammasso di pale eoliche a fargli da sfondo?».
Le Castella, uno dei luoghi simbolo della Calabria
Nelle osservazioni depositate dal Wwf calabrese si legge che «il progetto è in grado di provocare effetti negativi plurimi su fauna e flora sia marina che terrestre». Si tratterebbe di «siti protetti dall’Unione Europea» che, in alcuni casi, hanno «come motivi istitutivi, il transito e la sosta di specie migratorie che si dirigono da e per l’Europa Orientale, partendo e/o approdando in Calabria».
A chi tocca rispondere?
Ma chi dovrebbe rispondere a questi rilievi? La procedura viaggia su un doppio binario. La richiesta di concessione demaniale marittima va al Ministero delle Infrastrutture e alla Capitaneria di porto. La Valutazione di impatto ambientale, per progetti che superano i 30 MW, spetta al Ministero dell’Ambiente, ma è la Regione che alla fine deve concedere l’autorizzazione. La Calabria non ha un assessore all’Ambiente. In un momento storico in cui il Pnrr destina alla «rivoluzione verde» quasi 60 miliardi di euro, dei quali 5,9 sono solo per le rinnovabili, la delega è rimasta in capo al presidente della Regione Roberto Occhiuto, che non ha certo molto tempo libero visto che è anche commissario alla Sanità.
In un limbo amministrativo simile la «transizione ecologica», declinata nel Pnrr a suon di «semplificazione delle procedure» e «potenziamento di investimenti privati», potrebbe anche tradursi in greenwashing. «Strategia di comunicazione o di marketing – è la definizione del dizionario Treccani – perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo».
La Faggeta di Monterosso minacciata dalle pale eoliche (foto dalla pagina Facebook Kalabri Trekking)
Intanto non mancano altre proteste per nuovi parchi eolici “tradizionali”: il più recente è quello di Monterosso, nel Vibonese, che per 3 aerogeneratori provocherebbe secondo le associazioni l’abbattimento di 4mila alberi. Ma ci sono anche i fautori dei vantaggi che deriverebbero dalle pale. Come il sindaco di San Sostene, Luigi Aloisio, che di recente ha annunciato un potenziamento dell’ormai storico impianto, di proprietà di una società controllata da Falck Renewables, che ricade nel suo Comune – ma in realtà più vicino alle Serre che al centro abitato della costa jonica – parlando di un introito medio di 400mila euro all’anno per l’ente da lui guidato.
Fasi di costruzione del parco eolico San Sostene (foto dal sito del Comune) (1)
Che prezzo ha l’orizzonte?
Peccato che, ormai oltre un decennio fa, le enormi pale abbiano modificato non poco quei boschi. I tir che le trasportavano sono entrati nella viabilità interna della montagna come un elefante in una cristalleria. E che gli appetiti sul business eolico pare siano stati tra i motivi scatenanti di una guerra di ‘ndrangheta, identificata come la seconda faida dei boschi, che ha insanguinato le Serre e il basso Jonio catanzarese.
Le mafie non possono essere un alibi, certo, ma gli interessi mafiosi sull’eolico e le rinnovabili in generale non sono neanche un dettaglio trascurabile. Lo testimoniano indagini come “Via col vento” e “Imponimento”, già approdate a sentenze di primo grado con condanne in abbreviato per boss del calibro di Pantaleone “Scarpuni” Mancuso e Rocco Anello. E un altro episodio emerge da “Alibante”, recente indagine sui tentacoli delle ‘ndrine nella politica e nell’economia del territorio di Falerna e Nocera Terinese. Il presunto boss 80enne Carmelo Bagalà confidava a un suo uomo di fiducia che c’era una «ditta tedesca» interessata a investire nel settore. Erano alla ricerca di terreni, così Bagalà e il suo fedelissimo avevano individuato una zona del Monte Mancuso su cui installare delle pale eoliche. «Ma quelle enormi», commentavano. «Hanno detto che pagano un sacco di soldi…». Ma che prezzo ha l’orizzonte?
Perché chiamare una rubrica Franco tiratore, quando l’Italia della politica ci fa associare sempre quell’espressione a chi in segreto tradisce la propria fazione? Non per quelle elucubrazioni con cui ci si diletta nei giornali pur di sfruttare a tutti i costi il nome di qualcuno in un gioco di parole. Certo, il direttore de I Calabresi si chiama Franco Pellegrini e sarà lui a tenere la rubrica, ma la cosa ha influito meno di quanto possa sembrare.
Il fatto è che il franco tiratore vero, l’originale, era l’esatto contrario di quello contemporaneo: un soldato – o un gruppo di soldati – che poteva entrare in azione senza dover sottostare a ordini come il resto dell’esercito. Libero, con la sola missione di difendere la propria comunità. Proprio come, fuori dall’originario contesto bellico, sarà questo nuovo spazio. In fondo anche questo giornale combatte una battaglia: raccontare la comunità dei calabresi e le sue molteplici sfaccettature, offrirle un’informazione indipendente, sincera e con un taglio originale, stimolarne la voglia di confrontarsi con opinioni a volte differenti dalle proprie.
Pensiamo che un appuntamento video periodico in diretta per affrontare un argomento possa essere un modo per coinvolgere ancora di più i nostri lettori in questa battaglia culturale comune. Franco tiratore sarà questo, vi aspettiamo.
«Se doppo haver mangiato carne di porco bevissimo dell’acqua vi farebbe molto danno, ma bevutoci vino temperatamente, sarà buona, e salutevole». Il saggio consiglio di abbinare del buon vino alla carne di maiale per ridurne gli effetti dannosi per l’organismo viene da un astrologo e astronomo cosentino. A cavallo tra ‘500 e ‘600 il torzanese Rutilio Benincasa nel suo Almanacco Perpetuo – in cui si occupa sostanzialmente di firmamento, corpi celesti, calcoli pseudoscientifici e nozioni di storia – si premura di dare al lettore «alcuni buoni et utili avertimenti per conservarsi la salute et vivere lungo tempo sani». Non sappiamo quale beneficio per la salute ne abbiano tratto i lettori dell’Almanacco. È certo però che nei secoli passati la gente comune faceva incetta di carne di maiale, che rappresentava una vera e propria “conquista” e occasione festiva per molte famiglie.
Maiali neri di Calabria
Vasci e detti
L’allevamento del maiale era una delle voci che più contribuivano al sostentamento famigliare. Allevare maialini e poi macellarli, di gennaio in gennaio, significava avere la dispensa piena. Quella del “porco” era un’industria dal basso e le “botteghe oscure” erano in questo caso le stesse abitazioni. A parte le famiglie benestanti che potevano permettersi una stalla, generalmente nelle case il piano superiore era riservato alle persone mentre il piano inferiore a masserizie e animali. Ma a “sua maestà” il maiale veniva generalmente riservato un angolo a sé.
La ‘piertica’
Le famiglie povere invece condividevano il “vascio” con le bestie, porco compreso. Il possesso di maiale rappresentava un vero e proprio spartiacque tra l’inedia e la sazietà, che significava benessere. A tal proposito un proverbio riportato da Luigi Accattatis nel suo vocabolario del dialetto calabrese recita che «amaru chi lu puorcu nun s’ammazza, ca ‘e vide e li desiddera i sazizzi». Oppure un altro avverte che «chine se spùsa sta cuntientu nu jùarnu, chine s’ammazza lu pùorcu sta cuntìentu n’annu».
I porci del marchese
Nel 1770 il marchese ed economista Domenico Grimaldi diede alle stampe un Saggio di economia campestre di Calabria Ultra con l’obiettivo di diffondere quelle che oggi definiremmo con un termine abusato “buone pratiche” agricole. Grimaldi, che aveva delle proprietà in Calabria, era consapevole che «fra li maggiori capi d’industria della Calabria, quella d’ingrassare i Majali è una delle più considerabili». Ciò era dovuto al fatto che i suini erano soliti scorrazzare liberi nei boschi e cibarsi di ghiande che rendevano «la carne di questi animali più solida, e più sana, e più durabile dopo salata» rispetto a quella dei maiali nutriti a granturco e che dimoravano nei porcili. Ma se c’era una cosa che non gli andava a genio era il modo di produrre e commercializzare i salumi in Calabria.
De’ Majali. Dall’opera di Grimaldi del 1770
Secondo il marchese non si usava «alcuna diligenza per scegliere la carne […] niuna regola prefissa per salarla e mettersi la giusta quantità di sale […] Di più i Calabresi ignorano la maniera di prosciugarli e unger di tempo in tempo i detti salami». Nonostante l’ottima qualità delle carni, i discutibili metodi di conservazione rendevano disponibile per l’esportazione una bassissima quota di prodotto. I calabresi avrebbero dovuto dunque imitare «il più ricco commercio che fanno i Bolognesi delle loro mortadelle» e incominciare a «estrarre salami dalla Calabria, che fossero gustati nell’Inghilterra, e in altre parti oltramontane, che il profitto farebbe certamente stropicciar gli occhi alli nazionali».
Maiale al bando
Nella seconda metà dell’Ottocento i maiali vagavano indisturbati per le vie di città e paesi. Erano una presenza costante nei più immondi tuguri, tanto da far scrivere al solito Vincenzo Padula che «il Calabrese nasce tra porci e porcelle». Nell’articolo L’ostracismo dei porci (Il Bruzio, Cosenza 4 Maggio 1864) il sacerdote-giornalista si spinge in «quei bugigattoli, dove stivate, pigiate e affumicate albergano le famiglie del popolo». Poco oltre quel «fetido pagliericcio, che chiamasi letto, un truogo [trogolo, mangiatoia dei maiali, nda], e presso al truogo un porco».
Una Calabria non troppo antica dove il maiale viveva in famiglia (foto pagina Facebook Calabria Ieri)
Padula non manca di sottolineare la stretta simbiosi tra esseri umani e rosee ma talvolta pezzate creature, giacché «il porco in Calabria dorme sotto il letto, scorrazza per le vie, si conduce a passeggiare per le piazze, spinge il grifo [naso grosso] nei caffè, si ferma innanzi alle bettole per raccogliere le bucce di lupini e di castagne che gli buttano i bevitori, e quando bene gli pare entra in chiesa a sentire la predica». Tutto ciò suscitava le sdegnose proteste di quei pochi privilegiati e dei sindaci «dai calzoni di segovia e dagli stivaletti di vitellino incerato» che in nome della civiltà e dell’igiene chiedevano «di mettere i porci cittadini al bando».
Pentolini di creta
Tra il serio e il faceto Padula spiega come all’improvviso «i porci si posero sotto il patrocinio di S. Antonio». In effetti Sant’Antonio Abate, protettore degli animali domestici, è spesso raffigurato con un maialetto al suo fianco. Padula annota come in Calabria i frati Cappuccini e Riformati – francescani come Sant’Antonio di Padova – abbiano attribuito a quest’ultimo la protezione dei maiali ma solo per un fatto di omonimia con l’altro santo Antonio.
Rende (CS), chiesa di S. Antonio Abate. Il santo con il maialino
Questo garbuglio di santi e maiali serve a Padula a introdurre un uso devozionale, praticato in alcuni paesi della Calabria fino pochi decenni or sono e legato al suino. «Appressandosi la stagione del porcocidio» i frati andavano di uscio in uscio e lasciavano dinanzi a ciascuno cinque pentolini di creta. Nel trovarli, spiega Padula, «la donna calabrese li bacia per devozione». Dopo una quindicina di giorni un fraticello sarebbe passato a raccoglierne uno solo ma pieno di strutto, un “ben di Dio” che si ricava dalle parti grasse dell’animale.
Maiale, unica industria
Padula tuona però contro sindaci, agenti di pubblica sicurezza e paladini della nettezza urbana: in Calabria «togliere la cittadinanza ai porci non si può». Il sacerdote dalla penna affilata adduce tre ragioni a sostegno della sua affermazione. La prima: «Dei nostri cento paesi, novantasette non hanno macelli, né beccai; e se gli hanno, il villano è sì povero che deve rimettere al tempo del porcocidio il desiderio di mangiarsi un po’ di carne fresca». La seconda: «Tra noi l’uomo del popolo, a rompersi tutto il dì l’arco della schiena, è molto se guadagna una lira e la sua donna 25 centesimi».
Dinanzi a siffatta «spaventevole miseria, effetto di mancanza di lavoro e di arti» a quei disgraziati non rimane altra industria che «allevare un porco» e godere dei suoi frutti. La terza motivazione a sostegno dei suini è pratica: «Lungi dal creare immondezze, le distruggono». In breve: finché in ogni paese non verrà costruito un sistema fognario in pietra, per Padula non cesserà «la necessità delle fogne vive che sono i porci».
Pubblico mattatoio
A Cosenza nel 1859 l’aria era poco salubre anche per via della pratica della macellazione delle bestie, maiale incluso. A tal proposito Ferdinando Scaglione annota che «l’abuso generale de’ macellai di sgozzare e di scorticare quasi entro l’abitato gli animali vaccini, pecorini e porcini, riempendo ogni luogo di sporcizia e d’impurità». Bisognava dunque «impedire ogni sorta di putrefazione, sola cagione di miasmi e di febbri tifoidee» e ci si pose il problema della creazione di un pubblico mattatoio cittadino. Tuttavia, ancora nel 1870 il medico Domenico Conti scriveva che «per mancanza di adatto macello sgozzansi gli animali nell’abitato buttandosene gli escrementi o nelle strade o ne’ fiumi Crati e Busento».
Grastaturi e daziari
Era colui che interveniva con la sua arte per castrare il maiale. Si riteneva che la procedura favorisse la crescita dell’animale e evitasse alcuni inconvenienti che potevano inficiare la qualità delle carni. Chiamato all’occorrenza, il grastature giungeva nella “zimma” con la sua cassettina di legno contenente gli attrezzi del mestiere, quasi una valigetta da chirurgo viste le mansioni veterinarie che era invitato a svolgere. Attraverso delle piccole lame affilatissime interveniva incidendo, dopo una sommaria pulitura della parte interessata, e quindi, con un altro arnese, castrando il malcapitato maiale. Si trattava di competenze chirurgiche molto rudimentali ma non alla portata di tutti, acquisite non con lo studio ma con la pratica, spesso passata di padre in figlio.
Lo ‘scannaturu’ (foto Lorenzo Coscarella)
Se il grastature godeva del rispetto delle famiglie allevatrici, al contrario l’agente del dazio, chiamato a riscuotere una tassa per ogni animale macellato, si accattivava tutti gli odi. I “porchicidi” non denunciati erano passibili di multe che rappresentavano per le famiglie un danno economico. In breve, l’agente daziario era il guastatore della festa e in molti cercavano di eludere i controlli. C’era chi sottoposto a indagine dichiarò di trasportare due mezzi maiali quando, in realtà, ciascuna metà era dotata di coda e dunque i maiali dovevano essere almeno due. La multa fu inevitabile e salata.
Cosenza caput… puarci
Le statistiche circa “l’industria del porco”nellaprovincia di Cosenza tra ‘800 e ‘900 dimostrano quanto questa fosse diffusa e popolare. Accattatis scrive infatti che solo la città capoluogo «coi suoi mercati settimanali provvede di carne suina anche le altre Calabrie». Il prodotto medio annuale dell’intera provincia era di 249 mila animali. Questi consumavano 100 mila ettolitri di ghiande e 150 mila di castagne. Circa 40mila maiali venivano consumati nella provincia, di cui 4.000 nella sola Cosenza ricavandone prosciutti, costa, gelatina, sanguinaccio, frittule, gambone, soppressata, salsicce, capocollo, lardo, frisuli, grasso. Un maiale tra i 30 e i 90 kg poteva costare tra le 34 e le 100 lire in base al peso.
Nel comune di Cosenza nel 1908 erano stati macellati 4098 maiali, per un totale di circa 165mila kg di carne suina (a peso morto). I capi di suino consumati erano stati però 8991, quindi gran parte dei maiali giungeva in città dai centri vicini. A Corigliano i suini macellati erano stati 1151, a San Giovanni in Fiore 3742. A Catanzaro, nello stesso anno, erano stati macellati 1080 suini per un totale di 158mila kg di carne, mentre i maiali consumati 3947. Nel suo circondario è possibile conoscere i dati di Monteleone, con 359 maiali macellati; Nicastro con 1648; Sambiase con 860. Per Reggio non si hanno a disposizione dati per quell’anno, visto che i registri furono dispersi durante il terremoto, ma per la provincia le statistiche riportano 451 maiali macellati a Palmi e 67 a Cittanova.
Raggiungere in funivia il cuore dell’Aspromonte direttamente dal mare, garantendo un collegamento veloce tra Condofuri e Roccaforte del Greco, seguendo il corso dell’Amendolea. Si tratta della fiumara più importante del reggino che, partendo da quota 1900 metri, taglia in due la parte grecanica della Montagna fino allo Jonio. Un progetto ambizioso (e costosissimo) pensato dalle amministrazioni dei due piccoli centri e presentato nei giorni scorsi tra le proteste di una decina di agguerrite associazioni locali. Ma, soprattutto, tra lo sconcerto dei vertici del Parco nazionale (entro i cui confini si troverebbe a passare per intero il tracciato “volante”). Dell’idea della funivia immaginata dai sindaci Tommaso Iaria e Domenico Penna, non sapevano assolutamente nulla.
Roccaforte del Greco, capolinea della funivia che dovrebbe attraversare la valle dell’Amendolea
Il progetto della funivia
Quasi 15 chilometri di tracciato, un dislivello di 930 metri e una capacità potenziale di 800 – 1000 passeggeri ogni ora che, se la scheda presentata in Regione nell’ambito dei Cis (contratti istituzionali di sviluppo) dovesse essere finanziata, porterebbe i potenziali utenti da San Carlo di Condofuri fino a Roccaforte del Greco in 16 minuti. Un risparmio di una mezz’oretta sul tragitto consueto lungo le stradine di uno degli ultimi ritagli di natura non vandalizzata del reggino, che verrebbe a costare 2,7 milioni di euro a chilometro: un percorso “aereo” coperto da una ropeway di sei cabine in continuo movimento in grado di trasportare 20 persone per ogni “guscio”. Un progetto ambizioso e controverso che ha scatenato il consueto vespaio di polemiche. E che ha messo a nudo, ancora una volta, la sconcertante assenza di comunicazione tra il Parco nazionale d’Aspromonte e i comuni, 37 in tutto, che ne costituiscono il cuore.
Zona protetta
Tutta la valle dell’Amendolea – la fiumara colonizzata dai primi migranti greci che tanto hanno caratterizzato il territorio nei secoli passati, da lasciarvi in dote, tra le altre cose, anche una lingua vera e propria – ricade nella “Zona di protezione speciale” prevista dalla “Rete natura 2000”, il progetto europeo nato a tutela dell’avifauna; e in questi mesi, proprio in quell’aerea, è attivo il progetto per il ripopolamento del nibbio, un particolare tipo di rapace trasferito sulle montagne reggine da un’analoga riserva in Basilicata. Il percorso della funivia, con i suoi tralicci, i suoi cavi, le sue sei cabine coperte e con la stazione di sosta di metà percorso alla periferia della meravigliosa Gallicianò, ci passerebbe proprio in mezzo.
Un grifone in volo sull’Amendolea
Rette parallele
«Io, come sindaco, non sono tenuto a informare il Parco per ogni progetto che presento per il mio comune. Con il Parco ne parleremo se e quando il progetto verrà finanziato». Arroccato dietro l’autonomia comunale, il primo cittadino di Condofuri Tommaso Iaria – passato alle cronache per avere esposto nel suo ufficio il manifesto di giuramento delle Waffen SS italiane, prima di rimuoverlo in seguito alle proteste dell’Anpi – difende l’idea della funivia e rilancia: «I Cis chiedevano progetti riguardanti le “vie verdi”, e noi ci siamo adeguati. La funivia è un progetto ecosostenibile e bellissimo e va a colmare una parte del gap infrastrutturale che la nostra terra paga nei confronti del resto del Paese. Con questo progetto raggiungiamo due obiettivi: da una parte favoriamo l’afflusso di un sempre maggiore arrivo di turisti togliendo le auto e i pullman dalla strada, dall’altra garantiamo la mobilità per i residenti dei due paesi collegati».
Gallicianò (foto Parco Nazionale dell’Aspromonte)
E poco importa se, tra Gallicianò e Roccaforte del Greco, i residenti siano poco più di un centinaio e di autorizzazioni e nulla osta dai vari enti interessati non se ne è proprio parlato. «Non capisco che problema possa esserci. Le Dolomiti sono patrimonio dell’umanità eppure sono sature di impianti di risalita. È vero siamo nel territorio del Parco – dice ancora il sindaco che del Parco d’Aspromonte, paradossalmente, è membro del Consiglio direttivo e della Giunta esecutiva – e quando riceveremo la risposta dagli uffici regionali a cui abbiamo sottoposto la nostra idea, parleremo di autorizzazioni e nulla osta».
Leo Autelitano, presidente del Parco
E se il comune si è guardato bene dall’informare dell’iniziativa i vertici dell’ente, dal canto suo, il presidente Leo Autelitano – travolto dalle polemiche la scorsa estate in seguito ai devastanti incendi che in pochi giorni hanno distrutto ettari e ettari di montagna protetta, portando devastazione e morte proprio in quei territori dove si vorrebbe far passare la funivia – cade dal pero, relegando a boutade l’intera faccenda. «Abbiamo saputo di questo progetto dai giornali – dice Autelitano – ma stiamo parlando del sesso degli angeli. Io sono di Bova superiore e di funivie se ne parla da quando ero ragazzo. Ma così, tanto per dire. Io ufficialmente non so niente di questa storia, quando ci presenteranno il progetto lo valuteremo, ma io non posso andare dietro alle stravaganze di 37 comuni».
Le associazioni contro la funivia
Ufficialmente, il Parco non ha preso nessuna posizione restando in attesa del progetto. Una posizione netta l’hanno presa invece una decina di associazioni del territorio, che del progetto della funivia non ne vogliono proprio sentire parlare. Presenti all’esterno dell’auditorium comunale durante la conferenza stampa di presentazione, i rappresentanti delle associazioni contrarie – guide turistiche, residenti, appassionati di archeologia e di montagna – si sono messe di traverso ai piani di Iaria e Penna.
Lo striscione di protesta contro la funivia esposto durante la presentazione del progetto
«Il nostro è un turismo molto particolare» racconta Francesco Manglaviti, responsabile dell’associazione archeologica Valle dell’Amendolea. «Un turismo lento, che punta a scoprire un angolo alla volta di questa meraviglia che abbiamo la fortuna di abitare, e che non ha bisogno di scorciatoie. La funivia rappresenta una vera e propria violenza. Da anni ci battiamo per l’azzeramento del consumo del territorio, ogni angolo qui ha qualcosa da raccontare, e sono proprio gli stessi turisti che ogni anno accompagniamo su e giù per la valle che ci spingono, con le loro considerazioni e i loro suggerimenti, a tenere duro su questo aspetto».
Sta per cominciare sui tavoli europei, quelli che contano sul serio, la discussione politica sulle regole di bilancio dell’Unione Europea: il famoso fiscal compact del quale, nel decennio appena trascorso, ogni angolo dell’opinione pubblica ha decantato le presunte virtù salvifiche. Presunte, appunto.
Regole Ue, una sintesi da raggiungere
Due i punti focali della disputa, che sono poi quelli sui quali i governi degli stati nazionali che animano il governo dell’Ue dovranno trovare una sintesi, necessariamente politica.
Servirebbe un nuovo modello di crescita che preveda la possibilità di fare maggiori investimenti pubblici per innovare la struttura economica. Si parla tanto, anche meritoriamente, di “transizione ecologica”. Ebbene, servirebbe una quantità poderosa di risorse pubbliche per “innovare” da una parte, e per compensare gli effetti negativi dall’altra. In caso contrario, la “distruzione creativa” sarà solo distruzione economica. E produrrà macerie sociali, come sempre accade quando si lascia a sé il mercato senza alcuna regolazione da parte dell’autorità pubblica/politica;
Bisognerebbe, per dar corso al punto 1, mandare in soffitta una volta per tutte il paradigma dell’austerità espansiva, che in questi anni ha prodotto macerie sociali (oltre che tanto conformismo, dentro e fuori l’Accademia). Si è rivelato del tutto inadeguato dinnanzi ad uno shock economico dirompente ed inatteso, un vero e proprio “cigno nero”, come quello prodotto dalla pandemia. La controprova dell’affermazione circa la dannosità sta nella sospensione delle regole “austerity” di bilancio che hanno guidato le scelte di politica economica. Fossero state adeguate a superare lo shock economico causato dalla pandemia non le avrebbero sospese.
Mediterranei vs Frugali
Il presidente del Consiglio pro tempore, capo del governo italiano, ha – ed è del tutto evidente – l’autorevolezza politica per guidare un consorzio di paesi (i cosiddetti “mediterranei“) finalizzato a rimettere in discussione il paradigma dell’austerità espansiva, che i paesi cosiddetti “frugali” vorrebbero ripristinare attraverso la riattivazione di quelle regole di bilancio tanto insensate sul piano scientifico quanto deleterie su quello economico: le decisioni “contabili” prese a Bruxelles si riverberano sulla vita reale delle persone, in special modo su quelle che vivono nelle aree territoriali più svantaggiate, proprio come la Calabria. Per questo è quanto mai opportuno affermare che i destini della Calabria si disputeranno, ancora una volta, a Bruxelles. E questa volta in modo dirimente.
Ma le nostre università stanno a guardare?
In conclusione, credo sia lecito chiedersi: l’Accademia calabrese, nella quale fiorisce una tradizione di studi economici originale e per certi aspetti assai brillante, riesce a sviluppare un pensiero politico, magari innovativo, sulla questione del debito pubblico europeo o si limita a recepire i voli pindarici di chi (nelle università, specie del Nord, dove si orienta il dibattito pubblico) è passato dal “guai a fare debito pubblico: sarebbe un disastro” al “fare debito pubblico non è più un problema”?
Speriamo di capirlo al più presto, magari in un futuro che non sia troppo anteriore.
L’alta velocità ferroviaria nel tratto Salerno-Reggio Calabria sembra una commedia degli equivoci. Vi è una confusione lessicale che non aiuta a comprendere le scelte tecniche per la nuova linea. Si parla di alta velocità di rete (AVR), alta capacità, alta velocità passeggeri. Il rischio è quello di generare un gioco delle tre carte che non va verso l’efficienza nell’allocazione delle risorse pubbliche e l’efficacia nella qualità delle connessioni. I tre termini non sono affatto sinonimi e conducono a costi di investimento, modelli di esercizio ed effetti trasportistici molto differenti.
È indubbio che l’alta velocità realizzata da Salerno verso il Settentrione abbia rappresentato una delle poche innovazioni infrastrutturali a sorreggere la competitività dell’economia italiana, soprattutto nel centro-nord. È noto che oggi la rete veloce con caratteristiche ad alta capacità si ferma sostanzialmente ad Eboli, per riecheggiare il romanzo di Carlo Levi.
La decisione di investire per il collegamento ferroviario Salerno-Reggio Calabria costituisce dunque una scelta opportuna per accorciare il Paese. Tuttavia, dobbiamo entrare nel merito delle scelte che saranno operate, per misurarne l’impatto e comprenderne le ricadute sul tessuto economico nazionale.
L’equivoco (e il flop) dell’alta capacità
Occorre partire da quanto accaduto con la realizzazione dell’investimento nei decenni passati per la rete attualmente operativa. La discussione fu allora molto animata e vivace. Si decise di costruire quella che fu definita alta capacità, perché consentiva di far transitare sulla nuova rete convogli passeggeri e merci al tempo stesso.
Era una esperienza unica nel mondo, perché nessuna altra rete di alta velocità ferroviaria consente anche il transito dei convogli merci. Altrove si realizzavano reti funzionali al solo transito di treni passeggeri. Qui, invece, per far transitare i convogli merci si rese necessario realizzare pendenze coerenti, moduli adeguati, sagome ampie, resistenze indispensabili per il passaggio di treni pesanti. E il costo di investimento, per questa sola ragione, risultò più elevato di un terzo rispetto alle esperienze internazionali comparabili.
Un treno ad alta velocità (low cost) in Francia
A distanza di due decenni, possiamo trarre conclusioni inequivocabili. Non un solo convoglio merci, ad eccezione di un treno ETR 500 viaggiatori adattato al suo interno per trasportare merce leggera, ha utilizzato la esistente rete italiana ad alta capacità. Le ragioni sono, e forse anche erano, evidenti: il mercato del trasporto commerciale non è in grado di pagare per il costo di un servizio che, solo per la componente del pedaggio di accesso alla rete, è superiore al prezzo di mercato delle modalità di trasporto alternative alla ferrovia. Non pare il caso di insistere in questo errore.
Il trasporto ferroviario delle merci
Una svolta rivoluzionaria, però, è in corso nel trasporto ferroviario delle merci, anche qui da noi. DB Cargo Italia, la società delle ferrovie tedesche che opera nel nostro Paese, grazie alle modifiche introdotte da Rfi, ha cominciato a far circolare – sulle linee del Nord Italia che lo consentono – treni da 2.500 tonnellate. Nel Sud, invece, per limiti indotti dall’acclività e dalla vetustà delle linee circolano convogli da 800 tonnellate.
Un treno della DB Cargo
Bisogna considerare anche il pedaggio di accesso alla infrastruttura. La rete alta velocità presenta un valore economico molto più elevato rispetto a quella tradizionale. Ciò sconsiglia di prendere in considerazione la prima per il trasporto delle merci: il mercato non richiede servizi ad elevata velocità, bensì prestazioni affidabili e tempo di consegna certo.
La chimera
Non serve una rete di alta capacità al Sud perché mai i treni merci circoleranno su una rete ad elevato pedaggio. Tanto più con una domanda che si orienta prevalentemente su altri parametri prestazionali. Sarebbe uno spreco di soldi: se l’armatura industriale del centro-nord non è stata in grado di attivare una domanda per servizi merci veloci, questa aspirazione nel Mezzogiorno diventa una pura chimera.
I treni merci per essere competitivi devono raggiungere uno standard di portata incompatibile con le caratteristiche di una rete ad alta velocità, se non a costi proibitivi. Occorrerebbe, quindi, investire nell’adeguamento della rete ferroviaria tradizionale alle caratteristiche necessarie per la competitività del trasporto ferroviario merci. Servono convogli più lunghi e più pesanti, almeno di 1.600 tonnellate. Bisogna adeguare la sagoma delle gallerie, i raccordi nei porti e nei siti industriali, allungare i moduli di stazione, riclassificare il peso assiale.
Passeggeri ed alta velocità
Potremmo dedicare così la nuova rete di collegamento veloce nel Mezzogiorno solo ai servizi passeggeri di lunga percorrenza, garantendo viaggi più rapidi. Una rete ad alta velocità che riguardi unicamente i passeggeri costa molto meno e assicura una drastica riduzione dei tempi di percorrenza. Spostamenti più rapidi e un aumento nella frequenza dei convogli consentono al trasporto ferroviario di allargare molto la quota di mercato, generando anche nuova domanda di mobilità.
Insomma, per il Mezzogiorno servono due approcci specifici dal punto di vista ferroviario: uno focalizzato sulle merci, per intervenire sulla competitività rispetto agli altri modi di trasporto; l’altro sui passeggeri, che deve guardare alla riduzione dei tempi di percorrenza e al miglioramento della connessione anche verso il centro-nord dell’Italia.
Il cronoprogramma degli interventi
La variabile temporale nella realizzazione degli investimenti costituisce un elemento decisivo per il futuro del Mezzogiorno. Se leggiamo le risorse finanziarie stanziate nel PNRR per le ferrovie, ci accorgiamo che quello che sarà realizzato entro il 2026 racconta un’altra storia.
Esiste una diversa articolazione temporale degli interventi: su totale di 24,77 miliardi di euro destinati agli interventi per investimenti sulla rete ferroviaria, le risorse a disposizione dell’alta velocità verso il Sud per passeggeri e merci (4,64 miliardi) sono circa la metà di quelle per le linee che collegano il Nord all’Europa (8,57 miliardi di euro). Il grado relativo di connettività delle regioni meridionali rispetto a quelle settentrionali, dunque, è destinato a peggiorare in termini di tempi di percorrenza rispetto ai mercati.
L’errore nella scelta del tracciato
Infine, c’è il tema della scelta dei tracciati. Sulla Salerno-Reggio Calabria sarebbe irragionevole e sciagurato investire in un collegamento che segue un itinerario nelle aree interne. Toccherebbe creare un sistema di gallerie lungo decine e decine di chilometri, con tempi di realizzazione che andrebbero verso le calende greche e col rischio di un aumento esponenziale dei costi.
Come sostiene spesso Mario Draghi, farsi guidare dal buon senso è un eccellente viatico per proseguire su un corretto tracciato. Così direbbe anche un ferroviere. Ma sono proprio i ferrovieri, in questo caso, a generare una commedia degli equivoci pericolosa.
Il tracciato ipotizzato per la nuova tratta ad alta velocità Salerno-Reggio Calabria
Il documento di RFI sulla Salerno-Reggio Calabria
In un documento di 211 pagine della Direzione Investimenti di Rfi, invece di fare chiarezza sulle scelte tecniche, si intorbidiscono ulteriormente le acque. È esattamente quello che non dovrebbero fare i tecnici. Il testo manca di due requisiti indispensabili per una valutazione trasportistica: l’analisi della domanda potenziale e la costruzione di un modello di esercizio. È, al contrario, un caleidoscopio di opzioni possibili per singole tratte della linea: questo metodo non restituisce chiarezza di scelte. Siamo più in presenza di uno spezzatino ferroviario, che lascia impregiudicate le decisioni che devono essere assunte.
Sull’alimentazione elettrica resta non sciolto il nodo tra tensione a 3.000 o a 25.000 mila Volt. Pare un dettaglio ma non lo è, perché determina nel secondo caso una integrazione con la rete AV esistente, lasciando fuori gli operatori normalmente privi di materiale rotabile idoneo a circolare con detta tensione (es. Imprese Ferroviarie merci) oppure nel primo caso una scelta per una velocizzazione di rete.
I ferrovieri sanno bene che per ottimizzare il modello di esercizio non si possono concepire tratte singole con caratteristiche tecniche differenti. Quanto alla analisi della domanda, se non si definiscono i tempi di percorrenza manca uno degli elementi fondamentali per comprendere la domanda potenzialmente catturabile.
Il collegamento trasversale merci
Va valorizzato, in un documento deludente, un elemento che può essere invece una chiave di volta importante per le operazioni logistiche. Un collegamento trasversale dal porto di Gioia Tauro verso l’asse adriatico può costituire una soluzione interessante. L’itinerario adriatico è stato già dotato di quelle caratteristiche, per modulo, sagoma e peso assiale, che sono coerenti con la circolazione di treni merci con standard europei. Gioia Tauro è un porto di transhipment: serve quindi confrontare l’assetto potenziale dei meccanismi competitivi tra soluzione ferroviaria e navi feeder.
Il porto di Gioia Tauro
Insomma, siamo tutti d’accordo sulla necessità di realizzare un collegamento ferroviario veloce al servizio delle regioni meridionali. Come lo si realizzerà, con quale progetto, con quale tracciato, con quali caratteristiche e con quali costi sarebbe necessario discuterlo in modo serio. Gli equivoci che si annidano nelle scelte tecniche vanno sciolti. Non vorremmo ripercorrere la triste storia della Salerno-Reggio Calabria autostradale.
Trappeto a sangue. Si chiamava così il frantoio per la molitura delle olive azionato da uomini e animali, e ciò basta a dare un’idea di quanta fatica costasse la produzione di olio fino all’impiego dei moderni macchinari. Poi vennero i frantoi meccanici, più rari e in genere mossi dalla forza idraulica, ma fino al XVIII secolo la lavorazione delle olive in Calabria seguiva tecniche arcaiche.
Trappeto a sangue all’uso genovese. Dal volume di Grimaldi del 1773
Trappeto alla calabrese e alla genovese
Decisamente arcaico era il cosiddetto “trappeto alla calabrese”: due grandi viti incastrate nella pietra pressavano le olive già lavorate dalla macina. Il sistema consentiva però una scarsa resa e la necessità di scaldare i frutti prima della lavorazione ne inficiava la qualità. La svolta arrivò nella seconda metà del XVIII secolo grazie all’introduzione del trappeto “alla genovese”.
Costituito da un torchio a unica vite, tale sistema giunse in Calabria nel 1773 sponsorizzato dal marchese genovese Domenico Grimaldi proprio per la regione in grado di produrre «più di centocinquantamila macinature di ulive, ciascheduna di nove tomola». La reclame del marchese sortì gli effetti sperati giacché il frantoio “alla genovese” resse fino alla comparsa delle prime macchine novecentesche. Il trappeto era sinonimo di prosperità, oltre che di esibizione dello stato sociale.
Macina di frantoio in rovina nelle campagne di Santa Sofia d’Epiro nel 2017
Le braccia e le bestie
Lo spiega bene il solito Vincenzo Padula: «Nessun nostro galantuomo si crede proprietario davvero quando non abbia un trappeto». Le figure chiave nel sistema di lavoro del trappeto erano essenzialmente tre: l’oliandolo o agliere, l’attizzatore o tizzuni, e il saccardo o vetturino. Quest’ultimo si occupava di condurre l’animale, in genere un mulo o un bue, che faceva andare le macchine e versava la pasta d’olive macinate sui fischiuli per essere pressata al torchio.
Una paga misera
Toccava poi all’attizzatore il compito di spingere le olive con una pala sotto la macina a ogni giro della stessa. Infine l’oliandolo faceva funzionare il torchio e, dopo la spremitura, raccoglieva l’olio dal pozzo. Nonostante le enormi fatiche, il lavoro nel frantoio permetteva ai fattoiani (quanti lavoravano in un “fattoio”) di mettere da parte una riserva d’olio per uso familiare. Per ogni macina di olive infatti, essi avevano diritto a poco più di due litri d’olio, da spartirsi però con l’oliandolo, l’attizzatore, il saccardo oltre che col proprietario del frantoio.
Coloro i quali portavano le olive a macinare avevano il buon cuore di offrire agli operai anche «la minestra di fave, o fagiuoli, e pane, formaggio e salame per spesare i fattoiani». Insieme al pasto trangugiavano grandi quantità d’olio, tanto che «la favata, che dalla popolana viene apparecchiata per essi, deve nuotare nell’olio».
“Più pende, più rende”
L’olivicoltura calabrese ottocentesca dalla coltivazione alla potatura e dalla raccolta alla molitura era praticata con scarsa cura e nulla razionalità. Ciò portava a raccolti esigui e a oli di scarsa qualità. Il proverbio secondo cui l’olivo “più pende più rende” conduceva infatti alla raccolta in periodi in cui il prodotto aveva già perso di qualità. In una relazione del 1863 il professore Giuseppe Antonio Pasquale scriveva che «le olive cascano da sé a poco alla volta, s’imbrattano di terra e si feriscono, poi s’ammonticchiano ed incamminano, e fermentano, e rancidiscono, e talora saponificano».
Olive nella tradizionale rete utilizzata per la raccolta
Un tale spreco era inconcepibile. Secondo lo scrivente era necessario dunque «raccogliere le olive colle mani da sopra l’albero, e spremerle tosto in apparecchio tersissimo, ed ecco l’olio più puro che la natura e l’arte possa dare». Da questo punto di vista, le olive della Piana di Gioia Tauro erano da preferire perché da un uliveto di venticinque piante si poteva ricavare un totale di 200 tomoli, e di conseguenza 4 botti d’olio per un totale di 16 quintali.
Il nettare verde amato dagli italiani
Nonostante i metodi arcaici e gli esigui raccolti all’alba del ventesimo secolo le olive, e in misura maggiore l’olio prodotto nelle province calabresi, deliziavano i palati di tutta Italia e a volte superavano i confini nazionali. Il rapporto intitolato “Sul commercio oleario delle Calabrie nel 1902”, firmato dal direttore del regio oleificio sperimentale di Cosenza, Flaminio Braccis, ripercorre le strade imboccate da questa “pregevole derrata” il cui traffico complessivo, specie via mare, «raggiunse la rispettabile cifra di 153.373 quintali, peso netto».
“Il vaiuolo dell’olivo”
Si tratta di numeri che, a detta di Braccis, andavano quasi ad eguagliare «il livello normale dei tempi migliori, dopo un periodo abbastanza prolungato d’insolita depressione, causata dalla fallanza continuata dei raccolti». Il migliore di quell’anno si registrò in provincia di Catanzaro, mentre Cosenza e Reggio furono penalizzate da fattori ambientali. Per gli oliveti «dell’ampia zona Rossanese che si stende fin sulla spiaggia del mare» fu un’annata inclemente a causa del cycloconium o più semplicemente “vaiuolo dell’olivo” che causò gravi danni. Allo stesso modo nella zona tra Gioia Tauro, Rizziconi, Radicena, Cittanova e Polistena la nemica si rivelò essere la mosca tardiva specie nelle zone pedemontane. Nonostante ciò i produttori calabresi non si persero d’animo, motivati a esportare la loro eccellenza a migliaia di chilometri di distanza.
Raccolta delle olive in Italia. Stampa francese del 1862
L’olio esportato in Francia
Le commesse, seppur in calo, non mancavano. Gli oli provenienti da Rossano e Gioia Tauro raggiungevano la Francia, mentre la stessa località della Piana fu penalizzata dal venir meno della commessa record di 10milia quintali di olio da ardere proveniente dalla Russia. Anche per questo motivo i coltivatori reggini si convinsero a puntare sull’impianto di qualità di olive “mangiabili o fini”, più redditizie, dirette principalmente in Liguria (Genova, Porto Maurizio, Oneglia e Sanremo), Toscana (Livorno) e nel Barese. Mentre gli oli industriali prendevano soprattutto la strada di Sicilia, Sardegna e del Napoletano. Gli “scali” dell’allora versante tirrenico catanzarese (Pizzo, Nicotera, Sant’Eufemia) brillavano sia per esportazioni di oli da tavola sia per quelli industriali, diretti anche in questo caso in Campania, Toscana ma anche a Venezia.
L’olio al solfuro
Ma dal punto di vista logistico i più organizzati erano gli scali ionici di Rossano e Corigliano e quello tirrenico di Amantea, da dove «si effettuarono spedizioni a vagoni completi per la Liguria, il Barese e Napoli». Lo stesso rapporto annovera tra le eccellenze calabresi in ascesa un nuovo protagonista: l’olio al solfuro. Prodotto negli stabilimenti di Rossano, Cariati, Catanzaro, Siderno e Gioia Tauro, veniva utilizzato e apprezzato dalle industrie cosmetiche di Catania, Genova e Bari per la produzione di saponi verdi che cominciavano a far la loro comparsa nelle toilette dell’epoca bella.
La “buona scuola” tra gli uliveti
Ai sistemi arcaici utilizzati nei secoli precedenti fece da contraltare, nel senso del progresso, l’esperienza vissuta da alcuni allievi della Scuola pratica d’agricoltura di Cosenza (oggi Istituto agrario “G. Tommasi”). Ciò che recentemente chiameremmo entusiasticamente “buona scuola”, “alternanza scuola-lavoro” o “a scuola d’azienda” si praticava tra gli oliveti della provincia di Cosenza già 120 anni fa. Nell’anno scolastico 1902-1903 il Ministero dell’agricoltura pensò di promuovere un corso teorico-pratico d’oleificio su esplicita iniziativa dell’Oleificio sperimentale di Cosenza diretto da Flaminio Braccis. Al corso, indirizzato oltre che agli studenti anche a operai e agenti di campagna, parteciparono due classi della locale Real scuola pratica d’agricoltura diretta dal cavalier Tommasi (che oggi dà il nome all’Istituto agrario).
A lezione dai latifondisti
Per venti giorni venti allievi di due classi frequentarono lezioni specifiche ed approfondite tra Cosenza (Campagnano e Rovello), Montalto Uffugo, Rossano, Amantea, Scalea. Qui, sui terreni di ex latifondisti incuranti ora apertisi alle diavolerie della modernità, ebbero luogo conferenze, visite e dimostrazioni pratiche in campagna: dalla constatazione dello stato del frutto e delle piante alla scelta delle parcelle di terreno da sottoporre a concimazione chimica, dallo studio delle malattie dell’ulivo ai rimedi possibili e ai sistemi di piantamento dell’olivo.
Il fine, esplicitato nel documento finale, fu quello di convincere e formare al «vantaggio degli ordegni moderni e delle pratiche razionali di oleificazione che hanno sostituito e vanno sostituendo in quest’ultimo quinquennio ai preadamitici frantoi ed ai torchi di legno». Ma c’è di più. A una scuola che, secondo gli indirizzi ministeriali, veicolava un’agricoltura finalmente razionale e non più arcaica si aggiungeva un aspetto non secondario. Il corso era non solo gratuito, ma ciascun partecipante fu rimborsato delle spese di viaggio (andata e ritorno) mentre ai più bisognosi venne riconosciuto addirittura un compenso giornaliero. Naturalmente tutti gli studenti erano maschi.
Raccoglitrici di olive negli anni ’50 (immagine tratta dalla pagina facebook: Calabria Fotografia Sociale)
Le insidie sessuali del padrone
E le donne? Le raccoglitrici di olive condividevano i medesimi patimenti e condizioni di lavoro disumane delle gelsominaie. Più o meno giovani, le donne lasciavano i propri paesi per recarsi negli uliveti dei grandi proprietari nei diversi giorni della campagna di raccolta e condividevano locali angusti e poco igienici. Inoltre erano soggette alle insidie sessuali del padrone o dei suoi fattori. Scalze e curve sul terreno per la raccolta lungo tutta la durata della giornata, dovevano poi sobbarcarsi il peso dei sacchi colmi di olive fino ai depositi. La paga era quasi sempre misera, incerta e molto spesso corrisposta in natura. Alle raccoglitrici era concesso infatti di mangiare solo le olive già cadute al suolo ma non potevano portarne a casa. La condizione delle “montanine” che si riversavano nelle zone marittime nei mesi di maggior produzione è esposta nei minimi particolari da Vincenzo Padula.
Giovinette sotto l’ombra degli ulivi
Il letterato di Acri non manca di annotare che «il più vago spettacolo è d’inverno nella marina del Jonio: giovinette di tutti i tipi, che vestono di tutti i colori, che cantano in tutti i tuoni, ora sole, ora a gruppi, ora ritte, ora piegate sotto l’ombra degli ulivi». Non riuscivano però a racimolare «più di 34 centesimi al giorno», mentre erano sorvegliate da un misaruolu che nella giornata guadagnava una lira. Padula denuncia una realtà fatta di angherie, maltrattamenti e violenze commesse dai padroni che amavano «godere della voce, e delle grazie di quelle poverelle, alle quali danno 34 centesimi al giorno per disonorarle».
Al momento della partenza per i luoghi di lavoro i genitori le mettevano in guardia ma «molte ed assai molte immemori dell’avvertimento paterno vi perdono l’onore; molte sono più avventurate, e prima divengono concubine, poi mogli di alcuno dei loro padroni». Non mancavano componimenti in versi e canzoni sull’argomento, tra cui una che Padula ebbe modo di sentire da una donna e che diceva in modo ironico: «Mi susu la matina/ Mi mindu lu jippuni/ U pulici d’u Baruni/ M’è venutu a muzzicà».
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