Tag: economia

  • Caro carburante, pure il benzinaio cosentino beffato da Mario Draghi

    Caro carburante, pure il benzinaio cosentino beffato da Mario Draghi

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    In principio fu la pandemia da Covid-19 a sconvolgere la routine dei cittadini. Poi venne l’aumento delle tariffe di gas ed elettricità, adesso l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Con la diretta conseguenza dell’escalation dei prezzi del carburante.

    Tutto questo contribuisce a comporre il quadro di un Paese in affanno, che non riesce a rimettersi in moto e a risalire la china. Un’Italia costretta a fare i conti giornalmente con le stangate sul metano, sulla bolletta elettrica e sul conto al distributore di carburante.
    Dopo tante polemiche e minacce di scioperi e blocchi stradali che avrebbero paralizzato il Paese, il Governo qualcosa ha fatto.

    caro-carburante-il-benzinaio-cosentino-beffato-da-draghi-i-calabresi
    Il capo del Governo italiano, Mario Draghi

    Per contrastare il caro carburante l’esecutivo di Draghi ha deciso una sforbiciata con un decreto pubblicato il 22 marzo in Gazzetta Ufficiale. Prevede un taglio di 25 centesimi in meno di accise a cui sommare l’Iva per uno sconto complessivo di 30,5 centesimi al litro. Di certo una buona notizia dopo settimane di rincari stellari. Il carburante era arrivato ben oltre la soglia tabù dei 2€/litro. Adesso si spende in media tra 1,71€ ed 1,80€.

    Il caro carburante colpisce pure il benzinaio

    Ma non è per tutti così e per qualche benzinaio il taglio del Governo ha avuto il sapore amaro della beffa. E’ il caso di Mario che gestisce a Cosenza un punto vendita ghost (solo modalità self service): «Appena qualche giorno prima dell’entrata in vigore del taglio delle accise, avevo acquistato una bella scorta di carburante pagandola al “vecchio” prezzo. Ovviamente non posso permettermi di modificare i costi, ci perderei qualcosa come 5mila euro».

    E nella sua stessa condizione sono moltissimi altri gestori di tutta la rete di distribuzione: dalle grandi compagnie petrolifere alle pompe “no logo”. Ognuno di loro ha reagito come poteva, generando differenze significative anche tra benzinai distanti poche centinaia di metri. Stando alle ultime informazioni, a livello nazionale si starebbe cercando di acquisire i dati delle giacenze di carburante di ogni rivenditore così da offrire a coloro che lo avevano pagato a prezzo pieno una compensazione con un credito di imposta.

    Ma gli stessi benzinai si mostrano scettici sull’efficacia di misure limitate nel tempo. L’incognita principale riguarda la durata, il taglio delle accise per ora vale un mese: «Staremo a vedere come evolverà la situazione del mercato nel prossimo futuro – dice Fabio, gestore di una Q8 tra Cosenza e Rende – poi valuteremo come comportarci giorno per giorno».

    La musica non cambia se si interpellano le associazioni di categoria. Assoutenti si dice preoccupata per le oscillazioni delle quotazioni del petrolio e per le conseguenze che il conflitto ucraino potrebbe avere in termini di aumenti sul prezzo dei carburanti.

    Tiepida sui provvedimenti del Governo per frenare la corsa dei prezzi anche la Fegica (Federazione gestori impianti carburanti e affini): «Non c’è chiarezza – denuncia il segretario generale Alessandro Zavalloni -, ancora non si capisce chi dovrà accollarsi il costo delle quantità di carburanti già immesse al consumo. Di questo passo c’è il rischio concreto che il prezzo del carburante arrivi presto a 3 euro al litro».

    caro-carburante-il-benzinaio-cosentino-beffato-da-draghi-i-calabresi
    Dopo il picco dei giorni scorsi, tornano parzialmente a scendere i prezzi del carburante

    L’App per combattere il caro carburante

    In tutto ciò gli utenti finali, gli automobilisti, si stanno rendendo conto dell’impatto che il conflitto ucraino avrà sulle loro tasche e cercano di correre ai ripari come possono: qualcuno si affida agli ultimi ritrovati tecnologici in fatto di applicazioni per cellulare che indicano in tempo reale i distributori più convenienti. Altri, meno smaliziati, aspettano di trovare il prezzo più basso per riempire il serbatoio a tutte le auto della famiglia. Quelli che invece pensavano di averci visto lungo acquistando un auto a metano o modificando il sistema di alimentazione con l’obiettivo di risparmiare qualcosina, sono forse coloro che stanno messi peggio di tutti: un pieno di metano costa il triplo di un mese fa e molti gestori sono stati costretti a chiudere per proteggersi dai rincari fuori controllo.
    Sono le conseguenze della guerra alla pompa di benzina. E pensare che quando il metano ha sfondato il muro dei 3 € ancora Putin non aveva progettato di farsi pagare il gas in rubli…

  • L’orto digitale con il cuore nella Sibaritide che piace a Microsoft

    L’orto digitale con il cuore nella Sibaritide che piace a Microsoft

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Negli uffici della multinazionale statunitense Kellog’s a Vimercate, la pausa pranzo produce una ricaduta positiva sull’economia di un piccolo coltivatore calabrese. Nella sede milanese di Banca Intesa il coffee break è a base di spremuta d’arance di Corigliano. I dipendenti della Microsoft a Natale al posto del panettone hanno ricevuto ceste di limoni femminelli prodotti nella piana di Sibari. Marchi come Tiffany, Colgate, Sony, Iliad hanno adottato orti digitali sostenendo la rete di produttori che fanno fatica a rimanere sui mercati, pressati dai costi dell’intermediazione della filiera agroalimentare.

    agricoltura-orto-digitale-cuore-sibaritde-piace-microsoft-i-calabresi
    Con Biorfarm si può scegliere un albero e adottarlo

    Agricoltura etica e sostenibile

    Una rivoluzione dal basso, portata avanti da contadini che vogliono continuare a coltivare la terra, si battono per avere un guadagno più equo e allo stesso tempo per garantire la qualità e il contatto diretto con i consumatori. Alla guida di questa impresa c’è un giovane calabrese, Osvaldo De Falco, 35 anni, fondatore di Biorfarm, la prima azienda agricola diffusa e condivisa attraverso una piattaforma web con numeri da record: 108 agricoltori e aziende agricole coinvolti in tutta Italia, 55mila utenti della community che adottano alberi, partnership importantissime.

    agricoltura-orto-digitale-cuore-sibaritde-piace-microsoft-i-calabresi
    Biorfarm ha scelto la strada dell’agricoltura etica e sostenibile

    Addio Milano: il ritorno a Corigliano-Rossano 

    Quella di De Falco è una storia di radici e innovazione. È andato via dalla Calabria per studiare, nel 2014 lavora a Milano nella multinazionale Siemens come consulente finanziario, dopo la laurea in economia e una breve esperienza a New York. Quell’anno suo padre, che ha una piccola azienda di arance e clementine a Corigliano Calabro (che adesso è Corigliano-Rossano), è in difficoltà, rischia di chiudere. Così lui torna per dargli una mano. «Come la maggior parte dei piccoli produttori locali – racconta – mio padre era schiacciato da un sistema che economicamente non è più sostenibile: costretto a vendere per pochi centesimi la frutta che viene poi messa sul mercato a prezzi lievitati. Tutto questo a discapito dei consumatori e della qualità, perché il prodotto viene trasportato diverse volte e stoccato anche per mesi».

    Dal produttore al consumatore 

    È a questo punto che De Falco unisce alla sua passione per la terra le competenze acquisite. Ha un’intuizione: aggregare i piccoli produttori e metterli in contatto diretto con i consumatori, eliminando ogni intermediazione. Così, nel 2015 insieme al suo socio Giuseppe Cannavale, fonda Biorfarm che raccoglie le adesioni degli agricoltori e cresce rapidamente grazie anche alle fortunate operazioni di crowdfunding nel 2018 e nel 2021.

    L’idea è semplice: chiunque, in qualsiasi parte del mondo, può diventare un agricoltore digitale, adottare un albero o un frutteto, seguire le fasi della crescita delle piante e interagire con gli agricoltori, per poi ricevere a casa i prodotti biologici, oppure andare a raccoglierli.

    «Diamo un supporto concreto alla produzione locale – spiega De Falco – perché paghiamo l’agricoltore fino a tre volte di più rispetto alla filiera tradizionale. Il progetto coinvolge i privati, ma soprattutto le aziende. Abbiamo partnership che adottano alberi e frutteti, sono azioni di green marketing che oggi sono molto importanti per trasmettere credibilità e affidabilità. L’adozione dura un anno e poi può essere rinnovata». Ci sono aziende che decidono di destinare la frutta ai dipendenti, di regalarla ai clienti o anche di non ritirarla, per sostenere – senza nulla in cambio – agricoltori che si trovano in un momento di difficoltà. Un’importante casa editrice ha appena acquistato 17mila alberi per un progetto sull’educazione ambientale che coinvolgerà tutte le scuole d’Italia.

    agricoltura-orto-digitale-cuore-sibaritde-piace-microsoft-i-calabresi
    Gli agricoltori sono pagati fino a tre volte di più

    L’agricoltura dei piccoli produttori

    Chi adotta un albero o un frutteto segue tutto il processo, dalla piantagione alla raccolta, attraverso il “Diario di campagna”, una bacheca con contenuti multimediali postati dall’agricoltore per mostrare ciò che fa quotidianamente e come e dove crescono i prodotti. Entro massimo due giorni dalla raccolta la frutta viene spedita. «Promuoviamo un’agricoltura sostenibile – dice De Falco -supportando i piccoli agricoltori bio che ogni anno rischiano di scomparire e sono preziosi per la tutela del territorio e per salvaguardare la biodiversità ed evitare lo spopolamento delle campagne».

    Dal Trentino alla Sicilia, ci sono i volti e le storie di decine di produttori che fanno parte di questa grande azienda agricola digitale. Dalle mele ai vigneti, dai mandarini ai mirtilli, la community è un’esplosione di colori e profumi, da un angolo all’altro dello Stivale. Ma c’è anche la frutta che non t’aspetti. E arriva soprattutto dalla Calabria, dove si producono giuggiole, feijoa, passion fruit, fichi secchi, kiwi, lime, ribes, zafferano. Non solo uliveti e agrumeti: la biodiversità, parola-jolly da utilizzare nei convegni sull’agricoltura da sempre cari alla politica regionale.

    Uno degli imperativi di Biorfarm è salvaguardare la biodiversità

    Senza finanziamenti o sovvenzioni

    «Mai avuto a che fare con la politica o con gli ambiti istituzionali – precisa De Falco – non chiediamo finanziamenti o sovvenzioni. Biorfarm è apolitica» – sorride. Ma quando si parla dell’agricoltura calabrese, il tono si fa serio: «Abbiamo due grandi problemi: il primo è la mancanza di infrastrutture, il secondo è la mentalità. Perché non si comprende quanto sia importante lavorare insieme, fare rete. Fino ad ora gli agricoltori  non sono stati in grado di farlo, ma ho 35 anni e sono ottimista. Le nuove generazioni riusciranno certamente a fare di meglio».

  • Rifiuti a peso d’oro: la Calabria spende più di 2 miliardi in 7 anni

    Rifiuti a peso d’oro: la Calabria spende più di 2 miliardi in 7 anni

    Quando si parla di spazzatura, in Calabria, i propositi sono sempre buoni, ma le certezze sono davvero poche. Per provare a capirci qualcosa conviene dunque partire dalle seconde. Innanzitutto: la Regione non ha al momento adottato nessun nuovo Piano rifiuti. In Calabria è in vigore quello approvato nel 2016 e modificato nel 2019. La giunta Santelli aveva licenziato delle Linee guida di aggiornamento su proposta del “Capitano Ultimo” ma sono rimaste solo un atto di indirizzo. «Il Piano che cambierà la Regione» vagheggiato a novembre 2020 dall’allora assessore Sergio de Caprio in realtà non è mai neanche arrivato in consiglio regionale.

    rifiuti-in-calabria-cittadini-costano-2-milardi-sette-anni-i-calabresi
    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Probabilmente invece ci arriverà, senza grandi ostacoli, quello annunciato da Roberto Occhiuto: la sua giunta ha approvato una delibera con gli indirizzi per un Piano stralcio. Prima di andare a vedere quali siano, proviamo a ragionare su qualche altro dato certo. Il più drammatico riguarda la raccolta differenziata, l’unica via per uscire dal medioevo delle discariche che tutti da anni dicono di voler seguire – lo impone la legge – senza riuscirci.

    Differenziata ferma al 52%

    Nel 2020 (la fonte è la Regione) i calabresi hanno prodotto 715.976 tonnellate di rifiuti urbani (381,3 kg per abitante) ma la differenziata si è fermata a 373.610 tonnellate. Rispetto al 2013 i rifiuti prodotti sono diminuiti (erano 829.792 tonnellate, 422,8 kg per abitante) ed è aumentata la differenziata (erano 122.844 tonnellate). Però siamo ancora al 52,2%, molto poco se si pensa che il target del 65% si doveva raggiungere nel 2012. Esatto: siamo in enorme ritardo rispetto a un obiettivo che andava centrato già 10 anni fa. E che il Piano rifiuti del 2016, quello ancora in vigore, aveva fissato per il 2020.

    Cosenza: rifiuti in Svezia per 300 euro a tonnellata

    Proprio il 2020, scrive il dipartimento regionale Ambiente, è l’anno che ha sancito «la cronicizzazione dell’emergenza per l’esaurimento delle discariche pubbliche e private». Risultato? Sono state incenerite fuori regione 67mila tonnellate di rifiuti, a cui se ne aggiungono altre 2mila conferite in discariche extra-regionali. A costi, dice sempre la Regione, «esorbitanti». Un esempio: la provincia più grande della Calabria, quella di Cosenza, per parecchi mesi ha spedito la sua spazzatura a Mantova e addirittura in Svezia. Al modico prezzo di oltre 300 euro a tonnellata. Il canale svedese si è bloccato da qualche settimana a causa della guerra e, ora, si rischia una nuova emergenza nell’emergenza.

    Emergenza rifiuti in Calabria mai finita

    Già. E pensare che in teoria il settore calabrese sarebbe rientrato nella «gestione ordinaria» dal 2013. Lo stato di emergenza dei rifiuti in Calabria era stato proclamato nel 1997 ed è ufficialmente scaduto il 31 dicembre 2011. Ma nei fatti è sempre rimasto tale. Con un’altra certezza: una montagna di denaro pubblico è stata spesa senza mai fare passi avanti. È utile anche su questo guardare ai numeri, tenendo a mente che il servizio viene coperto con la tassa (Tari) pagata dai cittadini. Nel 2019 i rifiuti calabresi ci sono costati 168,44 euro per abitante (fonte: Catasto rifiuti Ispra su un campione del 42% dei Comuni). Il che significa 319 milioni di euro in un anno. I costi di gestione sono andati quasi sempre crescendo nel decennio: nel 2013 si spendevano 124,15 euro per abitante (245,8 milioni all’anno).

    Sommando i costi per abitante del Catasto Ispra, dopo averli moltiplicati per i residenti rilevati di anno in anno, viene fuori che tra il 2012 e il 2019 la gestione dei rifiuti calabresi è costata in totale oltre 2,2 miliardi di euro. Ancora prima, stando alle risultanze della Commissione parlamentare di inchiesta che se n’è occupata, in più di 13 anni di commissariamento le spese erano «lievitate a ben oltre il miliardo di euro, a fronte degli insufficienti risultati ottenuti».

    Il termovalorizzatore da raddoppiare

    Già in quel dossier, datato maggio 2011, si parlava del raddoppio del termovalorizzatore di Gioia Tauro. Sul quale ora Occhiuto vuole puntare per renderlo «più performante e meno inquinante».
    Al di là dell’ammissione implicita del presidente della Regione – «meno inquinante» significa che attualmente inquina e in futuro lo farà pure, ma di meno, e prima poi bisognerà farci i conti – a descrivere la situazione è il documento tecnico allegato dal dipartimento Ambiente alla manifestazione d’interesse per il project financing.

    rifiuti-in-calabria-cittadini-costano-2-milardi-sette-anni-i-calabresi
    Il termovalorizzatore di Gioia Tauro

    Si parte dal «malfunzionamento» attuale del termovalorizzatore – termine meno inquietante dell’«inceneritore» comunque ricorrente anche in questi atti – che «incenerisce quantitativi molto inferiori rispetto alla potenzialità autorizzata di 120mila tonnellate all’anno». A Gioia Tauro viene trattato per produrre energia solo il combustibile solido secondario, l’attuale tecnologia «non consente di termovalorizzare gli scarti di lavorazione». Negli ultimi due anni, inoltre, si sono registrati «continui fermi impianto».

    Il grande problema resta sempre e comunque la mancanza di impianti pubblici sul territorio. Il Piano del 2016 ne prevedeva diversi riuniti in 8 «ecodistretti», ma risulta che «nessuna attività è stata avviata» per quello di Cosenza e le sue due discariche di servizio, così come per quelle previste a Lamezia, Crotone, Siderno e per l’impianto che dovrebbe sorgere nella Piana. «Bloccato», invece, l’iter per la discarica di Melicuccà. Ma secondo il dipartimento la configurazione degli ecodistretti va «integralmente confermata».

    Rifiuti in Calabria? Incenerire per non differenziare

    Quindi l’unica novità, al netto dell’aggiornamento dei target per la differenziata (65% nel 2023, 70% nel 2025 e 75% nel 2030), è il maggiore ricorso all’incenerimento dei rifiuti a Gioia Tauro. Dove, con l’entrata a regime delle ulteriori linee «completate ad oggi all’80%», si dovrebbe arrivare, secondo la Regione, a una «valorizzazione energetica» di circa 270mila tonnellate all’anno, garantendo così «l’autosufficienza» con il trattamento di tutti i rifiuti urbani residui e degli scarti della differenziata. Il termovalorizzatore, di proprietà della Regione, nel Piano stralcio dovrà essere individuato come «di rilevante interesse strategico regionale» e servire tutta la Calabria. Una previsione che, guardando ai propositi sulla differenziata, appare contraddittoria: se dobbiamo incenerire di più vuol dire che pensiamo che non differenzieremo di più.

    rifiuti-in-calabria-cittadini-costano-2-milardi-sette-anni-i-calabresi
    Ecco come si presenta dall’alto e come è suddiviso l’impianto di Gioia Tauro

    Quando la giunta Spirlì voleva stoppare i privati…a parole

    Due digressioni necessarie. La prima: la Ue dice che entro il 2035 dovrà andare in discarica non più del 10% del totale dei rifiuti urbani, mentre la Calabria è oggi oltre il 44%. La seconda: il Tar ha annullato un’ordinanza – l’ennesima «contingibile e urgente» – emanata dalla giunta Spirlì a luglio 2021 dando ragione al Comune e all’Ato di Crotone. Rappresentati dall’avvocato Gaetano Liperoti, gli enti crotonesi si sono opposti alla decisione di portare in discarica fino a 600 tonnellate al giorno pagando 180 euro a tonnellata (dunque fino a oltre 100mila euro ogni 24 ore).

    Si tratta della stessa giunta che aveva garantito di voler stoppare i privati. E che nella stessa ordinanza ammetteva che avremmo pagato nei mesi successivi «prezzi esorbitanti» per portare i rifiuti fuori dalla Calabria. Secondo il Tar però non si possono «adottare ordinanze contingibili ed urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti». L’emergenza è dunque diventata così stabile da costituire, illegittimamente, la normalità.

    rifiuti-in-calabria-cittadini-costano-2-milardi-sette-anni
    Un’altra immagine dall’alto del complesso che ospita il termovalorizzatore di Gioia

    Addio Ato, ecco la multiutility di Occhiuto

    C’è poi un’ulteriore, grossa novità: gli Ato provinciali verranno soppressi con l’entrata in vigore della «multiutility» che gestirà l’intero ciclo di acqua e rifiuti. Si tratta di un cambio di rotta rispetto all’impostazione che stava andando nella direzione della gestione locale consorziata tra i Comuni. Alcuni territori sono effettivamente bloccati perfino nella scelta dei luoghi per gli ecodistretti, ma altri stavano facendo dei passi avanti. Adesso, mentre continuiamo a pagare bei soldoni per lo smaltimento, inseguiremo l’autosufficienza incenerendo in un solo impianto i rifiuti di tutta la regione. Ma dimenticando che la normativa europea e il Codice dell’ambiente (art. 182 bis) fissano anche il principio di prossimità: i rifiuti andrebbero smaltiti «in uno degli impianti idonei più vicini ai luoghi di produzione o raccolta».

  • Underkitchen, tutto il mondo in un piatto. E a casa tua

    Underkitchen, tutto il mondo in un piatto. E a casa tua

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Il nuovo concorrente di Glovo e Deliveroo non utilizza i rider, consegna a domicilio piatti internazionali low cost e – soprattutto – parla cosentino. Si chiama Underkitchen ed è una start up tecnologica a valore sociale. Vende on line piatti di cucina globale. Per ora solo in Italia ma, potenzialmente, ai clienti di tutto il mondo. L’idea è di quattro imprenditori che hanno già all’attivo sperimentazioni nel mondo del gusto e che dopo aver analizzato le criticità del mercato hanno messo su un progetto partito il primo marzo.

    Underkitchen non si serve di riders per consegnare le pietanze nelle case

    Leonardo Stancati e Carlo Schiavone, rispettivamente Cto e Ceo della società ed entrambi della città dei Bruzi, hanno voluto subito legare il progetto al territorio calabrese. La sede operativa si trova nel cuore di Cosenza, a due passi da corso Mazzini. È qui il “cervello” del progetto, il terminale degli accessi al sito, degli ordini e delle spedizioni, in costante collegamento con le cucine. Ma c’è di più: presto potrebbero essere i futuri chef cosentini e calabresi a realizzare i piatti.

    L’idea originaria del progetto, infatti, prevedeva il coinvolgimento dell’istituto alberghiero “Mancini” con cui dall’inizio erano state condivise le linee guida. Poi la pandemia ha bruscamente interrotto la collaborazione, ma dirigente e docenti dell’istituto restano interessati a portarla avanti.
    Intanto, a un mese dal suo esordio, Underkitchen ha già raggiunto numeri molto soddisfacenti e, nonostante il respiro internazionale, una grande fetta di utenti è proprio cosentina.

    Underkitchen: il mondo a casa tua

    È un sito, ma anche un’app, che permette di ordinare specialità internazionali preparate dalle mani di cuochi specializzati e le spedisce a casa. In pratica funziona così: scegli un piatto tra quelli proposti – dal guacamole di Cancun al Jerk chicken giamaicano, dalle polpette in salsa teriyaki giapponesi al gulasch ungherese – scorrendo un menu che va da un capo all’altro del mondo, attraverso i piatti più iconici della gastronomia internazionale.

    Ordini, paghi ed entro 24 ore arriverà a casa tua un box termico con tutto il necessario (in confezioni sottovuoto) per mettere in tavola in pochi minuti, scaldandolo nel microonde o in acqua bollente, il piatto fumante. I prezzi sono bassi, dai 16 ai 35 euro per pacchetti da cinque monoporzioni, ma ci sono anche i last minute per ulteriori sconti. Il valore aggiunto lo dà il fatto che le ricette si preparano nelle cucine delle scuole alberghiere italiane.

    Così c’è una ricaduta positiva sulla formazione degli studenti, che acquisiscono competenze professionali specifiche da sfruttare nel mondo del lavoro. A portare a termine il progetto pilota sono stati i laboratori di cucina di Multicenter School di Pozzuoli, che è anche tra i soci fondatori.

    Cibo sostenibile e a basso costo

    «Siamo molto contenti perché la risposta è stata molto positiva: in questo primo mese hanno ordinato 3500 piatti», spiega Stancati. «Abbiamo avuto da parte dei nostri clienti un riscontro molto positivo e i numeri premiano la qualità delle preparazioni e della materia prima». Merito anche di una grafica accattivante del sito che riproduce il city board, il tabellone dell’aeroporto che indica tutte le destinazioni: in questo caso sono le città di provenienza delle ricette.

    Polpette in salsa teriyaki

    Il rimando al viaggio è costante. Underkitchen vuole trasmettere insieme al piatto la narrazione dei luoghi attraverso la musica, il cinema, la storia, l’iconografia che li rende riconoscibili e desiderabili. «A premiare è anche una politica di prezzi contenuti, i piatti costano un terzo rispetto ai nostri concorrenti – spiega Stancati – ed arrivano a casa tua, entro 24 ore dall’ordine. Il nostro è un modello di food delivery sostenibile, sociale ed inclusivo, che taglia fuori le multinazionali del settore. Infatti non sfrutta i riders, ma utilizza operatori di logistica internazionale per portare a domicilio prodotti abbattuti freschissimi. E c’è di più: difendiamo la cultura gastronomica mondiale, non alimentiamo la diffusione del cibo spazzatura. Anzi, promuoviamo piatti che rappresentano il patrimonio di un paese e la sua cultura».

    Underkitchen: da Cosenza alle grandi città 

    L’obiettivo adesso è ampliare la rete delle scuole alberghiere, a partire proprio dalla Calabria. Nella sede cosentina arrivano ordinazioni da Milano, Genova, Roma, Bologna, Napoli, Torino. Dopo l’assaggio i consumatori ricevono l’invito a inviare recensioni vocali pubblicate poi sul sito, molto più gradite delle tradizionali foto dei piatti che rischiano di restituirne la bellezza ma non l’emozione.

    Nei laboratori della scuola alberghiera di Pozzuoli gli studenti realizzano i piatti nelle ore di alternanza scuola-lavoro, con la supervisione degli chef esperti di cucina internazionale. «Non forniamo piatti-pronti, che comportano costi di produzione e logistica che finiscono per ricadere in termini di costi sull’utente finale – aggiunge il Cto – ma un prodotto preparato con materie prime di alta qualità e messo sottovuoto (mantiene così intatte le caratteristiche organolettiche e nutrizionali di un prodotto fresco), abbattuto artigianalmente, e consegnato in un packaging rigenerabile in cinque minuti».

    underkitchen-abbattitore
    Il cibo passa dall’abbattitore prima di essere confezionato e spedito

    Presto anche all’estero

    Stancati e Schiavone, insieme ai soci Giorgio Scarselli (titolare dello storico ristorante Il bikini di Vico Equense) e Armando Aruta, adesso puntano all’Europa, ma seguendo una rotta diversa: il progetto Underkitchen porterà la cucina italiana oltralpe, contando sempre sulle professionalità presenti negli istituti alberghieri.
    “Cheap flights, great food” (Voli economici, grande cibo, ndr) è il refrain pubblicitario. E quest’attesa di un nuovo viaggio fa già venire un certo languorino.

  • Gioia Tauro: alla ricerca del rigassificatore perduto

    Gioia Tauro: alla ricerca del rigassificatore perduto

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Sono passati diciassette anni da quando è cominciata la storia del rigassificatore a Gioia Tauro. Lo scenario geopolitico e geostrategico intanto è cambiato completamente: abbiamo attraversato tre crisi economiche mondiali, è venuta la pandemia. La Russia, da ultimo, dopo essersi impadronita della Crimea nel 2014, ha invaso nel 2022 l’Ucraina.
    A Gioia Tauro non è successo intanto assolutamente nulla, se non una lunghissima storia italiana di ordinaria burocrazia. Eppure, sarebbe stato strategico realizzare questo investimento per una nuova infrastruttura energetica, nell’interesse della Calabria e dell’Italia.

    Un investimento da un miliardo di euro è rimasto nel congelatore delle decisioni perdute, per realizzare un impianto adeguato a gestire 12 miliardi di metri cubi di gas rispetto agli 80 miliardi che l’Italia consuma ogni anno. Intanto, ancora oggi, l’impianto di Gioia Tauro attende la dichiarazione di strategicità da parte dello Stato. Serviranno poi quattro anni per poter costruire il rigassificatore.

    Le forniture russe e il ricatto di Putin

    Persiste ancora oggi la nostra dipendenza energetica dalle fonti fossili, in buona parte dal gas russo. Dobbiamo, però, modificare comunque l’assetto energetico per far fronte alla emergenza climatica. Dopo quasi quattro lustri di perdite di tempo, ci accorgiamo di quello che non abbiamo fatto. Da quasi dieci anni la realizzazione dell’impianto di Gioia Tauro è sospesa da un decreto del governo.

    guerra-russia-ucraina-calabrese-sta-con-putin-i-calabresi
    Vladimir Putin

    Improvvisamente, la guerra in Ucraina ci ha risvegliati dal lungo sonno energetico. Disporre di impianti per fonti alternative sarebbe oggi indispensabile, soprattutto nel Mezzogiorno. Ed invece ci siamo fatti trovare impreparati nel momento del bisogno, quando oggi servirebbe non stare sotto il ricatto di Putin. Le nuove infrastrutture per l’energia sono largamente inadeguate, in particolare nel Mezzogiorno.

    Da gas a liquido e viceversa

    Una delle strade per diversificare le fonti energetiche è quella di ricorrere al gas naturale liquefatto. In assenza di gasdotti, il gas naturale liquefatto si può trasportare su apposite navi metaniere. Questa tecnica consente di occupare un volume circa 600 volte inferiore: una metaniera può trasportarne una quantità molto maggiore. Il trasporto via nave, dunque, ha bisogno di impianti per la trasformazione del gas allo stato liquido nel punto di partenza (quindi impianti che lo raffreddano e comprimono) e di rigassificatori nel punto di arrivo.

    Il GNL si trasporta nelle navi a pressione poco superiore a quella atmosferica e a una temperatura di -162 °C. Nei rigassificatori torna allo stato originario grazie a un processo di riscaldamento controllato all’interno di un vaporizzatore, che ha un volume adeguato per permettere l’espansione del gas. Il riscaldamento avviene facendo passare il GNL all’interno di tubi immersi in acqua marina, che ha chiaramente una temperatura più alta. Una volta tornato com’era prima, il gas si può immettere nei gasdotti di un territorio, per poi distribuirlo nelle case e impiegare nelle centrali elettriche per la produzione di energia.

    Un rigassificatore al Sud ancora non c’è

    I rigassificatori italiani attualmente in uso sono tre strutture diverse tra loro. Sono tutti al Nord. Il più grande è il Terminale GNL Adriatico, ed è un impianto offshore: un’isola artificiale che si trova in mare al largo di Porto Viro, in provincia di Rovigo, e ha una capacità di produzione annuale di 8 miliardi di metri cubi di gas.

    Anche nel mar Tirreno, al largo della costa tra Livorno e Pisa, c’è un rigassificatore offshore: è una nave metaniera che è stata modificata e ancorata in modo permanente al fondale e immette gas in rete dal 2013. Ha una capacità di 3,75 miliardi di metri cubi annuali.

    rigassificatore-panigaglia
    L’impianto onshore di Panigaglia

    Il terzo rigassificatore in funzione è invece una struttura onshore, cioè sulla terraferma, e si trova a Panigaglia, in provincia di La Spezia. È il primo rigassificatore mai costruito in Italia (risale agli anni Settanta), ha una capacità annuale di 3,5 miliardi di metri cubi.
    La capacità complessiva dei tre rigassificatori non sarebbe da sola sufficiente a permettere l’immissione nella rete italiana di una quantità di gas pari a quella che negli ultimi anni è stata importata dalla Russia (29 miliardi di metri cubi di gas nel 2021).

    Un’alternativa alla Russia

    Nell’ottica di diminuire la dipendenza energetica dalla Russia, però, il governo vorrebbe ora sia sfruttare di più i rigassificatori sia aumentare le importazioni tramite gasdotti dai paesi da cui oggi l’Italia già si rifornisce: ad esempio dall’Algeria, attraverso il TransMed, e dall’Azerbaigian, attraverso il Trans-Adriatico, o TAP.

    rigassificatore-tap
    Come il gas arriva in Italia tramite il TAP

    Il governo ha incaricato – per questa ragione – Snam ed Eni, la più grande azienda petrolifera italiana, di trovare una o due metaniere da trasformare in floating storage regasification unit (nel gergo tecnico il rigassificatore si chiama così, o con la sigla FSRU), strutture simili a quella al largo di Livorno e Pisa che possano trattare 5 o 6 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Non si sa ancora nulla di dove saranno eventualmente collocati gli impianti.

    Gioia Tauro e Porto Empedocle: impianti nel limbo

    In questo contesto si è riparlato anche di due progetti per la costruzione di nuovi rigassificatori bloccati da anni. Uno riguarda Porto Empedocle, in provincia di Agrigento, l’altro Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria. Il primo progetto era stato inizialmente presentato nel 2004, ma – dopo varie vicissitudini burocratiche – il Comune di Agrigento aveva interrotto la realizzazione del gasdotto che sarebbe stato collegato all’impianto. I rischi sull’ambiente e per i possibili danni ai siti archeologici nello scavo del condotto erano stati giudicati troppo alti. A febbraio, però, il Tribunale amministrativo regionale di Palermo ha respinto il ricorso del Comune e ora, almeno teoricamente, il gasdotto si potrebbe costruire.

    porto-empedocle
    Porto Empedocle e Gioia Tauro sono i luoghi ipotizzati per realizzare un rigassificatore al Sud

    Non è detto però che il rigassificatore di Porto Empedocle si farà, e in tempi brevi. Il comune di Agrigento può fare appello al Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia (CGARS) contro la decisione del Tar.
    Per quanto riguarda il progetto di Gioia Tauro, avviato nel 2005, è stato sospeso dal 2013. Il ministro delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili Enrico Giovannini ha ora detto che si potrebbe riprendere in considerazione. E Roberto Occhiuto da Dubai soltanto pochi giorni fa ha insistito sulla necessità che il Governo acceleri le procedure per realizzarlo. Certo, stupisce che è dovuta giungere la crisi energetica derivante dalla guerra ucraina per ripescare dagli archivi un progetto industriale stagionato.

    Zes, rigassificatore ed energia

    È l’ennesima riprova che manca completamente l’adeguata considerazione verso il futuro del Mezzogiorno. Dei tre rigassificatori operativi, nessuno è collocato ai Sud. I due progetti meridionali sono rimasti nei cassetti per tentare di recuperarli in extremis, ma comunque non entro un raggio di azione capace di dare un apporto concreto nel percorso critico di costruzione della autonomia energetica dell’Italia rispetto al gas russo.

    Gioia-Tauro-zes
    Container nel porto di Gioia Tauro

    Nella stessa costruzione delle zone economiche speciali si è esclusa la possibilità di includere gli investimenti nel settore dell’energia all’interno del perimetro delle attività agevolate, anche dai punti di vista delle norme di semplificazione. Eppure, la centralità dei porti nelle Zes avrebbe dovuto indurre a comprendere il settore energetico nel programma di sviluppo economico dei territori portali.

    Vedremo quello che accadrà sul rigassificatore di Gioia Tauro. Andrebbe tenuto accesso il riflettore su questo caso, per evitare che l’improvviso risveglio di un progetto possa durare solo lo spazio di un mattino, per tornare nei sonnacchiosi cassetti della burocrazia nazionale e locale. Il futuro della Calabria e del Mezzogiorno passa anche dalle infrastrutture energetiche.

  • Pnrr, Calabria, Alta velocità: Cristo si è fermato a Romagnano

    Pnrr, Calabria, Alta velocità: Cristo si è fermato a Romagnano

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Il Ministero per le Infrastrutture e la Mobilità Sostenibile ha elaborato un documento che illustra, regione per regione, gli interventi che si prevedono col PNRR e le altre risorse nazionali e comunitarie in materia di infrastrutture e trasporti, un settore nevralgico per la Calabria. Complessivamente sono in ballo per l’intero Paese finanziamenti per 61,4 miliardi di euro. Due terzi (40,4) derivano dal PNRR e 21 da fondi integrativi.
    La gran parte di queste risorse, il 92,9%, servirà alla realizzazione di opere pubbliche, mentre il 6,9% ad acquisti di beni e servizi e l’1,6% a contributi verso le imprese. La parte del leone va gli investimenti previsti per l’ammodernamento della rete ferroviaria nazionale, con 36,6 miliardi di euro. Valgono il 59,6% del totale complessivo previsto per le infrastrutture ed i servizi di trasporto.

    PNRR, poco meno di 7 miliardi alla Calabria

    Alla Calabria spetteranno 6,8 miliardi di euro, pari all’11,1% del valore complessivo del programma: una cifra che non indica certo uno sforzo straordinario nel volume complessivo dello sforzo finanziario. Con il PNRR si dovrebbe, come è noto, invertire la tendenza alla marginalizzazione dei territori meno competitivi per generare un volano capace di attrarre investimenti privati produttivi.
    Ma già nella dimensione quantitativa del programma, si evidenzia che la Calabria non sta nel quadro strategico prioritario. Se poi si entra maggiormente nel merito delle linee di azione previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, questa sensazione cresce ancor di più.

    sud-ripresa-pnrr-non-basta-anche-italia-deve-fare-sua-parte

    I progetti chiave e i treni pigliatutto

    Il documento ministeriale elenca i progetti chiave che sono previsti per la Calabria: potenziamento della zona economica speciale; accessibilità ai porti di Gioia Tauro e Reggio Calabria; potenziamento ed ammodernamento delle ferrovie regionali; rinnovo delle navi sullo Stretto; edilizia residenziale pubblica; rigenerazione urbana; alta velocità Salerno-Reggio Calabria.
    Però, dopo aver snocciolato il rosario delle singole voci sugli interventi previsti in Calabria, ci si accorge che l’investimento ferroviario per alta velocità e rete regionale pesa per l’80,2% sul totale. Il resto si disperde in interventi che non modificano la sostanza dell’assetto infrastrutturale regionale.

    Il PNRR e la tratta-Salerno-Reggio Calabria

    Quando si passa ulteriormente al merito del principale investimento, vale a dire la realizzazione della Salerno-Reggio Calabria, il quadro diventa ancor più fosco. Quello che effettivamente si realizzerà entro il 2026, come ha detto in Parlamento l’amministratore delegato di Rete Ferroviaria Italiana, Vera Fiorani, sarà la tratta tra Battipaglia e Romagnano. Ossia un lotto lungo 40 chilometri che punta verso est, piuttosto che verso la Calabria.
    Questo itinerario, previsto nella progettazione ferroviaria già da lungo tempo, non era stato affatto concepito per servire la Calabria; percorre difatti un itinerario ferroviario che conduce a Potenza, per poi proseguire verso la costa ionica, raggiungendo Metaponto e, a seguire, Taranto.

     

    Solo quando sarà stata realizzata questa prima tratta, è prevista la prosecuzione verso Praia a Mare, dopo aver solcato il Vallo di Diano, puntando verso il mare e raggiungendolo con una lunga serie di gallerie, nei pressi di Buonabitacolo fino alla costa tirrenica cosentina. Lavori lunghi e complessi che non potranno terminare prima di un decennio a partire da oggi.

    Cristo si è fermato a Romagnano

    Quindi, dal punto di vista della esecuzione, nell’arco del PNRR si realizzeranno solo i 40 km della linea Salerno Reggio Calabria, da Battipaglia sino a Romagnano, completamente inutile per migliorare i tempi di percorrenza di chi deve recarsi in Calabria. Il resto della tratta, quella che dovrà collegare Salerno con Reggio, vedrà il finanziamento della sola progettazione. L’esecuzione arriverà ben dopo la scadenza del 2026.

    In queste settimane si svolgerà il dibattito pubblico sull’alta velocità Salerno Reggio Calabria. Ci si auspica che non prevalga ancora una volta la retorica delle cifre vuote di significato. Che ci si concentri, invece, sul miglioramento effettivo della accessibilità e dei servizi per i calabresi. Un tempo si diceva che Cristo si era fermato ad Eboli. Ora scenderà un po’ più giù, per fermarsi a Romagnano.

    Porto di Gioia Tauro strategico? Tutta retorica

    gioia-tauro-zes-2

    Analoga perplessità desta tutta la retorica, nel documento ministeriale, sul ruolo strategico del porto di Gioia Tauro. Nel disegno complessivo del PNRR, infatti, si dice con estrema chiarezza che la centralità marittima nazionale si gioca nelle due ascelle settentrionali adriatica e tirrenica, Trieste e Genova.
    Sarebbe il caso che la Calabria, così come l’intero Mezzogiorno, manifestasse la capacità di smarcarsi dalla retorica nella quale si esaurisce la discussione pubblica, per concentrarsi invece sulle scelte fondamentali. Ne guadagnerebbero non solo le regioni meridionali, ma l’intero Paese stesso. Che è cresciuto a ritmi intensi solo quando lo sviluppo del Sud avveniva a ritmi più accelerati rispetto al resto dell’Italia.

  • Pane, concimi, energia: quanto pesano Russia e Ucraina sui prezzi in Calabria

    Pane, concimi, energia: quanto pesano Russia e Ucraina sui prezzi in Calabria

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Ce l’hanno ripetuto all’inverosimile: il battito d’ali di una farfalla può provocare un tornado dall’altra parte del mondo. E la crisi scatenata dal conflitto in Ucraina, che non è propriamente una farfalla, sembra confermare il paradosso geopolitico. Anche per quel che riguarda la Calabria.

    Siamo stati risparmiati per un pelo dallo sciopero dei trasportatori, che sarebbe stata una Caporetto economica, perché la nostra marginalità geografica, combinata all’inadeguatezza delle infrastrutture, rende problematico il trasporto su gomma, che resta la forma principale di approvvigionamento.

    caro-benzina

    Ma lo scampato pericolo (per quanto?) non ridimensiona il problema dell’aumento dei prezzi, finora avvertito nel settore dell’energia e dei carburanti.
    Fare il pieno alla macchina è un problema e le bollette del gas possono ridurre tantissimi sul lastrico. Ma può esserci di peggio: l’aumento dei prezzi del cibo o, nei casi più estremi, la difficoltà a procurarselo.

    Caro pane, Cosenza resiste. Ma per quanto?

    Il pane è l’alimento per eccellenza. E quello calabrese, lo diciamo senza alcun campanilismo, è un prodotto vincente grazie a un ottimo rapporto qualità-prezzo, che, fino a poco prima dell’inizio delle ostilità tra Russia e Ucraina, oscillava attorno ai due euro e qualcosa al chilo. Questo prezzo è rimasto stabile, finora, solo nel Cosentino, grazie ai calmieri imposti dalla grande distribuzione organizzata. Ma questa può non essere una buona notizia, perché tenere i prezzi bassi di fronte all’aumento di grano, farina e carburanti può diventare un boomerang nel medio periodo.
    L’anello sensibile della panificazione è rappresentato dai molini, che riforniscono i forni, i quali sono le aziende alimentari “di prossimità” più diffuse.
    I cinque molini calabresi sono perciò l’osservatorio perfetto per quantificare il potenziale “caro pane”, calcolabile a partire dall’aumento del grano tenero.

    Né Russia né Ucraina, ma il prezzo sale lo stesso

    Il grano più utilizzato in Calabria non è quello ucraino (per decenni il più consumato d’Europa, anche ai tempi dell’Urss) né quello russo. Bensì quello francese.
    Ma lo stop dei due grandi mercati dell’Europa orientale ha comportato il venir meno dell’effetto calmiere sui prezzi del grano occidentale, che oggi costa quasi il doppio.
    Prima di procedere è doverosa un’avvertenza: la Russia non ha messo nessun blocco all’esportazione del proprio grano. Il problema è dovuto solo all’esclusione degli istituti di credito russi dallo Swift, cioè dal sistema di pagamenti globale. In pratica, quel grano è sempre in vendita ma per noi è impossibile comprarlo.

    farina-pane-molino
    Farine in un molino

    Veniamo alla forbice dei prezzi. A marzo 2021 un chilo di grano tenero costava 22-23 centesimi circa al kg. Oggi ce ne vogliono circa 47.
    Ciò comporta che i molini sono costretti a vendere la farina a circa 75-80 centesimi al kg, con un aumento significativo rispetto ai 40 centesimi al kg di marzo 2021.
    In questa lievitazione del prezzo occorre includere anche il costo dell’energia necessaria ad attivare le macchine, il costo del carburante e del packaging.

    Un euro e cinquanta in più al kg

    E il pane? Al momento si può fare solo una proiezione, secondo la quale il prezzo di un kg di pane bianco potrebbe arrivare a 3,50 euro al kg.
    Una mazzata per l’economia delle famiglie calabresi, se si considera che il pil (che non vuol dire reddito) pro capite è di 17mila e rotti euro annui.
    Al momento la situazione è sotto controllo perché la Gdo obbliga di fatto i forni del cosentino a vendere il pane a circa 2 euro e rotti al kg, che mantengono relativamente bassi i prezzi in tutta la regione. Ma questo calmiere rischia di diventare una tagliola per i forni, che prima o poi saranno costretti ad aumentare e quindi a portare i prezzi del pane ai livelli di Lazio e Campania…

    pane

    Anche il fai da te è proibitivo

    Se comprare il pane potrebbe diventare proibitivo, ricorrere al “fai da te”, per cucinare pizze e focacce in casa come ai tempi del lockdown è già quasi impossibile: il prezzo della farina al supermercato è lievitato notevolmente.
    Il prodotto più gettonato, in questo caso, è la farina “0”, indicata per la panificazione casareccia e per i rustici: un chilo costa al consumatore tra gli 85 e i 90 centesimi, con un aumento medio di quasi 40 centesimi rispetto ai 52 centesimi di marzo 2021.
    In questo caso, spiegano gli addetti ai lavori, l’aumento è dovuto al maggior uso del packaging e alla distribuzione.

    Non solo pane: il problema con i concimi

    Si dice paniere perché il riferimento principale è il pane. Ma nel paniere ci entra di tutto. E questo “tutto”, cioè carne, frutta e verdura, si misura attraverso un elemento base: il concime, che incide direttamente nella produzione vegetale, e in maniera meno diretta nella produzione delle carni.
    In questo caso, l’aumento è vertiginoso: circa del 90%.

    Grazie all’economia “di guerra” in cui si trova l’Italia (senza, per inciso, aver sparato neppure un colpo), sono diventati introvabili fosforo e potassio e inizia a scarseggiare l’azoto. In Calabria, l’aumento di queste materie prime per i fertilizzanti incide ancor di più, visto che non sono prodotte sul territorio ma devono arrivarci attraverso il trasporto su gomma e scontano il raddoppio del prezzo del carburante.
    Ciò comporta un aumento di almeno il 20% potenziale del prezzo dei prodotti della nostra agricoltura.

    Fuori pericolo, almeno al momento, le carni. Ma anche questa non è una buona notizia: la scarsità dei mangimi di origine vegetale costringe non pochi allevatori ad abbattere i capi. Questa scelta obbligata, nel breve periodo può ridurre in maniera sensibile il costo della carne. Tuttavia, nel medio periodo provocherà aumenti sensibili, visto che molte aziende andranno in crisi e, dopo la fine della sovrabbondanza, saranno costrette ad alzare i prezzi in maniera imprevedibile.

    Gas e petrolio, la speculazione oltre la guerra

    Non è tutta colpa di Putin, c’è da dire. Anzi, il presidente russo, al riguardo, si è dimostrato meno guerrafondaio del solito e si è detto meravigliato dell’aumento del costo dell’energia in Occidente visto che, ha ribadito, la Russia non ha chiuso i rubinetti.
    Ciò significa che, dietro le quinte della narrazione “bellica”, agisce una forte speculazione. Detto altrimenti, i grandi distributori avrebbero ammassato le materie prime per lucrare l’aumento dei prezzi indotto dalla scarsità, che a questo punto è dovuta solo in parte alla crisi ucraina.

    putin
    Vladimir Putin

    Difficile prevedere quando si potrà tornare alla normalità. Se le operazioni belliche cessassero a breve e Russia e Ucraina trovassero un accordo soddisfacente, il prezzo degli alimenti, a partire dal grano calerebbe nel giro di un mese.
    Ma non tornerebbe ai prezzi di dicembre perché continuerebbe a pesarvi il costo dell’energia, che ci metterebbe di più, almeno sei mesi, per rientrare a livelli di guardia.
    E la Calabria sconterebbe più a lungo, almeno per un mese in più, l’instabilità energetica per via della sua marginalità geografica, che rende più oneroso il trasporto su gomma.
    Finché c’è guerra c’è speranza: era il titolo di un’amarissima commedia di Alberto Sordi. Gli speculatori concordano.

    alberto-sordi-guerra
    Alberto Sordi in Finché c’è guerra c’è speranza
  • Prima confiscati e poi inutilizzati: i beni delle ‘ndrine

    Prima confiscati e poi inutilizzati: i beni delle ‘ndrine

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Nel marzo del 1996 l’Italia ha approvato, anche su iniziativa di Libera, la legge 109 sul riutilizzo dei beni confiscati alla criminalità organizzata. Sono passati 15 anni nel corso dei quali il colpo forse più doloroso inferto alle mafie lo ha rappresentato non solo la confisca di beni, ma la loro restituzione alla collettività attraverso l’assegnazione a cooperative o realtà sociali del terzo settore. Un cammino lungo, incerto, non privo di pericoli, ma che ha dato frutti importanti. Nel report di Libera – aggiornato al 25 Febbraio – si legge che la Calabria è la seconda regione con il maggior numero di realtà sociali coinvolte in questo percorso.

    beni-confiscati-ndrine-sindaci-non-sanno-come-utilizzarli-i-calabresi
    La sede romana dell’Agenzia per i beni confiscati alla criminalità organizzata

    I problemi dell’Agenzia

    Tuttavia non tutto è andato bene a causa anche delle macchinose procedure e della debolezza dell’Agenzia dei beni confiscati, che avrebbe necessità di maggiori risorse umane e finanziarie.
    A confermare questa debolezza, il fatto che in tutta Italia sono meno di duecento le persone che lavorano attorno a questi temi e in Calabria solo 15, chiaramente poche rispetto all’impegno necessario.

    Il lavoro dell’Agenzia consiste nel mappare i beni che la magistratura confisca alle mafie e successivamente affidarli ai Comuni. Un viaggio pieno di insidie, che ha conosciuto anche qualche passo falso, come la storia dell’Hotel Sibarys di Cassano. La struttura era stata confiscata nel 2007 e l’Agenzia  l’aveva inclusa tra gli immobili disponibili per il riuso, ma nel 2019 la Corte d’Appello di Catanzaro ne ha ordinato il dissequestro e la restituzione definitiva alla famiglia Costa.

    I beni restano dello Stato e per le attività è un guaio

    Una decisione che ha lasciato l’amaro in bocca a chi progettava di acquisire il bene.  «Quella è stata una mazzata sul piano psicologico e della comunicazione, perché si pensa che un bene confiscato non possa tornare indietro», racconta Umberto Ferrari, emiliano da vent’anni in Calabria, responsabile di Libera e uno dei protagonisti della cooperativa Terre ioniche, che gestisce i beni sequestrati agli Arena.
    Se ottenere un bene tolto alla ‘ndrangheta non è facile, affrontare la durezza del mercato può esserlo anche di più.

    «Queste realtà – spiega Ferrari – hanno più difficoltà di altri, perché l’impresa non è proprietaria dei beni che gestisce, che restano dello Stato e quindi non ha capitale». Questo si traduce nell’impossibilità di fornire garanzie per avere mutui bancari e fare i conti con la carenza di liquidità. A soccorrere le imprese sociali impegnate ci sono la rete Libera terre e il consorzio Macramè che sostengono la commercializzazione delle merci prodotte dal lavoro dei vari soci.

    beni-confiscati-ndrine-sindaci-non-sanno-come-utilizzarli-i-calabresi
    Vincenzo Ferrari (Libera) è uno dei protagonisti della cooperativa Terre ioniche

    I numeri del fenomeno

    Le aziende maggiormente presenti in Calabria sono quelle agricole, ma oltre alle terre ci sono gli immobili, che rappresentano di gran lunga la maggior parte dei beni confiscati. Secondo i dati di Libera in Calabria sono 2908, di cui poco più di 1800 consegnati agli enti (Comuni, Province e Regione) che dovrebbero a loro volta assegnarli a quanti ne fanno domanda. Dalle mappe realizzate dal dossier di Libera aggiornato al 2021, sono circa 800 le associazioni concretamente assegnatarie di immobili. Pertanto risulta che la gran parte è rimasta nelle mani delle amministrazioni che non ne dispongono l’uso. «Con gli immobili è difficile fare impresa – spiega ancora Ferrari – e per lo più li utilizzano associazioni che si occupano di servizi sociali».

    beni-confiscati-ndrine-sindaci-non-sanno-come-utilizzarli
    L’ex sindaco di Reggio, Giuseppe Falcomatà e Tiberio Bentivoglio, imprenditore e vittima di mafia

    I Comuni fanno poco

    Tuttavia qui emerge l’altra falla nella normativa e cioè che «troppi beni restano in capo alle amministrazioni comunali e la stragrande maggioranza non ne fa nulla, lasciandoli nell’abbandono», dice ancora Ferrari. È vero che ultimamente alcuni Comuni hanno destinato qualche immobile alle emergenze abitative. In questi giorni alcune amministrazioni propongono di mettere immobili sequestrati a disposizione dei profughi che stanno fuggendo dalla tragedia della guerra in Ucraina.

    Il problema è che la disponibilità è limitata solo a quegli appartamenti davvero abitabili, mentre la gran parte è vandalizzata, anche perché prima di mollare il bene, i vecchi proprietari lo devastano. L’Agenzia da parte sua solo da due anni cerca di effettuare un monitoraggio su come si utilizzano i beni confiscati e chiede ai Comuni un resoconto rigoroso, che tuttavia non sempre giunge puntuale.

    Gli immobili confiscati alle mafie non sono quasi mai in buone condizioni. Ne sa qualcosa l’imprenditore “coraggio”, Tiberio Bentivoglio

    Il caso Bentivoglio: vittima di mafia a rischio sfratto

    Chi conosce bene sulla sua pelle la fatica di avere in gestione un immobile strappato alla criminalità è Tiberio Bentivoglio, vittima di mafia e imprenditore reggino.
    «Quando con l’architetto Rosa Quattrone siamo entrati nei locali che poi sono diventati la sede della mia attività, ci siamo messi le mani nei capelli», racconta l’imprenditore, che ha subìto attentati anche durante i lavori di ristrutturazione, costati oltre 80mila euro. Bentivoglio è impegnato nel tentativo di migliorare la legge, chiedendo di fornire sostegno economico a quanti prendono in gestione un bene confiscato, «perché senza una agevolazione finanziaria tutto è più difficile».

    Il bene che ospita l’attività della sua famiglia è stato assegnato al Comune di Reggio, cui Bentivoglio paga un fitto, ma non potendo fare fronte alle spese il Comune l’ha dichiarato moroso e ora si attende l’ufficiale giudiziario. «Io sono la sola vittima di mafia in Italia ad usare un bene confiscato – racconta Bentivoglio – e ho scritto al sindaco Falcomatà che non ce la faccio a sostenere le spese. Quindi, se vuole, mi deve cacciare». È ben difficile che l’ente proceda in tal senso, salvo non voler incorrere in danno d’immagine, ma la situazione è particolarmente difficile.

    I sospetti del vescovo Savino

    «In Calabria accedere ai beni confiscati alla ‘ndrangheta comporta un surplus di impegno» dice accorato il vescovo Francesco Savino, che guida la Diocesi di Cassano allo Jonio. Lunga militanza dentro Libera, vecchia amicizia con don Ciotti, protagonista di un impegno contro le mafie, Savino non esita a indicare tra i problemi con cui fare i conti la «lentezza, quasi l’accidia calabrese e soprattutto una classe politica e burocratica non all’altezza delle opportunità».

    Non manca nelle sue parole il riferimento a una vecchia affermazione di Gratteri, che chiamava in causa «l’indissolubile matrimonio tra mafie e massonerie deviate» e alla possibilità che tra le cooperative che acquisiscono i beni ci siano anche prestanomi, «cosa che io non posso documentare ma in questa terra manca la libertà e in questo caso il sospetto rischia di essere molto vicino alla verità».

    beni-confiscati-ndrine-sindaci-non-sanno-come-utilizzarli-i-calabresi
    Francesco Savino, vescovo di Cassano alloJonio

     

  • BOTTEGHE OSCURE | La Calabria di carta finita in discoteca

    BOTTEGHE OSCURE | La Calabria di carta finita in discoteca

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    La carta si fa con gli alberi, e di alberi in Calabria ce ne sono sempre stati tanti. Ma la produzione della carta direttamente dal legno è storia recente. Nei secoli passati la “bambagina” era fatta soprattutto con gli stracci e dal XV secolo in poi, con l’introduzione della stampa a caratteri mobili, la domanda di tale bene aumentò vertiginosamente soprattutto quando l’abbattimento dei costi di produzione portò a un uso capillare.

    Correva l’anno 1590 quando i veneziani Domenico Contarino e Giacomo Ferro, e il napoletano Marcio Imparato, impiantarono una cartiera nella città di Cosenza. Non sappiamo se l’opificio venne realizzato o meno, ma l’antico documento denota la forte richiesta di carta in riva al Crati. Ciononostante per ben due secoli la Calabria non vide neppure l’ombra di una cartiera. Nel suo Saggio di economia campestre (1770) Domenico Grimaldi scriveva infatti che la regione «n’è totalmente priva, malgrado le acque, che ha in abbondanza, i stracci, e carnaccio che vende al forastiero». Poi, d’improvviso, fra ‘800 e ‘900 qualcosa cambiò.

    A Serra San Bruno producevano 12mila quintali di cellulosa

    A Serra San Bruno, venne impiantata la Fabbrica Italiana di Cellulosa e Carta, un bagliore d’industria nell’entroterra calabro. Nel 1908 spiccavano due industrie dipendenti dalla silvicoltura regionale. Si trattava di quella di Serra San Bruno per la fabbricazione di carta e cellulosa e quella di Dinami per la “distillazione del legname”. Le due realtà impiegavano insieme 155 lavoratori. Quello di Serra San Bruno era uno stabilimento ben attrezzato. Aveva macchine continue, sfibratoi con pressa, autoclavi, tre caldaie a vapore della potenza di 300 cavalli dinamici e cinque motori. Impiegava 68 uomini e 12 donne, che riuscivano a produrre 12mila quintali di cellulosa all’anno e, con lavorazione aggiuntiva, anche «carta da impacco lucida da un lato, ruvida dall’altro».

    carta-serra-san-bruno
    La Fabbrica di Cellulosa a Serra San Bruno

    Costi di trasporto troppo alti

    La materia prima utilizzata era il legno di abete proveniente dai boschi limitrofi della «nobile casa Fabbricotti, di A. Fazzari ed altri» e «ricchi di secolari abeti, che intanto si adoperano per l’industria, sebbene non forniscano il miglior materiale». Il taglio non era indiscriminato. Di anno in anno venivano gli alberi venivano «ricostituiti nell’intento di ridurli in turno trentennale». Nonostante la forte disponibilità di materia prima e i dati lusinghieri per una fabbrica di provincia, lo stabilimento di Serra San Bruno incontrava difficoltà per gli alti costi di trasporto della cellulosa e della carta fino alla marina di Pizzo e alla ferrovia più vicina. Così, come ricostruito da Brunello De Stefano Manno e Stefania Pisani nel volume La Fabbrica di Cellulosa e la Villa Fabbricotti di Serra San Bruno, già negli anni trenta del ‘900 la cartiera risultava abbandonata.

    Carta da imballaggio nel Reggino

    Nel Reggino, già negli ultimissimi anni dell’Ottocento, era attiva una cartiera a Favazzina. Si trattava di un’industria piccola ma operosa, che impiegava l’elettricità nel processo produttivo. Si occupava soprattutto della produzione di carta da imballaggio e che nel 1906 aveva esportato «quintali 1190 di carta da involti». Sempre in provincia di Reggio, nel 1968 era attiva la cartiera di Rosarno che, con quella di Cosenza, produceva «modesti quantitativi di carta-paglia e di cartone pressato, destinati alla confezione di imballaggi per agrumi».

    cartiera-rosarno-migranti
    Migranti nella cartiera di Rosarno, foto Andrea Scarfò, fonte Wikipedia)

    Gli ormai dismessi capannoni della cartiera di Rosarno, di recente sono assurti agli onori della cronaca per essere stati il rifugio di molti immigrati che svolgevano lavori stagionali nei dintorni. Nel 2009, in seguito ad un rogo scoppiato nei capannoni, alcuni immigrati rimasero feriti e la cartiera venne sgomberata e murata.

    Carta e tipografia lungo il Busento

    Il fattore incentivante l’inizio della moderna industria della carta nel Cosentino fu la presenza di importanti corsi d’acqua, in primis il Busento. Al 1928 risale infatti la richiesta della ditta “Luciano ed Ernesta Ragonesi” per la «concessione di derivare dal fiume Busento in comune di Cosenza» le acque necessarie «per azionare un lanificio ed una cartiera».

    Intestazione cartiera Ragonesi (foto Franco Michele Greco)

    Già nel 1921 è attestata nella cartiera Ragonesi la produzione di carta da imballaggio. La stessa famiglia possedeva pure, sempre sul fiume Busento ma nel comune di Dipignano, un impianto idroelettrico per il quale riceveva delle sovvenzioni. Lanificio e cartiera Ragonesi caratterizzeranno a tal punto la zona di Cardopiano, a monte della Riforma lungo la strada che porta a Carolei. A volte veniva identificata proprio come “contrada Ragonesi”.

    Nel 1912 la proprietà affiancò alla fabbrica anche una piccola stamperia, la “Tipografia Cartiera Ragonesi”, un modo di utilizzo diretto della propria produzione di carta ancora fino agli anni ’20. Un decennio più tardi la gestione della cartiera, ancora nominalmente Ragonesi, passò alla famiglia Bilotti, tanto che negli annuari industriali dell’epoca intorno al 1938 compare la denominazione “Ragonesi Luciano ed Ernesta di V. Bilotti”. Con la nuova gestione la cartiera cosentina crebbe notevolmente e i Bilotti ampliarono il raggio di azione raggiungendo anche gli Stati Uniti.

    Industriali cosentini

    Quando nel mese di giugno del 1950 la Cartiera Bruzia prese il posto dell’ormai dismessa Ragonesi, la città era in piena fase di espansione. Quel tessuto proto-industriale costituitosi a inizio secolo fatto da attività artigianali e piccoli opifici a conduzione familiare era ormai a un bivio: rilancio e modernizzazione oppure dismissione. Fu allora che i fratelli Mario, Vincenzo e Ferdinando Bilotti, industriali cosentini di spessore, decisero di riporre entusiasmi e capitali nella produzione della cellulosa dalla paglia e della carta oleata dalla cellulosa.

    «La cartiera Bilotti – scriveva Concetta Guido nel 2001 su Repubblica è una specie di monumento cittadino. È lì da decenni, appena fuori il centro urbano. La cartiera è uno dei primi insediamenti industriali in un territorio che di ciminiere non ne ha conosciute quasi per niente. Vincenzo Bilotti (proprietario di palazzi a Rende, il comune attaccato a Cosenza nato come città dormitorio, e di ville a Sangineto, il lido dei vip locali) è un uomo che gode di molta stima negli ambienti professionali».

     I sindacati denunciano: lavoratori sfruttati

    La fabbrica portò occupazione e un momentaneo benessere per gli oltre 100 operai impiegati. Inoltre i prodotti della cartiera di via Cardopiano 44 erano inclusi nei cataloghi di produttori e commercianti d’oltreoceano. Com’è ovvio lo sviluppo in senso capitalistico avrebbe cominciato a piagare il territorio. «Già nel 1955 la cartiera, che appestava l’aria con i miasmi dei suoi scarichi acidi versati nel Busento, attirò le denunce da parte dei sindacati, che nel 1957 segnalavano lo sfruttamento dei circa 200 operai, impegnati per 11 ore al giorno con una paga giornaliera di lire 1.100 da parte del proprietario, Mario Bilotti, consigliere comunale Dc» scriveva lo storico Enzo Stancati in Cosenza nei suoi quartieri (Pellegrini, 2007).

    Operaio muore schiacciato

    Tra l’aprile e il maggio del 1963 si consumò la rottura definitiva tra gli operai e la proprietà. Per più di un mese oltre 200 cartai intrecciarono le braccia e invasero le strade del centro cittadino. Chiedevano l’applicazione più giusti salari, la corresponsione degli stipendi arretrati, condizioni di lavoro più dignitose. E protestavano pure per avere una maggiore attenzione sul problema della sicurezza sul lavoro. Poco dopo quella che fu ricordata come “La lotta più lunga degli annali sindacali” (Gazzetta del Sud), beffarda arrivò la tragedia.

    Gazzetta del Sud_archivio storico_settembre 1964
    Gazzetta del Sud, archivio storico, settembre 1964

    Il 25 settembre del 1964 Antonio “Tonino” Garofalo, operaio venticinquenne di Santo Stefano di Rogliano, finiva schiacciato sotto l’ascensore di un compressore: «Il giovane stava pressando della carta, inavvertitamente però anziché azionare il pulsante per la salita dello ascensore del compressore, ha azionato quello per la discesa con la inevitabile conseguenza di restare investito in pieno».

    Le indagini non portano a nulla

    tonino-garofalo
    Il giovane cartaio Tonino Garofalo, vittima del lavoro

    Le indagini della Squadra Mobile per omicidio colposo non portarono a nulla, se non fosse per una forte mobilitazione popolare in occasione dei funerali. In uno scritto A memoria del concittadino… (2014), Pro Loco e Gruppo consiliare “Insieme per Santo Stefano” ricordano che «gli ingranaggi facenti parte del sistema produttivo della Cartiera Bilotti, sopprimono in pochi istanti la vita di quel giovane, da pochi mesi padre di una bambina, consegnando alle vittime cadute sul lavoro uno dei migliori figli della comunità santostefanese che, avendo conosciuto nell’età giovanile il volto e le sofferenze derivanti dal fenomeno dell’emigrazione in Germania, riteneva il lavoro un momento esaltante per la dignità e la libertà individuale».

    Cartai a Montecitorio

    La cartiera Bilotti chiuse i battenti nel 1972 lasciando un centinaio di lavoratori, da mesi in cassa integrazione, senza lavoro. Pochi mesi prima il “caso cartai” venne portato tra gli scanni di Montecitorio dall’ex fascista e deputato missino per la circoscrizione di Catanzaro-Cosenza-Reggio, Antonino Tripodi. Il politico calabrese si rivolse all’allora ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato, il socialista Mauro Ferri. Chiedendo al ministro come «intende intervenire con l’urgenza e la perentorietà che il caso richiede per evitare che in provincia di Cosenza continuino a ripetersi recessioni produttivistiche con drammatiche conseguenze sull’occupazione operaia».

    antonino-tripodi
    Antonino Tripodi

    In quei mesi aveva decretato lo stop della produzione e l’inizio della dismissione lo stabilimento tessile di Cetraro che occupava 500 dipendenti. Stessa sorte per le metalmeccaniche Cavalli di Rende, mentre anche la Mancuso e Ferro si avviava alla fine della sua gloriosa esistenza. «Non sembra che le autorità locali stiano seriamente agendo per evitare che i dipendenti della cartiera Bilotti perdano, non solo il posto ma anche il presidio di disoccupazione. Se il governo non interviene la già dissestata economia della provincia di Cosenza riceverà un colpo fatale…», tuonò Tripodi.

    Da cartiera Bilotti a discoteca

    Il ministro Ferri portò alla memoria i due grossi finanziamenti ricevuti dalla cartiera per un totale di poco meno di 200milioni di lire tra il 1969 e il 1970 e la promessa di una proroga a 9 mesi dell’intervento della cassa integrazione. Poi nicchiò: «Alcuni settori produttivi risentono com’è noto, da vari anni, di una recessione […] Tra tali settori è compreso il l’edilizio, il cartario e il tessile, cioè quei settori che riguardano le industrie di Cosenza che recentemente hanno interrotto la loro attività». Continuando: «Ovviamente nelle zone nelle quali il processo di industrializzazione è agli inizi, la chiusura delle industrie viene subito maggiormente avvertita ed il governo tiene in conto tale aspetto, intervenendo con tutti i mezzi di cui dispone».

    cartiera-bilotti-storia-cellulosa-finita-in-discoteca-i-calabresi
    A poca distanza dal fiume Busento, dove sorgeva la cartiera Bilotti e poi la discoteca “Soho”

    Divenuta “Cartiera Busento” dopo un piano di ristrutturazione aziendale, la gloriosa fabbrica chiuse definitivamente nel 1976. Una fine tra clamorose perdite, 35 licenziamenti e conti ballerini. Nei capannoni dell’ex cartiera, adibiti a partire dal dicembre del 1997 a discoteca “Soho Music Hall”, molti di noi brindarono al nuovo anno leggeri, psichedelici e sicuramente immemori.

  • Zona economica speciale, il circo della burocrazia che frena sviluppo e innovazione

    Zona economica speciale, il circo della burocrazia che frena sviluppo e innovazione

    Capita frequentemente nel nostro Paese che le riforme si approvino e poi restino per lungo periodo nel cassetto, senza che si riesca per molto tempo a fare alcun passo in avanti. Dalla metà degli anni Ottanta, l’economia meridionale conosce una lunga stagione di arretramento competitivo. Si è spento l’intervento straordinario nel Sud, mentre le imprese pubbliche hanno abbandonato questi territori.

    Zes? Una legge con buone intenzioni

    Il futuro della industrializzazione nel Mezzogiorno doveva essere consegnato alla istituzione delle zone economiche speciali (Zes). Nel 2017 il governo ha emanato un decreto poi convertito in legge dal Parlamento. È cominciato un dibattito surreale sulla attuazione, perché la legge era sostanzialmente un enunciato di buone intenzioni. Ma era sostanzialmente provo di tutti gli elementi che avrebbero garantito la realizzazione di ciò che si predicava. Era stata realizzata la cornice, il quadro era ancora tutto da dipingere.

    Tra qualche mese sarà trascorso un lustro dalla approvazione della legge che ha istituito nelle regioni meridionali le zone economiche speciali, che nel mondo hanno costituito, nei passati decenni, uno dei vettori principali di sviluppo industriale.
    Questo processo è stato reso possibile della definizione di una fiscalità di vantaggio e dalla una semplificazione amministrativa. Tali due leve sono state affiancate, nei paesi in via di sviluppo – il vero laboratorio di questo strumento di politica industriale – da un basso costo del lavoro e da uno smantellamento sostanziale del peso e del ruolo delle organizzazioni sindacali.

    zes-rischia-essere-flop-pure-calabria-i-calabresi
    Il porto di Gioia Tauro

    Parole, soltanto parole

    L’avvio delle Zes è stato invece nel Sud molto lento, secondo la più classica tradizione italiana. Si fanno leggi che poi si affossano nella fase della attuazione. L’importante non è fare, quanto piuttosto fare finta di fare, salvo poi maledire il destino cinico e baro che impedisce il cambiamento.
    Nel mondo, le zone economiche speciali sono circa 5.500: una buona metà è stata in grado di generare uno sviluppo economico sostanziale di quei territori. Nel caso della Calabria e del Mezzogiorno, alla legge istitutiva sono seguiti cinque decreti interministeriali di attuazione. Si tratta di una discussione durata più di due anni se gli incentivi fiscali dovessero essere automatici o meno, se l’autorizzazione per l’insediamento di una azienda nella Zes dovesse essere unica, oppure se era più attrattivo mantenere le trentaquattro autorizzazioni esistenti, aggiungendone una specifica per la Zes.

    Stupisce anzi che nessuno abbia proposto che un imprenditore intenzionato ad insediare una impresa nel Mezzogiorno non dovesse fare prima un salto nel cerchio di fuoco con le gambe legate e gli occhi bendati. Insomma, a volte (per la verità, sempre più volte) l’architettura istituzionale italiana è alla ricerca di un “effetto Gabibbo”, quasi nella ostinata convinzione che serva una risata liberatoria per poter cambiare uno stato insostenibile della realtà.

    Cambia il commissario alla Zes calabrese

    Da un solo mese è stato nominato il nuovo commissario straordinario per la Zes calabrese, il secondo in ordine di nomina. Federico d’Andrea, ex colonnello della Guardia di Finanza, ha preso il posto di Rosanna Nisticò. Nella governance non resta peraltro ancora chiaro se abbia o meno un ruolo il comitato di indirizzo che precedentemente rappresentava la struttura incaricata di gestire e coordinate le azioni della zona economica speciale. Insomma, come spesso capita in Italia, ci si occupa di più degli organigrammi rispetto ai contenuti.

    Ma l’Italia non è un paese in via di sviluppo

    Poco inoltre si è riflettuto su un elemento essenziale, nel considerare l’assetto istituzionale che doveva essere definito nel Mezzogiorno per le zone economiche speciali. Per quanto strano possa sembrare, l’Italia non è un paese in via di sviluppo, quanto piuttosto un paese ad industrializzazione matura. La nostra crisi deriva proprio dalla stagnazione che si è determinata nel vecchio modello di articolazione manifatturiera.

    Anche ad occhio, fotocopiare una legislazione pensata ed attuata, a livello internazionale, per realtà che dovevano incamminarsi su un sentiero di attrazione industriale che partiva dalla assenza di un tessuto e di una esperienza manifatturiera, non poteva essere la via maestra per chi invece aveva l’obiettivo di sperimentare le Zes in un territorio caratterizzato da una economia non solo storicamente radicata nel capitalismo, ma anche testardamente finora incapace di generare un solido sviluppo economico, nonostante le molteplici strade che sono state sperimentate nel corso di tanti decenni.

    zes-rischia-essere-flop-pure-calabria-i-calabresi
    Un piccolo tratto del porto di Tangeri in Marocco

    Zes meridionali poco competitive

    Certo, per tante ragioni di contesto, le regioni meridionali non possono essere attrattive, nel contesto internazionale. Innanzitutto non possono esserlo per il basso costo del lavoro o per un tasso di sindacalizzazione sotto il controllo delle volontà imprenditoriali. E nemmeno si intravedono le condizioni per una radicale sforbiciata delle tasse, così come si è fatto per le Zes maggiormente competitive nel mondo.
    Oltretutto gli strumenti di incentivazione messi in campo dal legislatore italiano, se confrontati con quelli delle altre Zes nel mondo, sono davvero poco attrattivi. Si limitano ad un credito di imposta parziale sugli investimenti e ad una timida operazione di risparmio sulla fiscalità aziendale negli anni iniziali di attività.

    Meno burocrazia, più impresa e università

    Ed allora, quali possono essere le leve sulle quali si può finalmente provare a far decollare le zone economiche speciali in Campania e nel resto del Mezzogiorno?
    Innanzitutto, si dovrebbe promuovere un programma basato sul disboscamento di quella inutile burocrazia ottusa che non solo allontana le decisioni di investimento degli imprenditori, perché spaventa per la sua lentezza, ma spesso è piuttosto diventata la radice della corruzione, essenzialmente per generare corsie preferenziali di velocità rispetto alla palude nella quale restano impigliati gli imprenditori onesti.
    Poi, c’è da far decollare un rapporto strutturato tra industria e ricerca scientifica, tra imprenditori ed Università. Un territorio collocato in un Paese ad industrializzazione matura deve puntare sull’economia della conoscenza, sul valore aggiunto determinato dalla innovazione che genera competitività.

    zes-rischia-essere-flop-pure-calabria-i-calabresi
    L’Università della Calabria

    Mentre ci avviamo a festeggiare un lustro dalla nascita delle Zes, forse qualche riflessione più matura e più consapevole sarebbe il caso di farla. Assistere alle consuete giaculatorie sull’ennesima occasione sprecata sarebbe davvero irritante, a meno di non voler convocare il Gabibbo nella squadra titolare delle istituzioni.
    Non è un traguardo ormai molto ambizioso, considerata la qualità media della classe dirigente negli ultimi decenni, non solo nell’intero Paese ma soprattutto nelle regioni meridionali. Almeno, si potrebbe dire che vedendo il Gabibbo in azione ci si divertirebbe certamente di più.
    Ma invece, in Calabria come nel Mezzogiorno, forse non c’è più tempo per crogiolarsi nella ironia. Sarebbe finalmente l’ora per mettere in campo strumenti e politiche per lo sviluppo e per il miglioramento della competitività.