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  • BOTTEGHE OSCURE| Padroni e schiavi della liquirizia calabrese

    BOTTEGHE OSCURE| Padroni e schiavi della liquirizia calabrese

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    La liquirizia di Calabria è uno di quei prodotti che non temono confronti. Aromatizzata o in purezza, dura al pari dei sassi, gommosa oppure in polvere, la liquirizia calabrese fa oggi sfoggio di sé da New York a Dubai, “regina” di aeroporti e stazioni. La propongono a prezzi anche decuplicati rispetto all’origine. D’altronde è indiscutibilmente “oro nero”. E, in quanto tale, cela una storia grandiosa, avvincente però amara, nonostante le scene accattivanti stampigliate sulle confezioni dal gusto retro.

    La liquirizia dell’abate

    Per la sua capacità di radicarsi selvaggiamente su terreni complicati, ma anche per la mole di quattrini che fruttava ai latifondisti-produttori una volta lavorata, la radice di Glycyrrhiza glabra stava sempre tra le mascelle e nelle cronache dei molti viaggiatori stranieri che attraversarono la Calabria negli ultimi secoli. Probabilmente il “testimonial” più autorevole è l’abate de Saint-Non, che in Voyage pittoresque… s’insinuò insieme a un drappello d’intellettuali francesi nei conci di liquirizia di Corigliano.

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    Vue d’une Fabrique de Reglisse à Corigliano. Incisione dall’opera di Saint-Non, 1786

    Da questa esperienza fatta nel 1778 ricavò un’incisione raffigurante l’interno di un concio, rappresentato come un antro oscuro nel quale bollivano enormi caccavi contenenti radici di liquirizia semilavorate. Tutt’intorno, tra i fumi prodotti dalla bollitura, i lavoratori erano intenti a spaccare la legna, attizzare il fuoco, mescolare, trasportare…

    Come gli schiavi delle Antille

    Ogni concio era un cosmo a sé stante. Impiegava gente addetta alle mansioni più disparate tanto da dare l’idea di un vero e proprio centro abitato: «In ogni concio è un fattore, sedici concari, un capoconcaro, un trinciatore, sei molinari, un falegname, due acquajuoli, un pesatore di legna, un fanciullo marchiatore e sedici impastatrici. Accrescete a costoro i mulattieri che someggiano legna, i contadini che scavano la radice, e già un concio vi darà l’aspetto d’un piccolo paese». È il solito autore de Il Bruzio, Vincenzo Padula, ad accompagnarci in un viaggio alle radici di una “bottega oscura” per davvero.

    Per sei mesi l’anno, da novembre/dicembre fino a maggio, uomini e donne lavoravano duramente giorno e notte, e le paghe variavano in base alla mansione. Mentre il “capoconcaro” poteva superare le 50 lire al mese, i “concari” e i “molinari” non raggiungevano le 30 lire. Una lira al giorno per un lavoro del quale, sempre secondo Padula, «l’inumano governo che se ne fa persuade a chi visita un concio di trovarsi tra gli schiavi negri delle Antille». Alla modesta paga giornaliera si aggiungeva poi il vitto: quattro chili di olio «per lume e condimento» e una mancia di sei chili di «carne porcina al Carnevale».

    Niente mance per le donne

    L’avarizia dei proprietari aveva tolto ai lavoratori i due barili di vino che si concedevano all’apertura del concio e altre mance «a Natale ciascuno uomo toccava mezzo chilogramma di olio ed altrettanto di farina per far frittelle; a Capodanno una ricotta; a Carnevale una libbra di formaggio, e due di maccheroni, ed a Pasqua un chilogramma di carne di agnello».

    Alle donne, neanche a dirlo, toccava la condizione peggiore. Alle impastatrici, ad esempio, non spettava alcuna mancia. Spesso le donne giungevano ai conci insieme ai padri o ai mariti, altre volte erano «avventuriere». I “concari”, infatti, arrivavano da luoghi lontani e trasferivano lì l’intera famiglia, compresi asini, gatti e galline. Era invece “bandito” portare i maiali. Il lavoro delle impastatrici consisteva nel rimescolare con i polsi la pasta di liquirizia bollente su di un tavolo, ungendosi le mani con dell’olio per non scottarsi e cercando di fare arrivare la pasta alla giusta consistenza.

    Il concio è un lutto

    A differenza di altri lavori, nel concio non era permesso ridere e cantare. «Il Concio è un lutto», dichiarava a Padula una giovane impastatrice di Longobucco. Donne e uomini vi vivevano separati, anche se sposati: «Qui le mogli si dividono barbaramente dai mariti, e questi per vederle alla macchia pagano una multa». Trovarsi fuori all’orario di chiusura del concio, infatti, impediva di farvi rientro fino alla mattina dopo, e al rientro si doveva pagare una ammenda. La situazione era quasi inumana e i fattori facevano il bello e il cattivo tempo. Ma in molti, soprattutto tra i braccianti che nella stagione invernale vedevano scarseggiare il proprio lavoro, erano disposti a spostarsi anche di decine di chilometri pur di guadagnare qualcosa.

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    Corigliano, concio di liquirizia dei baroni Compagna. Foto Fb ‘Centro Storico Corigliano’

    Gli abitanti dei Casali di Cosenza, ad esempio, lasciavano i propri luoghi per recarsi a lavorare nei conci, non senza difficoltà. Non si stupiva perciò il letterato di Acri che in molti non vedessero l’ora che arrivasse la bella stagione «per pigliare il mestiere del brigante, o del manutengolo». Anzi, lo stesso Padula invitava i padroni ad avere atteggiamenti più umani: «Proseguite pure, miei bei signori Calabresi, a far così inumano governo della povera gente, e poi gridate, ché ne avete ben d’onte, che vi siano briganti i quali vi sequestrino».

    Non solo Jonio: la liquirizia in Calabria

    Le radici di questa pianta si sviluppavano anche spontaneamente «in terreni pliocenici e quaternari», in particolare sul versante ionico della valle del Crati, del Neto e nel Marchesato fino al fiume Alli. Il circondario di Rossano, con la «vasta pianura volta a tramontana tra Corigliano e Rossano» la faceva da padrona. Ma la pianta era diffusa anche nei territori di Terranova da Sibari, Malvito, Cassano, Spezzano Albanese. Anche in provincia di Reggio Calabria si poteva trovare nei terreni incolti.

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    Concio dei Longo a San Lorenzo del Vallo. Foto pagina Fb ‘La Peschiera’

    Durante l’Ottocento i conci si moltiplicarono e le condizioni di lavoro conobbero un miglioramento. Tra gli stabilimenti più importanti si confermavano quelli di Capo Rizzuto, nei pressi di Crotone, e quelli di Rossano e Corigliano. Fabbriche di pasta di liquirizia a fine secolo si trovavano anche a Castrovillari, Altomonte, Fagnano Castello, Bisignano, Cassano, Cervicati, Cerchiara, San Lorenzo del Vallo, quasi tutte legate allo spirito imprenditoriale delle famiglie facoltose.

    Le fabbriche di liquirizia

    Nel 1894, secondo i dati forniti da Giovanni Sole, nella provincia di Cosenza erano operative 9 fabbriche di liquirizia. Ben tre erano a Corigliano, di proprietà del principe Nicola Gaetani, del barone Francesco Compagna e di Guglielmo Tocci. Mosse da motori a vapori o idraulici, tutte e tre producevano quasi duemila quintali di liquirizia all’anno e impiegavano 193 operai. A Rossano erano presenti le fabbriche di Giuseppe Amarelli, che da sola dava lavoro a 66 operai, di Giuseppe Martucci e di Gennaro Labonia. A Cerchiara era attivo l’opificio del principe Pignatelli, a San Lorenzo del Vallo quello di Giulio Longo e a Rende quello di Tommaso Zagarese.

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    La fabbrica di liquirizia Zagarese a Rende. Foto gruppo “Il Senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza”

    Meritano una menzione le due fabbriche esistenti in provincia di Reggio a metà Ottocento. Una a Gioiosa, del signor Macrì, e una a Stignano, del signor Baracca. Lavoravano la liquirizia che cresceva spontanea nei territori di Bianco, Bovalino e Riace, dove per la raccolta spesso giungevano «vanghieri cosentini».

    Regalìzia

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    Archivio Centrale dello Stato, Roma. Marchio liquirizia Zagarese, 1956

    È interessante notare come la liquirizia calabrese venisse soprattutto esportata, mentre a livello locale la regalìzia, come veniva chiamata in dialetto, era consumata pochissimo, salvo qualche panetto che veniva comprato dai ragazzi come «ghiottoneria» e dagli «infermi per espettorante». All’estero era molto ricercata, invece, in Inghilterra, Germania, Belgio, Austria, Ungheria e perfino in Russia e Olanda.
    Nota dolente restavano i trasporti. Il barone Compagna di Corigliano beneficiava di tariffe ferroviarie speciali per il trasporto del suo “sugo di liquirizia” da Taranto a Napoli. Ciò voleva dire che dai conci di Corigliano il prodotto doveva giungere con altri sistemi fino a Taranto.

    Ancora agli inizi del ‘900, comunque, la coltivazione e lavorazione della liquirizia costituiva in provincia di Cosenza una discreta fonte di reddito. Dai dati di una inchiesta del 1908, ad esempio, si ricava che, lasciando la radice a dimora per più anni, da un ettaro si potevano ricavare tra i 300 e i 500 quintali di radici grezze.

    Liquirizia: dall’oscurità al grande schermo

    Delle diverse fabbriche di liquirizia operanti in Calabria, solo in poche riuscirono a superare le peripezie del secondo dopoguerra. Se la Zagarese di Rende oggi opera col nome di Nature Med, altre piccole aziende lavorano e commercializzano il prodotto. Da alcuni anni le imprese del settore hanno costituito il Consorzio di Tutela della Liquirizia di Calabria Dop.

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    Interno del Museo della Liquirizia Giorgio Amarelli, Rossano

    La regina indiscussa rimane tuttora la secolare Amarelli di Rossano, la cui epopea familiare e imprenditoriale legata alla liquirizia smerciata (e apprezzata) in tutto il mondo è raccontata nel docu-film Radici presentato nei giorni scorsi al Cinema Citrigno di Cosenza: «Un viaggio reale, in automobile con due amici, che poi si è trasformato in un viaggio nel tempo. E a guidarci è stata proprio la liquirizia. Così, seguendo i solchi segnati nel terreno dai rizomi, attraversiamo secoli di storia, di arte, di cultura, nella terra indissolubilmente legata alle dolci radici sotterranee: la Calabria ferox. Radici come rami sotterranei. Radici come origini di una terra sempre da riscoprire» ha dichiarato il registra Fabrizio Bancale.

    La locandina del film-documentario “Radici” di Fabrizio Bancale
  • Lega o Borboni? Col Pnrr serve un meridionalismo responsabile

    Lega o Borboni? Col Pnrr serve un meridionalismo responsabile

    Non è vero che il Parlamento non si occupi del Sud, non discuta della questione meridionale, non vari provvedimenti per le nostre regioni. Parlamento in quanto sede legislativa e di indirizzo per il governo, intendo, richiamando alla memoria mozioni che indicavano e impegnavano negli ultimi decenni l’Esecutivo verso politiche attive nel campo dell’occupazione, delle infrastrutture, del riequilibrio territoriale.

    Il Sud dai partiti di massa al Pnrr

    In molte di esse – spulciando gli archivi – tenere insieme nelle premesse motivi storici, antichi e recenti, condizioni locali e interrelati ai diversi contesti, indicare direzioni lungo le quali legiferare fa trasparire momenti di vera e propria sofferenza, paziente lavorio di mediazione e di equilibrio: malavita organizzata, ritardi strutturali, vocazioni locali, collegamenti, ambiente, energia… da dove partire, quali priorità elencare? Oggi con Il PNNR in fase di gestazione e una ripresa del dibattito sul federalismo asimmetrico è opportuno riprendere le fila di un discorso magari sopito ma sempre attuale.

    sud-ripresa-pnrr-non-basta-anche-italia-deve-fare-sua-parteUn tempo, quando c’erano i grandi partiti di massa, ideologizzati e a respiro nazionale, parlare e decidere per il Paese significava avere una visione unitaria. Comportava un patto di solidarietà e di politiche territoriali fra loro integrate e compatibili. Patto e politiche che avevano per subfondo due capisaldi: Nord produttore e Sud consumatore uno, l’altro era l’assistenza verso il Sud.

    Due corollari

    Mi si passerà lo schematismo anche brutale se si vuole, ma che può essere funzionale, nella sua icasticità, a introdurre una serie di corollari.
    Il primo è quello dei massicci esodi migratori di calabresi, lucani, siciliani… verso il triangolo industriale, per non dire verso il Nord Europa e le Americhe, dove furono parte ineludibile della possente crescita di quei territori.
    Il secondo corollario può sintetizzassi negli interventi mirati verso il Sud, primo fra tutti la Cassa per il Mezzogiorno. Cassa nata con l’esplicita missione di ammodernare le terre del Sud grazie a poderosi interventi di infrastrutturazione di carattere fisico, ma prodromici a insediamenti necessari alla crescita economica e nel contempo necessari a garantire standard di civiltà e modernità.

    Cosa fare del Sud col Pnrr

    Erano tempi in cui il dibattito fra le forze politiche si rifaceva, con Rossi Doria, alla polpa e all’osso, paradigmatici del puntare sull’industria o sull’agricoltura: un dualismo oggi superato da altre bipolarità, ben altre.
    Non può essere questa la sede idonea a tratteggiare i caratteri salienti di quella stagione, forse fin troppo drasticamente liquidata e indubbiamente portatrice di forti elementi di positività poi affogati nel clientelismo, nella spartizione partitica, nella incompletezza di opere al di fuori di un disegno organico che prefigurasse il refrain poi più volte recitato: Che farne, del Sud.

    Nei partiti, nel Pci in particolare, c’era la Commissione Mezzogiorno, struttura sempre guidata da prestigiosi rappresentanti di statura nazionale che fungeva da camera di compensazione e di sintesi, di valutazione, analisi e proposta, sempre e comunque dentro una cornice di respiro e di salvaguardia dell’unità nazionale.
    Con il nascere delle Regioni prima e della Unione Europea poi si assiste a un cambiamento di scenario, accompagnato da quel fenomeno che qualcuno chiosò: fine dell’intervento straordinario e assenza di interventi ordinari.

    Regioni, Lega Nord e nuovi scenari

    Le Regioni invece di configurarsi come elemento di sussidiarietà hanno via via accresciuto vizi di deficit di governo e contrapposizione geopolitica. La UE ha varato misure e risorse per le Aree in ritardo di sviluppo raramente recepite e fatte proprie dagli Stati membri, con i risaputi sprechi, fondi non spesi, occasioni perdute.

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    Matteo Salvini a Cosenza prima delle ultime elezioni regionali (foto Alfonso Bombini)

    Il nascere della Lega Nord, il pietismo e il neoborbonismo del Sud hanno costituito le pietre miliari dell’oggi. Pietre cui le sciagurate modifiche al Titolo V della Costituzione hanno posto il suggello, con le irricevibili proposte di federalismo sghembo buono solo a distruggere il Paese e a ingenerare darwinianamente distorsioni destrutturanti.

    Per un meridionalismo responsabile

    C’è un libro di qualche anno fa, scritto quando tranne Giuseppe Galasso e pochi altri tenevano faticosamente in alto la bandiera di un meridionalismo responsabile, non straccione né intriso di rimpianti rivendicazionisti. L’autore è Emanuele Felice, il titolo Perché il Sud è rimasto indietro. È di circa dieci anni fa e contiene analisi e ragionamenti tuttora non smentiti né smentibili. Affronta di petto la questione delle classi dirigenti. Tutte, non solo quelle politiche. Demolisce con scientificità di metodo qualsiasi tentazione neoborbonica, apre scenari improntati alla responsabilità e alla coesione territoriale.

    Oggi, in tempi di guerra, di Covid e di Pnnr, rispetto al quale ci si azzanna sulla quota del quaranta per cento da assicurare al Sud senza una cornice di riferimento geopolitico e progettuale di un’Europa alla ricerca di sé in un Mediterraneo baricentro di processi di pace e di crescita, potrebbe essere di qualche utilità ritornare a vecchie pagine. Quelle in cui si affermava che l’Italia sarà quello che il Sud sarà, depurandole, sia chiaro, di un’impostazione massicciamente agraria e ponendo il Sud, la Calabria, sul versante del terziario, meglio del terziario avanzato.

    Massimo Veltri
    Ex senatore della Repubblica e professore ordinario all’Unical

  • Umberto De Rose, il volto grigio del potere

    Umberto De Rose, il volto grigio del potere

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    Oggi è difficile dire che fine farà Umberto De Rose, il tipografo passato alla storia per la vicenda del Cinghiale.
    Non ha più giornali da stampare, anche perché l’informazione su carta stampata è morta. Inoltre, gli equilibri di potere del vecchio centrodestra, che ne avevano propiziato l’ascesa, non esistono più.

    Un colore esprime la sua parabola: il grigio. È il colore dei notabili di seconda fila, che fanno carriera a prescindere dalla loro modestia e grazie alle cordate di cui fanno parte.
    Ogni cosa ha un prezzo e De Rose, con le gaffe per conto terzi e le rogne giudiziarie, ha pagato il suo.

    Il tabloid come destino

    «De Rose non è un editore ma stampa il giornale che leggi», recitava un paginone autocelebrativo apparso più volte fino al 2010 su tutti i giornali usciti dalle sue rotative e poi ripetuto da mega manifesti affissi nelle zone principali della regione.
    Umberto De Rose ha stampato praticamente tutti i giornali della Calabria tranne due: La Gazzetta del Sud e Il domani della Calabria. E tutti i giornali stampati da lui avevano una caratteristica: il formato tabloid, che, come sanno gli addetti ai lavori, era il formato tipico dei giornali scandalistici, a partire dal Sun.

    Nel caso di De Rose questo formato era obbligato perché il suo stabilimento di Montalto Uffugo non era attrezzato per produrre il “lenzuolo”, cioè lo standard dei giornali “seri”.
    La famiglia Dodaro si è sottratta al monopolio di De Rose e, dal 2004, ha stampato Il Quotidiano della Calabria (poi del Sud), con mezzi propri. Tutti gli altri, invece, hanno avuto a che fare con lui. E sono falliti tutti, uno dopo l’altro.

    La strage di carta

    Delle due l’una: o Umberto De Rose è cattivo oppure porta sfiga. Probabilmente nessuna delle due: è solo un tipografo che ha continuato a stampare, a caro prezzo, nel momento storico in cui i nuovi media minacciavano l’informazione cartacea, già declinata da un pezzo.
    Fatto sta che tutti i giornali stampati da lui hanno chiuso grazie ai debiti vantati dal tipografo.

    Un’eccezione vistosa al diritto fallimentare, secondo il quale i crediti dei lavoratori dovrebbero precedere quelli dei fornitori. In Calabria non è così: le maestranze dell’editoria periodica, numerose e malpagate, sono venute dopo le esigenze di una stamperia che, secondo i canoni industriali, è un’azienda di medie dimensioni. Ciononostante, De Rose, è diventato prima presidente regionale di Confindustria poi di Fincalabra.

    Umberto De Rose e il Cinghiale

    Umberto De Rose non è stato condannato, ma il suo numero telefonico notturno con Alfredo Citrigno resta un esempio di trash da manuale.
    A partire dal linguaggio colorito, per finire con le argomentazioni, in apparenza minacciose. E poi la perla di comicità involontaria e amara: il nomignolo appiccicato quasi per caso a Tonino Gentile (e per estensione a tutta la famiglia): il Cinghiale.
    In realtà, De Rose usava la metafora del cinghiale («’u cinghiale quann’è feritu mina ad ammazza’»), ogni tre per due.

    Sul punto possiamo essere garantisti, anche più dei magistrati che hanno assolto lo stampatore dall’accusa di violenza privata nei confronti di Citrigno jr, all’epoca editore de L’Ora della Calabria. Le sue metafore, in apparenza sinistre, le sue esortazioni tamarre («L’ha cacciata ’sta cazz’i notizia?») erano un’espressione genuina di antropologia calabrese del potere.
    De Rose, amico della famiglia Citrigno, ma anche dei Gentile, è un uomo a cavallo di più ambienti e mondi. Vive dei loro equilibri e cerca di mantenerli, perché ne teme i contraccolpi.

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    Andrea Gentile, figlio di Tonino e deputato di Forza Italia

    In principio fu la Provincia

    Nel resto d’Italia, la carta stampata perde colpi dall’inizio del millennio, quando l’informazione inizia a spostarsi sulla rete. In Calabria, escono giornali su giornali, che si contendono circa 40mila lettori.
    Ma i giornali significano potere e comunicazione per i notabili. E per De Rose che, stampandoli, mette a disposizione delle piattaforme.
    È il caso della Provincia Cosentina, fondata da Piero Citrigno nel ’99, poi ceduta al costruttore Rolando Manna a inizio millennio, infine collassata nel 2008 tra le mani di una società di giornalisti. Il colpo finale è stato il grosso debito col tipografo.

    Piero Citrigno

    Calabria Ora e figli

    Storia simile per Calabria Ora, fondata sempre da Citrigno assieme all’imprenditore Fausto Aquino. Questo giornale, se possibile ha avuto una storia più travagliata: cinque direttori in otto anni di vita, due cambi di società e una tragedia (il suicidio di Alessandro Bozzo). Infine lo scandalo delle rotative bloccate per non far uscire la “cazz’i notizia”, relativa alla presunta inchiesta su Andrea Gentile, figlio del senatore Tonino.

    Alla fine della giostra, Citrigno è rimasto col cerino in mano: una condanna per bancarotta fraudolenta e una per violenza privata. Alla maggior parte dei giornalisti, rimasti a spasso, sono rimaste le vertenze e le querele. Il motivo della chiusura? Gli 800mila euro di debiti nei confronti di De Rose.

    Morto un giornale se ne stampano altri due

    A questo punto, lo stampatore dovrebbe essere fuori gioco. Invece no: dalle ceneri de L’Ora della Calabria nascono Il Garantista e La Provincia di Cosenza.
    Il primo, fondato da Piero Sansonetti, ex direttore dell’Ora, dura 18 mesi, grazie anche ai contributi statali per l’editoria. Inizialmente non è un tabloid perché è stampato fuori regione da un tipografo meno caro ma più preciso. Poi arriva la crisi e finisce nelle rotative di Umberto De Rose. Il quale mette benzina: circa 300mila euro che servono a pagare la previdenza. Ma si rifà alla grande: ne incassa 500mila, tolti dal finanziamento pubblico. Poi il giornale chiude e ai giornalisti restano solo gli ammortizzatori.

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    Piero Sansonetti

    Peggio ancora per La Provincia di Cosenza, fondata da un gruppo di ex redattori dell’Ora e poi passata di mano in mano e da una redazione all’altra. Fino alla chiusura, in cui hanno avuto un ruolo principale i crediti di De Rose.
    Non finisce qui: nel frattempo (2016) dalle ceneri de Il Garantista nasce Cronache di Calabria, affidato a una vecchia gloria come Paolo Guzzanti. Inutile dire che il destino è il medesimo. I tramiti di queste iniziative sono due pubblicitari, Francesco Armentano e Ivan Greco, già sodali di Citrigno e uomini di fiducia di De Rose. A loro si deve il paradosso curioso per cui, mentre altrove i giornali, anche gloriosi, chiudono i battenti in Calabria le rotative continuano a girare alla grande.

    Umberto De Rose e Fincalabra

    Durante l’era Scopelliti, Umberto De Rose raggiunge il massimo e porta all’incasso l’impegno politico del decennio precedente, nel quale si era candidato a sindaco in quota Forza Italia (quindi Gentile) contro Eva Catizone.
    Con lo scandalo di Calabria Ora (se preferite, Oragate, o Il Cinghiale) arriva la prima gomitata seria all’immagine pubblica del Nostro. In questa vicenda c’è chi, con una certa malignità, fa brutti paragoni in famiglia. Cioè tra Umberto e suo papà Tanino, tra l’altro notabile di prima grandezza della massoneria cosentina, considerato un galantuomo vecchia maniera.
    Ma questi sono dettagli rispetto ad altre faccende, decisamente più serie.

    Una di queste è il processo per le consulenze in Fincalabra. Al riguardo, riemerge il cognome dei Gentile, associato ad Andrea e sua sorella Lory. Per i contratti di collaborazione a favore dei due, De Rose finisce nel mirino della Corte dei Conti e della magistratura penale. Mentre la posizione di Andrea viene stralciata quasi subito, Lo stampatore passa i guai per il contratto di Lory e di altre due persone: il Tribunale di Catanzaro gli infligge un anno e otto mesi nel 2017. La Corte d’Appello azzera la condanna due anni dopo.
    Resta a suo carico la responsabilità contabile per danno erariale, stabilita dalla Corte dei Conti.

    Fine della storia?

    Il grigio è definitivamente stinto nelle carte bollate e nei debiti (altrui). E la parabola di De Rose è in calo. Già, lui non è mai stato un editore. E in compenso non stampa più, perché nessuno legge quasi più i vecchi giornali.
    Tutti gli imperi si logorano e i castelli crollano. Ma quelli di carta lo fanno per primi.

  • Bassolino: «Il Nord ha bisogno di un Sud molto più forte»

    Bassolino: «Il Nord ha bisogno di un Sud molto più forte»

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    Oggi è consigliere comunale di Napoli, ma Antonio Bassolino ne è stato sindaco per due mandati consecutivi. Deputato alla Camera per due legislature nel gruppo PCI-PDS, poi ministro del Lavoro e della Previdenza sociale nel primo governo D’Alema, presidente della Regione Campania per due mandati di fila. Già esponente del PCI, del PDS e dei DS, è stato tra i fondatori del Partito Democratico, che ha in seguito abbandonato nel 2017.

    Viviamo tempi drammatici. Da due mesi, nel cuore dell’Europa è tornata la guerra, con l’aggressione della Russia all’Ucraina. Cosa cambierà questo terribile conflitto nelle relazioni internazionali e nelle nostre vite?

    «L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è un fatto molto grave. Bisogna sempre usare un linguaggio di verità: siamo di fronte all’aggressione di un paese libero e sovrano da parte di un altro. Bisogna fare ogni sforzo perché si ponga fine al conflitto armato e si affermi la strada del negoziato e della pace. Più forte deve dunque essere il ruolo dell’Europa che proprio in questa tempesta ha di fronte a se stessa il compito di ripensare e rilanciare il suo ruolo e di cominciare finalmente a dare vita ad una propria e comune politica estera e di difesa».

    Palazzi devastati a Kharkiv

    Con la pandemia l’Europa ha impresso un passo di accelerazione, con la decisione di varare un programma di rilancio con risorse comuni, anche indebitandosi sul mercato finanziario. Stiamo cogliendo questa opportunità, come europei, come italiani e come meridionali?

    «Sulla pandemia l’Europa è riuscita ad andare oltre le politiche di austerità degli anni scorsi e a varare impegnativi programmi di investimenti sul terreno dello sviluppo e nel campo sociale. È un passo in avanti, ed ognuno deve fare la sua parte. Per un paese come il nostro, in particolare per il Mezzogiorno, è una grande opportunità. La sfida è tutta aperta ed è in corso. Dalla capacità delle istituzioni, delle forze politiche e sociali di saperne essere all’altezza dipende in gran parte il futuro del nostro paese».

    Ma il PNRR riesce a cogliere e ad esprimere tutte le esigenze di trasformazione che sono necessarie per il rilancio delle regioni meridionali?

    «È necessario considerare il PNRR assieme alle altre risorse europee e alle nostre scelte nazionali. Questo vale soprattutto per il nostro Sud. Saper utilizzare tutte le risorse disponibili è fondamentale anche per creare un ambiente favorevole all’attrazione e all’impegno di capitali imprenditoriali privati. Sono dunque indispensabili una piena collaborazione tra tutte le istituzioni nazionali, regionali e comunali e, aggiungo, un clima che consenta la nascita di un patto sociale e per lo sviluppo con le forze produttive e sindacali».

     

    Nella politica nazionale si sta manifestando quella maturità necessaria per comprendere che senza la ripresa del Mezzogiorno non potrà ripartire l’economia del nostro Paese?

    «Soltanto in parte, ed invece è proprio questa la questione fondamentale. È nel Mezzogiorno la principale chiave di volta per consentire a tutto il paese di fare il salto necessario valorizzando tante potenzialità ancora inespresse. È nel Nord che deve davvero e fino in fondo maturare questa convinzione: mai come ora è nei prossimi anni il destino del paese è legato da un filo unitario. Spetta poi a noi meridionali far crescere questa consapevolezza con l’esempio di buone pratiche istituzionali ed amministrative e stare attenti a non far diffondere illusioni sudiste perché noi abbiamo di sogno di un Nord forte così come il Nord ha bisogno di un Sud molto più forte di quello di oggi».

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    Sono passati tre quarti di secolo dalla nascita della Cassa per il Mezzogiorno. Quanto hanno pesato nei decenni recenti la fine dell’intervento straordinario nel Sud e l’arretramento della industria pubblica nel ripiegamento delle regioni meridionali?

    «La Cassa per il Mezzogiorno ha avuto fasi diverse. All’inizio – e per tutto un periodo – è stata una scelta significativa, il tentativo di portare anche in Italia il meglio delle teorie e delle esperienze anglosassoni in materia di paesi in via di sviluppo.
    Fu così che si realizzarono interventi di rilievo nelle campagne e in molte città meridionali. E fu così che via via si affermava anche una industria pubblica. Poi però da fattore positivo la Cassa è andata via via cambiando negativamente nella sua funzione fino alla sua crisi e alla sua scomparsa.
    Resta oggi il tema di un necessario coordinamento tra il livello nazionale delle politiche per il Mezzogiorno e le istituzioni meridionali per superare il doppio rischio del centralismo e del localismo».

    Nel Mezzogiorno, ma ormai nell’intero Paese e nel mondo, si sono radicate le forze della criminalità organizzata, che hanno impresso il marchio del proprio potere economico e sociale nei nostri territori. Come possiamo tornare a combattere con decisione le forze criminali che condizionano ed inquinano anche la politica nei territori?

    «La mafia, la ‘ndrangheta e la camorra sono il nostro principale nemico, un nemico interno, che vive in mezzo a noi. Queste potenze criminali vivono dentro l’economia e la società e cercano sempre di penetrare nella vita delle istituzioni e dello Stato. È dunque su tutti i terreni che dobbiamo condurre questa battaglia: su quello politico-istituzionale e su quello culturale e civile. Una grande prova viene oggi dal PNRR e dagli altri finanziamenti: impedire alla mafia e alla camorra di metterci sopra le mani è determinante per costruire un nuovo futuro per le nostre terre».

    Quanto pesa nel malfunzionamento delle istituzioni un federalismo sbilenco che ha indebolito il governo centrale senza rafforzare quelli territoriali? Come si esce da questa frammentazione? Quanto può danneggiare il Mezzogiorno questa architettura istituzionale?

    «Durante la pandemia si è prodotto uno sbilanciamento nei rapporti tra le istituzioni: il governo nazionale e i comuni hanno deciso di non utilizzare pienamente i loro poteri e le Regioni hanno visto accrescere le loro responsabilità e funzioni.
    Si è trattato in gran parte di scelte che si sono rese necessarie per contrastare la diffusione e la pericolosità del Covid. Ora è tempo di ripristinare giusti rapporti tra le principali istituzioni (governo, regioni, comuni) e di puntare soprattutto sulla doverosa sinergia tra i poteri della Repubblica».

  • Mongrassano e Gioia Tauro, al Sud si ghiaccia

    Mongrassano e Gioia Tauro, al Sud si ghiaccia

    Il regno del frozen food è in Calabria. È da Gioia Tauro che partono i prodotti surgelati e coltivati in campo aperto in centinaia di ettari di valli orticole nella Sibaritide, nel Crotonese, lungo la fascia tirrenica. Rape, broccoli, patate silane, asparagi, cipolle di Tropea, melanzane. Destinazione Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone.

    La sede della Gias a Mongrassano Scalo

    L’azienda calabrese di casa in Texas

    La Gias spa, industria leader di alimenti surgelati, ha mezzo secolo di vita, dialoga da sempre con le multinazionali ed è di casa in Texas. È tra le aziende selezionate dalla Whole Foods di Austin, società nel pacchetto d’oro Amazon, che gestisce cinquecento supermercati americani e tratta prodotti biologici per il suo takeaway.

    Nella storica sede di Mongrassano Scalo, a pochi chilometri da Cosenza, la major meridionale del freddo sta vivendo l’epoca della pandemia e l’eco disastrosa della guerra in Ucraina con molta preoccupazione ma con nuovi progetti, ben salda alla sua vocazione: piatti pronti con ortaggi e verdure di qualità, coltivazioni in ambienti salubri e rispetto per la natura.

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    La sede della Gias è a Mongrassano Scalo ma il cuore e la mente sono nella Sibaritide

    Di padre in figlia

    Gloria Tenuta, presidente e amministratore delegato, ha chiuso i conti del 2021 con una crescita del 6 per cento e un fatturato che si attesta sui 52 milioni di euro. La Gias è stata fondata da suo padre Antonio, scomparso nel 2005, dal quale ha ereditato una visione del futuro collegata con il mondo e con le radici salde nel proprio territorio. Dei quattro figli di Antonio, è stata l’unica a portare avanti l’industria. Di progetti sul porto di Gioia Tauro sente parlare da quando era piccola.

    L’hub di Occhiuto a Gioia Tauro si farà?

    Il governatore Roberto Occhiuto prospetta un hub più attrezzato per l’export, dotato di una piastra del freddo. L’importante snodo del traffico container del bacino del Mediterraneo è stato protagonista anche in occasione della recente Expo di Dubai ed è al centro della politica di sviluppo per la sfida energetica del progetto rigassificatore.
    Gloria Tenuta guarda con interesse alla possibilità di una piastra del freddo, sperando «che questa sia finalmente la volta buona».

    Il porto di Gioia Tauro

    «Sono tante le aziende che potrebbero usufruirne – dice, – non necessariamente soltanto chi produce surgelati». È un’opportunità anche per chi «impiega materie prime per le quali sono necessari stoccaggi sotto zero e inoltre – aggiunge, – può essere utile a tante aziende non calabresi».
    Il fatto è che non basta la piastra del freddo a Gioia Tauro per rafforzare l’export. Il trasporto via mare ha un problema fondamentale: non si trovano navi. «È molto difficile reperirle e il prezzo dei noli in questo momento è quadruplicato. Gli aumenti inevitabilmente incidono sul mercato e sui costi produttivi».

    Cavaliere del lavoro, due figli, Gloria Tenuta, 62 anni, è innamorata della Calabria, soprattutto della Piana di Sibari, dove è nata e vive tuttora. Dipinge nei momenti che sottrae al lavoro, alla famiglia e alla sua passione per il mare.
    La storia dell’azienda di famiglia è stata un’avventura. «Le nostre origini sono legate ai prodotti finiti della Findus. Nei primi dieci anni di attività avevamo soltanto la conservazione, quando mio padre brevettò la pelatura del pomodoro a freddo, da azienda di servizi ci siamo trasformati in realtà industriale».
    Antonio Tenuta intuì che quintali di pomodori destinati al macero potevano diventare un business. Era il 1977 e il brevetto del peeling del pomodoro congelato spopolò negli Stati Uniti e conquistò anche paesi come l’Israele e il Sudan.

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    L’origine della Gias è legata ai prodotti finiti della Findus

    Quatto salti in Calabria

    Dagli Anni ’80 e negli anni del sodalizio con la Findus Unilever, la Gias è entrata in tutte le casi degli italiani. I must dell’epoca erano i “Quattro salti in padella” e le “Zuppe del casale”. Molti calabresi riempivano i carrelli di surgelati salva pranzo, ignorando che avrebbero mangiato melanzane, cavoli, broccoletti coltivati a pochi chilometri da casa.
    «Preferiamo le materie prime del sud, non soltanto per i minori costi di trasporto, ma perché la nostra vocazione è quella di lavorare ciò che il territorio offre, e offre tanto. Produciamo 27mila tonnellate di prodotto all’anno e ne vendiamo 20mila. Abbiamo i nostri campi e le imprese referenti sul territorio, in Calabria, in Puglia, in Basilicata».

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    L’Ad Gloria Tenuta (al centro) con una parte dei dipendenti della Gias

    Quattrocento lavoratori d’estate e 150 dipendenti fissi

    «Nel picco estivo per la nostra azienda lavorano 400 persone, il resto dell’anno sono 150 i dipendenti. In mezzo secolo di attività – racconta la manager industriale, – abbiamo fatto tanti investimenti nel corso del tempo, abbiamo vissuto tanti momenti di crescita e tanti periodi difficili, come l’inflazione degli anni ’90, con la chiusura dei mercati e una crisi che ha investito l’industria con effetti dannosi». I Novanta peggio della scivolata dei mercati finanziari nel 2018, annus horribilis per i bond, il petrolio, l’oro.

    Eppure è negli Anni ’90 che Antonio Tenuta diversifica la produzione e sigla nuove alleanze con grosse catene dell’agroalimentare. Accanto al settore industria, nascono il catering e il retail con “Il Mediterraneo a tavola” e altri marchi.
    In questa epoca di crisi a Mongrassano è nata una newco. C’è aria di rinnovamento con l’ingresso di IdeA agro (gruppo De Agostini) e Cleon Capital. due società virtuose al loro primo investimento in Calabria. L’ingresso dei soci spinge a guardare verso i nuovi mercati, soprattutto verso la Cina.

    Lavorazione delle melanzane nello stabilimento della Gias a Mongrassano

    Alla conquista dei mercati asiatici

    «Con i nuovi partner condividiamo un progetto ambizioso che prevede l’ampliamento delle linee produttive di miscelazione, dai grigliati ai piatti pronti, l’incremento tecnologico con la meccanizzazione delle celle di stoccaggio e la conquista di nuovi spazi nei mercati esteri, negli Stati Uniti, dove siamo già presenti, e in quelli asiatici, dove lo siamo di meno».
    Lo sguardo della Gias non punta al vicino est, tantomeno alla Russia. «Non è mai stato un nostro mercato. È rimasta a un consumo di surgelati basici e attinge da paesi che non offrono prodotti particolari. In più c’è sempre stata la difficoltà di capire in maniera trasparente le loro regole».

    Se il bilancio del 2021 si è chiuso in crescita, il prossimo, 2022, resta un’incognita. Gli aumenti in bolletta sfiorano il 150 per cento.
    L’azienda calabrese ha un impianto di trigenerazione ed è classificata energivora.
    «Spendiamo già due milioni all’anno, ci aspettiamo minimo un raddoppio. Le nostre attese erano ben diverse dopo il periodo difficile del Covid; invece ci ritroviamo a fronteggiare nuovi e gravi problemi».

    Europa salutista, Usa ipercalorici. E i cinesi?

    Aumenti, speculazioni sulla crisi, navi che non si trovano, reti ferroviarie e autostradali storicamente inadeguate. I progetti di crescita devono fare i conti con questo elenco nero.
    Nel dialogo con la regione, le aziende chiedono sostegno e impegno per ottenere una moratoria Covid. «Bisognerebbe estendere gli aiuti, direttamente in bolletta, per i produttori ma anche per le famiglie. Se stanno soffrendo anche le aziende solide come la nostra, è necessario fare qualcosa».
    Adesso la priorità è organizzare il mercato asiatico. In Europa la tendenza è salutista, e vanno alla grande le vellutate, le verdure e i cereali, in America la richiesta è varia, dal vegano ai primi piatti iper calorici. Bisognerà capire cosa mangiano i cinesi.

  • L’Unical, Rende e la decrescita infelice di Cosenza

    L’Unical, Rende e la decrescita infelice di Cosenza

    La cittadinanza onoraria di Rende all’architetto Empio Malara ha fatto andare su tutte le furie Sandro Principe. Dal canto suo l’urbanista che ha dato il volto alla città d’oltre Campagnano dell’era Cecchino Principe, ha risposto per le rime. La polemica ha avuto almeno il merito di riportare all’attenzione il dibattito sulla città unica tra Cosenza e Rende e gli altri, Unical compresa.

    Cosenza ormai caduta in basso da molti anni: perde abitanti ed è meno vivibile. Una decrescita infelice a tutto vantaggio di Rende. Lo stato delle cose della città di Telesio è raccontato in un video dall’architetto Pino Scaglione, che insegna Progettazione urbana all’Università di Trento. Un quadro senza sconti: Cosenza sempre più in basso, l’Unical che di fatto si disinteressa della questione dell’area urbana e Rende che gongola. Ma fino a quando?

     

     

     

  • Stretto di Messina: traghetti troppo cari, maxi multa per Caronte & Tourist

    Stretto di Messina: traghetti troppo cari, maxi multa per Caronte & Tourist

    Caronte & Tourist, la società che gestisce i traghetti sullo Stretto di Messina, dovrà sborsare quasi 4 milioni di euro di multa. A deciderlo è stata l’Antitrust, che ha irrogato una sanzione di oltre 3,7 milioni di euro.

    Tutto nasce dalla posizione di assoluta dominanza che Caronte&Tourist ha sul traghettamento passeggeri con auto al seguito. La società, secondo l’Autorità che regola la concorrenza sul mercato, la ha sfruttata a danno dei consumatori, applicando prezzi troppo elevati senza alcuna giustificazione.

    Traghetti sullo Stretto, i motivi della multa a Caronte

    Il calcolo sull’eccessiva onerosità delle tariffe è il frutto di un test in due fasi. Il risultato dell’analisi dell’Antitrust sui costi imposti da Caronte & Tourist per i traghetti sullo Strettoè la maxi multa. Le tariffe applicate ai passeggeri con autoveicolo che attraversano lo Stretto risultano sproporzionate rispetto ai costi sostenuti, ergo eccessive.

    Non solo: la sproporzione è irragionevole rispetto al valore del servizio reso, quindi iniqua. Ora Caronte & Tourist dovrà restituire “il maltolto” – anche se non direttamente agli utenti danneggiati – pagando una multa milionaria.

  • Energia gratis contro il caro bollette? La Calabria ci prova

    Energia gratis contro il caro bollette? La Calabria ci prova

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    «Arrivare secondo inizia già a darmi fastidio, voglio arrivare primo nelle cose che faccio». Ha fretta Giuseppe Condello, sindaco di San Nicola da Crissa (VV). Il suo piccolo paese, “balcone delle Calabrie” alle pendici del Monte Cucco, è uno dei primi comuni nella regione che porterà a regime in tempi brevi una comunità energetica rinnovabile solidale, nel quartiere delle case popolari di Critaro.

    Qui le procedure amministrative sono state completate. L’istituzione della Comunità risale allo scorso 19 gennaio: nel giro di un mese, secondo i piani della giunta comunale, si procederà all’installazione degli impianti fotovoltaici. Le famiglie coinvolte sono 32. «Prima di Pasqua potremmo installare l’impianto, e ci vorranno 15 giorni. Contiamo di renderlo operativo entro maggio», ci spiega Illuminato Bonsignore, amministratore unico della 3E Environment Energy Economy s.r.l e sviluppatore della Comunità.

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    Un panorama di San Nicola da Crissa

    L’operazione vuole regalare ai cittadini energia pulita, il controllo dei propri consumi e bollette più basse. Stando ai dati del Comune, i beneficiari possono risparmiare tra i 250 ed i 300 euro all’anno. Tutto questo senza spese di installazione, grazie al finanziamento della BCC del vibonese. L’ambizione è quella di estendere la Comunità a tutti i 1000 abitanti del centro entro la fine dell’anno.

    Insieme ad altri Comuni, San Nicola da Crissa punta a diventare uno dei modelli per la transizione ecologica, specialmente nei piccoli comuni. E le Comunità Energetiche Rinnovabili (CER) saranno un pezzo molto importante di questa trasformazione.
    Si tratta di gruppi di soggetti, sia pubblici che privati, che decidono di produrre insieme energia elettrica tramite fonti rinnovabili da utilizzare per l’autoconsumo.

    I benefici delle Comunità energetiche

    Partiamo da una delle questione più sentite degli ultimi tempi, quella del peso in bolletta. I membri di una CER in funzione posso ottenere tre tipi di introiti. Il primo è il Ritiro Dedicato, cioè quello che si ottiene dalla semplice vendita dell’energia prodotta dagli impianti. Il secondo è l’incentivo sull’energia consumata nel momento della produzione, pari a 110 euro al MWh.

    È una questione di equilibrio: «Se produco 100 e riprendo 100, il bilancio non perturba il sistema», ci spiega Daniele Menniti, ordinario del dipartimento di Ingegneria Meccanica, Energetica e Gestionale dell’Unical.
    In questo caso, hanno un ruolo decisivo le tecnologie di monitoraggio in tempo reale dell’energia, così come i sistemi di accumulo, che permettono di conservare l’energia in eccesso ed ottenere l’incentivo durante le ore serali.

    Il terzo contributo è di circa 8 euro a MWh, che lo Stato restituisce perché gli utenti utilizzano meno la rete. Come funziona? I membri della CER continuano ad essere legati ai loro vecchi fornitori. Questi aggiungono in fattura i costi di trasporto dell’energia: lo Stato, però, sa che è stata autoprodotta, quindi restituisce i soldi ai beneficiari, per il tramite del Gestore dei Servizi Energetici (GSE).
    Non dimentichiamo, inoltre, che si tratta soprattutto di una lotta contro le emissioni. Le CER, secondo i dati di Legambiente ed Elemens, possono contribuire in Italia per il 30% degli obiettivi climatici per il 2030.

    Come si costituiscono

    Nel concreto, però, come si attiva una Comunità Energetica? A livello normativo, siamo in una specie di limbo: si possono fare, ma non si sa con che parametri potranno essere costituite in futuro.
    Le CER, infatti, sono state introdotte in Italia con l’art. 42 bis del Decreto Milleproroghe del 2019, con una serie di limiti restrittivi che dovevano essere superati con il Dlgs 199/2021, documento che recepisce in maniera completa la direttiva europea intitolata RED II.
    Il problema, però, è che ancora non sono stati stilati i decreti attuativi. Per ora, rimangono alcuni vincoli significativi, come la vicinanza fisica alla cabina secondaria o il limite di potenza degli impianti (attualmente di 200 KW).

    In attesa delle novità, e nonostante la mancanza di un piano energetico regionale, si può comunque creare una Comunità. Il primo passo è l’individuazione delle cabine secondarie, così da delimitarne il perimetro. «Con la normativa attuale possono far parte solo di una CER le persone il cui contatore è collegato a questa cabina», ci spiega Illuminato Bonsignore, che con la sua azienda ha reso possibile la creazione della Comunità di San Nicola Da Crissa. Nel paese, ad esempio, si è scelto di costruire l’impianto fotovoltaico sopra il tetto di una scuola, che era allacciata alla stessa rete del quartiere di Citrato.
    Delineato il perimetro, si può iniziare la ricerca dei membri della comunità, che dovranno fornire i dati dei consumi diurni. La parte più complicata, inevitabilmente, è l’installazione degli impianti. Sia per la lentezza della macchina burocratica, sia per la ricerca dei finanziatori.

    Il PNRR e il piano della Regione

    Il PNRR mette a disposizione 1,6 miliardi per i progetti di condivisione dell’energia nei comuni sotto i 5.000 abitanti: «Sebbene appaiono tanti, sono semplicemente il 10% di quanto ha speso il governo per tentare di combattere il caro bollette, senza neanche riuscirci», riprende Menniti. Se la Regione vuole finanziare i centri più grandi, invece, dovrà usare le sue risorse, come in parte già previsto dal nuovo POR 2021-2027.
    Una volta presentato il progetto e installate le tecnologie necessarie, la Comunità può entrare a regime.

    Le CER garantiscono dei vantaggi economici, ambientali e sociali, dando però una serie di responsabilità all’utente/gestore. «Non basta mettersi insieme, firmando un pezzo di carta. Dobbiamo far si che l’energia condivisa sia la massima possibile, ed essere capaci di consumarla nel momento in cui viene prodotta» ci ricorda Menniti.
    Nonostante l’enfasi da parte della politica, il professore chiede prudenza: «Bisogna stare attenti perché le comunità energetiche non sono la panacea di tutti i mali. Sono comunque un contributo importante, un primo passo verso la democratizzazione dell’energia» e la fine della dipendenza da fonti straniere.

    Di investimenti sulle comunità energetiche ha parlato anche di recente l’assessore regionale Rosario Varì. L’intenzione è di «sostenere i comuni che hanno più di cinquemila abitanti. Nell’ambito del Pnrr abbiamo soltanto per il supporto alle comunità energetiche 121 milioni di euro, la Regione Calabria ne ha stanziati circa 42 per il primo supporto e circa 41 per tutta la tecnologia a supporto», il suo annuncio. Seguito da quello di Roberto Occhiuto secondo cui la prima comunità energetica sorgerà proprio nella Cittadella: «Ho chiesto all’assessore che se ne facciano anche nei nostri aereoporti perché hanno bisogno di energia».

    Andamento lento

    La priorità delle varie amministrazioni deve essere l’installazione delle tecnologie rinnovabili, specialmente i pannelli fotovoltaici. Secondo il report di Legambiente Comunità rinnovabili: quale energia per una Calabria proiettata nel futuro?, la crescita degli impianti è stata costante, ma molto lenta: al momento, il tasso annuale di costruzione degli impianti è inferiore all’1%. Una lentezza che si accompagna a quella dell’intera nazione. Secondo il dossier Scacco alle Rinnovabili, per rispettare gli impegni internazionali presi, l’Italia dovrebbe installare almeno 6 GW di potenza da fonti rinnovabili ogni anno. Al 2021, non arriviamo a 1,8 GW.

    «È come se io dovessi regolare il traffico in un centro città, avendo le strade, le autovetture e tutto il resto. Allora mi pongo il problema di creare meno caos», spiega Menniti con un esempio. «Qui non siamo a questo punto. Qui ancora abbiamo installato i pannelli fotovoltaici giusto su qualche tetto, Non abbiamo esaurito la risorsa minimale, la più scontata, che non richiede di pianificare nulla».

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    Una centrale idroelettrica

    Infatti, su 10.438 GWh di energia elettrica prodotta in Regione, il fotovoltaico contribuisce solo con 681 GWh. In generale, il 36% dei consumi non sono prodotti da fonti rinnovabili, secondo i dati messi a disposizione dall’Unical. A farla la padrona sono ancora le fonti termoelettriche tradizionali, che sfruttano il gas: producono 13.000 GWh, 13 volte in più dell’idroelettrico.
    E se è vero che la nostra Regione genera un grosso surplus di energia elettrica rispetto a quella che consumiamo (+180%), bisogna ricordare che questo proviene dall’utilizzo del gas, una risorsa che prendiamo dall’estero, che inquina e sulla quale non abbiamo il controllo. Senza dimenticare che «il 90% per cento dei Comuni che hanno impianti a fonti rinnovabili hanno impianti che non funzionano perché non fanno la manutenzione».

    Le altre comunità energetiche

    San Nicola da Crissa punta a diventare la prima Comunità Energetica Solidale della Regione. «La differenza con quelle normali, fatte dai privati, è che questi investono per guadagnare. In questo caso, invece, nessuno investe. Le famiglie non mettono e non rischiano un euro, e guadagneranno. In questo modo si viene incontro alle famiglie che hanno difficoltà a pagare le bollette, perciò è solidale», specifica ancora Bonsignore.

    Ed è proprio per combattere la povertà energetica che a San Nicola si è scelto di creare la comunità nel quartiere delle case popolari. Il sindaco Condello si è voluto ispirare ad una delle prime esperienze in Italia, la CER solidale di Napoli Est, finanziata dalla Fondazione Famiglia di Maria e operativa dallo scorso 17 dicembre. Un modello che è stato citato anche dal New York Times.
    Gli esempi da cui prendere spunto non mancano nel nostro Paese. Già nel 2018, in Veneto, Coldiretti Veneto e ForGreen hanno iniziato a collaborare alla creazione di una comunità energetica agricola. Esperienza da non confondere con il filone dell’agrivoltaico, un modello che prevede l’installazione dei pannelli fotovoltaici direttamente sui campi agricoli.

    Napoli, i pannelli sui tetti della prima CER italiana

    I progetti in Calabria

    Tutte le regioni, poco alla volta, stanno iniziando a promuovere le comunità. Tornando in Calabria, San Nicola da Crissa non è l’unico progetto regionale che è quasi pronto per l’attivazione. L’Università della Calabria, da mesi, sta lavorando con i piccoli comuni calabresi. La prima convenzione tra Comuni, il dipartimento DIMEG dell’Unical ed il Consorzio Regionale per L’energia e la Tutela Ambientale (CRETA) ne ha coinvolti 16, che stanno vedendo i loro progetti realizzarsi. Dopo pochi mesi, il numero è salito a 60.
    Uno di questi è il comune di Panettieri, cittadina di poco più di 300 abitanti. Qui, un privato ha finanziato un grosso impianto fotovoltaico da 600 KW, che metterà a disposizione dei membri della CER, senza costi aggiuntivi.

    L’Università della Calabria

    Secondo Daniele Menniti, coinvolto direttamente nella loro realizzazione, «anche Francica è pronta. In dirittura di arrivo c’è pure il comune di Triolo, che fu uno dei primi a iniziare il percorso insieme a noi».
    Una strada simile a quella di San Nicola è stata battuta da Amendolara, in provincia di Cosenza. Qui, i costi della costruzione dell’impianto di Fotovoltaica Srl verranno coperti in parte da finanziamenti pubblici, ed in parte con il sostegno di alcune banche.
    Sul loro aumento, comunque, ci sono pochi dubbi. E non solo per motivi ambientali ed energetici, ma anche di opportunità politica. «Ci sono un po’ di movimenti anche su Catanzaro. Molti, in vista delle nuove elezioni, vogliono inserire nel loro programma amministrativo proprio il tema delle comunità energetiche», conclude Menniti.

  • BOTTEGHE OSCURE| Bergamotto: l’oro verde come Reggio comanda

    BOTTEGHE OSCURE| Bergamotto: l’oro verde come Reggio comanda

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    Se si chiedesse a qualcuno d’indicare un prodotto strettamente identificabile con la Calabria, al netto degli stereotipati ‘nduja e peperoncino, in molti risponderebbero «il bergamotto». Questo agrume noto per le essenze che è possibile ricavare dalla sua scorza, giunse in Calabria quasi per caso e non si sa bene quando. E ottenne un discreto successo per la sua bellezza come pianta ornamentale. Secondo la tradizione si diffuse agli inizi del Seicento, altri studiosi ne attestano la presenza più di un secolo prima.

    Ma è dalla seconda metà del XVIII secolo che la coltura si è estesa gradualmente. E, comunque sia, la sua fortuna, e quella dei proprietari, giunse all’apice tra Ottocento e Novecento, quando la sua coltivazione era divenuta molto redditizia.

    https://www.youtube.com/watch?v=R8lohpOthd0

     

    Come Reggio comanda

    C’è da fare un’altra precisazione. La coltivazione di questo agrume era caratteristica non dell’intera regione ma di una zona specifica: il circondario di Reggio Calabria. In una relazione del Ministero dell’Agricoltura del 1879 si sottolinea proprio questa specialità del Reggino: «Quasi esclusivamente proprio del solo territorio di Reggio, è la cultura fatta su larga scala del bergamotto (Citrus Bergamia), il quale vi sostituisce ogni altra specie di agrumi ed è fonte di grandi guadagni per l’essenza che si trae dalla corteccia dei suoi frutti». Qui, nella zona tra Scilla e Palizzi affacciata sullo Stretto di Messina, questa coltura veniva portata avanti «con arte insigne, e con pari arte si conducono le relative industrie».

    Ma cosa se ne ricavava? La coltivazione di questo agrume aveva, e in larga parte ha tuttora, come scopo principale l’estrazione dell’essenza dalla sua scorza, molto ricercata da industrie come quella profumiera. Dalla polpa si ricavava invece «agro cotto ed acido concentrato o citrato di calcio».

    Quest’idea che il bergamotto fosse «una pianta tutta propria del territorio di Reggio» e che se trapiantata altrove non avesse gli stessi risultati, nell’Ottocento era tanto radicata che in regioni vicine con clima simile, come le coste siciliane, il bergamotto non aveva riscosso molto successo.  A Messina, ad esempio, «molti proprietari, allettati dai più lauti profitti che i bergamotti fra tutti gli agrumi son capaci di dare, in varie epoche ne hanno tentato con pieno successo la coltura», ma la minore richiesta e la mancanza di persone dedite alla cura e al commercio del prodotto, non permetteva di trarne «quei vantaggi che ordinariamente ne ricavano i proprietari ed i coloni del territorio di Reggio».

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    Antichi macchinari per l’estrazione dell’essenza di bergamotto (foto Consorzio tutela del Bergamotto di Reggio Calabria)

    Le statistiche del 1879

    Le statistiche del 1879 riportano per la provincia di Reggio la presenza, contando insieme bergamotti, cedri e mandarini, di più di 400mila piante. Un numero che, da solo, rappresentava oltre il 70% dell’intera produzione italiana, percentuale che, se si considera l’alto tasso di prodotto medio per pianta, superava l’85% del totale della produzione in frutti.

    Si tratta di numeri che reggevano il confronto con le vaste produzioni di aranci e limoni delle province siciliane. Meno di venti anni dopo il numero di piante di bergamotti, cedri e mandarini dei “giardini di Reggio” era ulteriormente aumentato superando le 750mila piante, segno di una industria molto florida e di una significativa vivacità economica.

    La Zagara contro gli speculatori siciliani

    Tra Otto e Novecento quasi tutta la produzione reggina finiva per foraggiare le industrie di Francia, Germania, Russia, Inghilterra. Il polo principale dello smercio era Messina, dove «commercianti siciliani accaparrano i prodotti calabresi che vengono esportati nelle varie direzioni». Per sfuggire a questi “accaparramenti” degli speculatori, nel 1903 a Reggio venne costituita la Zàgara, una società di proprietari terrieri che cercavano di acquistare e vendere direttamente le essenze, creare depositi di prodotti agrumari, incrementare scambi e depositi di essenze.

    Nei primi anni di attività la Zàgara ottenne un discreto successo, ed era ancora attiva un trentennio dopo nel settore della produzione di essenze di agrumi. In generale, però, la produzione era «esercitata alla spicciola, proprietario per proprietario», tanto che nel 1903 erano attivi 160 piccoli stabilimenti di fabbricazione che impiegavano, nelle varie fasi, 1748 lavoratori.

    Contadini, coloni, proprietari

    I libri e le statistiche ovviamente tralasciano le fatiche insite nel lavoro di raccolta, o le sfiorano appena. I vantaggi economici che spinsero molti proprietari a impiantare coltivazioni di bergamotto si riflettevano solo parzialmente sui contadini, assoggettati in genere a patti agrari particolari. In generale negli agrumeti vigeva un sistema di “colonia mista”.

    Se in quel fondo era possibile piantare anche ortaggi, il colono si occupava della raccolta dei bergamotti. Percepiva una percentuale del prodotto e pagava un fitto per il terreno sul quale coltivava l’orto per sé. Al colono che effettuava la raccolta dei bergamotti poteva spettare una percentuale tra 1/4 e 1/7 del prodotto. Il resto era del proprietario. Ed era quest’ultimo a occuparsi delle spese per l’estrazione delle essenze e l’acquisto e la manutenzione dei macchinari. Proprio la fase dell’estrazione dell’essenza dal frutto era particolarmente delicata.

    Il reggino che inventò la macchina per l’estrazione

    Anticamente si ricavava tramite spremitura a mano. I frutti venivano tagliati in due. La polpa era tolta e la scorza lavorata attraverso delle spugne con un particolare recipiente di terracotta. Intorno al 1840 la svolta. Il reggino Nicola Barillà inventò una macchina per l’estrazione dell’essenza.

    Presto venne chiamata comunemente “macchina calabrese”. Permetteva di estrarre una maggiore quantità di prodotto. Col tempo i sistemi migliorarono, ma il prodotto continuò a rimanere pregiato: con 10 quintali di frutti si ricavavano in media 12 libbre di essenza e 35 kg di citrato. La quasi totalità del prodotto veniva esportata, ma non mancavano alcuni tentativi di lavorazione in loco. Negli anni ‘20 del ‘900, ad esempio, erano attivi tre stabilimenti che producevano acqua di colonia: a Melito Porto Salvo la “Melita”, a San Giorgio Morgeto la “Calabresella” e a Cannitello la “Efel” dei fratelli La Monica.

    Autarchia e rilancio del Mezzogiorno

    Proprio dal Reggino provenivano le sequenze filmate di un cinegiornale (in alto nel video da Youtube) del Luce del 1936. Il titolo è “Un prodotto nostrano: il bergamotto” in pieno stile autarchico. Nel video chiari messaggi in linea con la retorica del regime fascista: «Italiani che giustamente boicottate i prodotti di profumeria dei paesi sanzionisti, ecco una coltivazione e un’industria di carattere prettamente nazionale».

    Meno di trent’anni dopo, il bergamotto è nuovamente al centro di  un documentario dell’Istituto Luce sulla “XVI fiera degli agrumi a Reggio Calabria” (1964). In un tono meno aulico del precedente ma fiducioso in un rilancio del Mezzogiorno, l’agrume viene presentato come l’elemento «alla base della moderna profumeria». Prodotto che, secondo il cronista, avrebbe portato a un «aumento dell’economia a tutto vantaggio delle popolazioni del Sud».

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    Una fase della raffinazione dell’olio essenziale di Bergamotto (foto Consorzio di tutela del bergamotto di Reggio Calabria)

    Denominazione di origine protetta

    Oggi nel Reggino la coltivazione del bergamotto e la preparazione degli oli essenziali continua. Il prodotto è sempre ricercato e, per le sue peculiarità, il “Bergamotto di Reggio Calabria – Olio essenziale” ha ottenuto nel 2001 l’iscrizione nel «registro delle denominazioni di origine protette e delle indicazioni geografiche protette».

    Il riconoscimento ne fissa caratteristiche, processi di lavorazione ed enti di sorveglianza, in modo che il prodotto possa mantenere alta la sua qualità, ed è sorto un apposito consorzio. Di pari passo è cresciuta la consapevolezza dell’importanza anche culturale del bergamotto, divenendo anche oggetto di studi e pubblicazioni, fino alla realizzazione di un apposito “Museo Nazionale del Bergamotto” a Reggio Calabria.

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    Il pregiatissimo olio essenziale di bergamotto
  • Economia e coronavirus: un affare di famiglie

    Economia e coronavirus: un affare di famiglie

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    Nei mesi bui del 2020, quelli del lockdown, la già stagnante economia calabrese ha avuto un calo del Pil di circa 9 punti percentuali. Paura, incertezza, emergenza: sono situazioni che le cosche della ‘ndrangheta «hanno sempre dimostrato di saper sfruttare a proprio vantaggio». Come? Ovvio: con i soldi. «Massimizzando i profitti ed orientando gli investimenti verso contesti in forte difficoltà finanziaria».

    Lo scrive chiaramente la Dia nella relazione inviata al Parlamento: una radiografia sull’attività delle mafie nel primo semestre del 2021 che, però, parte proprio dallo shock economico che la pandemia ha prodotto per capire come e quanto organizzazioni finanziariamente potentissime come la ‘ndrangheta ci abbiano guadagnato.

    L’area grigia

    Con il covid un sistema produttivo che era già fragile e indebitato ha avuto un improvviso, ulteriore bisogno di liquidità. Nel mercato del credito – dice il Rapporto della Banca d’Italia su “L’economia della Calabria” – c’è stato un «forte rallentamento osservato nei finanziamenti destinati alle famiglie». E la mafia calabrese ha sempre saputo proporsi come un sostegno per le famiglie in difficoltà. La “filantropia” della ‘ndrangheta, però, non è ovviamente gratis. La si paga a tempo debito.

    C’è poi un altro aspetto che la Dia ribadisce, quello della famigerata area grigia: «Le cosche continuano a dimostrarsi abili nel relazionarsi agevolmente e con egual efficacia sia con le sanguinarie organizzazioni del narcotraffico sudamericano, sia con politici, amministratori, imprenditori e liberi professionisti la cui opera è strumentale al raggiungimento di precisi obiettivi illeciti».

    Il record delle interdittive antimafia? In Calabria

    Cose note, certo. Come non sorprende che la Calabria abbia il record delle interdittive antimafia (134 su 455 in tutta Italia, +18,49% rispetto al 2020) proprio nei settori maggiormente provati dalla pandemia e dunque più a rischio infiltrazione.

    Si tratta comunque di premesse necessarie per focalizzare altri dati, forse meno d’impatto rispetto alle classiche mappe sulla spartizione territoriale delle province calabresi o alle considerazioni sugli agganci con i colletti bianchi. Non perché siano più o meno importanti, ma perché ne sono la diretta conseguenza.

    La ‘ndrangheta con la droga, le armi, l’usura, le estorsioni, gli appalti pubblici e quant’altro fa una montagna soldi, così tanti da non sapere dove metterli. Ed è qui che entra in gioco l’attività antiriciclaggio che la Dia effettua partendo dalle segnalazioni che provengono sia dall’estero che dal territorio nazionale attraverso le Financial Intelligence Unit (F.I.U.) e l’Unità di Informazione Finanziaria della Banca d’Italia.

    Nel primo semestre dell’anno scorso sono state segnalate 11.915 operazioni finanziarie sospette, delle quali 2.459 di diretta attinenza alla criminalità mafiosa e 9.456 riferibili ai cosiddetti reati spia (per esempio impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, usura, estorsione, danneggiamento seguito da incendio ecc.).

    Segnalazioni di operazioni sospette (percentuali tra quelli di diretta attinenza alle mafie e reati spia)

    Sos, ma non è una richiesta d’aiuto

    Le 11.915 s.o.s. (segnalazione di operazione sospetta) constano di 374.764 operazioni finanziarie, un numero che risulta più che raddoppiato rispetto al 1° semestre del 2020. La maggior parte (circa l’85%) avviene attraverso ricariche di carte di pagamento (47%), trasferimento di fondi (23%) e bonifici (15%). Il maggior numero delle operazioni finanziarie riferite a segnalazioni sospette potenzialmente attinenti alla criminalità organizzata è stato registrato nelle regioni del Nord (141.000, ovvero il 37%), seguite da quelle meridionali (107.504, 29%), centrali (89.466, 24%) e insulari (33.187, 9%).

    La preferenza per i territori più ricchi

    In Calabria ci sono state nel periodo in esame 13.518 operazioni finanziarie relative a s.o.s – si tratta del 3,6% rispetto al dato nazionale – delle quali 6.503 ritenute direttamente attinenti alla criminalità organizzata e 7.015 a reati spia. Il “record” è della Campania con un totale di 62.701 operazioni relative a segnalazioni sospette (16,73%), seguono la Lombardia con 58.705 (15,66%) e il Lazio (58.022, 15,48%). È insomma evidente come, pur essendo il 3,6% una percentuale non insignificante per una regione economicamente disastrata, le mafie riciclino su tutto il territorio nazionale prediligendo i territori più ricchi, quelli ritenuti più redditizi dal punto di vista degli investimenti.

    Riciclaggio all’estero

    Guardando alle ramificazioni estere i dati sul riciclaggio si confermano nel primo semestre 2021 «in continua crescita» rispetto agli anni precedenti: 852 note provenienti dalle F.I.U. estere (fra queste sono ricomprese anche 25 informative che «delineano alcuni possibili profili di anomalia di movimentazioni e transazioni finanziarie connesse all’emergenza epidemiologica Covid-19»), di cui 266 richieste di scambi informativi e 586 trasmissioni di informazioni con conseguente attività di analisi e di approfondimento dei dati che ha riguardato oltre 3.200 persone fisiche e oltre 2.600 persone giuridiche segnalate.

    Prestanome e Bitcoin

    L’analisi delle informazioni su fondi ritenuti di provenienza illecita collocati in altri Paesi da persone indagate in Italia in alcuni casi fornisce, secondo la Dia, «validi contributi per riconoscere ipotesi di intestazione fittizia a prestanome o di interposizione di società di comodo e la titolarità effettiva dei patrimoni da parte dei soggetti coinvolti anche in considerazione della rinnovata morfologia dei mezzi di pagamento e di movimentazioni finanziarie». Per questi scopi si fa ricorso a «numerosi» tipi di “money transfer” o alle valute virtuali, le ormai note criptovalute «fra cui spiccano i Bitcoin, le svariate Altcoins e i crypto-asset».

    ‘Ndrangheta Spa

    Mettendo insieme questi e altri elementi emersi da indagini e segnalazioni la Dia descrive il vasto panorama dell’imprenditoria mafiosa come «sempre più caratterizzato dalla presenza di holding criminali». Che accumulano risorse tanto ingenti da risultare «di gran lunga superiori» rispetto a quelle che servirebbero per «corrispondere ai bisogni dei loro associati, a sostenere i costi di mantenimento delle proprie strutture ed a promuovere l’avvio d’ulteriori attività delittuose».

    Le mafie, insomma, fanno molti più soldi di quanti ne servano per gestire se stessa e i propri business. Così «la maggior parte» dei fondi illeciti viene investita «nel tessuto produttivo e commerciale per costituire profitti apparentemente leciti». Grazie ai soldi, dunque, la ‘ndrangheta si mimetizza e si sovrappone alle imprese sia sul piano sociale che su quello finanziario. E senza esporsi al cosiddetto «rischio d’impresa».