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  • Tanti Comuni, pochi servizi: ok per i poltronisti, non per i cittadini

    Tanti Comuni, pochi servizi: ok per i poltronisti, non per i cittadini

    In Calabria si contano 327 comuni con meno di 5.000 abitanti, su un totale di 404 enti locali: rappresentano l’80,9% del totale, una delle percentuali più alte tra le regioni italiane. Un terzo della popolazione calabrese vive in questi piccoli comuni. Ma è il nanismo istituzionale che si esprime sul territorio mediante una maggiore frammentazione.
    Sono 17 in Calabria i comuni con meno di 500 abitanti: sette di questi, quasi la metà, sono concentrati nella sola provincia di Cosenza: Carpanzano, Castroregio, Panettieri, Nocara, Alessandria del Carretto, Serra d’Aiello, Cellara. Quando i comuni sono polverizzati per numero di abitanti, è davvero difficile poter offrire ai cittadini servizi adeguati alle necessità.

    Comincia spesso in questi casi un pendolarismo territoriale alla ricerca delle condizioni compatibili, che in diversi casi, come nella sanità, conduce alla l’approdo verso altre regioni del Paese, nella maggior parte dei casi verso il Settentrione.
    Questa realtà vale, sua pure con un caratteristiche meno accentuate, per l’intero territorio nazionale. Su poco meno di 8.000 comuni presenti in Italia, se ne contano 882 comuni con meno di 500 abitanti; quelli con meno di 1.000 abitanti sono poco meno di 2.000.

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    Alessandria del Carretto vista dall’alto

    Poche unioni di Comuni in Calabria

    Per rispondere a questa eccessiva frammentazione del modello istituzionale ed organizzativo, si è adottata la formula della Unione dei comuni, in modo tale da assicurare una migliore erogazione dei servizi ai cittadini. Non dappertutto questa formula è stata utilizzata con la stessa capacità di superare i localismi nell’interesse delle comunità presenti sul territorio. Sono soltanto 12 le unioni di comuni in Calabria, su 564 che se ne contano in Italia: una percentuale pari appena al 2,1%. La scarsa utilizzazione della formula della Unione dei comuni ha impedito di mettere assieme fattori e risorse per assicurare una migliore risposta ai cittadini.

    L’ente consorziato è costituito da due o più comuni per l’esercizio congiunto di funzioni o servizi di competenza comunale.
    L’Unione di comuni è dotata di autonomia statutaria nell’ambito dei principi fissati dalla Costituzione, dalle norme comunitarie, statali e regionali. A questo istituto si applicano, per quanto compatibili, i princìpi previsti per l’ordinamento dei comuni, con specifico riguardo alle norme in materia di composizione e numero degli organi dei comuni, il quale non può eccedere i limiti previsti per i comuni di dimensioni pari alla popolazione complessiva dell’ente.

    Casali del Manco è tra i pochi Comuni calabresi nati dopo la fusione di diversi enti di minori dimensioni

    Cui prodest?

    Per quale motivo non si è affermato anche in Calabria, ed in generale nel Mezzogiorno, un disegno di razionalizzazione degli enti locali capace di dare risposta ai bisogni del territorio? Se continua a prevalere la frammentazione istituzionale vuol dire che il territorio ricava la sua convenienza: a partire dalle organizzazioni criminali, che hanno sempre da guadagnare dalla debolezza istituzionale, per finire alle consorterie politiche, che evidentemente trovano vantaggioso moltiplicare le poltrone per governare meglio il controllo del consenso.

    La frammentazione istituzionale del Mezzogiorno trova radici antiche: da un lato conta un fattore sociologico permanente, che resta ancora primario rispetto al resto del Paese, vale a dire quel familismo amorale studiato proprio in Calabria da Edward C. Banfield negli anni Cinquanta del secolo passato. D’altro lato pesa una classe dirigente politica più attenta a preservare le poltrone del potere rispetto alla soddisfazione degli interessi e dei diritti del cittadino.

    Il contesto normativo

    Eppure, il contesto normativo ha definito anche sistemi di incentivazione per spingere verso le unioni dei comuni ed anche verso altre forme più spinte di aggregazione. La fusione di uno o più enti, con l’istituzione di un nuovo comune, costituisce la forma più compiuta di semplificazione e razionalizzazione della realtà dei piccoli centri. Anche le fusioni di comuni godono di incentivi statali.

    L’entrata in vigore dell’esercizio obbligatorio di tutte le funzioni comunali dei piccoli comuni è stato prorogato più volte, da ultimo al 31 dicembre 2022 da parte del DL 228/2021. Si contano sinora nove proroghe, ma ora dovremmo essere al punto di non ritorno. Questo ennesimo appuntamento dovrebbe indurre ad accelerare non solo ragionamenti, ma anche decisioni, per accorpare i comuni di piccole dimensioni e per raggiungere quelle masse critiche necessarie per una maggiore efficienza amministrativa.
    Insomma, non resta molto tempo per superare una organizzazione comunale che non corrisponde all’ottimo sociale, ma solo ad una geografia politica che ha fatto il suo tempo.

    I Comuni e il PNRR

    In Calabria la strada da percorrere è lunga. La qualità amministrativa del governo territoriale è una delle condizioni essenziali dalle quali dipende il futuro dello sviluppo. Partiamo da una base largamente insoddisfacente. Mentre tutta l’attenzione si concentra sul PNRR, molto di quello che sarà il destino del Mezzogiorno dipenderà dalla configurazione istituzionale dei poteri locali.
    Costituire unioni di comuni e favorire fusioni di comuni sono due indicatori che ci dimostreranno la capacità di innovazione del ceto politico locale in Calabria e nel Mezzogiorno.

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    La Camera dei deputati

    Mentre il Parlamento ha tagliato della metà il numero dei rappresentanti, tra senatori e deputati, a livello locale è cresciuta nei recenti decenni una selva di “cadreghe” territoriali che costituiscono un ostacolo alla modernizzazione della macchina amministrativa.
    Ma, mentre sulla casta nazionale sono state scritte quantità impressionanti di letteratura, sulle caste territoriali è mancata la stessa meticolosa attenzione. Eppure, in termini di danni prodotti, il federalismo asimmetrico degli ultimi decenni è stato molto più dannoso dei poteri centrali sempre meno efficaci.

  • Il buco nell’acqua, la Calabria mette a rischio i fondi per tutta l’Italia

    Il buco nell’acqua, la Calabria mette a rischio i fondi per tutta l’Italia

    Il rischio che si faccia un enorme buco nell’acqua è direttamente proporzionale alla banalità della battuta. La questione è però molto seria: se le risorse idriche calabresi entro il prossimo 30 giugno non verranno affidate a un soggetto gestore c’è la contreta possibilità che non solo la Regione Calabria, ma anche tutte le altre Regioni italiane, perdano l’opportunità di utilizzare i finanziamenti europei destinati al settore: dal Pnrr ai fondi Ue 2021/2027 fino alla riprogrammazione del React Eu. Un potenziale disastro.

    Quattro regioni mancano all’appello

    Per la fine di giugno è infatti fissata la deadline per l’affidamento a regime del Servizio idrico integrato e, a livello nazionale, l’Italia deve garantire alcune «condizioni abilitanti». Che mancano, o sono solo parzialmente soddisfatte, per 4 Regioni: Molise, Campania, Sicilia e, appunto, Calabria. Le condizioni abilitanti sono i pre-requisiti che gli Stati membri devono soddisfare per poter fruire dei fondi europei. Il dipartimento per le Politiche di coesione della Presidenza del Consiglio dei ministri specifica che «affinché la singola condizione possa ritenersi soddisfatta, è necessario che l’adempimento copra la totalità dei criteri previsti e, per alcune condizioni abilitanti, la copertura dell’intero territorio».

    Conseguenze per tutti

    È proprio il caso del Servizio idrico. «Eventuali carenze, anche parziali in ordine a specifici criteri o ambiti regionali, non permetterebbero di asseverare la condizione come soddisfatta, con conseguenze penalizzanti per l’intero Stato membro». Dunque le spese collegate all’obiettivo specifico, benché certificabili, non potrebbero essere rimborsate allo Stato membro «per quanto riguarda la quota Ue, finché l’adempimento non sia certificato dalla Commissione». La Calabria sconta un pesante ritardo verso l’individuazione del soggetto gestore unico previsto dalla normativa nazionale (D.lgs. 152/2006) e regionale (l. r. 18 del 18 maggio 2017).

    In attesa del servizio idrico integrato

    L’affidamento della gestione del servizio idrico integrato, che è una condizione abilitante per usufruire dei finanziamenti europei, spetta per legge all’ente di governo d’ambito, ovvero l’Autorità idrica calabrese in cui sono rappresentati i Comuni. L’Aic nei mesi scorsi ha indicato una strada: l’affidamento a una società, creata sulle ceneri della “Cosenza Acque”, che si dovrebbe chiamare “Acque Pubbliche della Calabria”, un’Azienda speciale consortile in cui dovrebbero entrare, come soci, tutti i 404 Comuni calabresi ed eventualmente altri enti pubblici.

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    Assemblea dell’Autorità idrica calabrese con i sindaci

    Sorical fino al 2034?

    Sorical ha la concessione della grande adduzione dell’acqua fino al 2034. È una partecipata al 53,5% dalla stessa Regione e per la restante quota è in mano privata. Nel tentativo – in corso da quasi un anno e a un decennio dalla messa in liquidazione – di essere ripubblicizzata, si ritrova alle prese con le condizioni poste dal suo principale creditore. Si tratta di una banca irlandese di cui abbiamo scritto che ha ceduto i suoi circa 85 milioni di euro di crediti a un Fondo governativo tedesco.

    Che, stando a quanto riportato dalla Gazzetta del Sud domenica scorsa, pare si stia mettendo di traverso. Dunque, da un lato, se non si supera questa impasse non si può affidare l’intero servizio a Sorical. Ma anche la soluzione, pur indicata come provvisoria, di affidare solo la fornitura al dettaglio alla nuova “Acque Pubbliche della Calabria”, lasciando l’ingrosso alla società mista le cui quote private sono pignorate dai tedeschi, sembra essere altrettanto irta di ostacoli.

    La diga del Menta, gestita dalla Sorical, società partecipata della Regione Calabria

    Chi metterà i soldi?

    L’Aic sta sottoponendo ai Comuni, illustrandole negli incontri delle Conferenze territoriali di zona, le delibere da approvare in consiglio comunale per entrare nella nuova società. Ben pochi però finora lo hanno fatto. Si sta tentando pure la strada dei Contratti di rete, ma i comprensibili dubbi dei sindaci, soprattutto relativi al «chi ci metterà i soldi», si moltiplicano. Così il cronoprogramma iniziale, che prevedeva di arrivare ad avere un Piano industriale entro metà febbraio, e all’affidamento definitivo del servizio il 18 marzo, è già ampiamente non rispettato.

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    La multiutility di Occhiuto

    In mezzo c’è la Regione che, secondo quanto va ripetendo da tempo il presidente Roberto Occhiuto, punta a creare un’unica «multiutility» per gestire tutto: la fornitura dell’acqua dalla captazione fino ai rubinetti delle case, ma anche la depurazione e la riscossione delle bollette. Il tempo però stringe e in pochi mesi è difficile creare un simile soggetto. Le alternative sono due: rendere Sorical pubblica, ma bisogna pagare almeno 85 milioni di euro di debiti e potrebbe anche non bastare. La seconda possibilità è rendere operativa la “Acque pubbliche della Calabria”. Ma servirebbero risorse e personale che al momento non esistono.

    Tra Manna e Calabretta spunta Occhiuto

    Entrandoci, infatti, i Comuni dovrebbero versare 1 euro per ogni abitante nell’arco di tre anni. Poca cosa. I vertici dell’Aic stanno dunque cercando di interloquire con Utilitalia (Federazione che riunisce le Aziende operanti nei servizi pubblici rappresentandole presso le Istituzioni nazionali ed europee) per la redazione del Piano industriale. C’è poi il tentativo di trovare un sostegno economico da parte del Ministero, ma senza l’appoggio politico-istituzionale della Regione è dura.

    Sì, perché dalla Cittadella – che potrebbe anche entrare in “Acque pubbliche” come socio – non pare sia arrivato al momento alcun segnale di accompagnamento a questo percorso, che pure lo stesso Occhiuto aveva detto di voler intraprendere in via provvisoria per non perdere i fondi del Pnrr. È chiaro, allora, che tutto è subordinato a una partita politica: da un lato c’è l’Aic guidata dal sindaco di Rende e presidente di Anci Calabria Marcello Manna, dall’altro Sorical guidata dal leghista Cataldo Calabretta, in mezzo Occhiuto. Che vorrà certamente avere un ruolo di primo piano anche in un settore decisivo come questo.

    Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    I Comuni nella Sorical

    Intanto va detto che la via che porterebbe all’affidamento del servizio a una Sorical interamente pubblica non potrebbe essere percorsa se non mettendo dentro anche i Comuni, perché senza di loro non si può esercitare il controllo analogo previsto dalla gestione in house. Gli stessi Comuni, rispetto alla società “Acque pubbliche della Calabria”, sono d’altronde alle prese con una scelta che appare forzata, perché la legge 233/21 prevede, sostanzialmente, la possibilità dell’ente d’ambito di commissariare le gestioni in economia. Che in Calabria sono attualmente la quasi totalità, con i risultati che conosciamo.

    Chiare, fresche e dolci Acque pubbliche

    Se diventasse operativa la “Acque pubbliche”, che avrebbe sede legale a Cosenza, si instaurerebbe un rapporto di tipo negoziale con Sorical che, come avviene anche oggi, avrebbe competenza fino ai serbatoi comunali. Gli organi della nuova società sarebbero l’Assemblea composta da tutti i Comuni e gli enti pubblici coinvolti, il Consiglio di Amministrazione (composto da quindici membri, compreso il presidente, in rappresentanza delle cinque Province e delle diverse fasce di popolazione), il direttore (che, come il Cda, verrebbe nominato dall’Assemblea) e il collegio dei revisori dei conti.

    I crediti della Sorical

    I problemi storici però resterebbero immutati nella loro gravità. Sorical, nel bilancio 2020, ha inserito alla voce «crediti verso clienti» una somma di 96,5 milioni di euro (31 sarebbero dovuti dalla fallita Soakro, 14 dalla Lamezia Multiservizi, 13,9 dal Comune di Cosenza, 3,3 da Congesi). Nel bilancio di previsione approvato a fine anno dalla Regione, per rischi connessi alla riscossione delle somme relative al servizio idropotabile, vantati nei confronti dei Comuni in dissesto e predissesto e degli enti che non hanno sottoscritto piani di rateizzazione o accordi con la Regione, sono stati previsti 69,7 milioni di euro. I debiti maturati dai Comuni verso la Regione fino al 2004, anno in cui è stata creata Sorical, restano tra le «criticità rilevanti ancora irrisolte».

    Cataldo Calabretta, commissario della Sorical

    L’evasione dei comuni

    Secondo quanto dichiarato negli anni scorsi dagli stessi vertici Sorical, il servizio idrico calabrese registrerebbe un’evasione del 50%, con punte del 70%. A novembre del 2020 l’attuale commissario Calabretta dichiarava che i Comuni dovevano versare ancora 160 milioni di euro «con i quali si potrebbero coprire i debiti della società», che oggi ammontano in totale a 188 milioni. D’altro canto negli anni molti Comuni hanno contestato la determinazione delle tariffe, questione rispolverata in questi giorni anche dal Codacons calabrese.

    Perdite idriche pari al 52,3 %

    Qualche altro dato può essere utile a comprendere la complessità del problema. Le regioni del Mezzogiorno fanno registrare il 52,3% di perdite idriche: più di metà dell’acqua immessa nei sistemi di acquedotto viene cioè sprecata, a fronte di una media nazionale del 43,7% (Relazione annuale Arera 2020). Circa 1 milione e 450mila famiglie meridionali subiscono interruzioni della fornitura idrica (Istat, 2020). Il 20% del territorio italiano è a rischio desertificazione (Anbi, 2021).

    La Calabria senza servizio idrico integrato

    Secondo il governo nazionale la soluzione sta nelle gestioni industriali, che al Sud scarseggiano. Nel Pnrr sono individuate quattro linee di investimento e due riforme che hanno lo scopo di «garantire la sicurezza dell’approvvigionamento e la gestione sostenibile delle risorse idriche lungo l’intero ciclo».

    A questo sono riservate complessivamente risorse per 4,38 miliardi di euro, di cui una quota intorno al 51% secondo il governo sarà indirizzata al Mezzogiorno (circa 2,2 miliardi di euro). Ma la Calabria non ha ancora il servizio idrico integrato né un soggetto gestore che possa intercettare e, come si usa dire molto in questo periodo, mettere a terra questi potenziali finanziamenti. Nonostante si tratti probabilmente dell’unica occasione per mettere mano a reti colabrodo risalenti a mezzo secolo fa.

  • BOTTEGHE OSCURE | Cosenza da bere: dal Vetere a Bifarelli, i rifugi dei viaggiatori

    BOTTEGHE OSCURE | Cosenza da bere: dal Vetere a Bifarelli, i rifugi dei viaggiatori

    Per i viaggiatori che giungevano a Cosenza in treno via Sibari, l’accoglienza nella città dei bruzi non era delle più rosee. Ragazzacci di strada prendevano d’assalto l’ingresso principale della stazione proponendosi ai forestieri come facchini oppure offrendo accoglienza in alberghi, pensioni, locande e osterie. «È uno sconcio» scriveva nel 1896 un indignato redattore della Cronaca di Calabria dopo aver assistito a quel «pigia-pigia indiavolato ed i poveri viaggiatori spesso sballottati tra la ressa di tanti ragazzacci».

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    La stazione di Cosenza a inizio ‘900

    Tra «mmuttuni» e «male parole» ciascun giovinastro avrebbe “puntato” il proprio forestiero e conducendolo alla carrozzella libera gli avrebbe spillato qualche quattrino che si sarebbe bevuto nel giro di pochi minuti nelle fetide cantine di Santa Lucia. La carrozzella avrebbe cominciato allora la sua lenta ascesa su corso Telesio verso piazza Prefettura, dove sorgeva l’unico albergo della città degno di tale nome.

    Don Ciccio Lupoli, lo chef che sfidò i big

    C’era poco da fare: commercianti, uomini d’affari, artisti e soubrettes avrebbero soggiornato all’Albergo Vetere, a un tiro di schioppo dalla Villa Comunale. Ai primi del ‘900 era gestito da Francesco Lupoli, per tutti “Ciccio”, chef dell’annessa trattoria “Zumpo”. Oltre a preparare un sontuoso capretto al forno, Lupoli era rinomato per la torta di mandorle servita nell’ampio salone che si popolava di professionisti, gente di spettacolo e politici. Lo stesso Lupoli tentò la candidatura “autonoma e di protesta” alle elezioni amministrative del 1895 rispetto ai candidati del Partito socialista ufficiale. Si arrivò a dire che i 47 voti allo chef – “tolti” secondo alcuni ai due “big” Pasquale Rossi e Nicola Serra – furono dovuti alle laute pietanze somministrate e recensite sulla stampa locale.

    L’Albergo Vetere e il teatro Rendano in piazza Prefettura

    Tra i fan più accesi di Lupoli c’erano i redattori della Cronaca di Calabria. Nel 1911 il giornale diretto da Luigi Caputo scrisse che commercianti e professionisti si sentirono di offrire al loro chef «un pranzo per il modo signorile col quale erano trattati: un pranzo a chi aveva il merito di preparare ottimi pranzi». Nonostante la mancanza di un ascensore/montacarichi e di bagno, telefono e riscaldamento nelle camere private, l’albergo ai piedi di colle Vetere con le sue camere «ricche di sole e aria sana» era il meglio che si potesse trovare a Cosenza tra ‘800 e ‘900. Divenne persino un ricovero per famiglie sfollate durante la Seconda guerra mondiale. Fu infine demolito nella seconda metà degli anni ’60 per far posto al nuovo Liceo “Telesio”.

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    Pubblicità dell’Albergo e Ristorante Vetere su un numero della Cronaca di Calabria di fine ‘800

    Brutti, sporchi e cattivi

    «Albergo buono anche se primitivo» scriveva del Vetere la storica dell’arte statunitense Mary Berenson nel suo diario di viaggio In Calabria (1908). Avrebbe dovuto soggiornarvi pure lo scrittore inglese George Gissing che in Sulla riva dello Ionio (1897) lo giudicò «veramente un albergo decente». Tuttavia non trovò posto. La guida Baedecker lo condusse allora all’Albergo Leonetti su Corso Telesio (erroneamente tradotto “I due lionetti”), un vero e proprio dramma per lo scrittore britannico: «Una terribile buca aperta e sporca al di là di qualsiasi cosa io mi sia giammai imbattuto». Il “puzzo” avvertito dall’ospite era forse dovuto alla trattoria gestita da don Ciccio Altalena, specializzata in fritti e arrosti.

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    Cosentini in piazza Piccola, su corso Telesio: poco più giù, l’Albergo Bologna

    Sognò il Vetere anche il giovane aristocratico austriaco Friedrich Werner van Oestéren che giunse a Cosenza una sera di primavera del 1908 intenzionato a riposare, quando gli si fece incontro un cameriere: «Mi accolse con la domanda se fossi io il signore che ha prenotato una stanza». La tentazione del disfatto viandante fu enorme: «Se non fossi stato per principio contrario alle bugie oggi ne avrei detta una e avrei risposto affermativamente. Non appena risposi secondo verità mi mandarono indietro per mancanza di stanze».

    La solita guida spinse l’avventuroso austriaco in una “locanda di terz’ordine”, l’Albergo Falcone (in seguito Albergo Bologna): «Oh Dio Cane! – esclamò il viaggiatore – la camera nella quale mi condussero aveva un aspetto orribile […] pur con un senso di raccapriccio e paura rimasi in quel buco privo d’aria, sporco, maleodorante e con un’illuminazione elettrica ridicola». Nelle prime ore del mattino van Oestéren se ne tornò al Vetere dove nel frattempo si era liberata una camera e «dormii alla grande fino a mezzogiorno».

    Tavernari di Cosenza

    Più che alberghi il Falcone, il De Felice, il Gonzales e il Giglio d’Oro erano locande modeste o malfamate, con pareti nere e umide, odore di muffa, aria malsana, stanze buie e prive di suppellettili. Ce n’erano diverse anche tra piazza S. Giovanni, nei vicoli di piazza San Domenico e in via Sertorio Quattromani, frequentate da lavoratori dalle mani callose e, in generale, gente senza troppe pretese.
    Piccole cantine e osterie popolavano i quartieri popolari della città. Massa, Garruba, Rivocati, Santa Lucia, Spirito Santo, ma anche la parte alta, ne ospitavano diverse. A differenza degli alberghi, visitati da ospiti illustri di passaggio, le cantine e le osterie hanno lasciato traccia soprattutto negli atti dei processi per i reati di cui furono teatro.

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    Cantina Mazzei a Motta di Rovito. Foto dal gruppo Fb “”Calabria di una volta

    Nelle cronache delle rivolte cosentine del 15 marzo 1844, ad esempio, si legge di come alcune taverne funsero da punti di raccolta per i rivoltosi in attesa di entrare all’opera. Nella Taverna di Stocchi, per esempio, posta nel territorio rendese lungo la strada maestra che da Nord portava a Cosenza, si diedero appuntamento i ribelli provenienti dai paesi arbëreshë.
    «Un’ora prima dell’alba bussarono alla taverna vicino Emoli pria del signor Stocchi di Cosenza, ora di Spizzirri di Marano Marchesato e bevvero del vino; indi si avviarono per la volta di Cosenza, e sul ponte d’Emoli spararono dei razzi da fuoco […] e ciò per segnale da darsi a Cosentini» scrive lo studioso Stanislao De Chiara.

    La figura dell’oste, costantemente attorniato da avvinazzati, tipi loschi, prostitute e tagliagole, era guardata con sommo rispetto. Lo spiega con il consueto tono canzonatorio l’apriglianese Domenico Piro, alias Duonnu Pantu, che nei suoi versi dissacranti ebbe a dire che avrebbe preferito fare il macellaio o il taverniere al letterato: «E si campu n’autru annu, e si nun muoru, o chianchieri me fazzu, o tavernaru!».

    Dodici al litro: la cantina ‘i Bifarelli

    Le cantine avevano le caratteristiche più disparate. Negli edifici erano poste in genere al livello della strada, spesso illuminate da poca luce e riscaldate da un camino. Botti, damigiane, tavoli traballanti ai quali ci si sedeva con sedie e sgabelli in attesa di gustare il vino locale nei classici bicchieri in vetro “da 12 al litro”, accompagnato da qualche tarallo e poco altro. Più in là con tempo sarebbe arrivata anche qualche gazzosa, prodotta magari da varie piccole industrie locali, ma questa è un’altra storia.

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    Si beve vino e si gioca a carte in una vecchia cantina di Cosenza (foto Mario Zafferano)

    A Cosenza è diventata proverbiale la cantina ‘i Bifarella (o Bifarelli secondo altri), che dalla vita reale di meno di un secolo fa è assurta alla mitologia cittadina divenendo un luogo tra il reale e il fantastico, posto nel quartiere dei Rivocati, ma anche alla Massa, a Santa Lucia. Insomma, ognuno ricorda che fosse un po’ ovunque. Il vino annacquato e le risse all’ordine del giorno l’hanno fatta diventare l’emblema del luogo caotico e popolare, frequentato da perdigiorno e dispensatori di “vino di cartella”, come soleva chiamarsi il vino adulterato con polveri varie. Magari nella realtà vi si poteva assaggiare del buon vino, chissà. Del resto il vino, comunque fosse, era un prodotto di largo consumo e gli si attribuivano anche virtù benefiche. Per restare nella cultura popolare: «Pìnnuli ‘e cucina e scirùppu de cantìna su la mèglia medicìna».

    Vino e follia nelle cantine di Cosenza

    Abitudinari delle malfamate cantine della Cosenza di fine ‘800 erano “Giacchino” e “Balletta”, due avvinazzati ben noti alle guardie di pubblica sicurezza. In perenne stato di «ubriachezza ripugnante e molesta» a tutte le ore del giorno e della notte i due, tremolanti e seminudi, si esibivano «nelle più loide espressioni, le più schifose invettive, le più triviali espressioni» che i più giovani ascoltavano e commentavano per ore. Nelle cantine di via Fontana Nuova, come quella gestita dall’oste Angelo Reda, nel 1895 si giocava a primiera. Una notte di primavera fecero irruzione le guardie che bloccati i giovani biscazzieri e sequestrate le carte «dichiararono in contraddizione il cantiniere che permetteva quel gioco, proibito dalla legge» si legge sulla Cronaca di Calabria.

    Carabinieri a Cosenza all’inizio del secolo scorso in quella che oggi è piazza dei Bruzi

    A sera i muratori della Massa e gli operai degli opifici di contrada Castagna si abbandonavano in una miriade di luoghi improvvisati di mescite illegali, oppure vere e proprie cantine aperte e poi chiuse nel volgere di pochi giorni per mancanza della relativa licenza. Qui si somministrava vinaccio di terza o quarta scelta, colmo di alcol, tagliato da osti e cantinieri truffaldini e prossimi alla malavita. Oltre al taglio discutibile, la vendita o la mescita a prezzo superiore a quello imposto dal calmiere era il tipo più diffuso di speculazione legata al vino.

    Dal bicchiere alle lame

    Per chi gradiva, di fianco a un bicchiere, non mancavano alici e sarde sotto sale, più raramente uova o frutta secca, chiamate per attagnare il carico della bevuta. Si giocava d’azzardo, si discuteva di donne e armi, e dagli apprezzamenti alle offese e da queste alle lame il passo era breve. Si girava armati di coltello a manico fisso o a molla, da far scattare alla bisogna. L’ubriachezza nelle sue varie forme – continua, manifesta o molesta – era spesso associata come aggravante o al contrario attenuante nei procedimenti penali per rissa, ferimento o mancato omicidio. Le guardie di pubblica sicurezza presidiavano gli avventori delle osterie da lontano, poi seguivano come ombre i giovani avvinazzati già segnalati e pronti a delinquere in una città ebbra di vino e follia.

  • Sud e ripresa: il Pnrr non basta, anche l’Italia deve fare la sua parte

    Sud e ripresa: il Pnrr non basta, anche l’Italia deve fare la sua parte

    Sono trascorsi sessantacinque anni dalla stipula dei Trattati di Roma, con i quali è nato il Mercato comune europeo. E sono passati trenta anni dalla firma del Trattato di Maastricht, con il quale si sono poste le premesse per la moneta unica.
    Dentro questo tempo di costruzione delle istituzioni comunitarie una parte rilevante degli sforzi si è concentrata sulle politiche di coesione ed alla riduzione dei divari territoriali all’interno della Unione Europea. Quali sono stati gli esiti di questo percorso per il nostro Paese? Perché gli sforzi non hanno condotto al successo?

    L’errore dell’Italia con il Sud

    Il Mezzogiorno d’Italia, nonostante le politiche comunitarie, non è riuscito ad agganciare la locomotiva dello sviluppo europeo. Anzi, si sono determinate le condizioni per una crescita del divario nel corso degli ultimi decenni. La Calabria resta fanalino di coda tra le regioni comunitarie.
    Le ragioni di questo insuccesso sono tutte nazionali. L’Italia ha commesso un gravissimo errore di politica economica, senza avviare un serio dibattito pubblico su tale questione. Invece di considerare le risorse comunitarie addizionali rispetto agli sforzi nazionali, progressivamente sono state assunte scelte che hanno smantellato gli strumenti della programmazione finanziaria e gestionale italiana.

    Gli sperperi del passato

    Si è finito per considerare gli interventi europei sostanzialmente l’unico strumento disponibile per lo sviluppo dei territori meridionali. L’intervento straordinario nel Mezzogiorno è stato definitivamente smantellato a metà degli anni Ottanta. Così come le aziende pubbliche hanno cominciato nello stesso periodo una disordinata ritirata dai territori delle regioni del Sud.
    Mentre il governo nazionale ha delegato alle istituzioni comunitarie le politiche di coesione territoriale, le regioni meridionali hanno sperperato le risorse europee attraverso due canali: da un lato disperdendole in mille rivoli e dall’altro non utilizzandole appieno con una quantità imbarazzante di residui non spesi. Sono le due ragioni che oggi rendono preoccupante la prospettiva del PNRR.

    Pnrr e Sud: la coesione che vorrebbe l’Ue

    Poi emergono oggi le sfide nuove, alle quali non siamo ancora preparati. L’ottavo rapporto sulla coesione della Commissione Europea, pubblicato in questi giorni, mette in evidenza il potenziale delle transizioni verde e digitale come nuovi motori di crescita per l’UE, ma sostiene che senza azioni politiche adeguate potrebbero sorgere nuove disparità economiche, sociali e territoriali.
    Anche la pandemia ha allargato la forbice tra le regioni europee. Il COVID-19 ha già aumentato la mortalità dell’UE del 13%, ma finora l’impatto è stato più elevato nelle regioni meno sviluppate, dove la mortalità è aumentata del 17%.

    Pnrr: riforme o al Sud sarà ancora crisi

    Diverse regioni a reddito medio e meno sviluppate, soprattutto nell’UE meridionale, hanno registrato una stagnazione o una contrazione dell’economia, e questo indica che si trovano in una trappola dello sviluppo. Molte di esse sono state colpite dalla crisi economica e finanziaria nel 2008 e da allora hanno problemi a riprendersi.
    Per una crescita a lungo termine occorreranno riforme del settore pubblico, un miglioramento delle competenze della forza lavoro ed una più forte capacità innovativa. Sono quelle trasformazioni istituzionali che sono state demandate agli Stati nazionali quale secondo pilastro del PNRR accanto agli investimenti.

    Lavoro e divario di genere

    L’occupazione è in crescita, ma le disparità regionali restano maggiori rispetto a prima del 2008. Tale crisi, ormai di lungo periodo, ha portato ad un aumento significativo delle disparità regionali, sia nei tassi di occupazione che in quelli di disoccupazione. A livello dell’UE il tasso di occupazione si è pienamente ripreso dalla crisi e ha raggiunto l’apice nel 2019, con il 73% delle persone di età compresa tra i 20 e i 64 anni.
    Le disparità regionali sono in calo dal 2008, ma restano più grandi di quanto non fossero nel periodo precedente la crisi economica. I tassi di occupazione nelle regioni meno sviluppate rimangono molto più bassi rispetto a quelli delle regioni più sviluppate.

    Nelle regioni meno sviluppate il divario di genere a livello occupazionale è quasi il doppio che nelle regioni più sviluppate (17 contro 9 punti percentuali). In generale le donne delle regioni meno sviluppate hanno più probabilità di ritrovarsi sfavorite rispetto agli uomini della stessa regione. E meno probabilità di raggiungere un livello di successo elevato rispetto alle donne di altre regioni.
    Nell’UE l’accesso di base alla banda larga è quasi universale, ma le connessioni ad altissima velocità sono disponibili solamente per due residenti di città su tre e per un residente di zone rurali su sei.

    Ambiente: problemi e strategie

    Investire a sufficienza nella protezione dell’ambiente, nell’energia pulita e nella fornitura dei servizi associati è essenziale per garantire sostenibilità, competitività e qualità della vita a lungo termine.
    L’inquinamento dell’aria e delle acque è minore, ma in molte regioni poco sviluppate resta ancora troppo elevato. Secondo le stime, all’interno dell’UE esso causa 400.000 morti premature all’anno. Le concentrazioni di ozono restano troppo alte in molte regioni meridionali. Il trattamento delle acque reflue è migliorato in tutta l’UE, ma sono ancora necessari maggiori investimenti in molte regioni meno sviluppate e in transizione al fine di proteggere e migliorare la qualità delle acque.

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    Nonostante esportazioni e investimenti esteri diretti (IED) spesso cospicui, molte regioni non riescono a cogliere i benefici per le imprese e i lavoratori locali.
    La scarsa adozione di tecnologie digitali, pratiche gestionali e tecnologie di industria 4.0 nelle imprese e nel settore pubblico fa sì che molte regioni non siano preparate a sfruttare i vantaggi delle nuove opportunità. E che siano vulnerabili a potenziali rilocalizzazioni mano a mano che le catene del valore si evolvono.
    Nei prossimi 30 anni la crescita dell’UE sarà guidata dalle transizioni verde e digitale, le quali porteranno nuove opportunità ma richiederanno cambiamenti strutturali significativi che rischiano di creare nuove disparità regionali. Se ignorata, la transizione demografica potrebbe indebolire sia la coesione che la crescita.

    Come gestire le transizioni

    Il modo in cui gestiremo tali transizioni determinerà se tutte le regioni e tutti i cittadini, ovunque essi vivano, saranno in grado di trarne vantaggio. Senza una chiara visione territoriale delle modalità di gestione di questi processi e un’attuazione ambiziosa del pilastro europeo dei diritti sociali, sempre più persone potrebbero avere la sensazione che le loro voci rimangano inascoltate e che l’impatto sulle loro comunità non sia considerato, il che potrebbe alimentare un malcontento nei confronti della democrazia.

    Le istituzioni nazionali e regionali dovrebbero tornare a giocare un ruolo attivo e diverso rispetto a quello dei passati decenni. Il governo centrale dovrebbe essere in grado di realizzare quelle riforme capaci di rimettere in movimento un Paese anchilosato dalle burocrazie, aggiungendo uno sforzo finanziario nazionale per lo sviluppo. Le regioni dovrebbero essere in grado di gerarchizzare le questioni rilevanti evitando di disperdere le risorse finanziarie a pioggia. A questi snodi è legato il successo del PNRR.

  • San Giuseppe&Co: Cosenza e la sua fiera a (cacio) cavallo dei secoli

    San Giuseppe&Co: Cosenza e la sua fiera a (cacio) cavallo dei secoli

    La Fiera di San Giuseppe è un appuntamento storico per Cosenza e non solo. E, dopo la pausa imposta dalla pandemia, rispunta la possibilità di rivederla in città, seppure a fine aprile. In passato i paesi della Calabria non erano autosufficienti: non consumavano tutto ciò che producevano e non producevano tutto quello che consumavano. A parte quei fortunati che possedevano un pezzo di terra, la maggior parte degli abitanti comprava nei mercati e nelle botteghe legumi, frutta e verdura oltre che olio, pasta, farina, baccalà, stoccafisso, sarde salate, formaggi e salumi.

    In ogni centro vi erano negozi, forni, trappeti, botteghe e rivendite nei quali acquistare derrate alimentari. Nella Calabria Citeriore del 1826 vi erano 52 acquavitaj, 48 arancisti, 3 biscottieri, 25 caffettierj e sorbettieri, 65 venditori di foglia, 159 fornai, 38 fruttajuoli, 47 venditori di generi al minuto, 45 liquoristi, 75 maccaronaj, 203 macellaj, 386 molinaj, 391 negozianti, 168 panettieri, 541 pescatori e pescivendoli, 324 pizzicagnoli, 164 speziali, 180 tavernarj, 185 veditori privilegiati e 29 verdumaj.

    La fiera? Un privilegio

    Le fiere costituivano un importante momento di scambio dei prodotti ma le autorità rilasciavano la «concessione sovrana» con «prudente moderazione». Le comunità che avevano avuto tale privilegio non volevano che se ne celebrassero altre nei paesi vicini e ciò suscitava malcontenti, proteste e divisioni.

    Nel 1836, il sindaco di San Lorenzo Bellizzi scriveva sulla necessità di liberalizzare le fiere: «Se è vero che ogni terra non produce ogni cosa, e che ogni terra è abbondante di qualche cosa, il commercio è il mezzo efficace a mettere l’equilibrio fra il soverchio e il necessario». E un suo collega qualche anno dopo aggiungeva: «L’esperienza ha dimostrato che le fiere producono degli evidenti vantaggi al commercio, una delle principali risorse della ricchezza dei popoli, mentre donano il mezzo a realizzare ed estrarre i generi indigeni».

    Abuso di potere

    In occasione delle fiere, che duravano in genere due giorni, le Università facevano costruire baracche per esporre le merci e, per garantire l’ordine pubblico, nominavano dei “mastrogiurati” i quali erano spesso contestati dai rivenditori.

    Nel 1476, i mercanti cosentini, ad esempio, protestarono vivacemente contro il mastrogiurato perché durante la fiera della Maddalena commetteva ogni sorta di sopruso: «Considerato lo Mastrogiurato de dicta Città have plenaria iurisdictione in lo tempo e la fiera che si dice Madalena, de cognoscere contra de qualsivoglia persona, de qualsivoglia causa et allo presente se alcune persone che, intra et fora delo Reame haveno ottenuti privilegij de vostra Maiesta, che siano exempli dela iurisdictione de dicto Mastrojurato per la qualcosa commectono multi delitti et insulti, et passano senza punizione, de che soleno evenire multi scandali in preiuditio dela dicta iurisdictione et dele persone offese, et per questo se degni vostra Majesta che dicto Mastrojurato possa gaudere sua iurisdictione secondo è solito et consueto, non obstante ditti privilegij de dicta exemptione concessi».

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    Federico II di Svevia istituì l’antica Fiera della Maddalena a Cosenza che poi divenne Fiera di San Giuseppe

    Squadra antitruffa

    I gendarmi dovevano controllare soprattutto che durante le fiere non si verificassero frodi ai danni dei consumatori. Gli intendenti sollecitavano i controllori a punire senza indugio chi vendeva cibi immaturi, grani infraciditi, pani manipolati con sostanze nocive, pesci freschi e salati putrefatti, carni di animali estinti per malattie e oli e vini adulterati. Alcuni macellai, vendevano carne di animali morti naturalmente che, secondo i sanitari, provocavano gravi malattie fra cui antraci, bubboni e «cocci maligni»; avidi fornai facevano pane con farine scadenti o marce e utilizzavano ogni cosa per accelerarne la fermentazione, renderlo più poroso, soffice e durevole, farlo diventare più bianco e pesante; tavernieri senza scrupoli per aumentare la quantità del vino aggiungevano acqua e per mutare il colore, migliorare il sapore, favorire la conservazione e occultare i difetti introducevano nelle botti «droghe malefiche».

    Botte da orbi

    Oltre che impedire frodi e furti le guardie dovevano prevenire o sedare le frequenti risse quasi sempre dovute all’eccessivo consumo di alcol. Nella fiera di Castrovillari, ad esempio, la tranquillità della fiera era interrotta «dall’unione di persone di molte comuni e di provincie diverse che per le contrarie abitudini o per stravizzi, causati dall’opportunità della fiera spesso apportano disordini e non pochi reati vi consumano». Le fiere erano luogo privilegiato per borseggiatori, mendicanti e ciarlatani come tarantolati e ceravulari che cercavano di raggranellare lecitamente o illecitamente qualche soldo.

    Vagabondi e tarantolati

    Nel 1664, in un trattato sui vagabondi, Frianoro scriveva che gli attarantati fingevano di essere impazziti in seguito al morso del falangio e, per attirare l’attenzione dei presenti, facevano cose bizzarre mentre i compagni chiedevano l’elemosina. Per rendere più veritiera la loro follia sbattevano la testa, tremavano sulle ginocchia, stridevano i denti, facevano gesti insensati, lanciavano grida strazianti, ballavano disordinatamente e si mettevano in bocca un pezzo di sapone vomitando una gran quantità di schiuma come i cani arrabbiati. Erano dei mendicanti, fanatici e «santicchioni» che ostentavano estasi, catalessi, isterie e varie forme di corea per farsi credere ispirati dal fuoco, eccitare la compassione pubblica e ricevere offerte.

    Vecchia raffigurazione di un “sanpaolaro”

    San Giuseppe e sanpaolari

    I sanpaolari o ceravulari avevano cassette di legno dentro cui mettevano vipere, scorpioni e tarantole e, per destare meraviglia tra gli spettatori, appendevano al collo serpenti e si facevano mordere. Alberti scriveva che trattavano le vipere come fossero uccelletti domestici e, per meglio colorire le proprie bugie, affermavano di essere immuni dal veleno perché appartenevano alla «casa di san Paolo» o «per invocationi di diavoli». Dioscoride sosteneva che i «sanpaolari» fossero degli ingannatori perché prendevano le aspidi con le mani dopo averle fatto addentare pezzi di carne. Vendevano unguenti simili alla teriaca dei medici, facendo credere alla gente ignorante che, spargendoli sul corpo, avrebbero allontanato qualsiasi malore e bestia velenosa.

    Mercuri li accusava di essere vagabondi, ubriaconi e puttanieri che rifilavano al volgo farmaci giurando sulla loro efficacia: ciarlatani, buffoni e istrioni raccontavano di avere avuto le ricette segrete dal re di Danimarca e dal principe di Transilvania e il popolo credulone sperperava il denaro acquistando polveri, radici, olii, unguenti, pomate, liquori e sciroppi. Frianoro li catalogava nella categoria dei vagabondi e dei ciurmatori: dicevano di discendere da San Paolo nonostante l’apostolo non avesse mai avuto figli e maneggiavano le vipere a cui era stato tolto il veleno tra lo stupore della plebe ignorante; vendendo pietre miracolose, lamine di metallo, pozioni magiche e cantilene per incantare le serpi raccoglievano danaro senza sottoporsi a nessuna fatica.

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    Antica stampa in cui è raffigurata la Fiera di San Giuseppe

    La Fiera di San Giuseppe e le altre

    Le fiere cosentine più importanti erano quella di San Giuseppe che si teneva il 19 marzo in piazza san Gaetano, quella dell’Annunciata il 25 marzo nel largo San Domenico e quella di San Francesco nei primi due giorni di aprile presso il piano davanti la chiesa. Nella fiera di San Giuseppe si vendevano piante e alberi da frutto, attrezzi agricoli, pentole di rame, vasellame, cordami, cuoio, sapone, lino, lana grezza, biancheria e altri generi. Tra i banchi dei mercanti che provenivano da terre lontane era possibile acquistare anche caffè, the, cioccolata, zucchero, spezie, torroni, confetti, biscotti, liquori, sale, riso e pasta («canaroncini», vermicelli, «maccarroncini», «maccaroni» e «tegliatelle»). Si smerciavano anche ottimi salumi e latticini. Particolarmente diffuse erano le scamozze o scamorze, dalla voce spagnola escamochos, rimasugli di formaggio destinato a fare le pezze grosse di caciocavallo.

    Caciocavalli protagonisti delle fiere calabresi

    I casecavalli

    I casecavalli figuravano tra gli alimenti più richiesti e i mercanti delle varie regioni per venderli dovevano pagare una tassa. I caciocavalli freschi erano squisiti ma quasi tutti si stagionavano e, duri e asciutti, avevano un sapore piccante come il pecorino.
    Kashkaval, kashkavat o qasqawal, caci di latte bovino a pasta filata erano prodotti in numerosi centri della provincia e, nel XIV secolo, tra i formaggi preferiti dagli Ebrei della città. Versato in una tinozza di legno, il latte tiepido di vacca si quagliava con presame di capretto affumicato messo in un pezzo di tela e si sbatteva fortemente con una spatola di legno in modo da separare il cacio dal siero. Il formaggio che iniziava a galleggiare si metteva in una tinozza, si versava acqua bollente e si manipolava a lungo con le mani sino a dare la forma di una pera o di un globo con la testa.

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    Le tradizionali forme di caciocavallo della Fiera di San Giuseppe a Cosenza

    Il balocco dei bambini di Cosenza

    I casecavalli, appesi alle travi con una cordicella, erano soprannominati i “caci degli impiccati” ma, secondo l’opinione diffusa, prendevano tale nome perché, stagionavano a coppie appesi “a cavallo” di un bastone.
    Ogni produttore dava al caciocavallo forme diverse e il generale francese Griois, in Calabria durante l’occupazione napoleonica, descriveva un formaggio allungato chiamato per la forma «cazzo di cavallo». Con la pasta dei caciocavalli si realizzavano i casocavallucci, opere artistiche destinate al «balocco dei bambini», acquistati soprattutto dalle famiglie agiate: da qui il detto metterse ‘ncasocavallucce, cioè avanzare nella condizione sociale; per il popolino casocavalluccio significava anche capitombolo, poiché i latticini a forma di cavallo mal si reggevano in piedi.

    La Fiera di San Giuseppe nel 2010, un videoreportage di Gianfranco Donadio
  • Piano energetico fermo a 17 anni fa: la Calabria ai tempi del caro bollette

    Piano energetico fermo a 17 anni fa: la Calabria ai tempi del caro bollette

    In un’Italia schiacciata dal caro bollette, e tempestata dallo storytelling sulla transizione ecologica fattasi persino Ministero, è normale che le fonti rinnovabili siano sulla bocca di tutti. E siccome siamo pur sempre il Paese dei Guelfi e dei Ghibellini, nel dibattito si contrappone chi pensa che per non rischiare di fare danni all’ambiente o dare soldi alle mafie non si debba toccare nulla, a chi è convinto che dare in pasto ampie porzioni di territorio alle multinazionali dell’energia serva a evitare i rincari su gas e luce.

    I numeri delle rinnovabili

    Come abbiamo già fatto raccontando cosa stia succedendo attorno all’eolico (in mare e in terra) tra il Golfo di Squillace e i boschi del Vibonese, anche stavolta proviamo a partire dai numeri, che non sono soggetti ad interpretazioni. Le normative comunitarie e nazionali dicono che si dovrà dismettere l’uso del carbone per generare energia elettrica entro tre anni. Nel 2030 il 72% dell’elettricità dovrà arrivare dalle rinnovabili, mentre nel 2050 dovremmo essere prossimi al 95-100%.

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    Impianto fotovoltaico in aperta campagna

    Come ci si deve arrivare? Soprattutto con il fotovoltaico: a fine 2020 abbiamo 21,4 GW prodotti da fonte solare, ma secondo stime forse troppo ottimistiche si potrebbe arrivare anche ai 2-300 GW. Governo e Ue lasciano comunque aperta la porta delle importazioni e dei possibili sviluppi tecnologici di fonti finora poco adoperate come, appunto, l’eolico offshore. Per raggiungere gli obiettivi fissati al 2030 si stima che si debba arrivare a circa 70-75 GW di rinnovabili, ma a fine 2019 eravamo a 55,5 GW.

    Questi sono i dati nazionali, guardando alla Calabria invece va ricordato che produciamo oggi un enorme surplus di energia elettrica (+180%), ma siamo tra quelli che consumano più gas naturale (oltre 2,2 milioni di metri cubi nel 2020) per alimentare le centrali termoelettriche tradizionali. E rispetto al gas i rincari in bolletta c’entrano eccome. In questa situazione, con i miliardi del Pnrr a disposizione, l’impulso politico e la conseguente programmazione sarebbero come il motore e lo sterzo di un’enorme automobile che però rischia di restare a secco di benzina, cioè di fondi spendibili, per carenze tecniche e progettuali.

    Il Piano energetico calabrese risale al 2005

    Il principale strumento attraverso cui le Regioni, dagli anni della liberalizzazione del mercato energetico e della riforma del Titolo V, programmano e indirizzano gli interventi in questo settore è il Piano energetico regionale (Per), che essendo ormai indissolubilmente legato a funzioni e obiettivi di carattere ambientale negli anni è diventato Pear (Piano energetico ambientale regionale). È il Pear, dunque, che deve contenere tutte le misure relative al sistema di offerta e di domanda dell’energia sul territorio. Ma in Calabria questo strumento fondamentale non è proprio aggiornatissimo: il Pear attualmente in vigore è stato approvato dal consiglio regionale il 4 marzo del 2005.

    L’Ultimo assessore all’Ambiente

    Proprio così: mentre Guelfi e Ghibellini dell’energia duellano via social, la Calabria dell’era Covid-Pnrr è orfana di un assessore all’Ambiente – la delega è rimasta in capo a un già impegnatissimo Roberto Occhiuto – e il principale strumento di programmazione energetica è fermo a 17 anni fa, cioè a quando la Regione era guidata da Giuseppe Chiaravalloti. In verità nel 2009 sono state licenziate dalla giunta regionale dell’epoca delle linee guida per l’aggiornamento, ma «alla luce dei nuovi orientamenti comunitari in materia, dell’evoluzione del quadro normativo e dei nuovi strumenti di programmazione adottati nel corso degli ultimi anni, risultano ormai superate».

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    Il Capitano Ultimo, assessore all’Ambiente nella giunta regionale guidata da Jole Santelli

    A metterlo nero su bianco è la stessa Regione Calabria che, nell’agosto del 2020, sotto la guida di Jole Santelli e su proposta del “Capitano Ultimo”, ha dato impulso agli uffici (Dipartimento Attività produttive, Settore Politiche energetiche) per la «costituzione di un “Tavolo tecnico per l’aggiornamento del Piano energetico ambientale regionale”» che predisponga le nuove linee guida da sottoporre all’approvazione della Giunta. Quali risultati ha prodotto tutto ciò a quasi 20 mesi dalla delibera del precedente governo regionale? Nessuno.

    In attesa di Enea

    Come atti ufficiali siamo insomma ancora fermi al 2005, anche se, stando a quanto è stato possibile apprendere in via ufficiosa dagli uffici della Cittadella, nel 2018 è stato stilato un documento sulla situazione energetica regionale nell’ambito del programma europeo “Horizon” che, forse, potrebbe costituire una base abbastanza aggiornata da cui partire per redigere un nuovo Pear. Quasi sempre a fare da consulente alle Regioni per questi scopi è Enea, e proprio all’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile – i cui esperti avevano lavorato anche al vecchio Piano – la Cittadella si è rivolta di recente per avere una sorta di preventivo e capire quanto possa costare la consulenza scientifica per elaborare delle nuove linee guida partendo dal documento del 2018.

    Cosa hanno fatto in Emilia e Campania?

    Poi, eventualmente, si dovrà passare anche attraverso il confronto con tutti i soggetti istituzionali e sociali interessati. Giusto per avere qualche termine di paragone, la Regione Emilia-Romagna ha in vigore il Per adottato nel 2017 che fissa la strategia e gli obiettivi per clima ed energia fino al 2030 e si realizza attraverso un Piano triennale di attuazione (Pta). Questo strumento è stato aggiornato nel 2020 ed è stato già avviato il percorso partecipato che porterà al Pta 2022-2024. Scendendo più a Sud, il Piano energetico ambientale della Regione Campania è stato approvato nel luglio del 2020.

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    L’Università della Calabria

    Unical e Comuni per abbattere i costi delle bollette

    Intanto noi restiamo impantanati nei buoni propositi e nelle dispute ideologiche che finiscono per dividere anche il fronte ambientalista tra intransigenti e possibilisti. La politica ovviamente non è da meno in quanto a verbosità e divisioni, con l’aggravante che certe posizioni sono evidentemente dettate dalla ricerca di facili consensi più che dal merito di un tema di vitale importanza, oggi e nell’immediato futuro, per ognuno di noi.
    L’Università della Calabria (Dipartimento di Ingegneria Meccanica Energetica e Gestionale) in collaborazione con sedici Comuni Calabresi (Aprigliano, Belmonte, Carlopoli, Cerzeto, Cervicati, Crotone, Francica, Galatro, Morano Calabro, Mongrassano, San Marco Argentano, Parenti , Platì, Panettieri, San Fili, Tiriolo) , ha cominciato a lavorare, con un incontro avvenuto nei giorni scorsi, alla costruzione delle prime Comunità di energia rinnovabile (Cer) con lo scopo di andare «oltre l’obiettivo di soddisfare il fabbisogno energetico delle comunità locali, abbattendo drasticamente i costi per cittadini le imprese e gli enti locali».

    Eppur qualcosa si muove

    Lunedì 21 febbraio sullo stesso tema è previsto un ulteriore incontro in Regione a cui parteciperà il presidente Roberto Occhiuto, la sottosegretaria al MiTE Ilaria Fontana, il deputato Giuseppe d’Ippolito (Commissione Ambiente) e il docente Unical Daniele Menniti. Qualcosa – complice la tempistica del Pnrr – dunque si muove. La potenziale collaborazione tra governo, Regione, Comuni e università potrebbe rappresentare un’occasione irripetibile per costruire una nuova solidarietà energetica tra le comunità locali e superare l’approccio passivo dei cittadini-consumatori.

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Quanto questa impostazione improntata alla cooperazione dal basso possa essere conciliabile con il business dei colossi dell’energia, che hanno evidentemente il profitto come obiettivo ultimo, non è difficile intuirlo. Per evitare commistioni di interessi, che sotto l’ombrello della transizione energetica magari nascondono nuovi tentativi di sfruttamento dei beni comuni, servirebbero dunque, innanzitutto, una chiara volontà politica e degli strumenti pubblici adeguati di programmazione e regolamentazione del settore. Proprio ciò che, almeno finora, in Calabria manca.

  • Fondi comunitari e Calabria, la regina delle frodi prova a correre ai ripari

    Fondi comunitari e Calabria, la regina delle frodi prova a correre ai ripari

    Le modalità di spesa dei fondi comunitari in Italia – soprattutto nelle regioni meridionali – illustrano un itinerario di scelleratezze che getta ombre inquietanti sul futuro prossimo. Da un lato si è verificata costantemente una forbice rilevante tra risorse disponibili e capacità effettiva di spesa. Dall’altro, spesso è capitato che i fondi comunitari siano stati occasione per frodi ed irregolarità. In entrambe queste specialità poco commendevoli la Calabria si è sinora distinta. A metterlo nero su bianco è stata la Corte dei Conti col suo report su “I rapporti finanziari con l’Unione Europea e l’utilizzazione dei fondi comunitari”.

    Calabria regina delle frodi

    Per il periodo 2014-2020 la Calabria ha ottenuto in programmazione 1,9 miliardi sui fondi per lo sviluppo regionale e 0,4 miliardi attraverso il fondo sociale europeo. Alla fine del 2020, gli impegni ammontavano rispettivamente al 63,3% e al 30,2% delle risorse, i pagamenti al 35,3% e al 24,6% del totale. Le irregolarità e le frodi comunicate nel solo 2020 sui fondi strutturali comunitari sono state complessivamente in Italia 155, di cui 91 (pari al 58,7%) in Calabria; il valore complessivo è pari a livello nazionale a 65,5 milioni di euro, di cui 34,3 in Calabria (52.5%).

    In Italia è stato recuperato il 10% del valore, in Calabria nulla. Se ci riferiamo alla politica agricola le irregolarità e frodi sono state pari nel 2020 a 326 casi in Italia, di cui 68 in Calabria (20,9%); il valore complessivo è pari a 35,6 milioni di euro di cui 7 in Calabria (19,7%); in Italia sono stati recuperati 5,4 milioni di euro (15,2%), in Calabria 0,97 milioni (13,8%).

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    La sede della Regione Calabria a Germaneto

    Fondi recuperati? Pochissimi

    Queste pessime abitudini sono radicate nel tempo. In Italia, considerando la somma dei piani territoriali per il fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) nel periodo 2007-2013, i casi di irregolarità e frode sono pari a 1.324: il valore complessivo degli importi irregolari pesa per 401,7 milioni di euro, con un valore da recuperare pari 236,1; l’importo recuperato è di 63,5 milioni di euro.
    Il POR della Calabria registra per lo stesso FESR, sempre nel periodo 2007-2013, 513 casi (38,7% sul totale nazionale); l’importo irregolare complessivo è pari 129,9 milioni di euro (pari al 32,3% del totale italiano), con importo irregolare da recuperare di 63,4 milioni (26,8% del valore nazionale), ed un importo recuperato pari a 2,9 milioni (il 4,5% del totale nazionale).

    Se si considerano i casi irregolari e di frode segnalati nel periodo 2007-2013 per il fondo sociale europeo (FSE), i casi complessivi in Italia sono 278. La Calabria svolge la parte dominante per la numerosità (38,8% dei casi), mentre la regione pesa per il 10,7% in termini di valore dell’importo irregolare complessivo. E incide per il 17,6% sull’importo irregolare da recuperare e l’8,7% dell’importo recuperato.
    Nel caso dei fondi europei per l’agricoltura, i casi irregolari in Calabria sono 584, pari all’8,3% in termini di numerosità sul totale nazionale, all’8.6% in termini di valore economico, al 9,6% in termini di importo ancora da recuperare.

    Un passato da lasciarsi alle spalle

    Questa è la storia recente dalla quale veniamo. Ora è richiesto al nostro sistema istituzionale ed amministrativo di fare un salto di qualità rispetto al passato, in uno scenario che è ancora più complesso. L’intero sistema del Next Generation EU è caratterizzato da un regime di condizionalità (definita anche “aggravata”) riferita quindi non più alla dimostrazione delle spese effettuate, ma ai risultati raggiunti, anche in termini di riforme che devono essere attuate con l’obiettivo di essere maggiormente conformi con il contesto comunitario. Le risorse disponibili sono complessivamente ingenti. Ma vanno conquistate con serietà.

    Il bilancio a lungo termine dell’UE 2021-2027, insieme al Next Generation EU, rappresenta una “risorsa combinata” complessivamente pari a 2.018 miliardi di euro a prezzi correnti. Il pacchetto comprende da un lato il bilancio a lungo termine per il periodo 2021-2027 (il quadro finanziario pluriennale), da 1.211 miliardi di euro a prezzi correnti e dall’altro lo strumento temporaneo per la ripresa, Next Generation EU, da 806,9 miliardi di euro a prezzi correnti.

    Il saldo cambierà?

    Se il nostro Paese sarà in grado di gestire con efficacia ed efficienza il processo di gestione delle risorse comunitarie, cambierà anche il saldo per la contabilità nazionale. Secondo i dati della Commissione europea, nel 2020 l’Italia ha partecipato al bilancio unionale con versamenti a titolo di risorse proprie per complessivi 18,2 miliardi (+1,4 miliardi rispetto al 2019). Le risorse assegnate all’Italia dal bilancio UE nel 2020 sono state pari a 11,66 miliardi di euro, in aumento di circa 486 milioni rispetto all’anno precedente (+4,4%).

    Nell’esercizio considerato, il saldo netto tra versamenti e accrediti è stato dunque negativo per 6,5 miliardi, più ampio rispetto a quello del 2019, in cui era stato di 5,6 miliardi. Nel periodo 2014-2020, il saldo netto cumulato è negativo per un ammontare di 37,92 miliardi. In tale periodo, l’Italia ha pertanto contribuito alle finanze dell’Europa con un saldo medio annuo di 5,4 miliardi. Gli Stati membri con i saldi positivi più rilevanti, nel settennio in considerazione, sono in ordine decrescente: Polonia, Ungheria, Grecia, Romania, Repubblica Ceca e Portogallo.

    Fondi, la duplice sfida per la Calabria 

    I dati che fotografano la situazione a fine 2020 rappresentano il portato di una forza inerziale che andrà gradualmente, ma decisamente, spegnendosi, a condizione che le amministrazioni sappiano impiegare le risorse che saranno assegnate. La tradizionale posizione di contributore netto dell’Italia, con ogni probabilità, andrà incontro ad una inversione. Si può, anzi, affermare che tale inversione è già visibile nelle stime effettuate sui flussi del 2021: l’accredito netto per l’Italia sarebbe di poco superiore a 3 miliardi di euro. L’Italia ha davanti una duplice sfida, in relazione alle prossime mosse da mettere in atto: su un fronte, dovrà considerare le “normali” attività, quali la conclusione della Programmazione 2014-2020 ed il contestuale avvio di quella 2021-2027; sull’altro fronte, peraltro strettamente connesso, l’impegno forte riguarderà il pieno sfruttamento delle risorse messe a disposizione per il PNRR.

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    Roberto Occhiuto e il generale Guido Mario Geremia firmano il protocollo

    Dai tanti errori che sono stati commessi negli anni precedenti, in Italia ed in Calabria in particolare, dobbiamo trarre gli insegnamenti necessari per non ripercorrere le stesse orme. Nelle ultime ore il presidente regionale Occhiuto ha firmato un protocollo d’intesa integrativo con la Guardia di Finanza. L’addendum mira proprio a ridurre le frodi nella spesa dei fondi Ue e favorire il recupero delle somme erogate erroneamente. C’è da sperare che l’integrazione basti, visti i risultati dell’accordo precedente.

  • Più bio, meno bar: lavoro in Calabria, chi si è arricchito e chi è rovinato

    Più bio, meno bar: lavoro in Calabria, chi si è arricchito e chi è rovinato

    «Con tutti questi contagi e la paura di infettarci, stavolta il lockdown ce lo siamo imposto da soli». Amara è la considerazione del tabaccaio in uno dei vicoli del centralissimo Corso Mazzini a Cosenza. Prima della pandemia la sua attività dipendeva anche, ma non solo, da tabagisti e ludopatici. In queste settimane sono le uniche creature che vede comparire davanti al bancone. Ma se le dipendenze sono resilienti, le altre forme di consumo cedono il passo. Strade deserte, abbassate le saracinesche, pub semivuoti, dalle 8 di sera viaggiano soprattutto bici e motorini dei rider, mentre qualche pattuglia della polizia rovista tra i pochi locali aperti per scovare avventori sprovvisti del fastidioso green pass. »È come se la gente avesse frequentato un corso di formazione accelerato per consumare a distanza», medita sconsolato il titolare di uno dei pochi negozi di calzature superstiti.

    Dalla soppressata al sushi

    Nel giro di due anni sono mutati gli stili di vita. Non più soltanto i ragazzi, ma intere famiglie calabresi, come milioni di altre nel mondo occidentale, sono passate dalla soppressata al sushi, comprano su internet, divorano serie TV sulle piattaforme digitali, praticano fitness in casa, lavorano e studiano davanti al PC. Le nuove attività trainanti sono l’e-commerce, il food delivery, l’e-learning, l’infotainment. Fuori da monitor e display, tutto sembra destinato a sparire o a traslocare in periferia. Se ne sono accorti i gestori di cinema, teatri e piscine, ma soprattutto i commercianti degli storici negozi di abbigliamento nei principali centri urbani: chiusi, falliti, assorbiti dai franchising che spuntano ovunque.

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    Un rider effettua una consegna a domicilio

    Lavoro e pandemia

    Il coronavirus ha contribuito tanto a cambiare il volto delle attività lavorative in moltissime città e nei loro dintorni. Secondo uno studio pubblicato dalla rivista Regional science and urban economics sulle conseguenze economiche della pandemia, di cui sono coautori Augusto Cerqua e Marco Letta, ricercatori del Dipartimento di Scienze sociali ed economiche della Sapienza di Roma, in alcune zone della Calabria e di altre regioni meridionali i posti di lavoro sarebbero addirittura in crescita. «Se vogliamo capire la rilevanza di questi dati – spiega Cerqua – dobbiamo saperli interpretare. Siamo pervenuti a tale conclusione osservando le differenze quantitative tra la situazione com’è e quella che ci aspettavamo che si sarebbe verificata se il coronavirus non fosse piombato nelle nostre vite. In sostanza, abbiamo confrontato i numeri degli occupati nei settori dei servizi e delle manifatture dopo il primo anno di Covid con le aspettative che avevamo nel 2019 per la fine del 2020 se la pandemia non fosse mai avvenuta».

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    Augusto Cerqua, coautore insieme a Marco Letta dello studio pubblicato su Regional science and urban economics

    La sorpresa: Calabria meglio del previsto

    In effetti eravamo abituati a veder crescere il lavoro al centro-nord, mentre nel sud, in base alle indicazioni degli anni precedenti, si prevedeva un ulteriore calo dei livelli occupazionali. Nelle zone più periferiche, di solito si perdono posti perché chi le abita tende a emigrare. «Invece, in alcune aree la pandemia ha in parte frenato questi fenomeni migratori. Inoltre – aggiunge Cerqua – i sussidi concessi dal governo hanno incentivato i posti di lavoro. In Calabria si è verificato in media un lieve calo, ovviamente soprattutto nei servizi e nel turismo, ma rispetto alle previsioni è andata molto meglio della media italiana. È diventato difficile operare in tutte quelle attività che richiedono contatti tra tante persone, come hotel, stabilimenti balneari, ristoranti, bar, e in generale tutti gli esercizi commerciali. Al contrario, chi poteva lavorare da casa è stato meno danneggiato dal punto di vista occupazionale ed economico. Soprattutto sono state penalizzate le aree che esportano. Ne ha risentito moltissimo chi esportava in Russia e altri Paesi dell’est. Nella prima fase pandemica è diminuito il trade in generale, anche all’interno dell’Europa, perché si era diffusa una paura che il contagio potesse viaggiare anche con gli oggetti».

    Periferie alla riscossa

    Tuttavia, a differenza del passato, questa crisi non viene dal manifatturiero. Se la confrontiamo con la grande recessione, quando le più danneggiate furono le aree povere e le manifatture, stavolta ne hanno risentito, ma non tanto quanto i servizi. «La nostra analisi riguarda i territori, non i singoli individui. Chi non ha il paracadute – precisano i due studiosi – è stato pesantemente colpito. Eppure, determinati settori sono cresciuti. Pensiamo al farmaceutico. E dal punto di vista geografico, si sono arricchite le aree non turistiche. Potrebbero beneficiare di questa situazione le zone periferiche. C’è stata infatti una riscoperta delle località più remote, una tendenza a uscire dalle città, abitare in case con giardino, vivere in siti più aperti. Ecco perché potrebbe scaturirne una tendenza a rivitalizzare i territori periferici».

    Il lavoro in Calabria dall’inizio della pandemia

    La Calabria nello studio pubblicato su “Regional science and urban economics”. I differenti colori si riferiscono al divario tra i posti di lavoro che si prevedevano, prima della pandemia, per il dicembre 2020, e i dati concreti che si sono poi registrati. In rosso scuro le zone dove la riduzione dei posti di lavoro ha superato il 10%, in giallo le aree con un ribasso sotto il 2,5%, in verde le aree dove i livelli di occupazione si sono mantenuti stabili o si è rilevata una crescita.

    In Calabria la mappa tracciata dallo studio effettuato dai due economisti censisce 44 sistemi locali del lavoro, cioè aggregazioni di centri abitati che l’Istat disegna sulla base del fatto che tendenzialmente la maggior parte delle persone vi lavora e vive. Sono quindi gruppi di Comuni scelti in base agli spostamenti lavorativi dei residenti. Stando ai dati elaborati dai due studiosi, Cosenza e zone limitrofe fanno registrare – 2% di occupati nei servizi e circa + 2% nel manifatturiero. Lamezia subisce un bel calo trainato dai servizi: -6,5%, mentre la manifattura esprime un aumento del 3,5%, Reggio Calabria –4% nei servizi e +1,4% nelle manifatture. Fanno registrare segni positivi anche Bovalino, Bianco e Melito Porto Salvo. Gioia Tauro addirittura +8% sul manifatturiero, rispetto alle stime di quel che sarebbe successo senza Covid. Corigliano-Rossano -3% in entrambi i settori. Cassano allo Ionio e Cirò Marina -4% sui servizi. Catanzaro come San Giovanni in Fiore e Scalea: impatto nullo perché le due voci si equilibrano, Soverato –2%, Paola –1%. Tropea è andata peggio di tutti: calo nei servizi pari a -8,5%.

    Un futuro diverso

    Cosa consigliare dunque alle piccole imprese fallite e ai commercianti rovinati da queste due annate terribili? Quelli che sono ancora in grado di provare a risollevarsi, in quali settori potrebbero investire? Gli autori della ricerca hanno pochi dubbi: «Non crediamo che ci sarà un ritorno alle città. Chi potrà, preferirà vivere nelle aree esterne ai grandi e medi centri. In ufficio, invece di andarci cinque giorni a settimana, ci si recherà magari una o due volte. In tanti lavoreranno in una città ma vivranno in un’altra. Prima della pandemia tutto ciò era meno praticabile. I servizi di food delivery oggi si trovano nei grandi centri urbani, ma presto saranno allargati alle aree marginali. I settori che potranno beneficiare dei nuovi stili di vita e consumo saranno quelli legati alle produzioni biologiche. Stiamo assistendo a un forte focus sulle fonti di energia e sull’economia sostenibile. Col PNRR ci sarà un’accelerata su questi temi. Quindi, in prospettiva, aprire un bar nel centro di Cosenza non parrebbe una grande idea».

    Quanto durerà?

    Rimangono da capire la durata e la qualità delle nuove occupazioni generate dalla pandemia. Cioè se alcuni sistemi locali galleggino in virtù dei contratti a tempo determinato e degli occupati stagionali, occasionali, saltuari. Sono queste le forme del lavoro riconteggiate all’infinito, com’è abitudine dei recenti governi d’impostazione neoliberista, esperti nel truccare il pallottoliere pur di fare bella figura. Se è abbastanza chiaro quali siano i soggetti che si stanno arricchendo, non è difficile immaginare che in diverse zone della Calabria gli investimenti nei settori in crescita provengano anche dai residui salvadanai della vecchia rendita fondiaria riconvertita e dalle inesauribili casse della multiforme malavita nostrana. Ma tra i commercianti c’è anche chi prova a rialzarsi sulle proprie gambe. Con dignità.

  • BOTTEGHE OSCURE | Cementine di Calabria, il bello del mattone

    BOTTEGHE OSCURE | Cementine di Calabria, il bello del mattone

    Nel dicembre del 1906, dopo un un’estate e un autunno inclementi di pioggia, una spaventosa tempesta di grandine provocò le ire del fiume Crati che si abbatté sulle tane dei cosentini. Ma, ieri come oggi, la natura è responsabile solo in parte della furia distruttiva. Già dalla fine dell’Ottocento, infatti, una vera e propria “febbre edilizia”, con abitazioni tirate senza alcun criterio estetico ed edilizio affiancate a eleganti palazzotti, aveva gonfiato a dismisura i quartieri bassi della città di Cosenza.

    L’epopea di Mancuso e Ferro

    Alla “Castagna” aveva sede l’opificio Luigi Mancuso e C. (poi “Ditta Mancuso e Ferro”) che con i suoi innumerevoli manufatti in cemento contribuì per decenni alla grande espansione della città verso Nord. E fu anche uno dei siti maggiormente danneggiati dalla tempesta del 1906. Insieme al Tannino, collocato sulla sponda opposta del Crati, la fabbrica di laterizi che aveva aperto i battenti nel 1903 contribuì a dare alla città di Cosenza un primo germe di sviluppo industriale.

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    Un campionario di cementine che si producevano alla Mancuso e Ferro

    Cementine

    Più di mezzo secolo dopo, alla fine di novembre del 1959, la furia degli elementi si abbatté sulla fabbrica. Le acque raggiunsero i due metri di altezza, inghiottendo materiali e attrezzature – si apprende dalla documentazione del Genio Civile. All’epoca la Mancuso e Ferro era la fabbrica più importante della città, dava lavoro a circa 150 operai e da soli tre anni aveva aperto dei saloni di rappresentanza in piazza Fera. In poco più di mezzo secolo di vita i suoi manufatti in cemento erano apprezzati soprattutto fuori regione, oltre a ornare gli edifici borghesi della città dei bruzi. Il fiore all’occhiello del campionario era rappresentato dalle cosiddette “cementine” in pasta colorata, dette anche “pastine”. Si trattava di mattonelle dai motivi delicati ed eleganti utilizzate anche oltre gli anni ’30 del Novecento in sostituzione dei vetusti pavimenti in argilla pressata.

    Fabbrica, amianto e musei mancati

    Delle pregevoli cementine della Mancuso&Ferro dai motivi geometrici o floreali restano solo alcuni esemplari che ornano il muro di cinta del vecchio stabilimento alla Castagna. Beffarda memoria di un’eccellenza che fu. Nonostante da alcuni anni siano stati rimosse le tettoie in amianto, causa di patologie tumorali per gli abitanti di via Carducci e dintorni, la vecchia fabbrica-zombie è ormai l’ombra di se stessa. «In questo quartiere in passato trascurato, e in particolare sul sito dove sorge l’ex fabbrica, il Comune ha in programma di realizzare il Museo di arte contemporanea nell’ambito di un percorso culturale che inizia dal Museo all’Aperto Bilotti e termina proprio nella città antica» scriveva nell’aprile del 2015 l’Ufficio del portavoce dell’allora sindaco Mario Occhiuto. Una reinterpretazione visionaria rimasta carta morta per un glorioso reperto di archeologia industriale che (forse) è più facile dimenticare che recuperare.

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    Il rendering del museo che aveva in mente Occhiuto sul sito della Mancuso&Ferro

    La ciminiera e il pompiere

    Tra le prime fotografie pubblicate dai giornali calabresi troviamo, nel 1905 sulla prima pagina della Cronaca di Calabria, quella della grande ciminiera della fabbrica di laterizi “Aletti” a Rende. Il terremoto dell’8 settembre di quell’anno aveva provocato ingenti danni alla struttura. La ciminiera doveva essere demolita, ma nessuno ovviamente aveva intenzione di arrampicarsi fino all’altezza di 45 metri. «Si era in sul forse se demolirlo a colpi di cannone – scrive il periodico cosentino – o se far venire da Bologna un’apposita scala per raggiungere l’altezza del fumajuolo», quando un coraggioso alla fine spuntò fuori: il caporale dei pompieri Estro Menabue.

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    La ciminiera Aletti sulla Domenica del Corriere del 26-10-1905

    Il bolognese Menabue, insieme al tenente Barattini e al pompiere Finelli che rimasero sulla tettoia, si arrampicò per iniziare il lavoro e riuscì, dopo sei ore, a demolirne una parte consistente. Le foto dell’evento rimbalzarono sugli organi di informazione, passando dalla Cronaca di Calabria ai giornali nazionali. Perfino sul diffusissimo La Domenica del Corriere si diede spazio all’evento con tanto di foto della ciminiera ancora intera, compreso il pompiere arrampicato in lontananza, e foto della ciminiera ormai dimezzata.

    Imprenditori del Nord

    La fabbrica di laterizi della famiglia Aletti rappresentò una realtà industriale di importanza notevole per il territorio, sia per la portata della produzione e per la mole dello stabilimento, sia perché la famiglia non si limitò alla produzione di mattoni ma estese la sua azione in molti settori, dalle ferrovie alle piccole miniere, dalle segherie agli impianti idroelettrici. Ne ricostruisce le vicende, attraverso i fondi superstiti dell’archivio della famiglia, una pubblicazione edita nel 1989 da Editoriale Progetto 2000 e curata da Roberto Guarasci e Silvia Carrera. Uno spaccato interessantissimo della vita economica calabrese tra fine ‘800 e inizi ‘900, quando questa famiglia di imprenditori giunti dal Nord, da Varese per la precisione, incrociò la propria storia con quella di molti “simboli del progresso” di una Calabria che con un po’ di ritardo si affacciava nell’età contemporanea.

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    La fabbrica di Laterizi ‘Aletti’ di Rende alcuni anni fa

    L’acquedotto dello Zumbo, ad esempio, quello del Merone, e soprattutto vari tronchi ferroviari tra cui la tratta Cosenza-Pietrafitta, e ancora ponti, strade, palazzi. In molte di queste opere si possono ancora vedere grandi porzioni realizzate proprio con i mattoni prodotti nella mattoneria di Rende e marchiati con il caratteristico simbolo della “A” stilizzata in un triangolo inscritto in un cerchio. A Rende, nella zona di Surdo, la presenza della fabbrica di laterizi fu una svolta. Lavoro sul posto e materiale a portata di mano possono spiegare il gran numero di edifici a mattoni a faccia vista che sorsero nella zona attorno alla vasta fabbrica, caratterizzando quella porzione del territorio di Rende. Nel 1906 gli Aletti costituirono una società per aprire una nuova fabbrica a Trebisacce, sullo Ionio, un’altra realtà vivace in cui la fabbrica Aletti impiegò un gran numero di operai.

    I mattoni rendesi

    Rende, in verità, ha una “storia di mattoni” molto più antica, che getta le radici nella presenza di argilla utilizzabile per la realizzazione di diversi manufatti in terracotta. Gli oggetti da cucina in terracotta, “terraglie”, erano da secoli una delle produzioni tipiche della zona, evolutisi poi nella produzione su più larga scala di laterizi tanto che a metà Ottocento, come scrive Giovanni Sole, vi operavano ben sette fabbriche di vasi, tegole e mattoni che impiegavano sessanta dipendenti, tra cui ventuno donne. Si trattava comunque di opifici artigianali e a conduzione familiare e per trovare esempi di dimensione più “industriale” ci volle il nuovo secolo, quando oltre a quella di Aletti operavano anche le fabbriche di laterizi Magdalone e Zagarese.

    Dodici ore di lavoro al giorno

    Nella metà dell’Ottocento quella dei laterizi era, comunque, una delle industrie più importanti della Calabria Citra, con opifici sparsi oltre che a Rende anche a Fiumefreddo, Lago, Longobardi, Carolei, Roggiano, Paola e Cosenza. Il lavoro era duro, le fornaci e le calcare richiedevano tanta fatica, sudore e legna da ardere. Le fabbriche di mattoni di Fiumefreddo, riporta ancora Sole, occupavano otto uomini e due donne per 12 ore al giorno, con una produzione di tegole e mattoni concentrata nei mesi estivi, quando si lavorava di continuo giorno e notte, mentre per gli altri oggetti di terracotta la produzione continuava tutto l’anno.

    Operai nella fabbrica di Trebisacce nel 1931 (foto tratta dal volume di Guarascio e Carreri, Editoriale Progetto 2000)

    Archeologia industriale

    I ruderi di molte di queste fabbriche sono ancora oggi i testimoni muti ma eloquenti di quell’epoca. Delle fabbriche rendesi i ruderi della Aletti, sulla strada che da Saporito va a Marano Marchesato, sono i più imponenti. Un complesso di archeologia industriale che riflette ancora la cura con cui venne realizzato, utilizzando quegli stessi mattoni che vi si producevano sia per le parti strutturali che per le parti decorative. Nel corso degli ultimi anni le proposte di riutilizzo sono state tante, perfino la creazione di un Museo della civiltà industriale, ma allo stato attuale tutto sembra ancora fermo.

    Migliore sorte è toccata allo stabilimento di Trebisacce, che conserva ancora l’alta ciminiera in mattoni, dove la ex fornace Aletti-Palermo è al centro di un consistente progetto di recupero. Molto altro è andato invece perduto irrimediabilmente sotto i moderni picconi dello sviluppo edilizio a tutti i costi. A Cosenza, ad esempio, la ciminiera e ciò che restava della Mattoneria Pupo, posta proprio accanto allo stadio San Vito-Marulla, è stato demolito intorno al 2010 per fare posto a moderni edifici. È il progresso, bellezza.

     

  • Credito killer, diecimila imprese calabresi a rischio

    Credito killer, diecimila imprese calabresi a rischio

    Iniziamo con una cifra poco rassicurante: sono poco più di 10mila le imprese calabresi con seri problemi di credito.
    Tradotta in percentuali, questa cifra sembra piccola perché equivale al 5,6% delle attività in crisi in Italia. In realtà è un dato allarmante, se lo si paragona al resto del Sud, dove la percentuale di imprese con crediti in sofferenza è il 4,8%, e al sistema Paese, dove arriva al 4,5%.
    In questo caso, il Covid non c’entra, perché questi dati sono fermi alla fine del 2019.
    Ma sono gli unici disponibili provenienti da fonte autorevole, cioè il Rapporto sull’economia della Calabria pubblicato da Bankitalia lo scorso giugno.

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    Le notizie cattive non si fermano qui, purtroppo: la percentuale delle aziende con crediti in sofferenza nel 2019 è superiore dell’80% a quella censita nel 2007, che si attestava al 3,7%, con circa 5.200 imprese nei guai.
    Ma anche allora la Calabria aveva la sua brava maglia nera, sia rispetto al Sud, dove il dato era del 3,2%, sia rispetto al resto del Paese, dove oscillava attorno al 2,8%.
    Segno che le grandi crisi finanziarie iniziate nel 2008 hanno colpito tutta l’Italia in maniera più o meno grave, ma hanno affossato la Calabria, dove la struttura imprenditoriale è fatta in larghissima parte di imprese di dimensioni ridotte o minuscole.

    Tutta colpa del credito?

    I dati elaborati da Bankitalia provengono da Infocamere e dalla Centrale dei rischi. Il che, in parole povere, significa che le imprese censite sono considerate “cattive pagatrici”.
    Ma non è tutta colpa loro, anzi. «Il problema», spiega Franco Rubino, ordinario di Economia aziendale all’Unical, «è dovuto soprattutto alle pessime condizioni del credito, che mettono in ginocchio le attività».
    La dichiarazione di Rubino conferma in pieno l’analisi di Bankitalia, secondo cui «la Calabria è tra le regioni con la peggiore qualità del credito».

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    Franco Rubino, ordinario di Economia aziendale all’Unical

    Ma da cosa dipende questa qualità “bassa”? Senz’altro dai tassi d’interesse eccessivi che, come abbiamo già raccontato su I Calabresi, toccano il 6,7%. Cioè più del doppio del Nord.
    Tutto questo, spiega ancora Rubino, «si traduce in una difficoltà di accesso al credito doppia», che può peggiorare proprio per le aziende in sofferenza.
    E non è da escludersi che dietro tassi così alti si celino forme più o meno larvate di usura bancaria.

    Usura e banche, missione impossibile

    È difficilissimo, tuttavia, capire quando dai tassi elevati ma a norma di legge si arriva a forme di usura vere e proprie.
    Il problema può essere di decimali, perché tutto ciò che supera il Taeg (il Tasso annuo globale effettivo, calcolato su tabelle elaborate periodicamente dal Ministero dell’economia), anche di uno zerovirgola, diventa usura. E in questo caso, il problema cambia, perché si va sul penale.
    Perciò è impossibile censire a priori l’usura bancaria, che emerge solo in seguito a denuncia del debitore.

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    Fernando Scarpelli, responsabile provinciale di Cosenza dell’Associazione per la difesa degli utenti dei sevizi bancari

    Ciò non toglie che i casi possono essere più alti di quanto non si creda, spiega Fernando Scarpelli, avvocato e responsabile provinciale di Cosenza dell’Adusbef, l’Associazione per la difesa degli utenti dei sevizi bancari: «In un anno difendo in media oltre venti debitori vessati», spiega Scarpelli. E l’alto numero di risultati positivi, più che un complimento al professionista, indica un’altra cosa: vincere una causa contro un istituto di credito non è difficile perché le condizioni con cui sono concessi i crediti risultano eccessive. Già: «La differenza tra un mutuo concesso con un tasso variabile, che tende ad alzarsi, e una pratica di usura bancaria può essere minima». Solo che, nel secondo caso, finisce sotto i rigori della legge, nel primo no. Ma per il debitore vessato non cambia nulla.
    Peggio che andar di notte per le piccole imprese, che arrivano a pagare il 9,6% per un fido. In questo caso, prosegue Scarpelli, «i debiti si “incagliano” davvero per poco: bastano centomila euro o poco meno e si viene segnalati alla Centrale dei rischi».

    Morire di debiti

    Il dato più devastante riguarda la morte delle aziende in sofferenza. Secondo Bankitalia, in cinque anni oltre il 40% delle imprese segnalate alla Centrale dei rischi chiude i battenti o, peggio, fallisce. Del restante 60% solo un terzo esce dalla sofferenza. In pratica, solo 2mila aziende sulle 10mila prese a campione di Bankitalia riesce a risanarsi.
    E le altre? Tirano a campare per cinque anni e passano da un creditore all’altro, perché nel frattempo le banche, per ripulire i propri bilanci, vendono i propri crediti. E non sono somme piccole: nel 2020, sempre secondo Bankitalia, le banche hanno ceduto o “cartolarizzato” crediti in sofferenza per un totale di 428 milioni di euro. Una cifra enorme, paragonata al Pil della Calabria, che nello stesso periodo perdeva l’8%, attestandosi sotto i 30 miliardi.

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    La morale della favola è chiara: se non fosse stato per questi tassi alti, molte imprese potrebbero reggere. Perché, rivela sempre Bankitalia, la capacità di sopravvivenza delle imprese in crisi è comunque superiore alla media nazionale e la capacità di ripresa è uguale al resto d’Italia.
    Tutto questo, ovviamente, prescinde dal Covid, che ha dato la mazzata, provocando una contrazione immediata delle imprese del 3,2% nel periodo caldo della pandemia e aumentando la mortalità delle piccole imprese artigiane e terziarie.
    In questo caso, è difficile accollare al credito tutte le responsabilità, perché molte aziende, soprattutto nella ristorazione, hanno semplicemente chiuso per mancanza di lavoro.

    Accesso al credito

    Avere sofferenze bancarie significa trovarsi nella classica situazione del cane che si morde la coda: più si hanno debiti meno credito si può avere e, soprattutto, è più difficile rinegoziare i fidi e i mutui. Con risultati devastanti: nel 2020 è emerso che circa il 44% delle imprese reggine aveva problemi enormi nell’accendere linee di credito.
    Va da sé che, a prescindere dalle moratorie e dalle misure di soccorso predisposte per affrontare la pandemia, questa situazione rischia di avere solo uno sbocco. L’usura. Ma in questo caso, si passa dall’analisi economica alla cronaca giudiziaria…